Giorgio Venturi

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Filosofia
DISSERTAZIONE FINALE
L’incompletezza di Gödel, dal paradosso alla dimostrazione
Relatore:
Professore Gabriele LOLLI
Candidato:
Giorgio VENTURI
Anno Accademico 2004-2005
1
Indice
INTRODUZIONE
5
CAPITOLO I. ALCUNI CENNI STORICI PRELIMINARI
8
1. Hilbert
8
2. Eubulide di Mileto
11
3. Jules Richard
12
4. Paul Finsler
14
CAPITOLO II. LE TECNICHE DIMOSTRATIVE
17
1. L’aritmetizzazione
19
2. La definizione delle funzioni primitive ricorsive
20
3. Un lemma di diagonalizzazione
23
4. Considerazioni preliminari al teorema V
24
Appendice
26
CAPITOLO III. LE DIMOSTRAZIONI DEI TEOREMI, V E VI
28
1. Il teorema V: rappresentabilità per numerali in P
29
2. Il teorema VI: il primo teorema di incompletezza
30
CAPITOLO IV. L’ESTENZIONE DI ROSSER DEL I TEOREMA
DI INCOMPLETEZZA
35
1. Coerenza e ω-coerenza
35
2. Il teorema III di Rosser
37
3. L’incompletezza dal punto di vista delle formule
39
CAPITOLO V. DIMOSTRAZIONI RECENTI
1. La dimostrazione di Boolos
43
43
43
2
2. Per concludere
BIBLIOGRAFIA
45
47
3
I risultati ottenuti da Gödel nella logica moderna…
costituiscono una pietra miliare che rimarrà visibile
da lontano nello spazio e nel tempo.
(John von Neumann)
4
Introduzione
Il teorema di Gödel o, per essere più precisi, i teoremi di incompletezza di Gödel (sono infatti due i teoremi: il primo dimostra l’esistenza di proposizioni formalmente indecidibili, il
secondo l’impossibilità di una dimostrazione di coerenza di un sistema, all’interno del sistema
stesso), sono di quei teoremi limitativi che nel secolo scorso le diverse scienze che avevano la
pretesa di essere esatte hanno visto fiorire in molti loro ambiti. Ma a differenza di altri, i teoremi di Gödel, più che decretare la fine di ogni speranza nella certezza della matematica, hanno aperto un nuovo e molto fecondo campo di ricerca. Infatti essi hanno decretato la fine di un
atteggiamento ingenuo verso i fondamenti della matematica, che erano precedentemente stati
scossi fin nel profondo dalla scoperta di importanti paradossi. Infatti all’inizio del XX secolo
si era assistito in matematica ad un periodo di ‘crisi’1, che aveva quindi motivato una revisione profonda dei concetti di base del mondo matematico ed era stato all’origine di un ambizioso programma fondazionale: quello di Hilbert. Ad infrangere i sogni di un positivismo che,
se vittorioso, avrebbe solo reso sterile il mondo matematico, giunsero i teoremi di incompletezza, dimostrando così che si poteva fare filosofia della matematica anche solo facendo della
matematica.
Quasi tutta la comunità scientifica comprese subito la portata dei risultati di Gödel che, tra il
primo annuncio ad un convegno sui fondamenti della matematica tenuto a Könisberg nel settembre del 1930, e la successiva pubblicazione delle dimostrazioni dei teoremi nel gennaio del
1931, ebbero il tempo di essere assimilati ed accettati in modo tale da convincere Gödel a rinunciare al proposito di pubblicare una seconda parte dell’articolo, contenente i dettagli della
dimostrazione del secondo teorema di incompletezza. Ma non mancarono coloro che, come
1
Con le parole di Hermann Weyl nel 1946, con uno sguardo retrospettivo al periodo di crisi: “ Siamo meno
sicuri che mai a proposito dei fondamenti della (logica e della) matematica. Come chiunque e ogni cosa in questo
mondo, oggi abbiamo la nostra “crisi”. Ce l’abbiamo avuta per quasi cinquant’anni. Dall’esterno non sembra
ostacolare il nostro lavoro di ogni giorno, ma devo confessare, per la mia esperienza, che essa ebbe una
considerevole influenza pratica sulla mia vita di matematico: diresse i miei interessi verso campi che considerai
relativamente “sicuri”, ed è stata una costante fonte di esaurimento di entusiasmo e determinazione con i quali ho
portato avanti il mio lavoro. Questa esperienza è probabilmente condivisa da altri matematici che non sono
indifferenti a cosa i loro sforzi scientifici significhino nel contesto di ciò a cui un uomo tiene e ciò che un uomo
sa, soffrendo un’esistenza creativa all’interno del mondo.” In Weyl 1946.
5
Zermelo e Wittgenstein2, proprio non riuscirono a comprenderli e a vedere l’importanza di
queste scoperte.
Con i suoi risultati di incompletezza, Gödel non pose semplicemente fine al sogno hilbertiano di poter trattare l’intera matematica come un sistema formale; ma con la definizione delle
funzioni primitive ricorsive insieme alla scoperta di proposizioni formalmente indecidibili e
dell’impossibilità di dimostrare la coerenza di un sistema con una procedura meccanica, Gödel fu invece di forte stimolo per la ricerca nel campo della ricorsività, della teoria della dimostrazione e per uno studio mirato ad ottenere una precisa definizione della nozione di calcolabilità, che prima di allora era scarsamente utilizzata in matematica3. Inoltre si scoprì che il fenomeno dell’indecidibilità era qualcosa di connaturato alla matematica stessa: basti pensare ai
predicati indecidibili nelle teorie della λ-definibilità, della ricorsività generale o della computabilità secondo macchine di Turing, ottenuti rispettivamente da Church, Kleene e Turing.
Inoltre su questa linea di ricerca fu data una risposta negativa al problema della decisione nel
calcolo predicativo del prim’ordine da parte di Church; ed inoltre Tarski, Mostowski e Robinson nel 1953 diedero una fondazione teorica ad un metodo generale per dimostrare l’incompletezza e l’indecidibilità di una teoria assiomatica. Infine, negli ultimi decenni sono state date
diverse dimostrazioni dell’esistenza di proposizioni indecidibili da parte di Boolos e, in una
versione del teorema per la teoria dell’informazione, da parte di Chaitin.
L’obiettivo della presente esposizione del primo teorema di Gödel è quella di mostrare proprio gli aspetti tecnici della dimostrazione. Infatti sono convinto che mai come in questo teorema il come la dimostrazione di un certo fatto matematico viene condotta, superi di gran lunga in importanza il risultato raggiunto, anche se questo è certo di enorme portata. I risultati
fondamentali che questo teorema (e la sua dimostrazione) ha portato sono un chiarimento profondo dei rapporti che intercorrono tra la semantica e la sintassi di sistema formale, tra il metalinguaggio della matematica e il linguaggio di cui essa si serve per ottenere una maggiore
precisione nei suoi risultati. L’aspetto interessante è che questo chiarimento ci arriva proprio
dalle scelte tecniche dimostrative: l’aritmetizzazione, le funzioni primitive ricorsive e la rappresentabilità dei predicati ricorsivi ci forniscono un alfabeto, delle regole sintattiche, una certezza sull’attendibilità di ciò che stiamo facendo, tali da rendere possibile una traduzione dal
2
Per un’esposizione particolareggiata si veda, per quanto riguarda Zermelo, Lolli 1992, capitoli V-VI; mentre
per quanto riguarda Wittgenstein, Shanker 1991, capitoli 4 e 8.
3
Per questo aspetto è interessante notare, con Chaitin, che l’incompletezza dei sistemi formali pose fine al
programma di Hilbert, ma “l’errore di Hilbert fu quello di tirare in causa i linguaggi artificiali per produrre
delle dimostrazioni. Questo non funzione a causa dell’incompletezza, per il fatto che ogni sistema formale
assiomatico ha poteri limitati. Ma così non è quando i linguaggi artificiali esprimono algoritmi. Proprio perché
l’universalità della computazione, il fatto che quasi ogni linguaggio di programmazione per il computer possa
esprimere tutti I possibili algoritmi, è in verità una importantissima forma di completezza! E’ la base teorica
dell’intera industria di programmazione. […] E’ la computazione dove il formalismo ha trionfato!” L’enfasi è
dell’autore. In Chaitin 1999, pp.18-19.
6
metalinguaggio al linguaggio oggetto, fondamentale per una vera comprensione di quali siano
i limiti e le possibilità di entrambi.
Del teorema di Gödel sono state date molte dimostrazioni, generalizzazioni, estensioni, ma
anche semplificazioni e addirittura banalizzazioni. E’ uno di quei pochi teoremi che è riuscito
a superare i confini del mondo della “matematica per specialisti”. In questo modo ci ha guadagnato non solo in notorietà, ma anche in chiarezza e, a volte, semplicità. Tuttavia per dirlo con
le parole di J. van Heijenoort: “il suo articolo originale non ha perso nessun valore come guida”, non solo per la sua importanza storica, ma per la chiarezza e la pulizia mentale con cui il
problema viene affrontato: anche se in certi punti il discorso ed il formalismo si fanno molto
precisi e puntuali, il pensiero e la spiegazione non risultano mai contorti. Per questo motivo il
discorso non perderà mai di vista l’articolo originale del 1931, ma, utilizzandolo come spunto
e linea guida, l’argomentazione verrà allargata a considerazioni e spiegazioni che con il senno
di poi chiariranno e approfondiranno i temi trattati da Gödel.
Il lavoro è strutturato nel seguente modo: nel I capitolo viene fornito un inquadramento storico generale, per storicizzare le problematiche, ma con un occhio sempre rivolto all’aspetto
tecnico: come storicamente emergono gli strumenti che poi da Gödel furono usati al meglio. Il
II capitolo rende conto tecnicamente della traduzione che avviene dal metalinguaggio al linguaggio. Qui le tecniche dimostrative sono spiegate nel dettaglio e vengono descritte le loro
potenzialità. Nel III capitolo si potrà vedere Gödel all’opera nella costruzione di una proposizione formalmente indecidibile ed inoltre verranno presentate le condizioni assiomatiche (sintattiche) tali da rendere un sistema incompleto. Poi nel IV capitolo grazie all’estensione di
Rosser verranno tirate le fila del discorso sul rapporto tra semantica e sintassi e saranno così
chiarite le condizioni sintattiche e semantiche (ed i loro stretti rapporti) che rendono un teoria
indecidibile. Infine nel V capitolo verranno discusse, per completezza un paio di recenti dimostrazioni del teorema di incompletezza, quella di Boolos e quella di Chaitin.
7
Capitolo I
Alcuni cenni storici preliminari
L’articolo del 1931 inizia con una considerazione sullo stato della matematica, che assolve
il compito di porre il problema in un preciso quadro storico-scientifico e secondariamente fornisce una motivazione della ricerca di Gödel su proposizioni formalmente indecidibili:
“ Lo sviluppo della matematica verso una sempre maggiore esattezza ha condotto, come è
ben noto, alla formalizzazione di ampie sue parti, di modo che si possa dimostrare basandosi
solo su poche regole meccaniche. I sistemi formali più ampi fino ad oggi proposti sono da un
lato quello dei Principia matematica (PM) e dall’altro il sistema di assiomi di Zermelo-Fraenkel per la teoria degli insiemi (successivamente sviluppata da J. von Neumann). Questi due sistemi sono così ampi che in essi risultano formalizzabili, cioè riducibili a pochi assiomi e poche regole di inferenza, tutti i metodi di dimostrazione oggi in uso nella matematica. Si potrebbe quindi supporre che questi assiomi e regole di inferenza siano sufficienti per decidere
tutti i problemi matematici che si possano comunque esprimere formalmente in essi.”4
Le coordinate di riferimento introduttive sono il programma di Hilbert e l’ambito di ricerca
che con la sua interpretazione formalista della matematica aveva inaugurato nel 1900. Il programma hilbertiano era molto ambizioso e per molti versi poteva essere interpretato come riduttivo nei confronti del lavoro matematico, se portava a considere l’attività matematica come
attività puramente formale e come una semplice manipolazione di simboli (senza tener conto
del loro significato) attraverso precise regole di inferenza da certi assiomi fissati. Qualora fosse stato dimostrato corretto, avrebbe significato che la matematica si poteva ridurre ad una
semplice deduzione meccanica di qualsiasi cosa fosse stato possibile dimostrare.
1. Hilbert
Bisogna però compiere una distinzione tra quello che è stato il programma hilbertiano e
quali ne sarebbero stati gli effetti sul mondo della matematica qualora avesse trionfato, da una
4
Gödel 1931, pp. 113-138.
8
parte, e dall’altra quali fossero le idee e le speranze che animavano il suo ispiratore. Senza voler trattare (per motivi di spazio) il problema della crisi dei fondamenti di inizio ‘900, bisogna
però spiegare da quali motivazioni e necessità fosse spinto David Hilbert a proporre un ripensamento cosi profondo del mondo matematico.
