Umberto Galeazzi
IL CORAGGIO
DELLA RAGIONE
Tommaso d’Aquino
e l’odierno dibattito filosofico
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Sommario
Introduzione Cap. I
Aporie della ragione kantiana separata dalla realtà.
Il realismo tommasiano e l’unità della persona
1.Legge morale e passioni
2.Gli esempi e l’incidenza della legge morale nella vita reale
3.Riduzione soggettivistica del bene e felicità
Cap. II
La critica di Adorno all’etica kantiana e il riferimento
all’ordo tomistico
1.L’importanza dell’ordo tomistico e la critica a Kant
2.Negazione di Dio, negazione del sapere e disumanizzazione
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29
29
33
Cap. iii
Logos, rispetto del pluralismo e relativismo
39
1.Sulle condizioni normative del logos
2.Relativismo e rispetto del pluralismo
3.Verità e dignità della persona
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Cap. iv
55
Ragione, problematicità e fede. i praeambula fidei di Tommaso
d’Aquino e il dibattito contemporaneo
1.Fede, praeambula fidei e filosofia della religione
2.Ragione umana e problematicità: critica del razionalismo
e del fideismo
3.La critica neopositivista al discorso teologico e la crisi
del principio di verificazione
4.Il fideismo di K. Barth e la convergenza con i neopositivisti
5.I nomi di Dio e il costitutivo trascendere della ragione umana,
secondo l’Aquinate Cap. v
Discutibile necessità dell’amicizia. Antropologia organicista
e antropologia personalista
55
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87
1.L’amicizia come dovere morale e come elemento indispensabile
per perfezionare l’identità personale 88
2.Necessità dell’amicizia e organicismo hegeliano
95
3.Il personalismo a confronto con l’organicismo
di Hegel e di Marx
100
4.Corpo sociale e organicismo
101
5.Una controversia antropologica decisiva
107
6.Organicismo e potere totalitario
112
7.Sul senso dell’amore e dell’amicizia
115
8.Organicismo ed esaltazione della guerra
117
Cap. vi
Amicizia, fine ultimo e riconoscimento
1.Il vero fine ultimo dell’uomo e l’amicizia.
L’angoscia di Aristotele
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2.Reciprocità o gratuità? Come vincere l’inimicizia?
3.Amicizia come riconoscimento
Cap. vii
Augusto del Noce: il problema dell’ateismo,
la filosofia moderna e la riscoperta della verità del tomismo
1.Le due irriducibili direzioni di pensiero della filosofia
moderna. Critica dell’interpretazione ordinaria
2.L’inizio cartesiano del pensiero moderno
e l’ambiguità religiosa di Cartesio
3.Ateismo postulatorio e marxismo
4.Ateismo organicista, fraintendimento della trascendenza
e sacrificio dell’individuo
5.Presupposto dell’organicismo hegeliano e mito
di Anassimandro. Il disprezzo per l’individualità finita
6. Ateismo positivo e disumanizzazione:
le dure smentite della storia. L’homo faber,
l’uomo collettivo e la risoluzione dell’etica nella politica
Cap. viii
Bioetica e dolore.
Liberazione dal primato dell’emotivismo
1.La natura delle passioni e la possibilità di governarle
razionalmente da parte dell’uomo
2.Passio corporalis e passio animalis. Dolore e tristezza
3.La lacerazione del dolore come tristezza
e la via per guarirla
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Cap. ix
Ada Lamacchia ed Edith Stein.
Tommaso come peculiare punto di riferimento
1.Un singolare percorso esistenziale e filosofico.
La lezione di Husserl
2.La conversione di Edith e l’incontro con il pensiero
di Tommaso d’Aquino Cap. x
Cornelio Fabro e la questione morale.
Il contributo del genio speculativo dell’Aquinate
1.Fondazione dell’etica e fine ultimo
2.La legge naturale fondata sulla legge eterna
3.Sulla possibilità di una morale atea
4.Vita etica, riconoscimento teistico e vita di fede.
Per un superamento della posizione di Kierkegaard
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Introduzione
Il coraggio della ragione consiste, in primo luogo, nel prendere atto
della realtà, imparando da essa, anche sulla condizione umana. Ciò implica andare controcorrente rispetto a pretese boriose dell’impossibile,
o a esiti disperati, derivanti dall’adesione agli idoli del nostro tempo.
Il dispiegarsi della naturale vocazione veritativa della dimensione intellettivo-razionale dell’uomo si presenta come un compito arduo (che
perciò richiede coraggio), specie oggi, in cui, secondo la lungimirante
previsione e diagnosi critica vichiana, “gli stolti dotti” (non tutti i dotti,
ma solo gli “stolti dotti”, con un ossimoro profondo e illuminante su
tutto un itinerario regressivo) si sono dedicati “a calonniare la verità”,
andando incontro alla “barbarie della riflessione”1.
In un confronto critico con filosofi moderni e contemporanei questo
libro mira a far vedere – senza alcuna pretesa di esaustività – come
Tommaso d’Aquino sia un interlocutore importante anche per affrontare questioni scottanti di oggi: dal problema etico alle radici della
disumanizzazione; dalla peculiarità dell’impegno filosofico alla ricerca dell’assoluto nel rapporto tra ragione, problematicità e fede; dal
problema dell’ateismo a quello dell’umana sofferenza; dal problema
dell’amicizia – che, dando vita a una controversia di rilievo primario
sulla condizione umana, può essere intesa in un modo, se ci si basa su
un’antropologia personalista, e in un altro modo, assai diverso, se si presuppone un’antropologia organicista – a quello decisivo del fine ultimo,
cioè della piena realizzazione della persona (felicità). Nell’indagine su
tali questioni emerge il contributo del genio speculativo dell’Aquinate.
1
G.B. Vico, Principi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni
(1744), in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990, I° tomo, Conchiusione dell’opera, 1102, 1106.
