Giovanni Poaolo II - Fondazione di Ricerca e Cura `Giovanni Paolo II`

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Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II
Università Cattolica del Sacro Cuore
Mercoledì 11 Giugno 2014
Supplemento al numero odierno de ‘Il Sannio Quotidiano’
SPECIALE MEDICINA z «Eccellenze all’interno della struttura di Largo Gemelli a Campobasso»
Patologie cardiovascolari,
protagonista la ricerca
L’Unità Operativa Complessa di Cardiochirurgia diretta dal dr. De Filippo offre moderne terapie
Le patologie cardiovascolari sono la prima causa
di mortalità in Italia e nei paesi occidentali.
L’innovazione tecnologica ha fatto sì che siano
disponibili modalità terapeutiche che richiedono un
approccio integrato tra le diverse professionalità
deputate alla cura dei pazienti affetti da malattie
cardiovascolari. Il concetto di team del cuore
(Heart Team) è oggi fondamentale per il processo
terapeutico e consente di poter usufruire delle risorse necessarie in modo armonico e con un notevole
risparmio economico. Il Dipartimento di Malattie
Cardiovascolari della Fondazione di Ricerca e Cura
Giovanni Paolo II ha al suo interno le professionalità e le tecnologie per questo modo di trattare le
patologie cardiovasscolari.
In particolare l’Unità Operativa Complessa di
Cardiochirurgia diretta dal dr. Carlo Maria De
Filippo è organizzata in modo di offrire le moderne
terapie per le malattie cardiache e vascolari.
Inoltre collabora attivamente con l’Unità di
Elettrofisiologia e di Emodinamica.
Lo scompenso cardiaco è una reale emergenza
epidemiologica per il nostro paese.
La terapia di questa patologia si fonda sull’integrazione tra cardiologo e cardiochirurgo per proseguire nel percorso di riabilitazione.
In Italia queste professionalità sono raramente
disponibili nell’ambito dello stesso Ente.
La presenza nella Fondazione Giovanni Paolo II
di tutte le Unità operative deputate alla terapia di
questa patologia è una garanzia di qualità e consente di ridurre sensibilmente l’incidenza di complicanze.
Presso la Fondazione Giovanni Paolo II si terrà il
14/06/2014 un importante convegno sullo scompenso cardiaco, organizzato dall’Unità Operativa di
Cardiochirurgia e di Elettrofisiologia , che vedrà la
partecipazione dei massimi esperti internazionali
sull’argomento.
L’integrazione in un network di Centri di eccellenza per le malattie cardiovascolari in Italia e
all’estero è un altro dei punti salienti dell’Unità
Operativa di Cardiochirurgia, della Chirurgia
Vascolare e dell’Elettrofisiologia.
La ricerca ha un ruolo fondamentale per la terapia delle malattie cardiovascolari .
L’Unità Operativa di Cardiochirurgia ha sviluppato ed è leader per l’applicazione di cellule staminali autologhe nella terapia della cardiomiopatia
ischemica e coordinerà uno studio multicentrico
con l’Ospedale San Raffaele e l’Università di
Padova. Inoltre l’equipe di cardiochirurgia diretta
dal dr. De Filippo collabora attivamente con la cardiologia dell’Ospedale Fatebenefratelli di
Benevento, diretta dal prof. Villari.
La collaborazione tra le due Unità Operative si
sviluppa attraverso il modello dell’Heart Team, per
la condivisione dei percorsi operativi e l’implementazione delle metodiche percutanee per la terapia delle patologie valvolari e delle stenosi carotidee.
La cooperazione ha portato allo sviluppo di pro-
tocolli integrati per la terapia delle malattie cardiovascolari. Il prof. Villari ed il dr. De Filippo hanno
portato a termine complesse procedure nell’ambito
delle due Unità Operative con metodiche innovative avvalendosi delle risorse tecnologiche di ultima
generazione disponibili.
Le cellule staminali autologhe sono applicate
anche per la terapia dell’ischemia critica periferica
quando le altre possibilità terapeutiche non sono
possibili.
Questa metodica innovativa consente di poter
ridurre del 60% l’incidenza di amputazioni.