Dopo gli enormi progressi fondazionali condotti a fine Ottocento da Frege, Dedekind e Cantor e dopo che il “paradiso di Cantor” era stato conquistato e l’infinito aveva trovato la sua legittimità nel pensiero matematico, l’intero edificio delle matematica era vacillato sotto i colpi
delle scoperte dei paradossi, primi fra tutti quelli di Cantor e Russell. Era necessario un ripensamento tale da dare una solida base a tutta quella parte della matematica che Hilbert avrebbe
poi definito ideale; cioè che non si poneva alcun problema nell’utilizzo di un infinito in atto
per ampliare l’ambito delle sue acquisizioni. In contrapposizione ad essa c’era la matematica
reale, quella che aveva quell’evidenza intuitiva e quella giustificazione della tradizione che la
metteva al riparo da ogni dubbio di coerenza e di sensatezza. Il progetto di Hilbert, allora, vista la precarietà dei nuovi metodi matematici, era di giustificare, nel senso della matematica
reale, tutta la matematica ideale: come i numeri complessi erano stati ridotti a coppie di numeri reali (guadagnando in un colpo solo coerenza e senso, in funzione di altro) cosi, con le parole del matematico tedesco: “Proprio come le operazioni sull’infinitamente piccolo sono state
sostituite da operazioni sul finito che danno luogo esattamente agli stessi risultati e alle stesse
eleganti relazioni formali, cosi in generale i metodi deduttivi basati sull’infinito devono essere
sostituiti con procedimenti finiti che diano gli stessi risultati, che cioè rendano possibili le
stesse catene di dimostrazioni e gli stessi metodi per ottenere formule e teoremi”.5
Ciò che maggiormente distingueva i due domini della matematica erano le risorse utilizzate
nelle dimostrazioni. Proprio per il fatto che era una diversa trattazione dell’infinito la ragione
profonda per tracciare questa linea di demarcazione, Hilbert chiamo i due metodi: l’uno finitista, l’altro infinitista. Per esplicita dichiarazione del suo inventore il metodo finitista era quello in cui “si ottengono le verità della teoria dei numeri”. Per semplificare, gli oggetti della matematica che si serviva di dimostrazioni finitiste erano semplicemente gli interi naturali e
quelle dimostrazioni erano formalizzabili all’interno di un sistema formale. In questo modo il
programma mirava a trovare per ogni dimostrazione di un enunciato che utilizzasse metodi
astratti un’altra che si potesse formalizzare all’interno di un determinato sistema, che, per
mezzo di una semplice manipolazione di simboli, trovasse una stessa dimostrazione del medesimo enunciato, ma questa volta, con metodi finitisti. Questa della riduzione era soltanto la
prima parte del programma: una volta identificato il sostegno (se pur molto vago, dal momento che non era chiarissimo cosa si intendesse per matematica reale) per tutte le nuove conqui5
Hilbert 1925, pg. 162.
9
ste della matematica di inizio Novecento, bisognava dimostrare che era un solido sostegno e
che mai avrebbe tradito le speranze in lui riposte. Quello che bisognava dimostrare, per verificare quello che prima di una dimostrazione rigorosa poteva essere solo un punto di vista in filosofia della matematica, era quindi la coerenza dei sistemi formali. La coerenza che bisognava ottenere però doveva essere assoluta. Diversamente dalle dimostrazioni di coerenza che
erano state date fino a quel tempo, come per esempio Hilbert stesso aveva fatto, riducendo il
problema della coerenza della geometria a quello dell’aritmetica, si trattava ora di dimostrare
la coerenza di un sistema all’interno del sistema stesso, con metodi finitisti. Rimaneva quindi
da dimostrare la coerenza della matematica, intesa come sistema formale, con semplici metodi
finitisti; così da ottenere in un colpo solo la coerenza della matematica reale e anche quella
della matematica astratta.
Come si può ben vedere il progetto di Hilbert non era cosi riduttivo come spesso viene considerato il programma formalista. Come ha giustamente scritto Casari: “Anche a sentire coloro
che furono vicini a Hilbert, egli non penso veramente mai ai sistemi formali se non come a
traduzioni di discorsi che avevano un senso e un significato autonomi; ossi, Hilbert non escludeva affatto che i discorsi matematici avessero un significato, si rifiutava semplicemente di
appellarsi a tale significato nel contesto della loro giustificazione”6. Il fatto che le dimostrazioni finitiste fossero considerate come semplici manipolazioni di simboli serviva solo a dare
un ambito sicuro in cui l’intuizione umana, che per la sua finitezza non poteva padroneggiare
l’infinito, potesse muoversi a suo agio, pur continuando a parlare di cose che, quanto al loro
significato (che andava ben oltre il semplice simbolo) potevano conservare qualunque grado
di astrattezza. Questo di Hilbert era quindi un progetto fondazionale, più che riduzionista.
Con queste premesse, il giovane Gödel, subito dopo aver pubblicato la sua tesi di dottorato
nel 1929, si mise a studiare, in accordo con il programma hilbertiano, per trovare una dimostrazione assoluta di coerenza dell’Analisi; si poté così assistere in quegli anni ad un tipico
caso di eterogenesi dei fini. Inizialmente, le sue ricerche di una dimostrazione, da ottenere con
metodi finitisti (o per lo meno con quelli che egli credeva fossero i metodi finitisti, mancandone appunto una definizione rigorosa), lo condussero a cercare una definizione di verità per le
proposizioni dell’Analisi, ma ben presto si accorse che non era possibile, mentre invece, grazie all’utilizzo del concetto di derivabilità i risultati erano ben più sorprendenti. I suoi studi lo
condussero allora alla ricerca di una dimostrazione di coerenza per le teoria dei numeri e di lì,
attraverso un’analisi approfondita dei concetti di coerenza, verità e dimostrabilità, e grazie all’utile insegnamento che i paradossi avevano fornito ai matematici di inizio secolo, ai risultati
di incompletezza di questo articolo del 1931.
6
Casari 1979, pg. 15.
10
Il primo paragrafo dell’articolo di Gödel, dopo questi brevi cenni storici, delinea in modo
informale e a grandi linee quale sarà il percorso dimostrativo che porterà a questo inaspettato
risultato; con le parole di Gödel: “l’idea principale della dimostrazione, naturalmente senza alcuna pretesa di esattezza”7. Ma per un’esatta comprensione ed assimilazione del teorema i dettagli sono indispensabili; tanto che questo primo paragrafo sarà la causa principale di parecchie incomprensioni legate ai teoremi di incompletezza. Gödel cerca da subito di tenere ben
distinte tra loro la teoria e la metateoria, ma il carattere informale di questa prima parte, legata
comunque alla presenza di un simbolismo matematico, generò non poche difficoltà di comprensione anche ad un lettore esperto come Zermelo8.
A parte questa breve e in parte fuorviante (per alcuni) analisi ed anticipazione delle puntate
successive, il primo paragrafo contiene un riferimento a paradossi e antinomie la cui analisi fu
di stimolo a Gödel per arrivare alle sue scoperte: l’antinomia di Richard e il paradosso del
Mentitore. Questi paradossi mettono in luce due aspetti fondamentali nella dimostrazione ed
inoltre essenziali per la creazione di una proposizione formalmente indecidibile, cioè l’autoriferimento e la diagonalizzazione.
2. Eubulide di Mileto
Il Mentitore è il paradosso di Eubulide di Mileto e risale al IV secolo a.C. Un’ antica formulazione di questo paradosso, attribuita a Epimenide di Creta (VI secolo a.C.), era quella per
cui un Epimenide affermava: “Tutti i cretesi mentono”. Questa forma in realtà non é paradossale, dal momento che se si assume che sia vera allora, dal momento che chi la pronuncia è
cretese, diventa falsa, ma se è falsa, non per questo è contraddittoria, semplicemente ci sono
cretesi che mentono e altri che dicono la verità. Tuttavia, è comunque importante, perché è la
prima volta che ci si accorse che una frase, semplicemente per la sua struttura sintattica è in
grado di determinare il suo valore di verità. Il vero Mentitore è invece un vero paradosso. Ne
esistono varie formulazioni, le più comune sono le seguenti:
•
Io sto mentendo
•
Questa frase è falsa
•
La terza frase in questa lista è falsa
7
Gödel 1931.
Come è stato giustamente notato, a questo proposito, da G.Lolli: “Ci sono due o tre movimenti opposti nel
gioco tra formale e informale; mentre in linea di principio si pensa che si dovrà arrivare alla metateoria formale,
ci si continua ad esprimere nella metatoria informale per semplicità di comunicazione, ma nello stesso tempo si
ha la tentazione di aggiungere parti simboliche alla metateoria informale nella malintesa idea che ciò renda
l’espressione più breve e scorrevole”. In G. Lolli 1992, pg. 73.
8
11
In tutti e tre i casi, qualunque attribuzione di verità si di alla frase, subito questa si trasforma
nel suo contrario. Prendiamo il caso di “Io sto mentendo” se è vero che sto mentendo allora
dico il falso, dunque non è vero che sto mentendo; assumiamo allora che non è vero che sto
mentendo, se è cosi allora dico la verità, ma se dico la verità allora è vero che sto mentendo:
dunque in entrambi casi ho una palese contraddizione.
Due sono gli aspetti di questa frase, che la rendono paradossale: l’autoriferimento e la presenza di determinazioni della propria verità o falsità preliminari a qualunque attribuzione. Di
questo celeberrimo paradosso sono state tentate molteplici soluzioni, ognuna motivata dalla
scelta di quale sia l’aspetto che in ultima analisi è causa dell’insorgenza del paradosso. Ad
esempio Whitehead e Russell avevano proposto, come soluzione di paradossi di questo genere, che nessuna proposizione può fare affermazioni che riguardino se stessa. Ma questa soluzione, risolvendo il problema con la sua eliminazione, è troppo drastica. Nelle lezioni tenute a
Princeton nel 1934 sulle proposizioni in decidibili dei sistemi formali Gödel evidenzierà come
sia possibile per ogni proprietà matematica F, che possa essere espressa nel tipo di sistema che
sta trattando, costruire una proposizione che afferma di sè stessa di possedere proprio la proprietà F9. Tarski invece sosterrà che è proprio per il fatto di possedere già preliminarmente una
determinazione della propria verità che questa frase genera una contraddizione quando viene
applicata allo schema generale che dovrebbe definire la verità all’interno del linguaggio comune (x è vera sse p). Anche questa soluzione è troppo restrittiva ed ad hoc e non riesce bene
a spiegare il perché dell’insorgenza del paradosso10.
Proprio dall’analisi di questo classico paradosso partirà Gödel per costruire una proposizione che se tradotta dal formalismo alla metateoria suonerà: “Io sono indimostrabile”. La forza
dell’argomento di Gödel sarà infatti quella di utilizzare una nozione formalizzabile all’interno
della matematica come quella di dimostrabilità e non quella di verità che sarà poi dimostrata
da Tarski11 essere impossibile da definire in un sistema formale con gli strumenti del sistema
stesso.
3. Jules Richard
9
“Infatti si supponga che F(zn) significhi che n è il numero di una formula che ha la proprietà F. Allora, se F(S(w,
w)) ha il numero p, F(S(zp, zp)) dice che essa stessa ha la proprietà F”. Per la notazione ora introdotta si veda oltre
nel testo. Gödel 1934, pg. 268.
10
In ultima analisi nessuna delle due soluzioni proposte è adeguata al problema. Infatti nel 1975 Kripke in
Outline of a theory of truth (in R. Martin 1984) fece un esempio di due frasi che non parlano della propria verità
o falsità e che in nessun modo si riferivano a se stesse, ma che risultavano essere contraddittorie: (1) La maggior
parte della asserzioni di Nixon a proposito del Watergate sono false, e poi (2) Tutto ciò che Jones dice a
proposito del Watergate è vero, possono sotto determinate assunzioni, ma a cui la realtà può dare luogo (cioè che
(1) sia la sola frase di Jones e (2) sia pronunciata da Nixon) essere paradossali.
11
Cfr. Tarski, 1935.
12
L’antinomia di Richard, invece, risale al 190512. Il suo oggetto, invece di essere la verità, è
la nozione di definibilità di un numero, in un numero finito di parole. L’idea è questa: si può
pensare ad una frase di una lingua come ad una permutazione di lettere dell’alfabeto di quella
lingua; detto questo si possono ordinare lessicograficamente13 le permutazioni di una sola lettera, poi di due, poi di tre e così via, per ogni intero p. Tra tutte queste infinite permutazioni si
trovano tra le altre cose (oltre all’Iliade e all’Odissea) delle frasi di senso compiuto che definiscono dei numeri: i reali finitamente definibili, con espansione decimale, cioè le frazioni decimali. A questo punto scartiamo tutte quelle permutazioni che non definiscono un numero e
chiamiamo l’insieme infinito che ci rimane, E. Ora possiamo però creare una contraddizione
creando un nuovo numero definito da questa frase: “Sia p la cifra decimale nell’n-esimo posto
dell’n-enismo numero dell’insieme E; allora formiamo un numero che ha 0 per la sua parte intera e, nel sua n-esima cifra decimale, p+1 se p non è 8 o 9, e 1 altrimenti” e chiamiamo questo numero N. E’ semplice constatare che N per costruzione non appartiene ad E, ma essendo
definito da un numero finito di parole dovrebbe appartenere ad E.
L’importanza di questa antinomia è quella di mettere in luce un’altra tecnica dimostrativa
che servirà poi a Godel per creare la sua proposizione formalmente indecidibile; essa fa uso di
un metodo di diagonalizzazione per trovare il numero N (lo stesso che si usa per dimostrare
che i numeri reali sono una quantità più che numerabile). Il metodo di diagonalizzazione era
stato introdotto da Cantor proprio per dimostrare che ℝ non è equipotente ad ℕe serve a trovare, in una matrice infinita, un elemento che non appartiene all’insieme dei componenti della
matrice. Per vederne una semplice applicazione, darò una dimostrazione della non esistenza di
una biiezione tra i naturali ed i reali.