9
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Per rendersi conto del valore di questo contributo si tratta di ripercorrere l’itinerario argomentativo dei singoli capitoli (a cui non posso che
rinviare) e vedere se le ricerche, che scaturiscono dai problemi affrontati, conseguono risultati soddisfacenti.
Nei capitoli che seguono sono presentate delle indagini – qui rivedute, modificate e, a volte, incrementate – condotte in occasioni diverse, ma in una prospettiva unitaria, costituita dal riferimento al pensiero
tommasiano:
il Cap. I scaturisce da una relazione dal titolo Sulla ragione kantiana
separata dal reale, tenuta all’XI Congresso internazionale (Società Italiana di Studi Kantiani / Kant-Gesellschaft), svoltosi a Pisa dal 22 al 26
maggio 2010, i cui Atti sono in corso di stampa;
il Cap. II è stato pubblicato, con il titolo Sulla critica di Adorno
all’etica kantiana: il riferimento all’“ordo” tomistico, in «Rivista di
filosofia neo-scolastica», Supplemento al n. 4, Ricordo di Sofia Vanni
Rovighi nel centenario della nascita, Ottobre-Dicembre 2008 (anno C),
pp. 277-284;
il Cap. III è stato pubblicato, con lo stesso titolo, in «Aquinas. Rivista internazionale di filosofia», 1-2, 2008 (LI), pp. 15-28;
il Cap. IV è stato pubblicato, con il titolo La razionalità dei tommasiani praeambula fidei e il fideismo di K. Barth,convergente con i neopositivisti, in «Doctor Communis. Review of the Pontifical Academy of
St. Thomas Aquinas», 1-2, 2008, pp. 176-200;
il Cap. V è stato pubblicato, con lo stesso titolo, in «Aquinas. Rivista
internazionale di filosofia», 1, 2010 (LIII), pp. 7-38;
il Cap. VI è in corso di pubblicazione su «Aquinas. Rivista internazionale di filosofia»;
il Cap. VII è stato pubblicato, con il titolo La storia della filosofia
moderna e il problema dell’ateismo nel pensiero di Augusto Del Noce,
in «Aquinas. Rivista internazionale di filosofia», 2-3, 2010 (LIII), pp.
543-572;
il Cap. VIII è uscito, con il titolo Il problema del dolore alla luce
dell’antropologia di Tommaso d’Aquino, in «Acta philosophica. Rivista
internazionale di filosofia», II, 19, 2010, pp. 321-338;
il Cap. IX scaturisce da una relazione intitolata Ada Lamacchia, da
Tommaso a Edith Stein e tenuta alla Giornata di studio in ricordo di
Ada Lamacchia sul tema: Ada Lamacchia e i suoi Autori (11 dicembre
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2009). Questa Giornata, i cui Atti sono in corso di stampa, è stata promossa e organizzata dal Dipartimento di Scienze Filosofiche dell’Università degli Studi di Bari;
il Cap. X è la relazione tenuta al Convegno Cornelio Fabro e la sua
opera: temi di un pensiero vivo. a cento anni dalla nascita del Filosofo
friulano: 1911-2011 (Udine 30-31 maggio 2011), e compare anche negli Atti di detto Convegno: Gabriele De Anna (a cura di), Verità e libertà. Saggi sul pensiero di Cornelio Fabro, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 2012.
Per concludere, sono lieto di adempiere il gradito obbligo di ringraziare mia moglie Doriana per il sostegno, l’incoraggiamento e la preghiera.
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Capitolo I
Aporie della ragione kantiana separata dalla realtà.
Il realismo tommasiano e l’unità della persona
La ragione kantiana, separata dal reale e in conflitto con la dimensione corporeo-sensibile dell’uomo, con la pretesa di una radicale autonomia
nell’ambito morale, va incontro a diverse situazioni aporetiche. Qui ne
considero alcune, riguardanti l’etica e l’antropologia. Ma in tal modo viene
messa radicalmente in questione tutta una posizione filosofica, frutto di un
pensiero chiuso nella prigionia della propria immanenza soggettiva e che,
tuttavia, mira ad imporre le sue leggi, sia in campo teoretico che pratico.
1. Legge morale e passioni
In primo luogo vediamo come il formalismo etico di Kant si pone in
rapporto con una dimensione ineludibile della condizione umana qual è
quella corporeo-sensibile e passionale. Nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) leggiamo:
...conservare la propria vita è un dovere, e in più ognuno ha anche
un’immediata inclinazione a farlo. Ma proprio perciò la preoccupazione, spesso angosciosa, che la massima parte degli uomini ha per
essa non ha alcun valore intrinseco, e la sua massima non ha alcun
contenuto morale. Essi conservano la loro vita in modo certamente
conforme al dovere, ma non per dovere. Per contro, quando contrarietà e afflizione senza speranza hanno tolto ogni gusto alla vita,
quando l’infelice, forte nell’anima, più indignato che scoraggiato o
abbattuto per il suo destino, desidera la morte e tuttavia conserva la
vita pur senza amarla, non per inclinazione o paura, ma per dovere,
allora la sua massima ha un contenuto morale2.
2
I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, AA 04: 397-398.38-42, 01-08, trad.
it. a cura di F. Gonnelli; Id., Fondazione della metafisica dei costumi, con testo tedesco
a fronte, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 25. D’ora in poi quest’opera sarà indicata con la
sigla GMS e la pagina di questa traduzione italiana sarà indicata in parentesi dopo la
pagina e il rigo dell’edizione tedesca.