Innovazione tecnologica, lavoro in equipe e ricerca sono i punti salienti dell’Unità Operativa di
Cardiochirurgia, di Chirurgia Vascolare e di
Elettrofisiologia.
La rivascolarizzazione miocardica è eseguita con
l’ausilio della circolazione extracorporea o a cuore
battente. La mortalità è sotto il 2% ed è una delle
migliori nel panorama nazionale ed internazionale.
La sostituzione della valvola aortica è eseguita con
tecniche di chirurgia mini invasiva che garantiscono una maggior confort per il paziente ed una rapida ripresa , aspetto di particolare importanza per i
pazienti anziani.
La valvola mitralica è riparata nel 98% dei casi
nei quali è indicato l’intervento di plastica.
L’equipe di cardiochirurgia ha contribuito negli
anni allo sviluppo di tecniche avanzate per la riparazione della mitrale che hanno avuto ampio riconoscimento nazionale ed internazionale.
I risultati clinici di eccellenza ottenuti, certificati
dalle Autorità Nazionali confermano l’efficacia
terapeutica per le patologie cardiovascolari del
Centro Cardiovascolare della Fondazione Giovanni
Paolo II.
Il trattamento della cardiopatia ischemica
In questo vasto capitolo sono comprese
tutte malattie cardiache che derivano
dalle alterazioni della riduzione acuta o
cronica del flusso di sangue nelle arterie
coronarie da cui dipende la normale funzione del muscolo cardiaco. La patologia
è la aterosclerosi ovvero la deposizione di
colesterolo nella nparete delle arterie.
Tale patologia costituisce la prima causa
di morte o disabilità nei paesi industrializzati. La conoscenza e la terapia di questa condizione è stata oggetto di intensa e
continua ricerca negli ultimi cinquant’anni con un impatto straordinario sui risultati sia per ciò che riguarda la riduzione
della mortalità che per il miglioramento
della qualità della vita della popolazione
affetta. L’approccio diagnostico e tera-
peutico è multidisciplinare e prevede una
integrazione fra i medici di medicina
generale, cardiologi clinici ed interventisti, radioplogi, cardiochirurghi. Le problematiche logistiche, organizzative, economiche educative e tecnologiche che si
pongono sono evidentemente assai
importanti e dalla appropriata soluzione
delle stesse è derivato e dipende il suc-
cesso terapeutico. Un aspetto importante
nella costruzione dei percorsi terapeutici
è quello della centralità del paziente il
quale , soprattutto in età più avanzata,
evento molto frequente nella odierna pratica clinica, è spesso affetto da altre patologie oltre quella cardiaca, che necessitano di attenzioni e cure multispecialistiche.
La terapia valvolare
L’innalzamento dell’età media della popolazione
ha determinato un aumento dell’incidenza delle
patologie delle valvole cardiache.
La valvulopatia aortica, in particolare la stenosi
aortica, è una patologia caratteristica dell’anziano.
Quando la stenosi è particolarmente importante la
valvola aortica deve essere sostituita. La sostituzione valvolare aortica richiede la sternotomia e l’uso
della circolazione extracorporea . in alcuni casi è
indicato sostituire la valvola aortica per via percutanea. L’utilizzo della sternotomia comporta l’apertura completa della gabbia toracica.
Presso l’Unità Operativa di Cardiochirurgia della
Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II la
sostituzione valvolare aortica viene eseguita con un
approccio minimamente invasivo. Lo sterno è aperto solo in minima parte. Quest’approccio chirurgico
ha molteplici vantaggi. L’utilizzo di trasfusioni ematiche è ridotto, lo sterno non è aperto completamento garantendo una ripresa più rapida del paziente e
una maggiore facilità di guarigione della frattura .
Quest’aspetto è di particolare importanza per le
pazienti anziane che soffrono di osteoporosi.
La ferita cutanea di soli 10 cm garantisce inoltre
un migliore risultato estetico.
Anche la patologia della valvola mitralica è in
aumento.
Le patologie che interessano la valvola mitralica
possono essere suddivise in :
1) malattie degenerative che vedono una degenerazione della valvola per l’età avanzata o per una
predisposizione morfologica genetica ( Sindrome di
Barlow).
