Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II Università Cattolica del Sacro Cuore Mercoledì 11 Giugno 2014 Supplemento al numero odierno de ‘Il Sannio Quotidiano’ SPECIALE MEDICINA z «Eccellenze all’interno della struttura di Largo Gemelli a Campobasso» Patologie cardiovascolari, protagonista la ricerca L’Unità Operativa Complessa di Cardiochirurgia diretta dal dr. De Filippo offre moderne terapie Le patologie cardiovascolari sono la prima causa di mortalità in Italia e nei paesi occidentali. L’innovazione tecnologica ha fatto sì che siano disponibili modalità terapeutiche che richiedono un approccio integrato tra le diverse professionalità deputate alla cura dei pazienti affetti da malattie cardiovascolari. Il concetto di team del cuore (Heart Team) è oggi fondamentale per il processo terapeutico e consente di poter usufruire delle risorse necessarie in modo armonico e con un notevole risparmio economico. Il Dipartimento di Malattie Cardiovascolari della Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II ha al suo interno le professionalità e le tecnologie per questo modo di trattare le patologie cardiovasscolari. In particolare l’Unità Operativa Complessa di Cardiochirurgia diretta dal dr. Carlo Maria De Filippo è organizzata in modo di offrire le moderne terapie per le malattie cardiache e vascolari. Inoltre collabora attivamente con l’Unità di Elettrofisiologia e di Emodinamica. Lo scompenso cardiaco è una reale emergenza epidemiologica per il nostro paese. La terapia di questa patologia si fonda sull’integrazione tra cardiologo e cardiochirurgo per proseguire nel percorso di riabilitazione. In Italia queste professionalità sono raramente disponibili nell’ambito dello stesso Ente. La presenza nella Fondazione Giovanni Paolo II di tutte le Unità operative deputate alla terapia di questa patologia è una garanzia di qualità e consente di ridurre sensibilmente l’incidenza di complicanze. Presso la Fondazione Giovanni Paolo II si terrà il 14/06/2014 un importante convegno sullo scompenso cardiaco, organizzato dall’Unità Operativa di Cardiochirurgia e di Elettrofisiologia , che vedrà la partecipazione dei massimi esperti internazionali sull’argomento. L’integrazione in un network di Centri di eccellenza per le malattie cardiovascolari in Italia e all’estero è un altro dei punti salienti dell’Unità Operativa di Cardiochirurgia, della Chirurgia Vascolare e dell’Elettrofisiologia. La ricerca ha un ruolo fondamentale per la terapia delle malattie cardiovascolari . L’Unità Operativa di Cardiochirurgia ha sviluppato ed è leader per l’applicazione di cellule staminali autologhe nella terapia della cardiomiopatia ischemica e coordinerà uno studio multicentrico con l’Ospedale San Raffaele e l’Università di Padova. Inoltre l’equipe di cardiochirurgia diretta dal dr. De Filippo collabora attivamente con la cardiologia dell’Ospedale Fatebenefratelli di Benevento, diretta dal prof. Villari. La collaborazione tra le due Unità Operative si sviluppa attraverso il modello dell’Heart Team, per la condivisione dei percorsi operativi e l’implementazione delle metodiche percutanee per la terapia delle patologie valvolari e delle stenosi carotidee. La cooperazione ha portato allo sviluppo di pro- tocolli integrati per la terapia delle malattie cardiovascolari. Il prof. Villari ed il dr. De Filippo hanno portato a termine complesse procedure nell’ambito delle due Unità Operative con metodiche innovative avvalendosi delle risorse tecnologiche di ultima generazione disponibili. Le cellule staminali autologhe sono applicate anche per la terapia dell’ischemia critica periferica quando le altre possibilità terapeutiche non sono possibili. Questa metodica innovativa consente di poter ridurre del 60% l’incidenza di amputazioni. Innovazione tecnologica, lavoro in equipe e ricerca sono i punti salienti dell’Unità Operativa di Cardiochirurgia, di Chirurgia Vascolare e di Elettrofisiologia. La rivascolarizzazione miocardica è eseguita con l’ausilio della circolazione extracorporea o a cuore battente. La mortalità è sotto il 2% ed è una delle migliori nel panorama nazionale ed internazionale. La sostituzione della valvola aortica è eseguita con tecniche di chirurgia mini invasiva che garantiscono una maggior confort per il paziente ed una rapida ripresa , aspetto di particolare importanza per i pazienti anziani. La valvola mitralica è riparata nel 98% dei casi nei quali è indicato l’intervento di plastica. L’equipe di cardiochirurgia ha contribuito negli anni allo sviluppo di tecniche avanzate per la riparazione della mitrale che hanno avuto ampio riconoscimento nazionale ed internazionale. I risultati clinici di eccellenza ottenuti, certificati dalle Autorità Nazionali confermano l’efficacia terapeutica per le patologie cardiovascolari del Centro Cardiovascolare della Fondazione Giovanni Paolo II. Il trattamento della cardiopatia ischemica In questo vasto capitolo sono comprese tutte malattie cardiache che derivano dalle alterazioni della riduzione acuta o cronica del flusso di sangue nelle arterie coronarie da cui dipende la normale funzione del muscolo cardiaco. La patologia è la aterosclerosi ovvero la deposizione di colesterolo nella nparete delle arterie. Tale patologia costituisce la prima causa di morte o disabilità nei paesi industrializzati. La conoscenza e la terapia di questa condizione è stata oggetto di intensa e continua ricerca negli ultimi cinquant’anni con un impatto straordinario sui risultati sia per ciò che riguarda la riduzione della mortalità che per il miglioramento della qualità della vita della popolazione affetta. L’approccio diagnostico e tera- peutico è multidisciplinare e prevede una integrazione fra i medici di medicina generale, cardiologi clinici ed interventisti, radioplogi, cardiochirurghi. Le problematiche logistiche, organizzative, economiche educative e tecnologiche che si pongono sono evidentemente assai importanti e dalla appropriata soluzione delle stesse è derivato e dipende il suc- cesso terapeutico. Un aspetto importante nella costruzione dei percorsi terapeutici è quello della centralità