13
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Ciò vuol dire che la moralità, nella prospettiva kantiana, si realizza
solo in quanto si oppone alle inclinazioni della sensibilità e, quindi, alle
passioni, come è stato rilevato con tagliente ironia da Schiller3 e come
risulta confermato dal passo seguente:
Poniamo dunque che l’animo di questo filantropo fosse rabbuiato da
un suo dolore che spegnesse ogni partecipazione al destino altrui, e
che egli avesse sempre la facoltà di beneficare altri bisognosi, ma
che la pena altrui non lo commuovesse perché è occupato abbastanza
con la propria, e ora che nessuna inclinazione lo spinge più a farlo, si
strappasse da questa mortale insensibilità e compisse l’azione senza
alcuna inclinazione, solo per dovere: allora essa avrebbe davvero il
proprio autentico valore morale4.
Evidentemente questa opposizione, tra legge morale, derivante dalla
ragione, e inclinazioni della sensibilità, non è un aspetto secondario della
posizione di Kant, ma, al contrario, è strettamente legata alla sua prospettiva antropologica ed etica, caratterizzata da una svalutazione radicale della
dimensione sensibile ed emotivo-passionale dell’uomo rispetto a quella
razionale. Nella Critica della ragion pratica (1788), infatti, è essenziale
che la volontà buona, la quale, cioè, si lascia guidare dalla legge morale,
venga determinata solo mediante la legge come volontà libera, e
quindi non soltanto senza il concorso degli impulsi sensibili, ma an3 L’epigramma di Schiller, che ha suscitato numerose controversie, è il seguente: «Scru-
polo di coscienza: volentieri mi presto per gli amici, ma purtroppo lo faccio con passione e così spesso mi tormento per non essere virtuoso. Soluzione: non c’è altra via
d’uscita, devi cercare di odiarli e fare poi con ribrezzo ciò che il dovere ti comanda»
(F. Schiller, Xenien, 388-389, Sämtliche Werke, a cura di G. Fricke e G. Göpfert, III
ed., vol. I, München 1962-65, p. 299 e ss.). Si potrebbero citare passi kantiani per
corroborare e altri per confutare le critiche schilleriane. In questa sede posso solo dire
che condivido la valutazione del Lambertino, il quale, a conclusione di un’accurata
e acuta disamina dei testi, ritiene che la teoria formalistica di Kant, implicando una
condanna delle inclinazioni, «non dovrebbe discernere un uso lecito e un altro illecito
delle inclinazioni, molto meno poi assegnare una bontà oggettiva alle inclinazioni» (A.
Lambertino, Il rigorismo etico in Kant, Maccari, Parma 1970, p. 306; di questo libro c’è
una nuova edizione presso La Nuova Italia, Firenze 1999).
4
GMS , AA 04: 398.22-30 (pp. 25-27).
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che con l’esclusione di tutti questi impulsi, e con danno di tutte le
inclinazioni, in quanto possano esser contrarie a quella legge […]
Quindi […] la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un
sentimento che può esser chiamato dolore…5.
La legge morale, così come la intende il filosofo di Königsberg, nella
sua purezza scaturente dalla ragione, in quanto è (o diviene) il movente
dell’agire, non solo fa tacere l’umana dimensione emotivo-sensibile,
con le sue inclinazioni, ma deve addirittura umiliarla, eliminarla, abbatterla completamente:
la ragion pura pratica abbatte completamente la presunzione, in quanto tutte le pretese della stima di sé, le quali precedono l’accordo con la
legge morale, sono vane e senza alcun diritto […] la tendenza alla stima di sé appartiene alle inclinazioni a cui la legge morale reca danno,
in quanto quella stima si fonda soltanto sulla sensibilità […]Dunque
la legge morale umilia inevitabilmente ogni uomo, quando esso paragoni con tale legge la tendenza sensibile della sua natura6.
In seguito Kant distingue con più precisione tra moti dell’animo, appartenenti al sentimento, o emozioni, e passioni, ma la posizione antropologica di fondo non cambia. Nella Metafisica dei costumi (1797) i
moti d’animo, intesi come appartenenti al sentimento, sono considerati
improvvisi e impetuosi, tali che, precedendo la riflessione, la rendono
molto difficile o addirittura impossibile. È chiaro che questi moti devono essere dominati,
ma la debolezza nell’uso del proprio intelletto congiunta alla forza
dell’agitazione dell’animo costituisce una mancanza di virtù, cioè
qualcosa di fanciullesco e di fiacco, che può benissimo coesistere
5 I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, AA 05: 128-129.17-29, 01-07; trad. it. a
cura di F. Capra rivista da E. Garin (1955); Id., Critica della ragion pratica, Laterza,
Roma-Bari 1986, p. 90. D’ora in poi quest’opera sarà indicata con la sigla KpV e la
pagina di questa traduzione italiana sarà indicata in parentesi dopo la pagina e il rigo
dell’edizione tedesca.
6
KpV, AA 05: 129-132.24-25, 01-02, 01-03 (pp. 91-92).
15
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con la migliore volontà e offre soltanto questo di buono, che una tale
tempesta si calma assai presto7.
Ora, l’inclinazione a un moto d’animo non è congiunta così strettamente con il vizio come la passione. Invece,
la passione è una brama sensibile divenuta un’inclinazione costante
(per es., l’odio, in opposizione alla collera). La calma con cui ci
abbandoniamo alla passione, lascia tempo alla riflessione e permette
all’animo di formarsi dei principi intorno a questo soggetto, e così,
quando l’inclinazione spinge a qualche cosa di contrario alla legge,
di meditarvi sopra, di lasciarla radicare profondamente e di accogliere perciò il male nelle proprie massime con proposito deliberato:
diventando il male allora un male qualificato, un vero vizio8.