Per seplicità dimostriamo che l’intervallo aperto (0,1) non è equipotente ad ℕ. Ad ogni reale 0 < x < 1 possiamo associare il suo sviluppo decimale < F(x)i | i∈ ℕ>,
x = 0.F(x)₀F(x)₁F(x)₂F(x)₃...
dove F(x)i∈{0,1,2,...,9} = 10. Per molti x questa rappresentazione non è unica: ad esempio
½=0.49999... = 0.50000... : in questi casi considereremo sempre le espressioni che finiscono
per “9”. Con questo accorgimento risulta essere ben definita la funzione iniettiva F : (0,1) ↣
10ℕ, x ↦ < F(x)i | i∈ℕ>. Se per assurdo esistesse un biiezione G : ℕ → (0,1), allora potremmo
definire la successione σ ∈ 10ℕ in questo modo: σ(n) = 1 se F(G(n))n è pari oppure 2 se F(G
(n))n è dispari. Allora σ ∈ ran(F), dato che σ non è definitivamente uguale a 9. Sia y∈(0,1) l’u12
Richard 1905.
Per ordine lessicografico si intende un ordinamento lineare tale che dati x, y∊Xⁿ , (x1,…, xn) ≤ (y1,…, yn) ↔ ((x1
< y1) ⋁ (x1 = y1 ⋀ x2 ≤ y2) ⋁ (x1 = y1 ⋀ x2 = y2 ⋀ x3 ≤ y3) ⋁… ⋁ (x1 = y1 ⋀… ⋀ xn-1 = yn-1 ⋀ xn ≤ yn)).
13
13
nico reale tale che F(y) = σ e sia m ∈ℕ tale che G(m) = y: allora F(G(m))n = σ(n) per tutti gli n
∈ℕ e quindi anche per m, contraddicendo la definizione di σ(m).
Allo stesso modo farà poi Gödel per trovare la sua proposizione formalmente indecidibile,
ma anche in questo caso la scelta della nozione di dimostrabilità invece che quella di definibilità in un numero finito di parole sarà la mossa vincente e lo metterà al riparo da obiezioni
come quelle di Peano, che sosterrà come l’antinomia di Richard sia solo apparente: “L’esempio di Richard non appartiene alla matematica, ma alla linguistica; un elemento che è fondamentale nella definizione di N non può essere definito in modo esatto (in accordo con le regole della matematica)”. In ogni modo il paradosso ottenuto è facilmente risolvibile (ne tenta
una soluzione Richard stesso, ma che convince poco) facendo una seria distinzione tra i vari
livelli del linguaggio. La stessa distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, tra teoria e metateoria, che con molta abilità sfrutterà poi Gödel.
4. Paul Finsler
Si può dire che in Eubulide e Richard si possano già trovare alcuni concetti chiave, che se
utilizzati correttamente (superando il problema di un autoriferimento non solo linguistico, ma
invece anche formalmente esprimibile e inquadrando il discorso in un preciso contesto di un
sistema formale) sono una condizione necessaria, ma non sufficiente per ottenere un risultato
di incompletezza.
Infatti qualche anno prima di Gödel Paul Finsler, in un articolo del 1926 dal titolo “Formal
proofs and undecidability”14, motivato da un’insoddisfazione di fondo verso il programma di
Hilbert, pensava di aver trovato, ripercorrendo il ragionamento di Richard, una proposizione
formalmente indecidibile con strumenti analoghi a quelli che userà Gödel. In questo articolo
Finsler introduce una distinzione tra “formale” e “concettuale”: nell’ambito del “formale” vi è
tutto ciò che può essere espresso con un vocabolario ed una grammatica precisa (ed in questo
è onnicomprensivo), mentre ciò che ricade nell’ambito del “concettuale” è tutto ciò che non
può essere espresso in una maniera linguistica, a prescindere dal linguaggio che si utilizzi.
Dopo questa distinzione preliminare, l’argomentazione di Finsler è relativa alle dimostrazioni
di proposizioni che parlano di successioni infinite di 0 e 1 e che affermano la presenza o meno
di infiniti 0 nelle successioni stesse. Queste dimostrazioni vengono enumerate in modo qualsiasi. Possiamo così considerare una matrice infinita di 0 e 1, in cui ogni successione viene
identificata con la dimostrazione del fatto che il numero di 0 in quella successione è minore di
ω.
14
Finsler 1926.
14
Succ. (1):
00011011…
Succ.(2):
01111111…
Succ.(3):
10110011…
Succ.(4):
00100011…
Succ(5):
11000000…
…
In questa matrice la diagonale è formata dall’i-esimo numero dell’i-esima successione. A
partire dalla diagonale su può definire l’antidiagonale nel modo seguente. Definiamo la funzione f(k,k) che prende il k-esimo numero della k-esima successione, cioè il k-esimo numero
della successione diagonale e restituisce 1– ckk, dove cij è il j-esimo numero della i-esima sequenza (o riga della matrice). Avremo così:
Antidiagonale = f(1,1)f(2,2)f(3,3)f(4,4)f(5,5)…
= 10011…
A questo punto all’antidiagonale non corrisponde nessuna dimostrazione formale relativa ad
una successione di 0 e 1 e dunque la proposizione “Nella sequenza dell’antidiagonale lo 0 non
occorre infinite volte”, non è formalmente decidibile, proprio perché non facendo parte della
lista, non può parlare dei suoi zeri. Ma non basta, infatti questa proposizione è falsa, poiché
esistono infinite successioni, e quindi dimostrazioni del fatto che lo 0 non occorre infinite volte nella sequenza di soli 1 (e quindi per ognuna di queste dimostrazioni, cioè per ognuna di
queste infinite successioni di soli 1, esiste uno 0 sull’antidiagonale). Allora l’antidiagonale
non può appartenere al dominio del “formale” e deve per forza appartenere a quello del “concettuale”; così da far fallire ogni sogno di riduzionismo formalista.
I problemi di questa dimostrazione sono le vaghe definizioni di “formale” e “concettuale” e
la mancata contestualizzazione della dimostrazione in un preciso sistema formale. Si potrebbe
pensare che Finsler, anche se in maniera non del tutto esplicita e forse non del tutto chiara perfino a lui stesso, intendesse in realtà una distinzione tra il linguaggio e il metalinguaggio, ma
visto il carattere onnicomprensivo del “formale” rispetto a qualunque tipo di linguaggio, rimane difficile non far collassare il metalinguaggio, che pur si esprime in un qualche linguaggio,
nel “formale”. Tuttavia molti anni dopo la pubblicazione del suo articolo Gödel, che all’epoca
in cui ottenne i suoi risultati non era a conoscenza dell’opera di Finsler, dirà: “egli omette
proprio il punto essenziale, cioè il fatto di restringersi a un sistema formale ben definito nel
quale la proposizione risulti indecidibile. Egli aveva infatti l’obiettivo assurdo di dimostrare
l’indecidibilità formale in senso assoluto. Questo lo portò alla [sua] definizione, priva di senso
[di un sistema di segni e del concetto di dimostrazione formale al suo interno]… e alla contraddizione flagrante rappresentata dal fatto che decide la proposizione “formalmente indeci15
dibile” mediante un ragionamento… che, secondo la sua stessa definizione…è una dimostrazione formale. Se Finsler si fosse posto all’interno di qualche sistema formale ben definito…
la sua dimostrazione… avrebbe potuto essere resa corretta e applicata a ogni sistema
formale”15. Proprio il come costruire la proposizione indecidibile all’interno di un preciso sistema formale, sarebbe stata la forza del risultato di Gödel.
Una volta concluso questo breve excursus, su precedenti che si risolsero utili per la ricerca e
anticipatori che però mancarono l’obiettivo, si può ora passare ad un’analisi dettagliata del
teorema vero e proprio.
15
Da una lettera di Gödel a Yossef Balas del 27 maggio 1970.
16
Capitolo II
Le tecniche dimostrative
Le idee erano nell’aria, il problema di fondo era quello di riuscire a tenere ben distinti i piani della teoria e della metateoria, ma insieme far parlare l’una dell’altra e l’altra dell’una: si
trattava di parlare (e questo non era affatto banale) della semantica di un sistema con i mezzi
della sintassi, senza però cadere in una confusione di piani. Le speranze, fino a quel momento,
erano che qualsiasi metateorema avesse anche una dimostrazione che utilizzasse metodi finitari e che quindi fosse formalizzabile in un qualche sistema. Ma questa era solo una pia speranza, dal momento che Gödel dimostrò che proprio questo era impossibile.
A posteriori si può immaginare un sistema come un parlante di una lingua in cui non si può
esprimere ogni cosa: questi può in parte parlare di sé, ma non può in nessun modo descriversi
completamente; rimane sempre una parte di sé che gli è sconosciuta e di cui i suoi limitati
mezzi espressi non possono parlare. Ciò che Gödel scoprì nelle sue ricerche di coerenza dell’analisi era che proprio il concetto di verità creava dei problemi in questo senso: non poteva
essere formalizzato e quindi non poteva servire per una dimostrazione di coerenza. Cosa che
invece il nostro autore sfruttò fu proprio la definibilità del predicato di dimostrabilità che riusciva ad individuare un ben preciso insieme di formule caratterizzate da determinate caratteristiche: quella di essere un insieme ricorsivo (o decidibile). Sono ora necessarie alcune definizioni per spiegare i termini della questione:
•
si dice decidibile un insieme di naturali R se per ogni numero naturale n esiste un
metodo decidibile, effettivo, meccanico tale per cui o n∈R o n∉R (indecidibile altrimenti)
•
si dice coerente un sistema formale se non dimostra falsità, ad esempio non esiste
nessuna dimostrazione di 0≠1; si può formalizzare dicendo che ci sono formule che
il sistema non dimostra (incoerente altrimenti)16
•
si dice completo un sistema in cui data una formula φ, o φ è un teorema del sistema
oppure lo è ¬φ. In questo modo si può scoprire se una formula data è un teorema del
16
Esistono diverse definizioni di sistema coerente (ad esempio un’altra è quella per cui il sistema non può
dimostrare contraddizioni: φ e ¬φ) ma tutte equivalenti tra loro.
17
sistema semplicemente elencando tutti i teoremi del sistema; in questo modo in un
numero finito di passi si otterrà o φ o ¬φ (incompleto altrimenti).
Il risultato di Gödel sarà di mostrare come qualsiasi sistema sufficientemente potente è incompleto, cioè ha proposizioni che non sono decidibili (di cui non si può dimostrare né la proposizione stessa, né la sua negazione). Per far questo si servirà di un predicato decidibile come
quello di “essere dimostrabile”, per dimostrare come il predicato di verità sia indecidibile: costruirà una proposizione che affermerà la propria indimostrabilità, ma che sarà vera. In questo
modo, ragionando in modo analogo a quanto già fatto nel caso del Mentitore, succederà che se
la proposizione è vera allora è indimostrabile, se falsa, allora (dal momento che il sistema si è
supposto coerente e non può quindi dimostrare falsità) non sarà dimostrabile. In ogni caso
quindi essa è indimostrabile, ma affermando essa stessa di esserlo risulta essere anche vera.
L’obbiettivo di Gödel, quindi, al momento della dimostrazione del teorema è quello di produrre una proposizione che parli di sé ed affermi la propria indimostrabilità all’interno di un
dato sistema P, il cui linguaggio sia lo stesso utilizzato per creare la proposizione. Per raggiungere questo risultato Gödel dà una definizione formale del concetto di dimostrazione.
Esso equivale semplicemente ad una proprietà da attribuire ad una sequenza di formule φ1,…,
φn che possono alternativamente essere assiomi del sistema o formule dedotte da formule precedenti per mezzo di regole di inferenza consentite ed in cui φn sia la proposizione da dimostrare. La difficoltà consiste nel dover tradurre concetti metamatematici in un linguaggio matematico formale, tali da poter essere dimostrati in un sistema. Come ha giustamente notato
Mostowski: “Il problema della completezza dei sistemi formali è comunque importante, dal
momento che rende esplicito il grado di difficoltà della formalizzazione della matematica intuitiva, anche se ci restringiamo a quella porzione della matematica che ha a che fare con gli
interi”17.
Allora Gödel inizia col definire il sistema di riferimento in cui intenderà lavorare. Questo,
come recita il titolo dell’articolo, è quello dei Principia mathematica di Russell e Whitehead,
a cui vengono però aggiunti gli assiomi di Peano (il perché lo si capirà poi in seguito) ed i numeri vengono considerati come tipo minimo, mentre l’assioma di induzione è reso come formula del secondo tipo.
I passi per ottenere la traduzione dell’informale nel formale sono essenzialmente tre:
•
Trasporre gli oggetti della metateoria nella teoria stessa (aritmetizzazione).
•
Definire un modo per parlare di questi oggetti e delle loro proprietà, tale da poter essere formalizzato (definizione della classe delle funzioni primitive ricorsive).
17
Mostowski 1952, pg. 3.
18
•
Infine dimostrare che la traduzione effettuata si può rappresentare in P, cioè trasporre all’interno del sistema formale di riferimento (dimostrazione della rappresentabilità per numerali in P dei predicati p.r.).