del paziente il quale , soprattutto in età più avanzata, evento molto frequente nella odierna pratica clinica, è spesso affetto da altre patologie oltre quella cardiaca, che necessitano di attenzioni e cure multispecialistiche. La terapia valvolare L’innalzamento dell’età media della popolazione ha determinato un aumento dell’incidenza delle patologie delle valvole cardiache. La valvulopatia aortica, in particolare la stenosi aortica, è una patologia caratteristica dell’anziano. Quando la stenosi è particolarmente importante la valvola aortica deve essere sostituita. La sostituzione valvolare aortica richiede la sternotomia e l’uso della circolazione extracorporea . in alcuni casi è indicato sostituire la valvola aortica per via percutanea. L’utilizzo della sternotomia comporta l’apertura completa della gabbia toracica. Presso l’Unità Operativa di Cardiochirurgia della Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II la sostituzione valvolare aortica viene eseguita con un approccio minimamente invasivo. Lo sterno è aperto solo in minima parte. Quest’approccio chirurgico ha molteplici vantaggi. L’utilizzo di trasfusioni ematiche è ridotto, lo sterno non è aperto completamento garantendo una ripresa più rapida del paziente e una maggiore facilità di guarigione della frattura . Quest’aspetto è di particolare importanza per le pazienti anziane che soffrono di osteoporosi. La ferita cutanea di soli 10 cm garantisce inoltre un migliore risultato estetico. Anche la patologia della valvola mitralica è in aumento. Le patologie che interessano la valvola mitralica possono essere suddivise in : 1) malattie degenerative che vedono una degenerazione della valvola per l’età avanzata o per una predisposizione morfologica genetica ( Sindrome di Barlow). 2) Alterazione funzionale per una sottostante pato- logia cardiaca 3) Alterazione dell’anatomia e funzione valvolare per processi infettivi. In genere l’intervento consiste nella sostituzione della valvola mitralica. Presso l’Unità Operativa di Cardiochirurgia della Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II è eseguita la riparazione della valvola mitralica che garantisce la libertà dalle protesi meccaniche e biologiche. In molti casi è possibile eseguire anche in questo caso l’intervento con tecnica mini invasiva. I risultati ottenuti dalla Cardiochirurgia sono eccellenti . la mortalità per la sostiruzione valvolare aortica è 2%. La mortalità per la riparazione della valvola mitralica è stata 0% e la valvola è stata riparata nel 100% dei casi. La Fondazione Giovanni Paolo di Campobasso è dotata di strumenti tecnici, apparecchiture, logistica e competenze e professionali di avanguardia che predispongono la Struttura di Largo Gemelli ad una integrazione con la rete assistenziale del Molise e delle regioni limitrofe con la possibilità di fornire un servizio di elevatissimo standard alla popolazione. II MERCOLEDÌ 11 GIUGNO 2014 CATTOLICA Eccellenze mediche Diagnosi, cause e trattamenti chirurgici L'AORTA ADDOMINALE L'aterosclerosi è una forma di infiammazione cronica delle arterie di grande e medio calibro che si instaura a causa dei fattori di rischio cardiovascolare: fumo, ipercolesterolemia, diabete mellito, ipertensione, obesità, iperomocisteinemia; si sospetta che possano esservi anche altre cause, in particolare di natura infettiva e immunologica. Anatomicamente, la lesione caratteristica dell'aterosclerosi è l'ateroma o placca aterosclerotica, cioè un ispessimento dell'intima delle arterie (lo strato più interno, che è rivestito dall'endotelio ed è in diretto contatto con il sangue), dovuto principalmente all'accumulo di materiale lipidico (grasso) e a proliferazione del tessuto connettivo, che forma una cappa fibrosa al di sopra del nucleo lipidico. Le lesioni, che hanno come caratteristica specifica la componente lipidica più o meno abbondante, si evolvono con il tempo: iniziano nell'infanzia come strie lipidiche (a carattere reversibile) e tendono a divenire placche aterosclerotiche, che nelle fasi avanzate possono portare a restringimenti (stenosi) del lume arterioso oppure ulcerarsi e complicarsi con una trombosi sovrapposta, che può portare a una occlusione, spesso improvvisa, dell'arteria. Clinicamente l'aterosclerosi può essere asintomatica, oppure manifestarsi, di solito dai 40-50 anni in su, con fenomeni ischemici acuti o cronici, che colpiscono principalmente cuore, encefalo, arti inferiori e intestino. Le placche ateromatose hanno infatti nell’uomo una distribuzione abbastanza costante ed in ordine decrescente sono interessate: aorta addominale, arterie coronarie, arterie poplitee e femorali, aorta toracica, carotidi a livello della biforcazione e arterie del circolo intracranico che compongono il circolo di Willis (a. vertebrale, a. basilare, a. carotide interna) e arteria cerebrale media. Sono invece di solito risparmiati i vasi delle estremità superiori e le arterie mesenteriche e renali (ad eccezione dei loro osti). Inoltre, in questi segmenti arteriosi le lesioni colpiscono soprattutto gli osti di origine dei rami arteriosi e i tratti in cui le arterie formano curve o si biforcano: tratti che sono maggiormente esposti alle forze emodinamiche legate alla turbolenza del flusso. Le manifestazioni cliniche dell'aterosclerosi compaiono in genere dopo i quaranta-cinquanta anni di età e sono dovute alla ischemia (riduzione del flusso ematico) nel letto vasale dipendente dall'arteria lesa. La riduzione del flusso dipende sia dal restringimento del lume arterioso in corrispondenza delle lesioni aterosclerotiche sia dalla presenza di meccanismi di compenso insufficienti. Il principale meccanismo di compenso è rappresentato dall'instaurarsi di circoli collaterali, che consentono al sangue di raggiungere i territori ipoirrorati attraverso i vasi adiacenti. Le manifestazioni cliniche croniche sono conseguenti ad un restringimento stabile dell'arteria colpita, che rende il flusso ematico fisso, cioè incapace di aumentare quando le condizioni funzionali lo richiedono, come ad esempio durante gli sforzi fisici. Di conseguenza la sintomatologia, in