In tal modo la passione viene assimilata al vizio e addirittura con esso
identificata. La medesima linea di pensiero si ritrova nell’Antropologia
dal punto di vista pragmatico (1798), dove Kant conferma che intende la
passione come implicante la deliberazione razionale: «La passione presuppone sempre nel soggetto una massima dell’agire in vista dello scopo
prescritto dall’inclinazione. Essa è quindi sempre legata con la ragione
del fine [… ]»9. Da ciò, dunque, una netta condanna, che, però, riguarda,
pur con qualche distinzione, anche le emozioni: «L’emozione agisce come un fiotto che rompe la diga; la passione come una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto. L’emozione agisce sulla salute come
un’apoplessia, la passione come la tisi o la consunzione»10. È vero che
è sottolineata la maggiore gravità delle passioni, giudicate come «cancri
7 I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, AA 06: 408.01-05; trad. it. a cura di G. Vidari, rivista
da N. Merker (1970); Id., La metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 261.
D’ora in poi quest’opera sarà indicata con la sigla MS e la pagina di questa traduzione
italiana sarà indicata in parentesi dopo la pagina e il rigo dell’edizione tedesca.
8
Ibidem.
9
I. Kant Antropologie in pragmatischer Hinsicht, AA 07: 266.13-16, trad. it. a cura di G.
Vidari, rivista da A. Guerra (1969), Laterza, Roma-Bari 1993; Id., Antropologia pragmatica, p. 157. D’ora in poi quest’opera sarà indicata con la sigla Anth e la pagina di questa
traduzione italiana sarà indicata in parentesi dopo la pagina e il rigo dell’edizione tedesca.
10
Anth, AA 07: 252.22-26 (p. 142).
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per la ragion pura pratica e generalmente inguaribili: l’ammalato non vuol
essere curato, e si sottrae al principio, in forza del quale soltanto la cura
potrebbe avvenire»11. Tuttavia, tutta la dimensione emotivo-sensibile è
considerata patologica ed è valutata negativamente dal punto di vista morale: «Esser soggetti a emozioni e a passioni è ben sempre una malattia
dell’animo, perché ambedue escludono il dominio della ragione »12.
Da quanto abbiamo visto emerge che Kant fa subire al termine passione uno slittamento semantico, per cui la identifica con vizio. Ora,
questo slittamento è funzionale all’argomentazione scorretta in base alla quale arriva alla posizione repressiva di tutta la dimensione emotivosensibile. Cerchiamo di vedere perché.
È chiaro che, in quanto Kant intende la passione come implicante
la decisione, contraria all’ordine etico, da parte della ragione e della
volontà, fino al punto da arrivare a identificarla con il vizio, per agire
moralmente bisogna prendere la decisione opposta a quella passionale,
bisogna rifiutare il principio immorale adottato dal vizioso, scegliendo
quello morale, bisogna contrastare, negare, eliminare la deviazione immorale della ragione e della volontà. Ma è da tener presente che quella
deviazione è negativa e da rifiutare, in quanto è razionale e volontaria.
Un atto è immorale solo in quanto è volontario. E in effetti Kant condanna così duramente la passione, proprio perché la considera strettamente
legata alla deliberazione razionale e volontaria, e addirittura scaturente
da essa, ma allora ciò non può giustificare la condanna indiscriminata di
tutta la dimensione emotivo-sensibile della persona. Le argomentazioni
che possono valere contro la deliberazione immorale o viziosa, proprio in quanto immorale o viziosa, non toccano, non riguardano tutto
quel mondo emotivo e passionale (nel senso tradizionale), che precede ogni deliberazione o che consegue a una deliberazione secondo la
legge morale e da essa è governato. Infatti, se si rifiuta e si rovescia il
principio immorale, adottato dal vizioso con una deliberazione razionale e volontaria, la dimensione emotivo-sensibile può essere governata
(non repressa o eliminata) dalla ragione e indirizzata al bene, alla realizzazione della persona secondo l’ordine etico. Anche Kant riconosce
implicitamente questa possibilità, quando sostiene che i moti dell’ani11
Anth, AA 07: 266.21-24 (p. 157).
12
Anth, AA 07: 251. 20-22 (p. 141).
17
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mo devono essere dominati dalla ragione con la virtù13. Tuttavia insiste
nella dura condanna non solo di quelle che chiama passioni, ma anche
delle emozioni.
Ma in tal modo tutta una dimensione certamente non trascurabile
della condizione umana, quella corporeo-sensibile, quella dei sentimenti e delle passioni, nella posizione kantiana è considerata estranea alla
vita morale, riservata esclusivamente alla ragione; addirittura una parte
ineludibile dell’umanità dell’uomo è considerata ostile, se non da eliminare, per la piena realizzazione dell’uomo stesso. Ma come può la persona umana realizzare se stessa – anche Kant non può non riconoscere
come meta della ragion pratica il sommo bene, come unione di virtù e
felicità – negando una parte di sé?
Certamente Kant è preoccupato di enucleare e salvaguardare il movente razionale dell’agire morale nella sua purezza, che per lui significa
indipendenza da qualsiasi impulso sensibile, da qualsiasi moto passionale, da qualsiasi inclinazione del sentimento. Ma questa indipendenza
rischia di diventare separazione della ragione, con la sua moralità, rispetto a tutto questo mondo umano (la dimensione corporeo-sensibile e
passionale) e quindi ininfluenza, incapacità di incidere rispetto ad esso.
È significativo in proposito questo passo conclusivo della Critica della
ragion pratica: «[...] la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile[...]»14. In tal modo
l’esistenza umana è considerata scissa in due vite indipendenti, di cui
una, abbandonata alla mera animalità, rimane irredimibile e impenetrabile, non illuminata – nonostante gli intenti illuministici di Kant – dalla
ragione e dall’ordine etico.
La visione antropologica tommasiana è ben diversa da quella del razionalismo o di uno spiritualismo disincarnato, che misconoscono l’essenziale appartenenza del corpo all’umanità dell’uomo. Per l’Aquinate, aperto a “riconoscere i valori della natura creata”15, l’uomo è unità sostanziale
di anima e di corpo: «Il corpo, infatti, e l’anima non sono due sostanze
esistenti in atto, ma da essi risulta una sola sostanza esistente in atto…»
13
MS, AA 06: 407-408.32-01 (p. 261).
