La nozione di idealismo nella filosofia tedesca post

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La nozione di idealismo nella filosofia tedesca post-kantiana
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La nozione di idealismo
nella filosofia tedesca post-kantiana
L’idealismo e il problema della cosa in sé
È Kant a porre il problema della cosa in sé: la natura ci appare come un tutto ordinato –
e quindi come qualcosa di omogeneo alla ragione nonostante l’eterogeneità della materia rispetto al pensiero –, perché, nell’atto della conoscenza, la mente pone le sue leggi
sul fenomeno. Ma il fenomeno non è la realtà in se stessa: è solo quell’aspetto della realtà che può essere colto attraverso gli strumenti della sensibilità e ordinato secondo i
parametri dello spazio e del tempo. La Dialettica trascendentale ha mostrato che la vera
realtà rimane inconoscibile ed è oggetto di illusioni trascendentali, cioè di inganni della ragione a se stessa dovuti al fatto che essa ha applicato i suoi strumenti a priori al di fuori dei limiti
dell’esperienza.
Il criticismo kantiano non può ammettere che i fenomeni siano prodotti dal soggetto
pensante: è la tesi di Berkeley (esse est percipi), contro la quale Kant si esprime in termini molto netti. La conoscenza, infatti, in quanto sintesi di soggetto e oggetto, presuppone una reale eterogeneità tra essi. Se così non fosse, non si avrebbe affatto una sintesi, ma solo una identità tra soggetto e oggetto e non si potrebbe quindi distinguere la vera realtà esistente al di fuori dell’io dalla pura immagine. D’altra parte lo stesso criticismo non può ammettere che si dia alcuna conoscenza della cosa in sé, la quale rimane
del tutto al di fuori del rapporto soggetto/oggetto, proprio perché ne è il fondamento.
Tuttavia, come è possibile farne discorso, affermarne l’esistenza, senza che essa rientri
nel campo della conoscenza? Come possiamo porre l’inconoscibile come condizione
della conoscenza? Si tratta di qualcosa che, proprio perché ne viene affermata la necessità, in qualche modo sembrerebbe rientrare nel campo del conoscibile. Ma questo è
contrario alla definizione stessa di cosa in sé.
Negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della Critica della ragion pura il problema della cosa in sé viene sollevato da diversi autori, come F. Jacobi, K.
Reinhold, G. Schulze e S. Maimon.
Fichte, che avvia la nuova corrente di pensiero dell’idealismo, è profondamente influenzato da questo dibattito, ma la sua soluzione al problema segue una via che si dimostra del tutto originale. Nonostante la volontà di restare fedele al criticismo e
l’intenzione più volte espressa di voler solo continuare l’opera di Kant, di fatto con Fiche l’idealismo finisce col muoversi su un terreno autonomo. Nega, infatti, che il criticismo possa rimanere coerente a se stesso attraverso il ricorso a un elemento estraneo alla
conoscenza per spiegarne la fondazione. La ragione, per comprendere se stessa, i propri
limiti e le proprie capacità, dovrebbe abdicare proprio alla comprensione dell’elemento
più importante: il fondamento della ragione e della sua validità andrebbe posto in un elemento che, per essere fuori dei limiti della ragione, deve essere considerato del tutto
irrazionale, anzi dogmatico.
Il termine dogma è tratto dalla tradizione religiosa e indica quel complesso di verità
della fede che il credente accetta per rivelazione, ma che la ragione non può comprendere con i suoi propri strumenti. Prendendo a prestito questo termine dal linguaggio teologico – la teologia del resto costituisce il fondamento comune nella formazione degli idealisti e degli intellettuali tedeschi dell’epoca –, l’idealismo nascente oppone la concezione critica a quella dogmatica della conoscenza.
È dogmatica quella visione della conoscenza che ammette un fondamento del soggetto e dell’oggetto estraneo alla loro necessaria relazione: esiste una cosa in sé, un in-
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conoscibile regno dell’essere che va accettato acriticamente e dunque dogmaticamente,
perché la ragione non ha strumenti critici per conoscerlo; del soggetto e dell’oggetto sono conoscibili solo quei frammenti che possono accedere all’interno del regno della conoscenza.