particolare il dolore, tende ad essere assente a riposo e a presentarsi in occasione di esercizio fisico più o meno intenso, a seconda della gravità dell'ostruzione arteriosa e dell'efficienza dei circoli collaterali. Tipiche sindromi croniche sono: angina pectoris stabile, angina abdominis, claudicatio intermittens, nella quale il dolore insorge durante la deambulazione e scompare tipicamente dopo pochi minuti di riposo. Le manifestazioni cliniche acute sono invece il risultato di una improvvisa riduzione del lume arterioso, che provoca una brusca riduzione del flusso ematico nel territorio dipendente. In genere l'occlusione arteriosa è causata dalla rottura (fissurazione) di una placca aterosclerotica, con conseguente trombosi in corrispondenza della ulcerazione. Raramente alla base delle manifestazioni acute vi può essere uno spasmo vasale, che viene chiamato in causa quando gli esami angiografici non rilevano alterazioni dei vasi. Sono sindromi ischemiche acute: angina pectoris instabile, infarto miocardico, infarto intestinale, ictus ischemico. I fattori responsabili della fissurazione della placca ateromatosa sono molteplici e complessi, ma due fenomeni sembrano di particolare importanza: l'infiammazione della placca e la presenza di un'abbondante componente lipidica, che renderebbero la placca meno resistente all'urto della corrente ematica. Le cellule infiammatorie e soprattutto i macrofagi producono enzimi idrolitici (metalloproteasi), capaci di lisare il collagene della cappa fibrosa, che diviene così meno resistente agli stress emodi- L’aterosclerosi e le sue manifestazioni namici. Ecco l’importanza del ruolo delle statine che consente di avere un effetto pleiotropo a livello dell’endotelio del vaso con un’azione antinfiammatoria che permette di stabilizzare le placche evitando che possano andare incontro a fenomeni di fisssurazione. Ogni anno vengono diagnosticati circa 200.000 nuovi casi di aneurisma dell'aorta addominale. Un aneurisma dell’aorta addominale, noto anche con la sigla AAA, è una dilatazione dell'aorta che può andare incontro a rottura, con esito potenzialmente fatale. L'aorta è l'arteria principale che trasporta il sangue ricco di ossigeno dal cuore a tutte le parti dell'organismo. Nell'addome, l'aorta si divide, biforcandosi, nelle arterie iliache, che trasportano il sangue alle gambe e ad altre aree della parte inferiore del corpo ( Figura 1). L'aneurisma è una dilatazione dell'aorta dovuta all'indebolimento di una porzione dell'arteria che non è in grado di sostenere la forza del flusso sanguigno (vedere Figura 2). Benché possano formarsi in qualsiasi arteria del corpo umano, gli aneurismi sono più frequenti nell'aorta addominale e nelle arterie iliache. Il diametro dell'aorta è normalmente compreso tra 2 e 2,6 cm; in caso di aneurisma, può superare di diverse volte le dimensioni normali. Con il passare del tempo, l'indebolimento dell'aorta dovuto ad una malattia vascolare, ad un trauma o ad un difetto genetico (ereditario) del tessuto della parete arteriosa può portare alla formazione di un aneurisma dell'aorta addominale. La continua pressione esercitata dal sangue sull'area indebolita può indurre la dilatazione dell'aorta (aumento di volume e riduzione dello spessore della parete). I fattori di rischio per lo sviluppo di un aneurisma comprendono l'ereditarietà (anamnesi familiare), il fumo, le malattie cardiache, l'ipertensione e un'alimentazione scorretta. Generalmente, il medico prescrive semplici misure preventive, come il controllo della pressione arteriosa, l'astensione dal fumo e la riduzione del colesterolo nella dieta. Questi cambiamenti del proprio stile di vita possono anche contribuire alla prevenzione di ulteriori disturbi futuri. Sicuramente se il paziente è un soggetto a rischio per lo sviluppo di un aneurisma, il medico potrebbe anche prescrivere farmaci che abbassano la pressione arteriosa.Il rischio di rottura aumenta con le dimensioni dell'aneurisma e con l'ipertensione. Infatti il diametro trasverso oltre il quale tale rischio diventa elevato è 5,5 cm per gli uomini e 5 cm per le donne e quindi solo in questo caso diventa indicato un trattamento della patologia aneurismatica. Inoltre il rischio di rottura aumenta in modo direttamente proporzionale al diametro trasverso, per cui aneurismi di 6 cm avranno un rischio di rottura del 20% annuo, mentre quelli di 7 cm di diametro trasverso avranno un rischio del 30%. Se non trattata, questa patologia può causare la rottura dell'aorta e la rottura di un aneurisma è spesso fatale e rappresenta una delle principali cause di morte negli Stati Uniti. Molte persone affette da AAA non avvertono alcun sintomo. Per questo, è molto importante valutare con il proprio medico di base il rischio di avere o di sviluppare in futuro un AAA. Se compaiono sintomi, quello più frequente è il dolore, che può presentarsi a livello dell'addome, della schiena o del torace. Alcuni pazienti descrivono il dolore in modi diversi: da lieve a intenso oppure come dolorabilità a livello della parte medio-alta dell'addome o della parte bassa della schiena. Altri pazienti avvertono l'aneurisma come una massa pulsante o vibrante nell'addome. Altri pazienti ancora, pur con diagnosi di AAA, non accusano nessuno di questi sintomi. Il medico curante può diagnosticare un aneurisma dell’aorta addominale durante una normale visita di routine. È possibile che il medico avverta con la palpazione un rigonfiamento o una pulsazione nell'addome. Più spesso, gli aneurismi vengono diagnosticati in occasione di esami quali la TC (tomografia computerizzata o Tac) o l'ecografia. Le modalità di trattamento dell'aneurisma dipendono dalle dimensioni e dalla sede dell'aneurisma dell’aorta addominale e dalle condizioni generali di salute del paziente. Se l'aneurisma è piccolo, è auspicabile che il medico consigli solo visite di controllo periodiche per tenerlo sotto controllo. Al contrario, un aneurisma di dimensioni maggiori o a rapida crescita (espansione) è più facilmente esposto al rischio di rottura e, pertanto, può rendersi necessario un trattamento. Le opzioni