14
KpV, AA 05: 289. 19-21 (pp.197-198).
15
S. Vanni Rovighi, L’antropologia filosofica di S. Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero,
Milano 1965, p. 80.
18
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(CG, II, c. 69)16. L’uomo non è solo anima né solo corpo: Tommaso ritiene importante evidenziarne la profonda unità come essere spirituale e
sensibile17. Ciò implica che la sua realtà spirituale non è rinchiusa in una
dualistica separatezza, ma “è impegnata in ogni atto dell’uomo”18.
L’Aquinate riconosce e sottolinea che il «bene umano consiste nella
ragione come nella sua radice» (S. th., I-II, q. 24, a. 3), ma, proprio per
questo, ritiene che una radice, che non vivifica tutto l’albero in modo da
fargli portare i frutti, rimane sterile, tradendo il compito di promuovere
il bene di tutto l’organismo. Proprio il mettere nel dovuto rilievo che
nella scelta morale è necessario e decisivo il giudizio della ragione (cfr.
QDV, q. 26, a. 7, ad 3) conduce a ritenere che quest’ultimo non può
rimanere isolato e confinato nel limbo della pura intenzione, ma deve
arrivare a governare anche l’appetito sensitivo e le passioni, non semplicemente reprimendoli, quasi nel tentativo – destinato allo scacco – di
cancellarli dall’humanitas, ma orientandoli e ordinandoli, in modo che
possano concorrere alla perfezione dell’agire morale e, quindi, al bene
dell’uomo. Dal momento che si radica nella ragione,
codesto bene – dice Tommaso – sarà tanto più perfetto, quanto più
può essere esteso al maggior numero di realtà o dimensioni che appartengono all’identità umana. Perciò nessuno dubita che appartenga
alla perfezione del bene morale che gli atti delle membra esterne siano diretti dalla regola della ragione. Onde, dal momento che, come
abbiamo detto sopra, l’appetito sensitivo può obbedire alla ragione,
appartiene alla perfezione del bene umano o morale che le stesse
passioni dell’anima siano regolate dalla ragione. Come, dunque, è
16
Si tengano presenti le sigle con cui sono citate le opere di Tommaso:
QDV= Le questioni disputate, con testo latino a fronte dell’ed. leonina, voll. I, II, III,
La verità, trad. it. a cura di R. Coggi e V.O. Benetollo, Edizioni Studio Domenicano,
Bologna 1992-1993.
S. th. = Summa theologiae, testo latino dell’ed. leonina con trad. it. a fronte a cura dei
Domenicani italiani, Edizioni Studio Domenicano, 35 voll., Bologna 1985.
CG = Summa contra Gentiles, ed. leonina, Roma 1918-30; mi servo dell’ed. spagnola
che riproduce il testo latino della leonina con trad. a fronte: S. Tomas de Aquin, Summa
contra los Gentiles, 2 volI., B.A.C., Madrid 1968. Per la traduzione italiana mi riferisco
a quella di T.S. Centi, UTET, Torino 1970.
17
Cfr. S. Vanni Rovighi, op. cit., p. 81.
18
Ivi, p. 61.
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meglio che l’uomo, oltre a volere il bene, lo compia anche esternamente, così appartiene alla perfezione del bene morale che l’uomo si
muova verso il bene non solo con la volontà, ma anche con l’appetito
sensitivo (S. th., I-II, q. 24, a. 3).
È significativa l’identificazione del bene dell’uomo con il bene morale, perché l’ordine etico è finalizzato alla piena realizzazione della persona: la legge morale è per l’uomo e non l’uomo per la legge. Una caratteristica decisiva dell’etica dell’Aquinate è «quella di dedurre il concetto
di moralità-dovere da quello di bonum humanum inteso come pienezza
di umanità, integrità della natura umana, plenitudo essendi dell’uomo (S.
th., I-II, q. 18, a. 2) »19. Infatti, come si possono apprezzare le regole che,
indirizzando, delimitano e quindi vietano e sanzionano, se non in vista di
una meta, di una pienezza perseguita? È come se si volesse pretendere di
far accettare le dure esigenze dell’ascesa senza la prospettiva della vetta da conquistare, oppure le non sempre piacevoli misure terapeutiche,
prescindendo dall’obbiettivo che è la salute. L’obbligazione riguardante
il mio agire in tanto non è immotivata, arbitraria, repressiva, in quanto si
rivela legata al mio fine ultimo o bene supremo (che non può non implicare la piena realizzazione della persona). In vista del pieno compimento
di sé, l’uomo può capire che i suoi atti debbano essere ordinati, seguendo dei criteri normativi, appunto per raggiungere quel fine. Ecco perché
nell’indagine etica tommasiana (consegnata a quel capolavoro che è la
Prima secundae della Summa theologiae) il trattato sulla legge compare
quando i concetti fondamentali dell’etica – in primo luogo il fine e il
bene – sono già stati esposti e dopo un’analisi accurata dell’agire umano
nelle sue componenti principali, tra cui le passioni. La ricerca su queste
ultime, perciò, va vista alla luce di una filosofia morale, come quella
tommasiana, non limitata semplicemente alla questione dell’obbligazione, ma aperta alla più ampia prospettiva della vita buona.
2. Gli esempi e l’incidenza della legge morale nella vita reale
Per Adorno non si vede come la “moralità astratta” kantiana possa
motivare gli individui concreti, dirigendo le azioni reali: «[…] non è più
evidente come possa intervenire e toccare in qualche modo l’esistente, ol19
S. Vanni Rovighi, Natura e moralità nell’etica di S. Tommaso d’Aquino, in Id., Studi
di filosofia medievale, Vita e Pensiero, Milano 1978, vol. II, p. 177.