È invece critica quella visione della conoscenza che ricerca all’interno della relazione soggetto-oggetto i fondamenti della conoscenza, che ricerca cioè nella struttura della
coscienza la ragione della propria necessaria articolazione interna. Per comprendere
questo essenziale punto, si rifletta sulla convinzione – non del tutto abbandonata da
Kant, secondo gli idealisti – che esista un mondo oggettivo preesistente a ogni forma di
coscienza e che da questo mondo nasca, per ragioni ignote, la coscienza soggettiva per
la quale il mondo si presenta come un oggetto da conoscere. Si consideri che questa descrizione dell’andamento delle cose presuppone un punto di vista del tutto astratto:
quello di un osservatore estraneo a tutto il processo, capace di conoscere la realtà oggettiva e quella soggettiva, e di descrivere il passaggio dall’una all’altra. È il punto di vista
di un ipotetico Dio, astratto perché di una simile entità non possiamo fare esperienza.
Ma la coscienza reale dell’uomo è invece del tutto concreta e ha caratteri completamente differenti.
L’idealismo e la nozione di “assoluto”
Una filosofia si qualifica come sistematica quando interpreta la totalità del reale attraverso un unico principio; secondo questa definizione, l’idealismo è una filosofia sistematica.
I sistemi del passato hanno posto a fondamento del mondo una realtà oggettiva, un
essere (Dio, le monadi, la Sostanza spinoziana), che, in quanto principio, non è a sua
volta fondato, ma è esso stesso l’origine. L’idealismo ritiene dogmatica questa metafisica, perché non rende ragione del principio su cui tutto è fondato, ma ne postula solo
l’esistenza. L’idealismo cerca invece un principio sistematico dal quale derivare necessariamente tutta la realtà (cioè la relazione reale soggetto-oggetto nella sua unità e nella
differenza tra i suoi elementi), principio che possa essere pienamente compreso dalla ragione nella sua esistenza.
L’idealismo pone il problema che stiamo esaminando in due sensi che, per analogia
con l’antico neoplatonismo, possiamo chiamare ascendente e discendente.
Il punto di partenza dell’idealismo deve essere la coscienza empirica, cioè la coscienza reale che ciascun uomo ha del mondo attraverso l’esperienza e l’elaborazione
dell’esperienza. È questa coscienza che va spiegata nei suoi fondamenti. Il filosofo deve
procedere alla definizione delle condizioni necessarie perché la coscienza si dia nella
forma a noi nota. Poiché gli elementi che compongono la coscienza sono eterogenei (il
soggetto e l’oggetto), ma la sintesi a priori li struttura unitariamente, deve essere spiegato tanto il momento della differenza reale quanto quello dell’unità. Da cosa deriva la
differenza tra soggetto e oggetto? Quali condizioni sono logicamente necessarie perché
il mondo si dia a noi in questa forma? Da cosa deriva la possibilità che elementi eterogenei si fondano nella sintesi a priori della conoscenza? Da dove deriva questa unità?
Deve essere trovato un principio che non rimandi a altro che a se stesso e nella cui natura sia implicita la necessità della elaborazione del mondo della coscienza empirica:
chiameremo un simile principio assoluto (dal latino ab-solutus, “compiuto, incondizionato, sciolto da legami”), perché in se stesso indipendente e libero da condizioni.
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Cassirer: il significato della rivoluzione copernicana
Ernst Cassirer è uno dei più importanti filosofi tedeschi della prima metà del Novecento. Si è occupato di storia della filosofia e ha svolto un ampio studio sulla storia del
problema della conoscenza analizzando poi da quest’ottica tutti gli altri problemi della
filosofia.
Nel brano che riportiamo1 Cassirer legge dal punto di vista della teoria della conoscenza una delle nozioni chiave da cui si sviluppa l’idealismo classico tedesco: la kantiana “rivoluzione copernicana”.