terapeutiche sono due: il trattamento chirurgico tradizionale o il trattamento endovascolare. Il trattamento chirurgico tradizionale costituisce il trattamento storico degli aneurismi dell'aorta addominale. Nell'ambito di questo intervento, il chirurgo incide l'addome o il fianco del paziente e ripara l'aorta sostituendo la parte malata (aneurisma) con una protesi sintetica (tubo) mantenuta in sede tramite suture. (Figura). Questa procedura richiede che il flusso ematico nell’aorta venga arrestato durante il posizionamento della protesi. Il trattamento chirurgico tradizionale viene generalmente eseguito in anestesia generale e la procedura dura circa 4 ore. I pazienti trascorrono normalmente una notte in terapia intensiva e altri 5-7 giorni in ospedale. A seconda della velocità di recupero dell'organismo, occorre un periodo di convalescenza di circa 30 giorni. Benché il trattamento chirurgico tradizionale sia una procedura convalidata, non tutti i pazienti sono in grado di tollerare questo tipo di operazione, in rapporto alle condizioni dello stato di salute generale. Il trattamento endovascolare è una procedura relativamente nuova per il trattamento degli aneurismi dell'aorta addominale. È meno invasiva della chirurgia a cielo aperto e prevede l'esclusione (isolamento) dell'aneurisma tramite il posizionamento di una protesi endovascolare all'interno della parte malata dell'aorta, con formazione di una nuova via per il flusso di sangue. La protesi endovascolare rimane permanentemente all'interno dell'aorta grazie ai suoi uncini di ancoraggio in metallo e alla forza radiale che la preme saldamente contro la parete aortica. Il trattamento endovascolare può essere eseguito in anestesia generale o in anestesia regionale o locale, con il paziente cosciente (sveglio) ma sottoposto a sedazione, e la procedura richiede generalmente da 1 a 3 ore. I pazienti rimangono in ospedale solo per pochi giorni e possono in genere tornare a svolgere le proprie attività quotidiane entro 6 settimane dall'intervento. Dopo questo intervento sono necessarie regolari visite di controllo periodiche (follow-up), nell'ambito delle quali vengono eseguiti test per valutare l’esito della procedura e monitorare l'efficacia del trattamento. Però non tutti i pazienti possono essere trattati con la tecnica endovascolare perché occorrono delle condizioni anatomiche particolari come la presenza di un tratto di aorta sano, poco calcifico e con scarso trombo parietale e non dilatato, al di sotto delle arterie renali, che in termine tecnico viene detto colletto, che permetta l’ancoraggio dell’ endoprotesi aortica. Inoltre occorre che gli assi iliaci non siano tortuosi per permettere la salita dei device per il posizionamento dell’endoprotesi. La sicurezza e l'efficacia a lungo termine del trattamento endovascolare non sono state ancora accertate. Per alcuni pazienti possono rendersi necessari ulteriori trattamenti in caso di: Endoleak, perdita periprotesica – condizione che si verifica se il sangue dell'aorta continua ad infiltrarsi nell’aneurisma addominale. La maggior parte degli endoleak non causa alcun problema medico ma, in una piccola percentuale di casi, si rende necessario un ulteriore trattamento. Ingrandimento o rottura dell'aneurisma – non sempre sono presenti sintomi in caso d'ingrandimento dell'aneurisma, ma, se ve ne sono, il sintomo più comune è il dolore, seguito da intorpidimento e debolezza degli arti inferiori, della schiena, del torace o dell'addome. I sintomi della rottura di un aneurisma comprendono capogiro, svenimento, accelerazione del battito cardiaco o debolezza improvvisa. Occlusione di un arto – i sintomi comprendono dolore all'anca o alle gambe durante la deambulazione o lo scolorimento o freddezza delle gambe. Nell’Unità Operativa Semplice di Chirurgia Vascolare della Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II di Campobasso, diretta dal dott. Pietro Modugno, sono stati trattati dal 2004 al 2014 200 pazienti affetti da tale patologia, di cui 150 con tecnica chirurgica tradizionale, cioè attraverso una laparotomia con accesso extra peritoneale e 50 trattati con tecnica endovascolare. I risultati sono risultati al di sotto della media nazionale con una mortalità del 1% ed una morbilità inferiore al 5%. Ovviamente questi risultati derivano da un’attenta selezione del paziente, che viene prima studiato a livello cardiologico, respiratorio ed vascolare in toto e successivamente viene candidato alla tipologia di trattamento più idoneo alle sue condizione generali e anatomiche. III CATTOLICA MERCOLEDÌ 11 GIUGNO 2014 Anche i vasi epiaortici possono essere colpiti da aterosclerosi L’aterosclerosi può colpire anche i vasi epiaortici, definiti in questo modo perché partono dall’arco aortico e portano il sangue a livello del cervello irrorandolo. Il vaso maggiormente colpito è l’arteria carotide destra e sinistra a livello della sua biforcazione. Quando la stenosi interessa l’arteria carotide interna, che porta il sangue al cervello, il rischio è quello che la riduzione del flusso o il distacco di frammenti da questa placca possa portare all’insorgenza di un ICTUS. La stenosi carotidea è una patologia tipicamente maschile, poiché l’aterosclerosi, la causa principale della stenosi, colpisce maggiormente l’uomo rispetto alla donna. Spesso la stenosi carotidea risulta essere asintomatica ma altre volte si manifesta con un attacco ischemico transitorio, noto anche come TIA. Esso si definisce transitorio, poiché ha un limite di durata: non più di 24 ore. L’attacco ischemico si verifica a livello cerebrale, facciale ed oculare, cioè le aree non sufficientemente irrorate dalla carotide occlusa. I segni clinici, dovuti al TIA, si manifestano con emiplegia del lato opposto a quello della carotide occlusa, difficoltà nel parlare: il linguaggio diventa, talvolta, incomprensibile; problemi alla vista: visione sdoppiata o annebbiata; possibile cecità, che si presenta, inizialmente, con un velo nero o grigio che cala davanti all’occhio; mancata coordinazione nel camminare e paresi del volto. Se la stenosi comporta danni ischemici di