20
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trepassando l’abisso ontologico»20. Sulla base di questa suggestione ci si
deve chiedere: possono effettivamente “essere dedotti”21 i “doveri reali”22
dall’imperativo categorico che dice: «agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere che essa divenga una
legge universale»23? Oppure quell’imperativo, nella sua formalità, in certi
casi è una maglia tanto larga da far passare, da legittimare quasi tutti i
contenuti concreti, nonché il loro contrario, e in altri casi, tanto stretta, per
la sua chiusura nella soggettività astratta, da non garantire nemmeno quei
valori che asserisce di voler garantire? Kant stesso avverte questo problema e sente il bisogno di esaminare delle azioni concrete per far vedere
che, «tutti i doveri, per ciò che riguarda il modo dell’obbligazione (non
l’oggetto della loro azione), sono stati con questi esempi enunciati in modo completo nella loro dipendenza dall’unico principio»24, cioè dall’imperativo categorico. Ora si tratta di vedere se Kant riesce a dare una valutazione morale dei comportamenti esaminati, solo in virtù della forma
della legge, espressa, nella citata formulazione, dal criterio dell’universalità, o generalizzabilità, oppure se nel suo argomentare si introducono
elementi materiali, contenutistici. Non pochi interpreti sono favorevoli a
questa seconda alternativa. La pura forma è un criterio sufficiente?
Consideriamo il primo esempio addotto da Kant, secondo cui la massima del suicida: «elevo a principio, a partire dall’amore di me stesso,
di abbreviarmi la vita quando essa nella sua ulteriore durata minacci più mali di quanti godimenti prometta», non potrebbe divenire una
“legge universale della natura”, e perciò «confliggerebbe del tutto con
il supremo principio di ogni dovere»25. Ora, qui si passa dalla semplice “legge universale” della prima formulazione dell’imperativo alla
“legge universale della natura”26 attraverso la quale si arriva a far equi20 Th.W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1966, p.
235; trad. it. di C.A. Donolo, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 212.
21
GMS, AA 04: 421.10 (p. 75).
22
GMS, AA 04: 423. 41 (p. 81).
23
GMS, AA 04: 421. 07-08 (p. 75); cfr. KpV, AA 05: 54. 26-27 (p. 39).
24
GMS, AA 04: 424. 13-16 (p. 81).
25
GMS, AA 04: 422. 05-07, 08-09, 14-15 (p. 77).
26
GMS, AA 04: 421. 08; 422. 08-09 (pp. 75-77).
21
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valere l’imperativo formale al comando di volere un “ordine naturale
permanente”27. Non sembra, però, convincente la tesi secondo cui volere un “ordine naturale permanente” sia volere la pura forma della legge
morale e non un contenuto “materiale”.
Ma leggiamo la confutazione kantiana della massima del suicida:
«C’è solo da chiedere se questo principio dell’amore di sé possa diventare una legge universale della natura. Qui si vede subito che una natura, la cui legge fosse quella di distruggere la vita per mezzo dello stesso
sentire la cui destinazione è quella di spingere al suo promuovimento,
contraddirebbe se stessa e dunque non sussisterebbe come natura»28.
Ciò, però, non sembra sufficiente per quella confutazione: infatti non si
vede perché la massima di “por fine arbitrariamente alla propria vita”29
in base al criterio del calcolo del piacere, dovrebbe distruggere la natura, «non per questo verrebbe meno la vita: resterebbero i fortunati
e i forti»30 e tutti coloro che lo ritenessero conveniente in base a quel
calcolo. Inoltre, il principio dell’“amore di sé”, come è inteso nella
massima del suicida, è certamente errato (ciò però lo si può dimostrare
in base a criteri non solo formali), ma non sembra cadere nella contraddizione che gli attribuisce Kant, perché esso non implica amore alla
vita in quanto tale, ma alla vita in quanto piacevole. La contraddizione
sussiste solo se si rileva che quello stesso sentimento, che è destinato
a promuovere la vita, distrugga la vita stessa31. Ma qui Kant fa leva su
un sentimento che fa parte della “natura sensibile degli esseri razionali”, la cui esistenza è “sotto leggi condizionate empiricamente”32. Quel
sentimento dunque non può che far parte di quelle «inclinazioni particolari, che costituiscono un insieme naturale secondo leggi patologiche
(fisiche)»33. Ma come potrebbe Kant fondarsi su di esse per valutare
una condotta come immorale, dal momento che, secondo lui, la filosofia
27
KpV, AA 05: 76. 06 (p.55).
28
GMS, AA 04: 422. 08-13 (p. 77).
29
KpV, AA 05: 76. 04-05 (p. 55).
30 A.
Lambertino, op. cit., p. 94.
31
Cfr. GMS, AA 04: 422.10-12 (p. 77).
32
KpV, AA 05: 74. 12-13 (p. 54).
33
KpV, AA 05: 76.11-13 (p. 55).
22
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«deve dimostrare la sua purezza come custode delle proprie stesse leggi, e non come araldo di quelle che le suggerisce un senso innato o chissà quale natura tutelare»34? In realtà quel sentimento non è fatto valere
da Kant in quanto sentimento che è espressione della natura sensibile,
ma in quanto sentimento, “la cui destinazione” è quella di promuovere
la vita. Questa destinazione non può che essere espressione di una intrinseca normatività e finalizzazione della natura, che certamente non
dipendono dall’uomo, né dalla pura forma della legge morale. Anche
Kant, dunque, stando ai passi citati, pur nella brevità di questo intervento, si deve fondare in definitiva su quella normatività, intrinseca alla
natura, che rinvia al disegno dell’Intelligenza creatrice, che destina e
finalizza, e quindi alla metafisica della creazione. Solo così è probante
la confutazione della massima del suicida35.