1. L’aritmetizzazione
Il primo passo è quello di codificare ogni “frase” del sistema (cioè ogni sequenza finita di
simboli) sui numeri naturali; da cui il temine di aritmetizazione o numerazione di Gödel. Questa è il principale strumento tecnico che rende possibile la traduzione di concetti metamatematici all’interno del sistema stesso. In questo modo proposizioni teoriche diventano teoremi riguardanti i numeri naturali, dal momento che per vedere se un certo ente matematico gode di
una certa proprietà basta vedere se il numero di Gödel della proposizione affermante ciò è
contenuto in un certo insieme di naturali: quello determinato dall’aritmetizzazione di quel predicato. Si può considerare l’aritmetizzazione come una funzione 1-1, diciamo g, dalle parole
del sistema nei (non necessariamente sui) numeri naturali, che a ogni formula X assegna g(X)
=n con n un numero naturale univocamente determinato. Gödel sceglie una codifica sui numeri primi ed assegna numeri dispari strettamente minori di 15 ad ogni simbolo primitivo dell’alfabeto del sistema (Gödel considera questi simboli: “0”…1, “f”…3, “∼”…5, “∨”…7, “∏”…9,
“(”… 11, “)”…13), mentre assegna ad ogni variabile di tipo n il numero pⁿ dove p e primo e
maggiore del massimo tra i numeri assegnati a simboli primitivi18 (per una descrizione più accurata del sistema P si veda l’appendice a fine capitolo). Allora ad ogni sequenza di numeri
così ottenuti n1,…,nk assegna il numero, detto poi di Gödel, 2ⁿ¹3ⁿ²…pkⁿk dove pk è il k-esimo
numero primo. Inoltre se n1,…,nk sono numeri di Gödel di sequenze di simboli, allora
2ⁿ¹3ⁿ²…pkⁿk è il numero assegnato ad una sequenza di sequenze, e così via. Ovviamente non
è l’unica codifica possibile. La più semplice che esiste è semplicemente data dall’ordinare lessicograficamente tutte le formule del nostro sistema e poi enumerarle semplicemente con i numeri naturali, me ce ne sono molte altre. La numerazione oltre a permettere di parlare di formule per mezzo di semplici numeri, dà la possibilità, dato un numero di Gödel qualsiasi, di risalire alla formula di cui è la traduzione (cioè decodificare un numero primo), sfruttando il
teorema fondamentale dell’aritmetica sulla scomposizione unica di un numero in fattori primi.
Proprio per questo aspetto, la possibilità di codificare e decodificare senza problemi, se il programma di Hilbert si fosse dimostrato esatto e tutta la matematica astratta fosse risultata ridu18
In Gödel 1934, Gödel utilizzerà, per le variabili (che in questa esposizione sono solo di tre tipi distinti) degli
interi maggiori di 13, ≡0 (mod3), ≡1(mod3), ≡2 (mod3), definendo poi la relazione di congruenza come p.r.
19
cibile a quella reale, una semplice definizione della verità avrebbe posto fine alla possibilità di
nuove interessanti acquisizioni matematiche. Infatti sarebbe bastato individuare l’insieme dei
naturali che erano i gödeliani della proposizioni vere, decomporre i numeri in fattori primi e
da quelli, poi, ricostruire le formule corrispondenti: teoremi veri. Troppo semplice e poco divertente!
In questo modo Gödel traduce le formule del sistema nella semplice aritmetica e quindi gli
oggetti della metateoria, cioè parti della teoria stessa, in un alfabeto più maneggevole per gli
scopi che si proponeva. Può sorgere a questo punto una domanda abbastanza spontanea: perché c’è bisogno di tradurre nel linguaggio formalizzato dell’aritmetica qualcosa che già è formale? O alternativamente: in che senso un alfabeto più maneggevole? Il perché risiede proprio
nel secondo passo che Gödel sta per fare, cioè la definizione delle funzioni p.r. che sono funzioni definite su ℕ, le quali, se l’aritmetizzazione ci ha fornito un alfabeto, assolveranno il
compito della grammatica per questo alfabeto. La metateoria è qualcosa che parla di proposizioni, dimostrazioni, formule chiuse, formule aperte, etc… Ora che è possibile identificare i
suoi oggetti con numeri naturali, bisogna trovare un modo con cui parlarne; un modo che permetta di identificare proprietà informali con proprietà dei numeri naturali e che possa quindi
essere formalizzato in un sistema aritmetico.
2. La definizione delle funzioni primitive ricorsive
Per questo scopo Gödel, arrivando così al secondo passo, introduce la nozione di funzione
ricorsiva (che sarà poi ciò che modernamente, dopo Klenee 1936, chiamiamo funzione primitiva ricorsiva), definendo precisamente la classe di queste funzioni.
La classe delle funzioni primitive ricorsive è la più piccola classe contenente:
•
f(x) = 0
la funzione costante zero
•
f(x) = x + 1
la funzione successore
•
f(x1, …,xn) = xi
la funzione proiezione sull’i-esimo argomento
ed inoltre chiusa per
•
f(x1, …,xn) = g(h₁(x₁,… ,xn), …,hm(x1, …,xn))
•
f(0,x1, …,xn) = g(x1,… ,xn)
composizione
ricorsione primitiva
f(y + 1, x1, …,xn) = h(f(y, x1, …,xn), y, x1, …,xn).
20
Come ha notato Davis nell’introduzione a Gödel 1934: “La caratterizzazione di sistema formale matematico usa la nozione di regola costruttiva, cioè di cui esista una procedura finita
per rendere possibile l’utilizzo della regola; una esatta caratterizzazione di una procedura finita diventa un requisito fondamentale per sviluppare il sistema”19. La scelta di una classe di
funzioni effettivamente calcolabili, evidenzia l’intima connessione tra la nozione di “formale”
e quella di “meccanico” o calcolabile o p.r. Ma non è questa similarità di metodo formale e
metodo meccanico ad aver spinto Gödel a determinare questa classe di funzioni, ma l’opposto: la necessità teorica di una maggiore “realtà” (alla Hilbert) delle dimostrazioni ha fatto in
modo che la dimostrazione dell’esistenza della proposizione indecidibile facesse uso di metodi effettivamente calcolabili, che non si possono non dire finitari (anche se esattamente quali
siano non è ben chiaro). Oltre al danno la beffa, il programma di Hilbert fallì proprio grazie
agli strumenti che avrebbero dovuto garantirne la solidità. Fu invece proprio per la scelta di
Gödel di utilizzare le funzioni p.r. ad avvicinare in seguito notevolmente i concetti di formale
e di meccanico (grazie anche agli apporti di Turing). Ormai le due nozioni sono così strettamente connesse che una può essere definita nei termini dell’altra: si può definire un sistema
formale come l’insieme dei teoremi dimostrati, partendo da certi assiomi e con certe regole,
da un procedimento meccanico come può essere quello di una macchina di Turing. Oppure si
può definire un’operazione come meccanica, o una funzione come ricorsiva, se può essere calcolata in qualche sistema formale.
Partendo dalle funzioni p.r. Gödel passa poi a definire le relazioni numeriche R(x₁,…, xn)
come p.r. sse:
∀(x1,…, xn) [R(x1,…, xn) → φ(x1,…, xn)=0]
con φ una funzione p.r. o per i predicati n-ari: R ⊆ ℕⁿ è p.r. se la sua funzione caratteristica
χR è p.r.
χR = 0 se R(x1,…, xn)
= 1 se ¬R(x1,…, xn)
Una volta data questa definizione Gödel passa a dimostrare alcuni teoremi che saranno molto utili per le successive definizioni di predicati ricorsivi. Dimostra infatti che la proprietà di
essere p.r. è chiusa rispetto ai connettivi logici e alla quantifizione limitata (sia esistenziale sia
universale) ed inoltre anche rispetto all’operazione di minimalizzazione20, anch’essa limitata.
19
.Davis 1965; pg. 39.
Cosa che non stupisce essendo le funzioni p.r. definite partendo dai numeri naturali ed avendo tra gli assiomi
del sistema il principio di induzione, equivalente a quello del minimo. Infatti la formula che definisce il principio
20
21
A questo punto Gödel definisce quarantacinque relazioni p.r. che altro non sono se non altrettante proprietà metamatematiche che adesso, grazie alle funzioni p.r. definite sui numeri di
Gödel delle formule del sistema, traducono perfettamente ciò che prima veniva detto informalmente, in maniera formale. Per ragioni di brevità conviene qui citare solo quelle fondamentali, che interverranno direttamente nella formazione della proposizione indecidibile; anche se l’elenco è strutturato in maniera costruttiva.
Z(n) sta ad indicare il numerale (cioè la rappresentazione del numero n all’interno del sistema formale, che non ha i numeri naturali, ma può costruirli a partire dalla costante zero ed iterando la funzione successore) che sta per il numero n. Questo predicato corrisponde semplicemente all’operazione di “porre il segno f” n volte davanti alla successione numerica formata
dal solo numero di Gödel che sta per la costante zero.
Sb(xvy) sta ad indicare il concetto di sostituzione, in una formula x, della formula y, purché
essa non contenga variabili libere che possano venir quantificate nelle occorrenze di v, quando questa variabile occorre in x (in altre parole: purché y sia libera per v in x). La sostituzione
è resa possibile, perché già tra gli assiomi del sistema è presente uno schema di assiomi per la
sostituzione. Sb(xvy), come le altre definizioni di questa lista, sono da leggersi nel modo seguente: Sb(xvy) è il numero di Gödel della formula che si ottiene dalla formula di numero di
Gödel x sostituendo alle occorrenze libere della variabila che ha numero di Gödel v la variabile che per numero di Gödel y.
Neg(x) sta ad indicare la negazione della formula x. Nel dettagli si tratta di applicare l’operazione di concatenazione tra il numero di Gödel del simbolo di negazione ed il numero di
Gödel di x, dopo che questo è stato concatenato con i numeri di una parentesi destra ed una sinistra. L’operazione di concatenazione permette semplicemente, dati due numeri di Gödel di
due formule x ed y, di ottenere il numero di Gödel della formula xy.
xGeny sta ad indicare la generalizzazione della formula y rispetto alla variabile x. Cioè il
concatenamento del numero di Gödel di x, quello del quantificatore universale e poi quello di
y, dopo essere stato messo tra parentesi.
xBy sta ad indicare che x è una dimostrazione della formula y. Questo predicato, formalmente parlando, sostiene che, presa una figura dimostrativa che ha x come numero di Gödel
(cioè una successione finita di formule, ognuna delle quali è o un assioma o una conseguenza
di induzione completa è la sequente:
∀y[(∀z<y)ϕ(z)→ϕ(y)]→∀xϕ(x) ↔
¬∀x¬ϕ(x)→¬∀y[(∀z<y)¬ϕ(z)→¬ϕ(y)] ↔
∃xϕ(x)→∃y[(∀z<y)ϕ(z)⋀¬ϕ(y)] ↔
∃xP(x)→∃y[(∀z<y)¬P(z)⋀P(x)] con P(x)=¬ϕ(x); cioè, proprio il principio del minimo.
22
immediata di due formule che la precedono), y è il numero di Gödel dell’ultima formula di
questa successione; ed è quindi il teorema che viene dimostrato dalla serie di formule codificata da x.
Come si può vedere dalla spiegazione un poco laboriosa che bisogna dare di ognuno di questi predicati, anche se l’aritmetizzazione e le funzioni p.r. ci permettono di parlare di proprietà
metamatematiche (come l’essere una dimostrazione di una formula x, ma anche l’essere una
variabile libera o vincolata, l’essere un assioma, l’essere una conseguenza immediata di alcune formule, date certe regole di inferenza, ect) non è proprio agevole esprimersi in questi termini, poiché bisogna sempre tenere ben distinti i due diversi piani del discorso: quello formale
e quello informale, che tendono inevitabilmente a mescolarsi e confondersi l’uno con l’altro.
Alla fine di questo lungo elenco di concetti che si possono definire in modo p.r. Gödel ne
aggiunge uno che non lo è: Bew(x). Questa proprietà dice, della formula numerata con x, che
essa ha una dimostrazione in P. Mentre le altre proprietà sono a priori effettivamente calcolabili, questa non lo è. Infatti, supponendo di avere un algoritmo o una macchina per testarne la
verità, nel caso in cui x non abbia una dimostrazione in P, la nostra ricerca non avrebbe mai
fine, senza sapere con assoluta certezza se non si trovi, prima o poi, la dimostrazione cercata.
3. Un lemma di diagonalizzazzione
Ultimo ma non meno importante tra gli strumenti tecnici in mano a Gödel è il lemma di diagonalizzazione: riprendiamo e formalizziamo (grazie all’apparato dell’aritmetizzazione che
serve qui a dare una traduzione anche del concetto di “diagonalizzare”) questo principio dimostrativo già incontrato nel primo capitolo, uno degli strumenti cruciali per tutto l’argomento.
Lemma di diagonalizzazione
Fissato un sistema formale T, sia ϕ(x) è una formula con una variabile libera, x, allora c’è
un enunciato ψ tale che
T ⊢ ψ↔ ϕ(‘ψ’)
(dove ‘ψ’ sta per la codifica di ψ).
Dimostrazione
23
Sia la formula σ(x0) = Form(x0) ∧ ∃y (Diag(x0, y) ∧ ϕ(y)), con Form(x) = {ξ| ξ è una formula con una variabile libera} e ϕ(y) un enunciato, ottenuto diagonalizzando x0; infatti Diag
rappresenta la diagonalizzazzione: Diag(‘φ’, n) ↔ n = ‘φ(x/‘φ’)’ (con x/‘φ’ che sta per Sb
(φx‘φ’)). Allora, per ogni formula ξ con una sola variabile libera, T ⊢ σ(‘ξ’) ↔ ϕ(‘ξ(‘ξ’)’) e
in particolare:
T ⊢ σ(‘σ’) ↔ ϕ(‘σ(‘σ’)’)
A questo punto se si pone ψ = σ(‘σ’), il lemma risulta dimostrato21.
Si può vedere il lemma appena dimostrato anche come un’equazione al punto fisso. E’ ciò
che farà Gödel, trovando un punto fisso del predicato di non dimostrabilità di una certa proposizione: G (la proposizione che afferma di se stessa di non essere dimostrabile) sse ¬Bew
(‘G’) (dove il significato preciso di ¬Bew(‘G’) sarà spiegato nella terza sezione di questo capitolo). In ultima analisi, un punto fisso di una certa formula P(x) è qualcosa che asserisce che
essa stessa ha la proprietà (qualunque essa sia) espressa da P(x). Carnap nella sezione 35 di
Sintassi logica del linguaggio osservò che, per sistemi come quelli utilizzati da Gödel nella
dimostrazione del suo teorema, una qualunque formula P(x) ha almeno un punto fisso. Osservazione interessante per anche altri sviluppi della teoria della dimostrabilità.