entità maggiore, che si protraggono fino a 3 giorni, si parla di Rind, cioè deficit neurologici ischemici reversibili. I sintomi sono analoghi a quelli del Tia. Se, infine, l’occlusione della carotide è grave e quasi, se non del tutto, completa, il sintomo che ne deriva è l’ictus ischemico, o stroke. Le conseguenze sono evidenti e non più transitorie: l’individuo, che ne è affetto, perde totalmente la sensibilità, la facoltà di movimento e le diverse funzioni controllate dalle aree non più ossigenate dal flusso sanguigno. Nella maggior parte dei casi, questa situazione porta alla morte. Gli esami diagnostici strumentali consistono nell’ecocolordoppler dei vasi del collo, TAC Cranio senza m.d.c., in casi particolari l’Angio Tc Vasi del collo e circolo intracranico. L’ecocolordoppler è un esame non invasivo, utile al medico per individuare la posizione della placca ateromasica e il grado di stenosi, cioè quanto il lume si è ristretto. Infatti, è una metodica che permette, tramite un’ecografia, di osservare la morfologia delle pareti vasali ed individuare una loro eventuale anomalia; tramite un doppler, invece, è possibile valutare, con un’analisi ad ultrasuoni, la situazione emodinamica, cioè la velocità del flusso sanguigno, nell’area di carotide interessata dalla placca. Quest’ultimo dato, cioè a quanto viaggia il sangue nel punto di occlusione, rivela il grado di stenosi della placca ateromasica. . Angiografia tomografica computerizzata, o angiografia CT. Si basa sulla scansione dell’area carotidea. Le immagini, ottenute tramite strumentazione radiografica, riportano la struttura tridimensionale delle cavità vasali carotidee. Richiede l’iniezione di un mezzo di contrasto iodato. Angio-risonanza magnetica, o angiografia. L’esame si avvale di un mezzo di contrasto paramagnetico, che è iniettato al paziente. Consente di valutare la sede e l’entità delle alterazioni del lume vasale carotideo. La terapia farmacologica è utile a migliorare la sintomatologia del paziente o a prevenirne il peggioramento, ma non «aggiusta» una lesione, come l’ateroma, presente sulle arterie. Essa prevede la somministrazione di farmaci che fluidificano il sangue, antiaggreganti piastrinici, anticoagulanti; farmaci che limitano l’evoluzione della placca ateromasica come gli ipolipidemizzanti, gli antidiabetici e gli antiipertensivi. L’intervento chirurgico, invece, è l’unico approccio terapeutico utile a ristabilire il normale flusso sanguigno all’interno della carotide occlusa. Non tutte le stenosi carotidee devono essere sottoposte a trattamento chirurgico, ma solo quelle asitomatiche o sintomatiche, la cui percentuale di stenosi è del 70%. Il richio di ictus omolaterale alla stenosi carotidea è direttamente correlato al grado di stenosi carotidea. Infatti quando la stenosi carotidea raggiunge il 70% di restringimento il rischio di ictus è di circa il 15% annuo e la sola terapia farmacologia risulta essre inefficace . Di qui la necessità di effettuare l’intervento chirurgico di ripristinare la normalità di flusso. Sono possibili due tipi di intervento: l’endoarteriectomia della biforcazione carotidea ( TEA Carotidea) e l’angioplastica e stenting carotideo. Con il primo intervento si elimina la placca ateromasica e gli eventuali grumi e residui, legati rispettivamente a trombi ed emboli. Questa tecnica prevede la rimozione della tonaca intima e di parte di quella media, in cui è presente l’ateroma. Si pratica tramite incisione diretta lungo la parte anteriore del collo. La procedura d’intervento prevede che il chirurgo interrompa, per prima cosa, il flusso di sangue attraverso la carotide. A quel punto, il medico può incidere la carotide, aprirla, e togliere la placca. La zona d’incisione, chiaramente, è individuata grazie alla strumentazione diagnostica. Rimossa la placca, il tessuto vasale eliminato è sostituito con del tessuto artificiale, o di origine venosa. A questo punto, si richiude la carotide. Con l’angioplastica e stenting carotideo si «respinge» la placca ateromasica, ristabilendo la normale grandezza del lume vasale della carotide. Si pratica in anestesia locale. Il chirurgo vascolare opera usando due cateteri: uno è fornito di una reticella metallica (stent) e un altro di un palloncino. Introducendoli nel circolo arterioso e raggiungendo la zona interessata dall’ateroma, il medico fa sì che, mediante il palloncino, si ristabilisca il normale diametro della carotide occlusa, e, mediante la reticella metallica, si mantenga l’allargamento. Il palloncino viene gonfiato solo una volta che il catetere è stato condotto nell’area interessata dalla placca. Successivamente verrà rimosso. L’intervento chirurgico è necessario quando l’occlusione della carotide riguarda più del 70% del lume vasale. Lo stesso dicasi nei casi in cui, nonostante il restringimento sia inferiore in termini di percentuale, la sintomatologia preveda la possibilità di situazioni critiche, quali Tia, Rind o ictus. In assenza di queste condizioni sintomatiche gravi e a percentuali di stenosi inferiori al 70%, l’intervento non è prioritario. Il motivo è dovuto all’estrema delicatezza delle operazioni chirurgiche che interessano la carotide. Quando il paziente presenta uno stadio avanzato di stenosi carotidea, i rischi legati all’intervento non superano quelli che potrebbero creare un ictus. Pertanto, si procede ad eliminare la placca. Nell’ Unità Operativa Semplice di Chirurgia Vascolare della Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II di Campobasso, diretta dal dott. Pietro Modugno, sono stati trattati dal 2004 al 2014 circa 1000 pazienti affetti da tale patologia, di cui 900 con tecnica chirurgica tradizionale con TEA Carotidea ed un 100 attraverso Angioplastica carotidea,. I risultati sono risultati al di sotto della media nazionale con una mortalità del 0,2% ed una morbilità neurologica inferiore al 1%. Ovviamente questi risultati derivano da un’attenta selezione del paziente, che viene prima studiato attraverso un attenta caratterizzazione morfologica della placca carotidea attraverso l’Ecocolordoppler dei vasi del collo e nei casi dubbi o