Anche nel terzo esempio la logica del discorso kantiano si fonda
sulla natura in questo ultimo senso, quando dell’uomo dice che, «in
quanto essere razionale, egli vuole necessariamente che tutte le facoltà
in lui vengano sviluppate, poiché gli servono e gli sono date per ogni
possibile scopo»36. Anche qui c’è il rinvio al disegno superiore dell’Intelligenza creatrice.
Dunque, l’imperativo formale non è sufficiente a valutare il comportamento morale e a dare precetti concreti per le azioni. Il suo limite
è proprio nella sua formalità vuota, che rischia di legittimare qualsiasi
contenuto che possa essere generalizzato. E oggi, purtroppo, ne sono
stati generalizzati, ad opera di certi filoni culturali, parecchi di quelli
che Kant riteneva impossibile generalizzare.
3. Riduzione soggettivistica del bene e felicità
Significativa è l’intrinseca aporeticità del legalismo moralistico kantiano. Di cui qui ci interessa sottolineare solo un aspetto: l’umana ragion
pura, la soggettività trascendentale che orgogliosamente aveva preteso
in assoluta autonomia (non senza però delle significative oscillazioni nei
34
GMS, AA 04: 425. 38-41 (p. 85).
35
Cfr. H.J. Paton, The Categorical Imperative, London 1946, 1967 VI ed., pp. 152-153.
36
GMS, AA 04: 423. 15-18 (p. 79). Corsivo mio.
23
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testi kantiani) di darsi la legge morale, facendone dipendere addirittura
la stessa determinazione del bene e del male, deve poi riconoscere di non
essere in grado di procurarsi, con le sue forze, la felicità. È la constatazione, fatta onestamente da Kant, che nemmeno la disciplina delle proprie azioni e passioni secondo la legge morale fa conseguire all’uomo la
felicità. Ciò costituisce una prova ed una conferma che l’uomo non basta
a se stesso, che per realizzarsi non deve rinnegare la sua apertura all’altro
da sé, che la sua ricerca ed il suo desiderio sono semplicemente soffocati
dal rigore narcisistico, come è asfissiante l’accecamento egocentrico che
vede l’io come fine a se stesso e tutto il resto in funzione di sé.
Per quanto riguarda, poi, il fine ultimo, Kant ha riconosciuto lucidamente che esso, in quanto “valore assoluto”, è l’unico che può fondare
l’obbligazione morale, il dover essere dell’uomo: «Posto [...] che si desse
qualcosa la cui esistenza in se stessa avesse un valore assoluto, qualcosa
che, in quanto fine in se stesso, potesse essere un fondamento di determinate leggi, allora in esso, e in esso soltanto, starebbe il fondamento di un
possibile imperativo categorico, ovvero di una legge pratica»37.
Ma è convincente Kant quando sostiene che il fine ultimo dell’agire
morale è la “volontà buona” dell’uomo, per cui la “vera destinazione”
della ragione pratica sarebbe «di produrre una volontà non come mezzo
per altro scopo, bensì una volontà buona in se stessa»38? Affermare
ciò sarebbe corretto se fosse vero che «Nulla è possibile pensare nel
mondo, anzi, in generale, anche fuori di esso, che possa essere ritenuto
buono senza limitazioni, se non una volontà buona»39 e se, in effetti,
l’agire secondo la legge morale (in cui consiste la “bontà” della volontà) conferisse alla “nostra persona” un «valore che possa compensarci
di ogni perdita di ciò che procura un valore al nostro stato»40.
In realtà lo stesso Kant deve riconoscere che la volontà buona non
è affatto un bene senza limitazioni, non può essere “il solo e l’intero
bene”41. È, quindi, un bene parziale, assolutamente incapace di risarcire
37
GMS, AA 04: 428. 05-09 (p. 89). Corsivo dell’Autore.
38
GMS, AA 04: 396. 23-24 (p. 21). Corsivo dell’Autore.
39
GMS, AA 04: 393. 05-07 (p. 15). Corsivo dell’Autore.
40
GMS, AA 04: 450. 16-18 (p. 135).
41
GMS, AA 04: 396. 27-28 (p. 21).
24
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ogni perdita, come per esempio la perdita o la mancanza della felicità.
Perciò è per l’uomo, un bene limitato, non sufficiente, come anche Kant
riconosce, a fargli conseguire la piena realizzazione di sé.
Infatti, anche stando a quanto dice Kant, da un lato una vita pienamente conforme a virtù (e quindi una volontà veramente buona) l’uomo
non la può raggiungere nei limiti della sua esistenza terrena, dall’altro
la volontà buona di per sé non è un bene tale che comunque non lasci
null’altro da desiderare appagando compiutamente il desiderio umano.
In effetti Kant fa delle importanti ammissioni, dicendo che “la sola cosa
che importa è la felicità”42 non solo “per quel che riguarda la nostra natura di esseri sensibili”43, ma per “ogni essere razionale ma finito”, che,
essendo bisognoso, ha necessariamente il desiderio di essere felice44.
Infatti «aver bisogno di felicità, ed esserne anche degno ma tuttavia
non esserne partecipe, non è affatto compatibile col volere perfetto di
un essere razionale [...]»45, per cui “noi dobbiamo cercare di promuovere il sommo bene”46, che kantianamente è la virtù unita alla felicità.