«La “rivoluzione copernicana”, con la quale ha inizio la critica della ragione, non
viene rettamente intesa e apprezzata se la si considera soltanto come una semplice inversione del rapporto di dipendenza che prima veniva ammesso fra soggetto e oggetto,
fra la conoscenza e il suo oggetto. In tale inversione i termini del rapporto che si considera rimarrebbero semplicemente nel loro stato primitivo, mentre il senso della problematica “trascendentale” consiste proprio nel fatto che il mutato ordine fra quelli determina e implica al tempo stesso un cambiamento del loro significato. Il concetto di
oggetto viene sostituito dal problema relativo a quella forma di conoscenza che permetta di raggiungere e di fondare l’obiettività. Solo in determinati presupposti del conoscere e in virtù di essi, cioè in virtù delle forme dello spazio e del tempo, della grandezza e
del numero, della permanenza e della successione causale, si lascia definire ciò che
chiamiamo oggetto. L’obbiettività intesa come obbiettività empirica del “fenomeno”, significa la possibilità di esser rappresentato entro quei principi fondamentali di ordine i
quali, come la critica dovrà mostrare in seguito, non stanno l’uno accanto all’altro come delle unità slegate, ma vanno intesi come un sistema unitario.
[…]
A tali considerazioni conduce anzitutto la distinzione tra forma e materia del conoscere. In essa infatti si toccano ancora le nozioni estreme di natura e di compito del sapere, per poi tosto dividersi nel modo più reciso e più chiaro. Nel campo di questa coppia di concetti rientrano due concezioni universali del tutto diverse: accanto alla definizione critica dei concetti vi e un’altra concezione che risale fino agli inizi mitici della
filosofia. In che modo 1’indeterminato pervenga alla determinazione, l’informe alla
forma, e come pertanto il Caos originario si trasformi a poco a poco in Cosmo, e una
questione che rappresenta realmente il punto iniziale di ogni considerazione speculativa del mondo. Trasferendosi dall’essere al sapere, il problema si configura in una maniera nuova. In questo caso, infatti, non si tratta più del modo con cui si origina
1’esperienza come totalità unitaria e ordinata di contenuti, ma semplicemente di ciò
che “in essa si trova”. Così vengono isolati come elementi “formali” i rapporti fondamentali e costanti su cui poggia la possibilità dell’esperienza in generale, mentre le determinazioni particolari e relativamente mutevoli vengono riportate alla materia; tale
distinzione metodica non deve pero mai significare separazione reale di un momento
dall’altro. Infatti “ciò” che rappresenta il contenuto d’esperienza non è mai senza il
“come”; il suo particolare modo di essere non e mai dato senza che si trovi, in qualche
modo, in relazione con altri elementi della stessa specie. Sciogliere questa correlazione
spezzandola in due fattori reali, indipendenti, esistenti per sé, 1’uno di fronte all’altro,
vorrebbe dire distruggere la sola specie di determinatezza da cui risulta un sapere empirico. A rigor di termini pervio, la pura forma, astratta da ogni elemento materiale,
non “esiste” più di quanto non esista la materia anteriormente a ogni determinazione,
come qualcosa di proprio e di indipendente. La conclusione della critica non conduce
ad altro che a esaminare come la conoscenza, in quanto forma un tutto, sia costituita di
momenti necessari, condizionatisi vicendevolmente.
[…]
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Il solo dato su cui poggiano l’intendere e il sapere è appunto il rapporto necessario
fra ciò che la critica chiama “materia” e ciò che chiama “forma” della conoscenza, non
già invece ciò che ciascuno di essi potrebbe essere anteriormente a questo rapporto e
fuori di esso.
[…]
I1 primo apparire del problema nella Critica della ragion pura non fa ancora risultare chiaramente che le cose stiano in questi termini; giacché l’opposizione di materia e
di forma vi appare non tanto come un necessario punto di vista del sapere, ma piuttosto
come un assoluto e fatale contrasto presente nello stesso mondo oggettivo. Sembra pertanto che l’antico problema cosmologico venga qui semplicemente trasferito nel campo
trascendentale psicologico.»
1
Il brano è tratto da E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, III, trad. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1978, pp.
20-24.
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