sospetti viene sottoposto ad Angio TC dei vasi del collo e del circolo intracranico dove con i colleghi radiologi del Dipartimento di Radiologia , diretto dalla Prof.ssa SALLUSTIO, è stato messo a punto un protocollo per lo studio della morfologia della placca carotidea per valutare le sue potenzialità emoboligene. TRATTAMENTO DELLA PATOLOGIA Gli arti inferiori L’aterosclerosi è la causa principale di lesioni ostruttive, complete o parziali (ossia inducente un restringimento o stenosi), a carico di uno o più vasi dell’albero arterioso degli arti inferiori responsabili di un’insieme di quadri clinici, genericamente definito arteriopatia ostruttiva cronica periferica degli arti inferiori o, in gergo, AOCP (acronimo della precedente definizione). Si tratta di malattie caratterizzate da uno stato di insufficienza dell’apporto di sangue arterioso ai tessuti periferici (ischemia della pelle e dei muscoli degli arti inferiori), che impiega tempi generalmente lunghi per instaurarsi e provoca effetti persistenti (ischemia cronica). Le Aocp si differenziano pertanto dalle ischemie acute, nelle quali avviene invece un’improvvisa e brutale cessazione dell’irrorazione arteriosa periferica, che impone, ai fini del salvataggio dell’arto colpito, un intervento chirurgico urgente. Complessivamente questa malattia coinvolge un’ampia fascia di popolazione; si stima infatti che ne sia affetto sino al 2% dei soggetti di età inferiore ai 40 anni, sino al 7% dei soggetti di età inferiore ai 60 anni, il 10-20% dei soggetti con età tra i 60 ed i 70 anni e oltre il 20% dei soggetti di età superiore ai 70 anni. La claudicatio intermittens è il sintomo più comune. Si tratta di dolori crampiformi, localizzati, a seconda del livello e dell’estensione delle lesioni arteriose, a carico del polpaccio, della coscia ed eventualmente anche del gluteo. Tale sintomo viene evocato dalla deambulazione, dopo percorsi stereotipati in quanto a distanza. L’autonomia di marcia, libera da dolore ischemico, prende il nome di intervallo libero. Il dolore crampiforme regredisce spontaneamente dopo un certo intervallo di tempo durante il quale il paziente rimane fermo in piedi, detto tempo di recupero. Il III stadio rappresenta una fase più grave della malattia, nella quale le lesioni arteriose sono avanzate al punto tale da indurre uno stato di ossigenazione insufficiente anche a riposo. Il IV stadio dipende da una forma ancora più grave della malattia nella quale, l’ischemia periferica supera ogni possibilità di compenso da parte del circolo collaterale con necrosi (morte e distruzione cellulare) di un territorio tissutale più o meno ampio. Gli equivalenti clinici sono le ulcere trofiche ischemiche e la gangrena, nelle forme secca ed umida, quest’ultima dovuta al sovrapporsi di infezioni batteriche con putrescenza. La gravità della malattia agli stadi III e IV è suggerita anche dalla suggestiva definizione fornita a queste forme, ossia ischemia critica. Un accenno merita anche l’arteriopatia diabetica, responsabile della condizione nota come piede diabetico, nella quale al danno a carico delle arterie di grosso-medio calibro si associa quello del micro-circolo (vasi di distribuzione tissutale) con lesioni necrotiche generalmente umide, associate ad alterazioni dei nervi periferici e deformazioni ossee. La diagnosi si effettua grazie all’anamnesi, in cui il paziente racconta i sintomi (dolore da sforzo, difficoltà guarigione ferite) e all’esame obiettivo.Si possono intraprendere diversi approcci terapeutici, in relazione alla gravità della PAD. Un approccio medico che consiste nella prevenzione dell’evoluzione tramite corrette abitudini di vita (innanzitutto eliminazione del fumo e controllo di un eventuale diabete), nell’associazione dell’esercizio fisico controllato e nella terapia antiaggregante. L’altro approccio più interventista si basa o sull’intervento intervento chirurgico a cielo aperto ( bypass aortofemorale, femorofemorale, femorodistale ed endoarteriectomia o mediante procedure endovascolari ( Inserimento di uno stent o semplice angioplastica). Ci sono poi pazienti arteriopatici con un quadro cli- nico molto più grave, affetti da ischemia critica, in cui sia il trattamento chirurgico tradizionale sia quello endovascolare non sono applicabili, per cui questi vanno incontro ad amputazione. Proprio per questi pazienti da parecchi anni è in uso un protocollo di ricerca con le cellule staminali autoloche presso l’ Unità Operativa Semplice di Chirurgia Vascolare della Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II di Campobasso, in cui i pazienti con un quadro di grave arteriopatia sono stati trattati prelevando le proprie cellule staminali dal midollo osseo e attraverso un sistema di depurazione isolate ed ineittate nei muscoli della gamba in cui non vi arrivava più sangue. Sono stati trattati circa 20 pazienti che erano candidati all’amputazione di gamba presso altri Centri di chirurgia vascolare, i quali sono stati sottoposti all’autotrapianto di cellule staminali riuscendo a salvare l’arto in crisi. IV MERCOLEDÌ 11 GIUGNO 2014 CATTOLICA POSSIBILI SCENARI z Le recenti scoperte per combattere una tra le prime cause di morte in Italia Cellule staminali nelle cardiomiopatie ischemiche, una potenziale terapia per lo scompenso Le malattie cardiovascolari costituiscono uno dei più importanti problemi di sanità pubblica. In Italia sono la prima causa di morte e la principale causa di inabilità nella popolazione anziana (dati Istat ). In particolare la cardiomiopatia ischemica con scompenso cardiaco congestizio è responsabile nel nostro paese del 28% di tutte le morti. La prognosi dell'insufficienza cardiaca congestizia vede una mortalità del 50% a cinque anni. La terapia medica, la rivascolarizzazione miocardica (percutanea o chirurgica) e, in ultima analisi, il trapianto cardiaco sono trattamenti consolidati per la cardiomiopatia ischemica. Tuttavia queste forme terapeutiche non consentono la rigenerazione cellulare e non possono ripristinare la completa funzionalità miocardica. Il trapianto cardiaco, quando indicato, prevede l'utilizzo della terapia