Una volta dimostrato questo lemma, Gödel ha la possibilità di diagonalizzare l’insieme delle proposizioni dimostrabili e ottenere una proposizione formalmente indecidibile.
4. Considerazioni preliminari al teorema V
Passiamo ora al terzo passo che Gödel ha bisogno di fare per ottenere un’esatta traduzione
di un discorso metateorico.
Una volta che si ha a disposizione un alfabeto, e delle regole grammaticali per creare parole
e frasi, bisogna però verificare che ciò che si dice ha senso nella lingua che si vuole parlare. A
priori, l’alfabeto o la grammatica o entrambe potrebbero non essere quelle giuste per lo scopo
21
Bisogna qui notare, anche se per motivi di spazio, l’argomento non sarà affrontato in questa trattazione, che,
una volta dimostrato questo fondamentale lemma segue immediatamente quello che va sotto il nome di teorema
di Tarski (sull’indefinibilità della verità in un sistema formale; che molte parentele ha con il teorema di Gödel):
Corollario del lemma di diagonalizzazzione (Tarski)
Non esiste nessuna formula True(x) con una variabile libera, tale che
T ⊢ σ ↔ True(‘σ’)
Dimostrazione
Infatti dato True(x), semplicemente applico il lemma precedente a ¬ True(x) e ottengo T ⊢ σ ↔ ¬ True(‘σ’):
palese contraddizione, dal momento che afferma che σ è un enunciato vero sse True(‘σ’) è falso.
24
che ci si è fissati. Fuor di metafora questo vuol dire che bisogna dimostrare che i predicati p.r.
che sono stati definiti precedentemente sono rappresentabili nel sistema formale; cioè che esistono delle formule del sistema che “stanno per” quei predicati. Nei termini di Gödel, bisogna
dimostrare (teorema V) se un certo predicato R(x1,…, xn) è rappresentabile per numerali in P.
Prima di affrontare questo problema, però c’è una considerazione preliminare da fare. Prima,
nell’analogia tra aritmetizzazione ed alfabeto, grammatica e classe delle funzioni p.r., poteva
sembrare che la scelta della “lingua” fosse più libera di quanto in realtà non fosse. In realtà ciò
che Gödel vuole produrre in questa traduzione dall’informale al formale è qualcosa che egli ha
ben preciso in mente fin dall’inizio e, se pur la scelta del modo in cui tradurre gli oggetti lascia
spazio ad una scelta di gusto, l’alfabeto scelto è direttamente determinato dalla grammatica di
riferimento: le funzioni p.r. Questa scelta è dettata dal fatto che questa specifica classe di funzioni è effettivamente calcolabile e questo particolare è fondamentale per la dimostrazione.
Con il senno di poi, se si suppone la tesi di Church-Turing22 corretta la scelta è obbligata.
Quindi, in realtà, la dimostrazione della rappresentabilità dei predicati p.r. per numerali in P,
non è una dimostrazione del fatto che la scelta di questa specifica classe di funzioni è stata
quella corretta, ma invece che proprio la scelta del sistema P è corretta; cioè che P ha una capacità espressiva tale da poter esprimere dei predicati p.r. Questo fatto è il motivo per cui il
teorema si applica “solo” a sistemi sufficientemente potenti da poter contenere l’aritmetica.
Più precisamente si può dire che i predicati p.r. si possono rappresentare nei sistemi in cui:
•
le equazioni di definizione per le funzioni p.r. sono dimostrabili con variabili libere
•
si può dimostrare per induzione sulle relazioni p.r.
•
il calcolo delle funzioni (per un certo valore n) è praticamente una derivazione dalle
equazioni che esse definiscono
Alcuni dei sistemi di questo genere sono: l’Aritmetica primitiva ricorsiva (PRA), l’Aritmetica di Peano (PA) e la stessa Teoria degli insiemi Zermelo-Fraenkel (ZF)23. Come si può vedere, tra questi c’è anche la PA, che è una parte del sistema su cui Gödel sta lavorando, quindi
la traduzione può essere effettuata in P.
Nel 1953, poi, Tarski, Mostowski e Robinson mostrarono che una teoria molto semplice Q,
ormai chiamata normalmente l’Aritmetica di Robinson, sia sufficientemente potente da rap22
La Tesi di Church-Turing afferma che la classe delle funzioni effettivamente calcolabili e quella delle funzioni
ricorsive sono coincidenti. Con le parole di Church: “Definiamo ora la nozione, già precedentemente discussa, di
funzione effetivamente cacolabile di interi positive, definendola con la nozione di funzione ricorsiva di interi”
Church 1936, pg.100.
23
Per una descrizione di queste teorie si veda un manuale come Mendelson 2002, Enderton 1972 o Kunen 1980.
25
presentare in modo forte tutti gli insiemi ricorsivi ed inoltre da rappresentare in modo debole
tutti gli insiemi ricorsivamente enumerabili24.
Gli assiomi della teoria sono i seguenti:
(Q1) s(x) ≠ 0,
(Q2) s(x) = s(y) → x = y,
(Q3) x ≠ 0 → (∃y)(x = s(y)),
(Q4) x + 0 = x,
(Q5) x + s(y) = s(x + y),
(Q6) x ⋅ 0 = 0,
(Q7) x ⋅ s(y) = (x ⋅ y) + x.
Grazie a questi assiomi è possibile dimostrare il lemma di diagonalizzazione e da qui
dimostrare che ogni estensione coerente di Q è essenzialmente incompleta.
In questo modo si è riusciti a dare una esatta caratterizzazione delle caratteristiche minime
che deve possedere un determinato sistema formale per essere incompleto; ciò che prima
veniva detto con “un sistema sufficientemente potente”.
Dopo questa considerazione sul significato del teorema V vediamone l’enunciato e
l’abbozzo di dimostrazione che ne da Gödel nel suo articolo.
Appendice
Questa appendice ha il compito di descrivere il sistema P utilizzato da Gödel. Esso, come si
è detto precedentemente, è formato dal sistema dei Principia mathematica a cui vengono
aggiunti gli assiomi di Peano. Gödel a proposito scrive in nota: “L’aggiunta degli assiomi di
Peano, così come le altre modifiche introdotte nel sistema PM, servono semplicemente a
semplificare la dimostrazione, ma in linea di principio potrebbero essere omesse”25. L’idea di
base dei PM è quella della gerarchia dei tipi, cioè un sistema formale dove una variabile di un
certo tipo n può appartenere solo ad una collezione del tipo n + 1. In modo tale da eliminare
24
Solo alcune definizioni. Per un insieme (di numeri naturali) ricorsivo si intende un insieme di cui si possiede un
algoritmo o un metodo effettivo per calcolare i membri dell’insieme. Mentre per insieme (di numeri naturali)
ricorsivamente enumerabile si intende un insieme di cui la funzione caratteristica è ricorsiva: cioè un insieme per
cui dato un certo n (numero naturale) è sempre possibile calcolare, in modo effettivo, se n appartiene a
quell’insieme oppure no. Rappresentare in senso debole (to weakly rapresent) significa: data una relazione R, R
è debolmente rappresentata dalla formula ϕ sse n ∈ R (cioè R(n)) → ϕ(n). Rappresentare in senso forte (strongly
rapresent) significa: data una relazione R, R è fortemente rappresentato dalla formula ϕ sse R è debolmente
rappresentato ed inoltre n ∉ R → ¬ϕ(n).
25
Gödel 1931, in K. Gödel Opere volume I, pg. 116.
26
alla radice i paradossi della teoria degli insiemi, come appunto quello di Russell; infatti in
questo modo nessu insieme può appartenere a se stesso.
Dunque i segni primitivi sono:
•
Costanti: “0” (zero), “f” (il successore di), “∼” (non), “∨” (o), “∏” (per ogni), “(”, “)” (parentesi).
•
Variabili di tipo 1 (per individui, cioè per i numeri naturali, 0 incluso): “x1”, “y1”, “z1”, …
Variabili di tipo 2 (per classi di individui): “x2”, “y2”, “z2”, …
Variabili di tipo 3 (per classi di classi di individui): “x3”, “y3”, “z3”, …
e così via per ogni numero naturale preso come tipo.
Con segno di tipo 1 Gödel intende una combinazione di segni formata da 0 o una variabile
di tipo 1, seguiti da un numero finito di segni f. Una formula elementare è della forma a(b)
dove b è un segno di tipo n e a di tipo n + 1. Le classe delle formule è definita dalla più
piccola classe che contenga tutte le formule atomiche e chiusa per i connettivi logici. Una
formula con n variabili libere è un segno di relazione a n posti, se n = 1 allora si dice segno di
classe.
Gli assiomi della teoria sono: 0 non è il successore di nessun numero, se i successori di due
numeri sono uguali, i due numeri sono uguali, l’induzione (resa da una formula del
seond’ordine, che cioè quantifica su classi di individui), alcuni assiomi logici (p ∨ p → p; p →
p ∨ q; p ∨ q → q ∨ p; (p → q) → (r ∨ p → r ∨ q)), particolarizzazione del quantificatore
universale, l’assioma di comprensione ed infine quello di estensionalità; tutti quanti, però
scritti coi simboli del linguaggio appena descritto.
27
Capitolo III
Le dimostrazioni dei teoremi, V e VI
Il problema della rappresentabilità di relazioni all’interno del sistema necessita però un paio
di considerazioni prima di affrontare il teorema V. Il punto cruciale è quello di spiegare in che
modo una certa espressione possa essere una definizione formale di un concetto aritmetico.
Bisogna cioè trovare un modo per associare ad una certo concetto (che può essere reso da una
relazione o da una funzione) un certo oggetto formale, un’espressione del linguaggio del sistema, in maniera che quest’ ultimo rispetti le caratteristiche del primo (nel caso di una funzione
che φ(D1,… Dk) = D(F(n1,…,nk), dove D(n) è la rappresentazione di un certo numero all’interno del sistema, sia vera; nel caso di una relazione, che θ(D1,…,Dk) sia vera sse sussiste la relazione R(n1,…, nk)). In ultima analisi, quindi il problema si riduce alla problematicità della nozione di frase vera.
Dal momento che due sono le nozioni in gioco, quella di concetto aritmetico e quella di
espressione formale, due possono essere gli approcci per una definizione di rappresentabilità.
Seguendo la terminologia di Mostowski26, uno è l’approccio semantico, l’altro quello sintattico. Nel primo, si inizia dando un’esatta definizione della classe degli enunciati veri, e poi, in
base all’appartenenza o meno di un certo enunciato a questa classe si può mostrare se la definizione di quel concetto è ben rappresentata o meno all’interno del sistema. La seconda invece, (che sarà seguita da Gödel) è quella che segue l’interpretazione di vero in un sistema,
come dimostrabile e definisce le condizioni sintattiche per cui un’espressione formale possa
rappresentare fedelmente una relazione metamatematica. Si hanno così due nozioni distinte:
quella di definibilità (che segue l’approccio semantico definendo un concetto in base alla verità della sua traduzione in un sistema) e quella di ricorsività (che segue l’approccio sintattico
dando delle condizioni formali di rappresentabilià di una relazione ricorsiva)27.
26
Mostowski 1952, pg. 10.
Le due nozioni poi non sono per nulla identiche. Sempre Mostowski (in Mostowski 1952, pg.75) scrive:
“Notiamo una differenza essenziale tra le nozioni di ricorsività e di definibilità. Consideriamo un sistema formale
27
28
1. Il teorema V: rappresentabilità per numerali in P
La scelta di Gödel fu quindi quella di un approccio sintattico al problema della definibilità.
Bisognava solo mostrare come questo fosse tecnicamente possibile: questo compito è assolto
dal:
Teorema V
Per ogni relazioni ricorsiva (primitiva ricorsiva) R(x1,…, xn) esiste un segno di relazione a n
posti r (con le variabili libere u1, u2,…, un) tale che per ogni n-upla numerica (x1,…, xn) si abbia
R(x1,…, xn)→Bew [Sb(ru1Z(x1),…, unZ(xn)],
¬R(x1,…, xn)→Bew [Neg(Sb(ru1Z(x1),…, unZ(xn))].
Di questo teorema Gödel accenna solo la dimostrazione. Questa viene data per le relazioni
R(x1,…, xn) della forma x1=φ(x2,…, xn) con φ ricorsiva, ragionando sulla lunghezza della definizione p.r. di φ. Essa è una successione φ1, φ2,…, φn con φn= φ.
Ora, dimostrando che si può dare un’esatta interpretazione dei concetti metateorici nel sistema che si sta considerando (purché questo sia sufficientemente potente da poter dare un’interpretazione dei predicati p.r.), si può dire conclusa la traduzione dal linguaggio informale a
quello formale.
Gödel, però, non si limita a dimostrare che ogni relazione p.r. è rappresentabile in un sistema formale sufficientemente potente, ma (in un teorema successivo al Teorema VI, presentandolo come estensione del risultato di incompletezza) dimostra anche che ogni relazione p.r. è
aritmetica, cioè può essere definita mediante i concetti di somma e prodotto tra naturali e le
costanti logiche ∀, ¬,⋁ e =. In questo teorema Gödel definisce i valori di una funzione p.r.
come una semplice successione di numeri e poi definisce una successione in funzione di una
(S’) dell’aritmetica, diverso da [un altro sistema] (S) ma costruito essenzialmente nello stesso modo. Possiamo
senza dubbio definire le nozioni di ricorsività e di definibilità rispetto a questo nuovo sistma ed è naturale
chiedersi se una funzione (o una relazione) che era ricosiva o definibile nel vecchio sistema rimanga ricorsiva o
definibile rispetto a quello nuovo. Si scopre che le funzioni o relazioni che erano definibili in (S) in generale non
sono definibili in (S’), mentre le funzioni e le relazioni che hanno definizioni ricorsive in (S) continuano ad
averle in (S’). La nozione di ricorsività è così indipendente dalla scelta del sistema formale, mentre la nozione di
definibilità dipende in modo essenziale dal sistema, e cambia il suo significato quando passiamo da un sistema ad
un altro.” Per questo motivo la scelta di una rappresentazione di funzioni ricorsive all’interno del sistema in
esame riuscì a non limitare il fenomeno di incompletezza semplicemente a quel sistema, ma ad evidenziare come
fosse un’intima caratteristica di sistemi formali sufficientemente potenti.