Si veda a questo proposito l’antinomia della ragion pratica e la sua
soluzione attraverso i postulati della ragion pratica. In particolare, per
garantire la felicità all’uomo virtuoso, Kant ritiene che la ragione nel
suo uso pratico deve postulare l’esistenza di Dio, il quale unicamente
può assicurare l’unione della felicità alla virtù, al di là delle ingiustizie e
delle sofferenze terrene. In tal modo Kant riconosce che l’uomo, anche
se virtuoso, non è in grado di darsi la felicità. Ma, allora, il fallimento dell’autosufficienza umana per il conseguimento del sommo bene
non dovrebbe rimettere in discussione la pretesa di radicale autonomia
nell’etica, la pretesa, cioè, che l’umana ragione obbedisca solo alla
legge morale che si dà da se stessa? Se si riconosce che, per raggiun42
KpV, AA 05: 107. 19-20 (p. 76). Riguardo a questo passo preferisco la traduzione
del Mathieu (in I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi – Critica della ragion
pratica, a cura e con Introduzione di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1982, p. 255). La
trad. it. che qui di solito seguiamo, così rende questo passo: “tutto dipende dalla nostra
felicità” (p. 76).
43
KpV, AA 05: 107. 18-19 (p. 76).
44
Cfr. KpV, AA 05: 45. 15-16 (p. 31).
45
KpV, AA 05: 199. 04-06 (p. 135).
46
KpV, AA 05: 225. 04-05 (p. 151).
25
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gere la felicità, l’uomo deve affidarsi a Dio, come si può prescinderne
nella determinazione della legge morale?
Ora, se l’uomo non solo vuole, ma deve volere anche la felicità, è
evidente che la semplice volontà buona non può essere il fine ultimo
dell’agire morale dell’uomo, perché un fine che «lasciasse ancora qualcosa da desiderare, non sarebbe l’ultimo fine» (S. th., I-II, q. 2, a. 8). E,
oltre la virtù, resta da desiderare e da volere (secondo l’appetito proprio
dell’uomo che è l’appetito guidato dalla razionalità, cioè la volontà) la
felicità. In altri termini, come può un bene, che non sia sommo, cioè
“intero e perfetto”47, essere “supremo”, cioè essere «la condizione suprema di tutto ciò che ci può sembrare soltanto desiderabile»48, il fine
supremo cui tutto si subordina e quindi si sacrifica?
Solo se il fine supremo è il bene totale, nell’agire che mira a perseguirlo in realtà non viene perso nulla di positivo, altrimenti c’è comunque una mutilazione incomprensibilmente, assurdamente repressiva
dell’umano. Un bene derivato non può essere il bene sommo, totale,
perché è sempre parziale, almeno in quanto è altro dal bene da cui deriva. Kant parla di “sommo bene derivato”49, come «connessione, […]
accordo esatto della felicità con la moralità»50 che implica «il postulato
della realtà di un sommo bene originario, cioè dell’esistenza di Dio»51.
Ma solo impropriamente si può considerare sommo un bene derivato, perché il bene sommo è solo quello originario. Dunque, in quanto
parziale, il bene derivato non può certo costituire il fine supremo per
l’apertura universale della coscienza e della volontà dell’uomo. È quanto riconosce implicitamente anche Kant, allorché, con felice incoerenza
rispetto alle istanze formalistiche e di radicale autonomia, in genere
prevalenti nel suo pensiero, afferma: «[...] coloro che ripongono il fine
della creazione nella gloria di Dio [...] hanno ben trovato l’espressione
migliore»52.
47
KpV, AA 05: 198. 16 (p. 135).
48
KpV, AA 05: 198. 12-16 (p. 135).
49
KpV, AA 05: 226. 03-04 (p. 152).
50
KpV, AA 05: 225. 08-09 (p. 152).
51
KpV, AA 05: 226. 04-06 (p. 152).
52
KpV, AA 05: 236. 06-09 (p. 159).
26
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Peccato che questo importante riconoscimento del bene sommo e
quindi dell’autentico fine supremo resti per lo più inoperante e addirittura contraddetto nella costruzione della sua morale, laddove invece
l’ordine etico si definisce, si configura e si articola proprio in base al
riferimento al fine ultimo. L’ordine e quindi la normatività dell’etica in
tanto hanno ragione d’essere in quanto indirizzano verso il fine supremo. Ma Kant non può riconoscere come fine supremo dell’agire il Bene, perché lo riduce ad una dimensione meramente soggettiva. Per lui
il bene supremo è la virtù come bontà della volontà, della soggettività
umana; il bene sommo è la virtù cui si aggiunge la felicità, “per mano di
un autore saggio”53. Come se la felicità non nascesse da una perfezione
raggiunta dall’uomo e come se Dio fosse saggio solo come giudice e
rimuneratore, quando invece lo è originariamente nel suo disegno creatore, avendo inscritto nelle creature una positività ed una ordinazione al
Bene, orientandosi verso il quale si consegue la perfezione e la felicità.
Invece quest’ultima è intesa da Kant soprattutto come piacere (“piena
soddisfazione della somma di tutte le inclinazioni”54), o comunque come soddisfazione del proprio desiderio soggettivo («Felicità è la condizione di un essere razionale nel mondo, a cui, in tutto il corso della
vita, tutto avviene secondo il suo desiderio e la sua volontà»55), senza
alcuna possibilità di verificare se questo desiderio è conforme alla verità del proprio essere. Perciò siamo sempre nell’ambito di disposizioni
soggettive: o come piacere (l’utile è riconducibile al piacevole) o come
conformità alla legge formale della soggettività razionale. Per Kant non
c’è altra possibilità: o l’edonismo o il formalismo. «Per Kant non si
dà una diversa alternativa: o la volontà agisce per un motivo inerente
all’atto del volere, costituito esclusivamente dal principio del dovere,
o il fine non può essere che quello dettato dalla sensibilità; o si agisce
soltanto per il principio del dovere, o il fine assoluto e unico dell’azione
è il principio del piacere»56.
53
KpV, AA 05: 235. 19-20 (p. 158).
54
GMS, AA 04: 399. 12-13 (p. 27).
55
KpV, AA 05: 224. 08-10 (p. 151).
56 A.
Lambertino, op. cit., p. 77.
27
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