immuno soppressiva con le complicanze descritte e inoltre soffre della limitata disponibilità di donatori . Le recenti scoperte hanno dimostrato che le cellule staminali derivate dal midollo osseo possono differenziarsi in cellule cardiache funzionanti e hanno un ruolo fondamentale nella formazione dei circoli collaterali per riportare il sangue nelle zone ischemiche . I risultati clinici ottenuti da molti studi hanno evidenziato una sostanziale sicurezza di questa possibile terapia. Tuttavia l’efficacia non è stata confermata. Presso l’Unità Operativa di Cardiochirurgia della Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II è in atto una ricerca innovativa sull’utilizzo di concentrato di midollo osseo autologo (dello stesso paziente) nella cardiopatia ischemica per i pazienti che non hanno altre opzioni di rivascolarizzazione. Il midollo osseo è prelevato dal paziente in anestesia generale e concentrato nella stessa seduta operatoria. Si ottiene un concentrato ricco di cellule staminali, citochine e piastrine nel loro ambiente naturale. Il concentrato è quindi iniettato nel cuore attraverso una piccola incisione toracica o durante l’intervento di rivascolarizzazione miocardica. Le citochine sono piccole proteine che rimettono in modo il metabolismo del cuore. Il protocollo è stato approvato dalle autorità competenti. I risultati clinici nei pazienti trattati sono stati molto buoni e sono stati presentati in diversi congressi nazionali e internazionali. Questo tipo di terapia è particolarmente innovativo perché non utilizza cellule coltivate artificialmente. Le cellule fino ad ora utilizzate per la terapia con cellule staminali nel cuore sono state cellule di un solo tipo e in genere coltivate. Il processo patofisiologico che cerca di riparare il danno ischemico nel cuore vede l’intervento di più popolazioni di cellule staminali, citochine e sta- minali. Il concentrato di midollo osseo utilizzato nel Centro di Campobassso contiene tutte le cellule e le citochine ripristinando il processo patofisiologico. La Cardiochirurgia di Campobasso è all’avanguardia per le ricerche inerenti la terapia della cardiomiopatia ischemica offrendo ai pazienti che possono essere arruolati nel protocollo una nuova opzione terapeutica. I risultati clinici ottenuti hanno consentito di estendere lo Studio ad un trial multicentrico che vede interessati i seguenti centri : Dipartimento di Malattie Cardiovascolari dell’Università degli Studi di Padova ( prof. Gino Gerosa ) , Dipartimento Malattie Cardiovascolari Università degli Studi di Torino ( prof. Mauro Rinaldi), Dipartimento Malattie Cardiovascolari Ospedale San Raffaele ( prof. Ottavio Alfieri). collocando la Cardiochirurgia del Molise all’avanguardia per la cardiomiopatia ischemica. L’unità operativa di cardiologia, elettrofisiologia ed aritmologia L’Unità Operativa (U.O.) di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia della Fondazione di Ricerca e Cura “Giovanni Paolo II” di Campobasso, diretta dal Dr. Matteo Santamaria, rappresenta un centro di eccellenza per il trattamento avanzato dello scompenso cardiaco e di tutti i tipi di aritmie cardiache, per la profilassi primaria e secondaria della morte improvvisa cardiaca e per il management completo dei dispositivi cardiaci impiantabili (pacemakers, cardioverter-defibrillatori automatici). Nel corso degli anni si è consolidata come un punto di riferimento regionale e nazionale sia per l’aspetto assistenziale sia per quello relativo alla ricerca ed alla formazione. L’importanza di questa unità risulta dall’incontro tra l’unicità del tipo di prestazioni aritmologiche erogate, gran parte delle quali non presenti sul terrirorio molisano ed in molte regioni limitrofe, e dall’interazione tra elettrofisiologia e cardiochirurgia che, nel Dipartimento di Malattie Cardiovascolari, trovano le condizioni ideali per agire in sinergia consentendo l’esecuzione di procedure ibride con il contemporaneo intervento di entrambe le equipes e di procedure interventistiche particolarmente complesse e rischiose con la presenza di uno stand-by reale sul posto dell’equipe cardiochirurgica, garanzia fondamentale per la sicurezza del paziente. In circa il 30% dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è presente un’anomalia della conduzione intraventricolare dell’impulso elettrico cardiaco che comporta una dissincronia dell’attivazione elettrica che può contribuire in maniera significativa al deficit della funzione sistolica (ovvero della forza contrattile del ventricolo sinistro) documentata in questi pazienti. L’U.O. di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia rappresenta un riferimento a livello nazionale per la terapia di resincronizzazione cardiaca mediante impianto di devices biventricolari che si caratterizzano per la presenza di un elettrocatetere che viene posizionato in un ramo del sistema venoso principale del cuore (seno coronarico) e che permette di stimolare i siti del ventricolo sinistro che si attivano più tardivamente consentendo di ristabilire una “sincronia” nell’attivazione elettrica cardiaca. Evidenze scientifiche rile- vanti hanno dimostrato che tale terapia, in pazienti ben selezionati affetti da scompenso cardiaco (soprattutto pazienti con presenza di blocco di branca sinistra completo all’elettrocardiogramma di superficie), può migliorare significativamente la capacità funzionale e la qualità di vita, ridurre le ospedalizzazioni e prolungare la sopravvivenza. Negli ultimi 20 anni, il trattamento dei disturbi del ritmo cardiaco è profondamente cambiato. Si è assistito ad una progressiva riduzione dell’utilizzo dei farmaci antiaritmici - unico approccio terapeutico disponibile in passato per il controllo dei sintomi e per la soppressione delle tachiaritmie cardiache - a favore di tecniche di trattamento non-farmacologiche quali l’ablazione transcatetere mediante radiofrequenza. Ablazione è il termine che indica la rimozione o distruzione di tessuto superficiale. Nell’ambito delle procedure elettrofisiologiche si tratta della cauterizzazione di tessuto cardiaco che determina l’eliminazione