29
coppia di numeri n e p, ottenendo poi i numeri della successione come i più piccoli resti non
negativi di t modulo p28, avendo definito precedentemente la relazione di minore stretto e di
congruenza modulo n in termini di somma, prodotto e costanti logiche29.
In questo modo Gödel, quando avrà ottenuto una proposizione indecidibile della forma ∀x
(F(x)) con F(x) p.r., potrà dimostrare l’equivalenza tra questa proposizione ed una aritmetica,
quindi il Teorema VIII: In ciascuno dei sistemi formali nominati nel Teorema VI, esistono
proposizioni aritmetiche indecidibili30. Successivamente i Teoremi IX e X dimostrano l’equivalenza tra problemi della forma ∀x(F(x)) e problemi della soddisfacibilità del calcolo dei predicati e quindi l’esistenza di problemi indecidibili nel calcolo dei predicati.
Terminate queste brevi anticipazioni delle estensioni ad altri ambiti del teorema di incompletezza, si può affrontare la dimostrazione dell’indecidibilità della proposizione che Gödel
aveva promesso all’inizio dell’articolo.
2. Il teorema VI: il primo teorema di incompletezza
Prima di arrivare all’enunciato vero e proprio bisogna però dare alcune definizioni, essenziali per comprendere alcuni oggetti e proprietà matematici di cui questo teorema si serve.
Gödel chiama segno di classe “Una formula di PM con esattamente una variabile libera il cui
tipo sia quello dei numeri naturali”, cioè un formula con un’unica variabile libera. Poi su un
qualunque insieme k viene definito Flg(k) come “il più piccolo insieme di formule che comprende tutte le formule di k e tutti gli assiomi ed è chiuso rispetto alla relazione di “conseguenza immediata”. ” La conseguenza immediata è la regola di derivazione del sistema P.
28
Per la dimostrazione di questo teorema Gödel utilizza il teorema cinese del resto. Esso afferma che, dati n1,…,
nk numeri interi positivi a due a due primi fra loro, allora le congruenze x≡a1(mod n1),…, x≡ak(mod nk)
ammettono un’unica soluzione e questa è mod(n1…nk).
29
Questo fatto si dimostra nel modo seguente:
bisogna ottenere i valori della funzione (a₀, …, an) come resti della divisione di t, dati certi numeri d₀, …, dn.
Allora t = qidi + ai, ai < di. Supponiamo che questo succeda anche per un altro t’, allora t’ = qi’di + ai. Sottraendo
otteniamo t – t’ = (qi - qi’)di cioè la differenza t – t’ è anch’essa divisibile per di. Se i di fossero coprimi, allora t
- t’ sarebbe anche divisibile per il loro prodotto c. Questo vuol dire che per diversi t, t’ < c otteniamo diverse
sequenze di resti dividendo per di (altrimenti t – t’ ≥ c). Di più, ogni sequenza di n + 1 di numeri minori del
numero dei di è così ottenuta. Quindi una di queste sequenze è quella a₀, …, an.
Quello che resta da ottenere è che i d siano coprimi fra loro e ai < di. Consideriamo allora la successione 1 + d 1
+ 2d … 1 + (n + 1)d per ogni d = s!, con s ≥ n. Ed s! sarà proprio il nostro p cercato. Infatti 1 + rd, 1 + r’d sono
coprimi fra loro dal momento che se q divide entrambi, allora divide anche la loro differenza (r – r’)d, e quindi
divide d dal momento che r – r’ ≤ n è un fattore di d = s!, poiché s ≥ n. Ma allora q divide d e 1 + rd e quindi 1:
contraddizione! L’ultima richiesta è che i di siano più grandi dei rispettivi ai; per questo basta avere d ≥ ai e
quindi s ≥ ai.
Quindi dati t e p opportuni è possibile trovare una sequenza opportuna di ai.
30
In Gödel 1934, a proposito di questa dimostrazione di rappresentabilità, Gödel scrive in nota: “Si noti che
questa dimostrazione non è necessaria per la dimostrazione di proposizioni aritmetiche in decidibili nel sistema
considerato. Infatti, se qualche funzione ricorsiva non fosse “rappresentata” dalla corrispondente formula […],
questo banalmente implicherebbe l’esistenza di proposizioni in decidibili a meno che non fosse dimostrabile
qualche proposizione errata sugli interi”. In K. Gödel, Opere, volume I, pg.265.
30
Quest’ultima definizione serve a Gödel per poter successivamente estendere il risultato di incompletezza a tutti i sistemi che siano ottenuti da P aggiungendo una classe di assiomi, il cui
insieme k di numeri di Gödel sia p.r. (e quindi k sia una classe p.r. di formule); purché questa
classe sia ω-coerente. Tra le ipotesi del Teorema VI, infatti, vi è quella che il sistema di riferimento sia ω-coerente. La sua differenza dalla semplice coerenza è che, mentre per avere un sistema coerente basta non poter dimostrare una proposizione A e il suo contrario ¬A, nell’ ωcoerenza non si può dimostrare che una certa formula A(x) con x libera vale per i valori x = 0,
1, 2,… e allo stesso tempo dedurre ¬∀x(A(x)). Si può considerare l’ω-coerenza come una
clausola che impedisce di dimostrare falsità ad un sistema (la falsità, però, è una proprietà semantica, di cui noi che siamo fuori dal sistema possiamo accorgerci, contrariamente al sistema
stesso, dando un’interpretazione ai simboli che leggiamo). Tra tutto ciò che è falso ci sono ovviamente anche le contraddizioni, quindi se un sistema è ω-coerente è ovviamente coerente;
infatti il fatto che A(x) valga per ogni numero è una condizione necessaria ma non sufficiente
per dimostrare ∀x(A(x)), se esistono modelli non standard dell’aritmetica. Il viceversa (se un
sistema è coerente allora è ω-coerente), invece, non vale sempre e alla fine della dimostrazione del teorema Gödel esibirà anche un esempio di un sistema siffatto. L’ipotesi dell’ω-coerenza è quindi più forte di quella della semplice coerenza, quindi il teorema è più debole di quanto non sarebbe se l’ipotesi fosse proprio la coerenza. Per quest’estensione del teorema bisognerà aspettare il 1936, quando Rosser31 rimpiazzerà la seconda ipotesi con la prima e, oltre a
rendere il teorema più potente, apporterà una correzione nell’ottica di una maggior linearità tra
premesse e conclusioni. Infatti egli, partendo da un’ipotesi sintattica come l’impossibilità di
dimostrare A e ¬A, deduce una conclusione sintattica (l’impossibilità, per una determinata
proposizione A del sistema, di dimostrare né A né ¬A), mentre nella dimostrazione del 1931
da un’ipotesi semantica, si deduceva una conclusione sintattica.
A questo punto si può dare il vero enunciato del primo teorema di incompletezza:
Teorema VI
Per ogni classe ricorsiva e ω-coerente k di formule esistono segni di classe ricorsivi r tali
che né vGenr né Neg(vGenr) appartengono a Flg(k) (dove v è la variabile libera di r).
La dimostrazione del teorema usa, per un dovere di esaustività e un certo piacere per la precisione, una simbologia piuttosto pesante e macchinosa, che sull’esempio di Kleene32 si può
31
Rosser 1936.
Cfr. la Nota introduttiva all’articolo di Gödel, in K.Gödel Opere volume I pp.95-110 ed inoltre S.C. Kleene
L’opera di Kurt Gödel in Shanker 1991, pg.65-92.
32
31
semplificare, rendendone la lettura più scorrevole. Gödel inizia subito, utilizzando relazioni e
funzioni p.r. dell’elenco precedente, a costruire una relazione che proprio per come è costruita è anch’essa p.r., Q(x, a) che è definita nel modo seguente: a è il numero di Gödel di un certo predicato p.r. con una variabile libera v (quindi un segno di classe), diciamo A(v); x, invece,
è il numero di Gödel di una dimostrazione in P. Il predicato Q(x, a) allora afferma che x non è
una dimostrazione di A(v), quando alla variabile libera viene sostituito il numero a, cioè il numero di Gödel della proposizione stessa. A(a) si può chiamare la diagonalizzazione di A e intuitivamente esprime la proposizione che dice che il numero di Gödel del segno di classe A fa
parte dell’insieme di numeri che è rappresentato in P da A. A questo punto per il Teorema V
Q(x, a) si può rappresentare per numerali in P; cioè, se x non è una dimostrazione di A(a), allora posso dimostrare in P Q(x, a); invece, se x è una dimostrazione di A(a), allora posso dimostrare in P ¬Q(x, a). A questo punto Gödel passa a considerare la formula ∀x(Q(x, a)) con
unica variabile libera a, che afferma che per ogni x, x non è una dimostrazione di A(a). A questa nuova formula, che possiamo chiamare R(a), si può attribuire un numero di Gödel, diciamo r. Siamo allora arrivati a poter costruire la proposizione indecidibile. Essa è ∀x(Q( x, r)).
Essa afferma che per ogni x, x non è il numero di Gödel di una dimostrazione di R(r), ma a
ben vedere R(r) altro non è se non ∀x(Q(x, r)); in altre parole essa afferma: “Io non sono dimostrabile in P”. Questo enunciato, pur avendo una forte analogia con il paradosso del Mentitore, non è paradossale, ma, lungi dall’esserlo, è una proposizione vera, perché quello che si
dimostra nella prima parte del teorema è proprio la sua indimostrabilità33. Ora che abbiamo
questo enunciato rimane solo da controllare che esso e la sua negazione non si possono dimostrare in P. Cominciamo a vedere cosa succede se R(r) è dimostrabile e vedremo che basterà
la semplice ipotesi della coerenza per ottenere una contraddizione. Infatti, se R(r) fosse dimostrabile allora, per un certo x si avrebbe che Q(x, r) è falso (perché x è il numero di Gödel della dimostrazione di r) e quindi, per la rappresentabilità di Q, si potrebbe dimostrare in P ¬Q(x,
r), ma quindi ∃x(¬Q(x, r)), cioè: ¬∀x(Q(x, r)), contro la semplice coerenza di P. Ma avendo
prima mostrato che se P è ω-coerente allora è coerente, allora, per contrapposizione, se P non
è coerente, allora non è ω-coerente. In questo modo abbiamo verificato che R(r) non è dimostrabile, a meno di non ottenere un sistema incoerente (e a fortiori ω-incoerente). Rimane da
33
“E’ noto che l’enunciato “Io sono falso” è contraddittorio. Perché, nel caso che sia vero, allora per ciò che
afferma, è falso; e se è falso allora, per ciò che afferma, è vero. L’espressione di Gödel “Io sono indimostrabile”
non è contraddittoria. Sfuggiamo alla contraddizione perché (quali che fossero le speranze di Hilbert), non c’è
alcun motivo a priori perché ogni enunciato debba essere dimostrabile. L’enunciato […] che afferma “Io sono
indimostrabile” è semplicemente non dimostrabile e vero”. Citato da Kleene L’opera di Kurt Gödel, pg. 71, in
Shaker 1991. La differenza tra le nozioni di verità e dimostrabilità sta proprio in questo: che il il vero e il falso
sono congiuntamente esaustivi e reciprocamente esclusivi, mentre tra dimostrabile e il suo contrario: refutabile
(non indimostrabile appunto), vi è la terza possibilità dell’indimostrabilità. Proprio questo rende l’enunciato di
Gödel non contraddittorio.
32
verificare che non sia neanche refutabile. Bisogna quindi far vedere come ¬R(r) non sia dimostrabile. Assumiamo allora, per assurdo, che ¬∀x(Q(x, r)) sia dimostrabile, tuttavia dalla prima parte della dimostrazione, dal momento che R(r) è vera, sappiamo che per ogni x, x non è
una dimostrazione di R(r). Quindi per x = 0, 1, 2,… abbiamo Q(0, r), Q(1, r), Q(2, r),… In
conclusione abbiamo, visto che r è fissato, A(x) con x libera che vale per i valori x = 0, 1,
2,… e allo stesso tempo ¬∀x(A(x)), contro l’ipotesi dell’ è ω-coerenza: contraddizione. Possiamo quindi concludere che R(r) è formalmente indecidibile in P.
Una volta conclusa la dimostrazione del teorema Gödel fa una interessante considerazione
sul fatto che se agli assiomi di P aggiungiamo ¬R(r) continuiamo ad avere un sistema coerente (altrimenti potremmo dimostrare R(r)), ma comunque non ω-coerente. Questo fatto mette
in luce come, da un lato la coerenza non implichi l’ω-coerenza, dall’altro come ogni ricerca
relativa ad una dimostrazione della coerenza di un sistema fosse in realtà destinata a naufragare, poiché la coerenza non implica la correttezza di un sistema34.
Una volta conclusa la dimostrazione del primo teorema di incompletezza, Gödel nell’ultimo
paragrafo dell’articolo affronta il secondo teorema di incompletezza, che qui mi limiterò solo
ad enunciare.
Teorema XI: Sia k una qualunque classe ricorsiva e coerente di formule; allora la formulaproposizione che afferma la coerenza di k non è k-dimostrabile (cioè non è dimostrabile nel
sistema Pk: il sistema P a cui viene aggiunta la classe p.r. di assiomi k).
La dimostrazione di questo teorema viene solo accennata, anche se in questo caso il motivo
non è la semplicità, ma probabilmente il desiderio di porre maggiormente l’accento sul primo
teorema. Infatti per un’effettiva dimostrazione bisognerà aspettare il lavoro di Hilbert e Bernays35 del 1939, i quali dimostreranno questo risultato per due sistemi che formalizzano la teoria elementare dei numeri. A differenza che nell’articolo di Gödel, nei Grundlagen der Matematik la formalizzazione del primo teorema di incompletezza e la dimostrazione del secondo
vengono condotte i un sistema meno potente di P, infatti Hilbert e Bernays danno una completa dimostrazione del teorema XI in un sistema del prim’ordine a differenza di P, che per esempio ha tra gli assiomi il principio di induzione formulato con una formula del second’ordine
che quantifica su insiemi e non sui numeri.
Innanzitutto Gödel fa notare come si possa esprimere con una formula chiusa, diciamo W, il
fatto che il sistema P sia coerente: essa afferma l’esistenza di almeno una formula indimostra34
“Ciò mostra come il proposito di Hilbert di dimostrare soltanto la semplice coerenza di un sistema formale S,
se anche avesse avuto successo, non sarebbe bastato allo scopo dal momento che in S potrebbero esserci teoremi
falsi […] se Pk è semplicemente coerente”. Dalla Nota introduttiva di Klenee all’articolo di Gödel, in K.Gödel
Opere volume I, pg. 104.
35
Hilbert e Bernays 1939.
33
bile in P. Secondariamente evidenzia come nella dimostrazione della prima parte del primo
teorema di incompletezza l’argomentazione, presupponendo la coerenza di P, arrivasse a dimostrare l’indimostrabilità di R(r). Quindi, dal momento che tutto il ragionamento era svolto
al livello di predicati p.r., in P si può dimostrare che W → R(r). A questo punto, per semplice
modus ponens, se W fosse dimostrabile allora si potrebbe dimostrare R(r), contro quanto affermato nel primo teorema di incompletezza: contraddizione. Quindi W non è dimostrabile in
P.
Nella parte finale dell’articolo Gödel fa notare come questo teorema non sia in aperta contraddizione con il programma hilbertiano di dimostrare, con metodi finitisti, la coerenza assoluta di un sistema formale. In realtà il Teorema XI afferma semplicemente che la coerenza di
un dato sistema Pk non può essere dimostrata con metodi finitisti formalizzabili nel sistema
stesso, cioè che non può essere dimostrata con gli strumenti di Pk stesso. Ciò non toglie che si
possano concepire dei metodi finitisti che non possano però essere formalizzabili36.
36
Cfr. Gödel 1958.
34
Capitolo IV
L’estensione di Rosser del I teorema di incompletezza
Alla fine del capitolo II erano state fornite, grazie all’aritmetica di Robinson, le condizioni
assiomatiche tali da rendere possibile una dimostrazione di incompletezza per un determinato
sistema formale. Ora qui l’attenzione è rivolta agli aspetti semantici e di teoria della dimostrazione: quali sono le condizioni di derivabilità che rendono possibile la dimostrazione del teorema di incompletezza; o altrimenti, quali caratteristiche semantiche (consistenza, ω-coerenza,
correttezza, etc.) deve possedere un certo sistema per dimostrare i teoremi di Gödel.
Queste condizioni sono tre; sia T sistema formale in cui sia possibile definire il predicato
Bew, allora le condizioni di derivabilità di Hilbert- Bernays- Löb (HBLDC)37 sono:
D1
T ⊢ S → T ⊢ Bew(‘S’)
D2
T ⊢ Bew(‘S’) → T ⊢ Bew(‘Bew(‘S’)’)
D3
T ⊢ Bew(‘S’) ∧ Bew(‘S → T’) → Bew(‘T’).
Il nome di queste condizioni è dovuto al fatto che i primi a fissarle furono Hilbert e Bernays
nei Grundlagen der Matematik per il sistema Zµ all’interno del quale fu condotta la dimostrazione del secondo teorema di incompletezza di Gödel; successivamente furono semplificate e
rese più eleganti da Löb38.
Col senno di poi, HBLDC ci aiutano a comprendere quale sottile cambiamento nelle ipotesi
di base ha permesso a Rosser di estendere il teorema di incompletezza alla semplice assunzione di coerenza.
1. Coerenza e ω-coerenza
37
Già dalla condizione D1 è chiaro che se T non dimostra falsità, allora la semplice esistenza di punti fissi quali
la proposizione di Gödel G ↔ ¬Bew(‘G’) (la cui esistenza ci è assicurata dall’osservazione di Carnap e, più
rigorosamente, dal Lemma di diagonalizzazione) ci dice chiaramente che enunciati come G non sono decidibili.
38
Inoltre se ne può trovare una dimostrazione all’interno di PA in Boolos 1993.
35
Gödel grazie all’assunzione di coerenza aveva ottenuto che se una proposizione era dimostrabile, allora il sistema poteva dimostrare la proposizione asserente che essa era dimostrabile; in altre parole D1:
T ⊢ S → T ⊢ Bew(‘S’)
L’implicazione non poteva essere una biinplicazione, proprio per come era stata definito il
predicato di dimostrabilità. Infatti Bew(x) sse ∃x (y B x), cioè se y era il numero di Gödel di
una dimostrazione per x. In questo modo (e Gödel stesso lo dice dicendo che Bew(x) non è un
predicato ricorsivo; con il lessico moderno: Bew(x) è ricorsiva, ma non primitiva ricorsiva)
dal momento che la definizione del predicato contiene un quantificatore esistenziale non limitato, l’affermazione è in un certo modo ideale: esiste una dimostrazione di x, ma chissà come
e chissà dove. Una teoria poi, pur non potendo fare affermazioni false ∀z (z ≠ z), (cioè contraddittoria) può però farne di false esistenziali. Gödel stesso lo dimostra: si possono dimostrare P(0), P(1), P(2), … ed insieme ¬∀x (P(x)) ≡ ∃x (¬P(x)) (pur non essendo questo x nessun numero naturale) e continuare ad avere un sistema coerente, ma con una palese falsità all’interno.
L’assunzione di ω-coerenza poi è più forte di quella di semplice coerenza e quindi il sistema
è più “sensibile” alle falsità. L’ω-coerenza infatti è una forma, debole, di correttezza: una correttezza negativa39; è infatti grazie a questa assunzione che la parte negativa del teorema può
essere dimostrata: cioè che ¬G non è dimostrabile (con G la proposizione indecidibile). L’ωcoerenza equivale quindi ad un’ulteriore regola di derivabilità (per un certo tipo particolare di
formule: cioè le Σ₁-formule) che chiameremo DG:
T ⊢ ¬S → T ⊢ ¬Bew(‘S’)40
che non è altrimenti deducibile da HBLDC e dalla semplice coerenza.
Rosser invece, volendo assumere l’ipotesi più debole possibile, supponendo il suo sistema
semplicemente coerente (infatti nessuna assunzione più debole della coerenza si permette di
39
Definisco correttezza negativa, qui, come correttezza per le proposizioni del tipo di quella usata da Gödel, cioè
¬∀x (P(x)) ≡ ∃x (¬P(x)), ovvero una Σ₁-formula. Una scelta ad hoc, come ad hoc fu l’ipotesi di ω-coerente.
40
Cioè, per contrapposizione, se una proposizione è dimostrabile allora è vera. Questa è la correttezza
(soundness). In generale questo non è vero sempre, semplicemente se il sistema è ω-coerente, ma è vero nel caso
delle Σ₁-formule. Si può infatti dimostrare che una certa teoria T è ω-coerente sse è corretto per le sue Σ₁formule.
36
dimostrare l’indecidibiltà di un sistema formale, poiché appena un sistema è inconsistente è
banalmente decidibile, dal momento che può dimostrare ogni cosa) deve trovare un modo per
rimpiazzare la correttezza negativa della seconda parte della dimostrazione con delle assunzioni non più semantiche ma sintattiche. Riuscirà a farlo semplicemente definendo un diverso
predicato di dimostrabilità.
In questo modo supponendo il sistema soltanto consistente e il predicato di dimostrabilità
rappresentabile in T (cioè che ogni proposizione della forma Bew(x), Prov(x) per Rosser, sia
vera) Rosser riuscirà a dimostrare l’esistenza di una proposizione indecidibile.
2. Il teorema III di Rosser
L’estensione del I teorema di Gödel avviene in due modi diversi: il primo (di scarso interesse in questa trattazione, strettamente di teoria della ricorsione, che mi limiterò solo ad enunciare) generalizza le condizioni di estensione del teorema a teorie più grandi di P. Infatti Gödel aveva dimostrato che il teorema poteva essere esteso ad un Pk, tale che a P fosse sta aggiunta una qualsiasi classe di assiomi primitiva ricorsiva e regole di procedura primitive ricorsive. Rosser dimostra che è sufficiente un insieme di assiomi ricorsivamente enumerabile e regole di procedura generali ricorsive.
Il secondo aspetto, ben più interessante è quello legato alla formalizzazione dell’ω-coerenza
grazie ad un apposito predicato di dimostrabilità. I nuovi predicati introdotti sono due, Pr e
Prov definiti nel modo seguente: siano x B y e Bew(x) come in Gödel, allora:
x Pr y sse x B y ∧ ¬∃z [z ≤ x ∧ z B Neg(y)]
Prov(y) sse ∃x (x Pr y)
Dopo aver deifinito questi due nuovi predicati Rosser dimostra che Bew(x) è equivalente a
Prov(x) anche se la formalizzazione di Prov(x) ha delle proprietà che Bew(x) non ha. Egli
elenca due utili caratteristiche per la dimostrazione di incompletezza (la prima posseduta anche da Bew(x), mentre la seconda no):
•
Prov(a) → Prov(b)
(con b il numero di Gödel di Prov(a); cioè che se a è dimostra-
bile lo è anche il la proposizione che esprime questo fatto: D2)
37
•
Prov(Neg(a)) → Prov(Neg(b))
(cioè se è dimostrabile ¬a, allora lo è anche la ne-
gazione della proposizione che afferma che a è dimostrabile: DG).
Con queste due Rosser ha quindi assolto al compito di eliminare ogni forma di correttezza
dalle assunzioni semantiche sul sistema di riferimento. Il predicato stesso di derivabilità assolve lo stesso compito a livello sintattico. Come si è notato prima, al livello della sintassi e con
il predicato Bew(x) non era possibile rendere la correttezza delle Σ₁-formule, quindi questa
osservazione serve anche a spiegare come un’estensione del teorema, all’ipotesi di semplice
coerenza, non potesse essere condotta all’interno del sistema di Gödel, ma necessitasse di diverse assunzioni semantiche e quindi di un diverso modello per la teoria. L’ultimo passo di
Rosser è quello di derivare un’altra proprietà utile per la dimostrazione: ¬Prov(a) → Prov
(Neg(b)). Essa può essere anche espressa in questo modo:
T ⊬ S → T ⊢ ¬Bew(‘S’)
cioè, nuovamente, la correttezza negativa.
A questo punto la parte più difficile del lavoro è fatto, basta applicare la stessa argomentazione di Gödel, ma ai predicati ora definiti, per ottenere una proposizione formalmente indecidibile.
Infatti basta pensare ad una proposizione che afferma di se stessa di non essere dimostrabile
(nel senso di Rosser) ed essa allora affermerà quanto segue:
¬∃x (x Pr y)
∀x ¬(x Pr y)
∀x (¬(x B y) ∨ ∃ z [z ≤ x ∧ z B Neg(y)]
∀x (x B y → ∃ z [z ≤ x ∧ z B Neg(y)]
cioè, traducendo dal formale all’informale: per ogni numero di Gödel di una dimostrazione,
se x è il numero di una dimostrazione per y, allora esiste una dimostrazione precedente (nel
senso che il suo numero viene prima, in un ordinamento che si suppone dato alle dimostrazioni; per esempio lessicografico) e questa dimostrazione è una dimostrazione di ¬x.
In ultima analisi quindi (chiamando R la proposizione indecidibile di Rosser) R sse R non
può essere dimostrata prima della sua negazione.
38
A questo punto è semplice dimostrare che R è indecidibile. Ragioniamo nel seguente modo.
Se fosse dimostrabile allora esisterebbe una dimostrazione Q di questo fatto; per la coerenza
del sistema non ci sarebbe però nessuna dimostrazione Q’ precedente che dimostra la negazione di R, ma allora R è dimostrabile prima della sua negazione, quindi ¬R: contraddizione
(contro la semplice coerenza). Analogamente se suppongo che ¬R sia dimostrabile, allora esiste una dimostrazione S di questo fatto; per la coerenza del sistema non posso trovare nessuna
dimostrazione S’ di R, allora R non è dimostrabile prima della sua negazione, quindi R: contraddizione (contro la semplice coerenza)!
In questo modo la dimostrazione del teorema è conclusa ed è stato mostrato che può essere
condotta, in maniera più lineare, anche con semplici assunzioni sintattiche. L’esistenza di proposizioni indecidibili, se pur con metodi molto simili a quelli di Gödel: l’aritmetizzazione delle formule, la definizione della classe delle funzioni ricorsive, in modo da aver un modo effettivo per parlare di certi enti matematici che individuano proprietà metamatematiche e l’esistenza di punti fissi per ogni proprietà esprimibile nel sistema; tuttavia ottiene una proposizione indecidibile intimamente diversa da quella dell’articolo del 1931.