del “substrato” coinvolto nella genesi delle specifiche tachiaritmie cardiache. L’U.O. di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia è in grado di effettuare il trattamento mediante ablazione transcatetere di tutte le tachiaritmie cardiache, da quelle più semplici (tachicardia parossistica sopraventricolare da rientro nel nodo atrioven- tricolare o attraverso via accessoria nella sindrome di WolffParkinson-White, flutter atriale tipico, tachicardia atriale, extrasistolia ventricolare) a quelle più complesse (fibrillazione atriale parossistica/persistente/longstanding-persistent, flutter atriale atipico, tachicardia ventricolare) con la possibilità di utilizzo di sistemi avanzati di mappaggio elettroanatomico. In casi particolari di pazienti affetti da fibrillazione atriale (failure della procedura di ablazione endocardica, fibrillazione atriale permanente) può essere proposto un approccio ibrido toracoscopico epicardico e transcatetere endocardico grazie alla collaborazione con l’U.O. di Cardiochirurgia. Il cardioverter-defibrillatore automatico impiantabile (AICD) rappresenta un presidio terapeutico fondamentale della cardiologia moderna che ha dimostrato di abbattere drasticamente la mortalità in pazienti ad alto rischio di morte improvvisa cardiaca su base aritmica. Presso l’U.O. di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia viene effettuato un inquadramento globale del paziente a rischio di morte improvvisa cardiaca dalla valutazione diagnostica non invasiva ed invasiva (studio elettrofisiologico endocavitario), per la stratificazione del rischio aritmico, al trattamento mediante impianto di AICD di ultima gene- razione anche compatibili con l’esecuzione di risonanza magnetica (MR conditional). L’U.O. di di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia garantisce un percorso diagnostico-terapeutico completo per il paziente affetto da alcune cardiopatie aritmogene ereditarie (ad es. sindrome di Brugada, displasia aritmogena del ventricolo destro) comprensivo di studio elettrofisiologico endocavitario mediante mappaggio elettroanatomico per caratterizzazione del substrato aritmogeno e di eventuale impianto di AICD nei casi con elevato profilo di rischio aritmico. In tale ambito è rilevante la collaborazione con l’ U.O. di Radiodiagnostica della Fondazione che si caratterizza per la presenza di operatori con elevata expertise nell’esecuzione di esami di risonanza magnetica cardiaca. L’U.O. di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia è inoltre in grado di offrire un management completo ed avanzato dei pazienti portatori di devices cardiaci impiantabili. Ad esempio, in caso di un’evenienza drammatica ed associata ad un’elevata mortalità come la tempesta (“storm”) elettrica ventricolare (ripetuti interventi in shock del defibrillatore secondari a tachicardie ventricolari recidivanti), è possibile effettuare una valutazione accurata del paziente e provvedere al trattamento mediante ablazione transcatetere con radiofrequenza. Altri eventi spesso drammatici, di difficile gestione e sempre più frequenti in considerazione dell’incremento esponenziale del numero di impianti di questi devices negli ultimi anni, sono rappresentati dall’infezione o da un grave malfunzionamento degli elettrocateteri endocardici. In tali casi, spesso, l’unica soluzione terapeutica definitiva è rappresentata dall’estrazione dell’elettrocatetere disfunzionante o di tutto il sistema impiantato (generatore + elettrocateteri) in caso di infezione. L’U.O. di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia rappresenta un Centro di riferimento per la procedura di estrazione degli elettrocateteri endocardici; tale intervento viene effettuato mediante le tecniche più avanzate ed efficaci al momento disponibili (laser ad eccimeri a luce fredda) e con elevati standard di sicurezza per il paziente grazie alla presenza di uno stand-by effettivo cardiochirurgico in sede. Tali procedure sono effettuate con simili caratteristiche tecniche e di sicurezza solo da pochi altri centri in Italia. Presso l’U.O. di di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia è attivo il controllo a distanza (remote control/telemedicina) dei dispositivi mediante tecnologia wireless con possibilità di accesso diretto ai dati tramite internet da parte del Centro. Tale sistema consente l’accesso rapido del medico elettrofisiologo alla diagnostica del dispositivo con acquisizione tempestiva di importanti informazioni sullo stato clinico del paziente finalizzata all’ottimizzazione del management terapeutico (disease management) e garantendo, inoltre, una maggiore sicurezza per il paziente che può essere controllato a distanza anche quotidianamente. “Last but not least” l’U.O. di di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia è in grado di proporre un iter diagnostico integrato al paziente affetto da sincope comprensivo di head-up tilt test, studio elettrofisiologico endocavitario ed impianto di rilevatore di eventi sottocutaneo (loop-recorder) e di mettere in atto le appropriate misure terapeutiche in caso di sincope su base bradi- o tachiaritmica (impianto di pacemaker/defibrillatore, ablazione transcatetere). Per tale motivo si è già imposto come riferimento sul territorio regionale creando un rapporto consolidato con i neurologi, spesso coinvolti nella valutazione iniziale del paziente affetto da episodi sincopali. L’elettrofisiologia della Fondazione è in grado di offrire un approccio integrato per le patologie cardiache di alta qualità . l’elevato standard qualitativo è confermato dalle statistiche e dal crescente numero di pazienti che ad essa afferiscono. Supplemento al numero odierno de «Il Sannio Quotidiano» EDITORE: PAGINE SANNITE s.c.a.r.l. Viale P. di Napoli, 45 82100 Benevento Tel. 0824.50469 - Fax 0824.355185 Direttore LUCA COLASANTO STAMPA: MARINA PRESS s.r.l. Via E. Marelli - C.da Olivola Benevento Concessionaria di pubblicità ARCUS MULTIMEDIA srl Viale Principe di Napoli, 45 82100 BENEVENTO TEL. +39 0824.47355 FAX +39 0824.29658 Autorizzazione del Tribunale di Benevento N. 201 del 18/07/96