Si può dire che essa non solo renda più forte il teorema, ma completi il lavoro, iniziato da
Gödel, di traduzione della semantica all’intero della sintassi. A questo punto il lavoro è completo e svela due aspetti speculari fondamentali del rapporto tra semantica e sintassi:
•
La semantica è in parte traducibile all’interno della sintassi e proprietà metamatematiche possono essere rese da proprietà sui numeri naturali e sono quindi trattabili
a livello di semplice teoria. Questo aspetto amplia le aspettative delle capacità
espressive della sintassi: il sistema non parla solo di relazioni logico-matematiche,
ma riesce anche in parte a parlare di sé.
Tuttavia non può parlare totalmente ed esaustivamente di sé. E questo è il secondo punto:
•
La sintassi riesce ad esprimere alcune proprietà semantiche con semplici dimostrazioni formali di fatti sintattici. Non solo non può parlare totalemente di sé, ma le limitazioni che riceve dalle sue parziali capacità sintattiche si riflettono sulla sua semantica. Una sufficiente potenza espressiva (col senno di poi, l’essere un’estensione
dell’Aritmetica di Robinson) rende il sistema incompleto.
3. L’incompletezza vista dal punto di vista delle formule
39
Si può ora formalizzare a livello di sistema e di tipo di formule l’intimo nesso che si è appena dimostrato esistere tra sintassi e semantica, linguaggio e metalinguaggio; osservando come
il fenomeno di incompletezza sia stato storicamente un’ utile occasione per approfondire un
tema così delicato e, chiarire e scoprire alcuni concetti fondamentali.
Diamo però prima un paio di definizioni. Dato un sistema T che possiamo identificare con
PA e una relazione decidibile ϕ sui numeri naturali si definiscono:
la classe delle ∆₀-formule come
•
la più piccola classe che contiene tutte le formule prive di quantificatori (chiuse per
tutti i connettivi logici); ed inoltre
•
se ϕ è una ∆₀-formula allora ∃x ≤ z (ϕ(x)) e ∀x ≤ z (ϕ(x)) sono ∆₀-formule (cioè la
classe delle ∆₀-formule è chiusa per la quantificazione limitata).
La classe delle Σ₁-formule come
•
la più piccola classe che contiene tutte le ∆₀-formule; ed inoltre
•
se ϕ è una ∆₀-formula allora ∃x ϕ è una Σ₁-formula (cioè chiusa per
quantifica-
zione esistenziale).
La classe delle Π₁-formule come
•
la più piccola classe che contiene tutte le ∆₀-formule; ed inoltre
•
se ϕ è una ∆₀-formula allora ∀x ϕ è una Π₁-formula (cioè chiusa per
quantifica-
zione universale)41.
A questo punto si può notare come la classe di Π₁-formule abbia molte relazioni con il teorema di Gödel. Infatti basta notare questi fatti: (i) x B y è una relazione ∆₀; (ii) Bew(x) = ∃x
(x B y), cioè è una Σ₁-formula, con B decidibile, ed esprime l’esistenza di una dimostrazione
per y; (iii) la formula che esprima l’inesistenza di una dimostrazione per y è ∀x ¬(x B y) è una
Π₁-formula; (iv) se c è il numero della formula 0 = 1 allora ∀x ¬(x B c) esprime la coerenza
di T ed è una Π₁-formula.
Dopo queste osservazioni è sufficiente notare che
I. T è completo per le Σ₁-formule
41
Per una trattazione più approfondita della classificazione delle formule secondo questa gerarchia di cui ho
accennato l’inizio di veda G.Lolli 1974.
40
II. T è coerente sse è corretto per le Π₁-formule.
Per la dimostrazione di I rimando per motivi di spazio a Boolos 199342; mentre invece un’idea per la dimostrazione del il fatto II è la seguente: se T è coerente e dimostra ∀x R(x), con R
decidibile, allora, per ogni n, T dimostra R(n). Allora R(n) deve essere vero, altrimenti potrei
dimostrare ¬R(n) per la completezza di T dimostrata in I. Per l’altro verso il discorso è simile,
se T dimostra ∀x R(x), e ∀x R(x) è vero, allora, per ogni n, T dimostra R(n). Dunque T non
dimostra ¬R(x) (per la verità di ∀x R(x)) cioè ∃x ¬R(x) = ¬∀x R(x) e dunque T è coerente.
Si può vedere II anche in questo modo, se un sistema è coerente allora tutte le Π₁-formule
sono vere; se abbiamo un modo per dimostrare la coerenza di un sistema formale possiamo
anche sapere se le formule del tipo ∀x R(x), con R decidibile, sono vere oppure no e vice versa. Queste formule altro non sono se non quelle “reali” che ci parlano di un’infinità esistente e
non ci dicono come le Σ₁-formule, che hanno carattere “ideale”, che esiste un certo oggetto
matematico senza esibircelo. Se si fa attenzione questo non è altro se non il programma di consistenza di Hilbert.
A questo punto è bene constatare che la proposizione indecidibile di Gödel, G(x) è della forma ∀x ¬(x B g), dove g è il numero di Gödel di G(x) che è proprio una Π₁-formula. Quindi il
primo teorema di incompletezza di Gödel afferma:
1. Se T è coerente allora G(x) non è dimostrabile in T
2. Se T è ω-coerente allora ¬G(x) non è dimostrabile in T.
Ora l’ipotesi in 1 è identica a quella in II e quindi alla correttezza in T delle Π₁-formule e
quindi, dal momento che grazie alle assunzione di 1, G(x) è vera, allora si può immediatamente dedurre il seguente
Corollario del primo teorema di incompletezza
Se T è corretto per le Π₁-formule allora T non è completo
42
Boolos 1993, pp. 25-26.
41
Per concludere quindi siamo riusciti a trovare una condizione sintattico-semantica che ci
permette di conoscere altri aspetti della semantica del nostro sistema: se tutte le formule che
sono fatte in una certa maniera sono vere allora il sistema in cui stiamo lavorando ha determinate caratteristiche semantiche.
42
Capitolo V
Dimostrazioni recenti
Una recente dimostrazione del primo teorema di incompletezza, ha interessanti differenze
rispetto a quella originale di Gödel. L’autore di questa nuova dimostrazione è George Boolos
ed essa risale al 198943.
Questa nuova dimostrazione è ispirata non più da una riflessione sul paradosso del mentitore, ma da quello che viene chiamato il paradosso di Berry; i paradossi si confermano così nuovamente fonti preziose di importanti teoremi o profonde riflessioni e ripensamenti sul mondo
della matematica. G.G. Berry era un bibliotecario della Oxford University che inventò il seguente paradosso (poi pubblicato nel 1908 da Bertand Russell44): definiamo un certo numero
in questo modo “il più piccolo intero non definibile in meno di trenta sillabe”; in questo modo
però lo abbiamo appena definito in meno di trenta sillabe.
Partendo dalla stessa idea e formalizzando il paradosso all’interno dell’aritmetica Boolos
riesce a dimostrare l’esistenza di una proposizione indecidibile: proprio la definizione del ‘numero di Berry’. L’aspetto interessante di questa dimostrazione è che per esplicita dichiarazione del suo autore non fa uso di nessuna forma di diagonalizzazione, pur servendosi utilmente
dell’aritmetizzazione. Questo particolare è utile in due sensi: da un lato ci mostra come il fenomeno dell’incompletezza sia così esteso e connaturato alla matematica che, anche servendosi di strumenti meno potenti di quelli di Gödel, si riesce a dimostrare l’esistenza di proposizioni formalmente indecidibili; dall’altra invece, questo fatto evidenzia nuovamente come l’aspetto fondamentale dell’articolo del 1931 fosse, più del fatto dimostrato (di enorme importanza), il come la dimostrazione fosse stata condotta.
Detto questo, possiamo passare alla dimostrazione vera e propria.
1. La dimostrazione di Boolos
43
44
Boolos 1989.
Russell 1908.
43
La dimostrazione inizia con due descrizioni: di cosa si intenda per una proposizione dell’aritmetica (semplicemente viene spigato da quali segni può essere composta) ed inoltre di cosa
si intenda per un algoritmo (una procedura computazionale che sia automatica, effettiva, meccanica). Per quest’ultimo si può intendere un programma scritto in un qualunque linguaggio di
programmazione, una macchina di Turing, un sistema formale come l’Aritmetica di Peano o
quella di Robinson.
L’obiettivo, dopo questi chiarimenti preliminari, sarà quello di mostrare come non esista
nessun algoritmo di cui l’insieme di output contenga tutte le proposizioni vere dell’aritmetica.
Se, preso un algoritmo qualunque, si riesce a mostrare che, indipendentemente da come questo algoritmo è fatto, esiste una proposizione che esso non dimostra, allora il teorema è dimostrato.
Il lavoro preliminare di Boolos è quello di costruire i concetti che servono al paradosso di
Berry all’interno dell’aritmetica, il resto è solo un esercizio di traduzione.
Sia M un algoritmo qualunque; l’obiettivo è quello di trovare una proposizione vera che non
sia un output di M. Sia allora, per ogni numero naturale n, [n] l’espressione costituita da 0 e
da n simboli s posti davanti (con s che sta per la funzione successore). Poi diciamo che una
formula F(x) nomina il numero n se la seguente proposizione è un output di M: ∀x (F(x) ↔ x
= [n]); quindi il fatto che F(x) nomini un certo numero è sempre relativo ad un certo M. Ogni
formula non può nominare due numeri diversi, infatti se sia ∀x (F(x) ↔ x = [n]), sia ∀x (F(x)
↔ x = [p]) sono vere allora ∀x (x = [p] ↔ x = [n]), quindi p = n. Inoltre per ogni numero naturale i ci sono solo un numero finito di numeri che possono essere nominati da formule composte da i simboli aritmetici. Infatti ci sono solo un numero finito di simboli (16, nella versione presentata da Boolos) e quindi ho 16 possibilità per il primo simbolo, dal moltiplicare per
16 possibilità diverse per il secondo, e così via fino a i; in totale 16i .
A questo punto si tratta di definire alcune proprietà (formule) che possiamo essere sicuri di
poter esprimere proprio grazie all’aiuto dell’aritmetizzazione.
•
C(x, z) afferma che x è un numero nominato da una formula contente z simboli
•
B(x, y) afferma che x è un numero nominato da una formula con meno di y variabili;
in simboli ∃z (z < y ∧ C(x, z))
•
A(x, y) afferma che x è il più piccolo numero che non è nominato da nessuna formula contenente meno di y simboli; in simboli ¬B(x, y) ∧ ∀a(a < x → B(a, y)).
Sia ora k il numero di simboli in A(x, y). Sicuramente k > 3.
44
Così si hanno a disposizione tutti i predicati necessari per costruire una frase paradossale,
nel senso del paradosso di Berry.
Si consideri la formula F(x) che equivale a ∃y (y = ([10] × [k] ∧ A(x, y))), cioè: x è il più
piccolo numero che non è nominato da nessuna formula che contenga meno di 10k simboli.
Ora non rimane che contare: 10 ha 11 simboli, k ne ha k + 1, A(x, y) ne ha k e poi ci sono
ancora 12 altri simboli, quindi in totale 2k + 24. A questo punto l’aspetto paradossale è evidente: dal momento che k > 3, allora 2k + 24 < 10k.
In realtà però, come per la dimostrazione di Gödel, ciò che si trova non è una contraddizione, ma proprio una proposizione indecidibile. Infatti, se chiamiamo n il più piccolo numero
che non viene nominato da una formula contenente meno di 10k simboli, allora n non sarà nominato da F(x) e la formula ∀x (F(x) ↔ x = [n]) non sarà un output di M; tuttavia non per
questo la formula ∀x (F(x) ↔ x = [n]) cesserà di essere vera. Proprio ciò che si voleva dimostrare: una proposizione vera, ma che non fosse un output dell’algoritmo generico M. Quindi
non esiste un algoritmo che abbia come output tutte le proposizioni vere dell’aritmetica, quindi l’insieme delle proposizioni vere dell’aritmetica non è ricorsivamente enumerabile, in particolare nessun sistema con un insieme ricorsivo di assiomi dimostra tutte le proposizioni vere,
e quindi l’aritmetica non è completa.
2. Per concludere
Un’altra recente versione della dimostrazione del teorema di Gödel, per certi versi con notevoli punti di contatto con quella di Boolos, è quella data da Gregory Chaitin, che tuttavia qui,
per motivi di spazio, viene soltanto nominata. Questa nuova dimostrazione minimizza ancora
di più, rispetto a quella appena proposta, il numero di strumenti tecnici utilizzati per raggiungere il risultato di incompletezza, non servendosi né di della diagonalizzazione né dell’aritmetizzazione. Quindi i commenti appena fatti nel paragrafo precedente valgono con ancora più
forza rispetto a questa nuova dimostrazione. Inoltre, un aspetto interessante dell’incompletezza nella versione di Chaitin è che la proposizione indecidibile è relativa non più ad un sistema
dell’aritmetica, ma alla teoria dell’informazione.
Quest’ultima considerazione quindi ci mostra come il teorema di incompletezza di Gödel
sia un risultato che ha modificato il mondo della matematica e non solo. Lungi dall’aver rappresentato uno scacco per lo sviluppo del pensiero dello secolo scorso, è stata un’importante
conquista della logica, che ci ha permesso di gettare un po’ più di luce sui limiti, ma anche le
possibilità, di uno strumento così importante come quello del ragionamento formale. Vorrei
45
concludere citando Chaitin, che evidenzia come gli anni ci abbiano ormai familiarizzato con
questo fondamentale teorema e ci abbiano mostrato come “il fenomeno dell’incompletezza
scoperto da Gödel sia naturale e diffuso piuttosto che raro e patologico”.45
.
45
Chaitin 1982.
46
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