2) Alterazione funzionale per una sottostante pato-
logia cardiaca
3) Alterazione dell’anatomia e funzione valvolare
per processi infettivi.
In genere l’intervento consiste nella sostituzione
della valvola mitralica.
Presso l’Unità Operativa di Cardiochirurgia della
Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II è
eseguita la riparazione della valvola mitralica che
garantisce la libertà dalle protesi meccaniche e biologiche.
In molti casi è possibile eseguire anche in questo
caso l’intervento con tecnica mini invasiva.
I risultati ottenuti dalla Cardiochirurgia sono
eccellenti . la mortalità per la sostiruzione valvolare aortica è 2%. La mortalità per la riparazione
della valvola mitralica è stata 0% e la valvola è stata
riparata nel 100% dei casi.
La Fondazione Giovanni Paolo di
Campobasso è dotata di strumenti tecnici,
apparecchiture, logistica e competenze e
professionali di avanguardia che predispongono la Struttura di Largo Gemelli
ad una integrazione con la rete assistenziale del Molise e delle regioni limitrofe
con la possibilità di fornire un servizio di
elevatissimo standard alla popolazione.
II
MERCOLEDÌ 11 GIUGNO 2014
CATTOLICA
Eccellenze mediche
Diagnosi, cause
e trattamenti chirurgici
L'AORTA ADDOMINALE
L'aterosclerosi è una forma di infiammazione
cronica delle arterie di grande e medio calibro
che si instaura a causa dei fattori di rischio cardiovascolare: fumo, ipercolesterolemia, diabete
mellito, ipertensione, obesità, iperomocisteinemia; si sospetta che possano esservi anche altre
cause, in particolare di natura infettiva e immunologica. Anatomicamente, la lesione caratteristica dell'aterosclerosi è l'ateroma o placca aterosclerotica, cioè un ispessimento dell'intima
delle arterie (lo strato più interno, che è rivestito dall'endotelio ed è in diretto contatto con il
sangue), dovuto principalmente all'accumulo di
materiale lipidico (grasso) e a proliferazione del
tessuto connettivo, che forma una cappa fibrosa
al di sopra del nucleo lipidico. Le lesioni, che
hanno come caratteristica specifica la componente lipidica più o meno abbondante, si evolvono con il tempo: iniziano nell'infanzia come
strie lipidiche (a carattere reversibile) e tendono
a divenire placche aterosclerotiche, che nelle
fasi avanzate possono portare a restringimenti
(stenosi) del lume arterioso oppure ulcerarsi e
complicarsi con una trombosi sovrapposta, che
può portare a una occlusione, spesso improvvisa, dell'arteria. Clinicamente l'aterosclerosi può
essere asintomatica, oppure manifestarsi, di
solito dai 40-50 anni in su, con fenomeni ischemici acuti o cronici, che colpiscono principalmente cuore, encefalo, arti inferiori e intestino.
Le placche ateromatose hanno infatti nell’uomo
una distribuzione abbastanza costante ed in
ordine decrescente sono interessate: aorta addominale, arterie coronarie, arterie poplitee e
femorali, aorta toracica, carotidi a livello della
biforcazione e arterie del circolo intracranico
che compongono il circolo di Willis (a. vertebrale, a. basilare, a. carotide interna) e arteria
cerebrale media. Sono invece di solito risparmiati i vasi delle estremità superiori e le arterie
mesenteriche e renali (ad eccezione dei loro
osti). Inoltre, in questi segmenti arteriosi le
lesioni colpiscono soprattutto gli osti di origine
dei rami arteriosi e i tratti in cui le arterie formano curve o si biforcano: tratti che sono maggiormente esposti alle forze emodinamiche
legate alla turbolenza del flusso. Le manifestazioni cliniche dell'aterosclerosi compaiono in
genere dopo i quaranta-cinquanta anni di età e
sono dovute alla ischemia (riduzione del flusso
ematico) nel letto vasale dipendente dall'arteria
lesa. La riduzione del flusso dipende sia dal
restringimento del lume arterioso in corrispondenza delle lesioni aterosclerotiche sia dalla
presenza di meccanismi di compenso insufficienti. Il principale meccanismo di compenso è
rappresentato dall'instaurarsi di circoli collaterali, che consentono al sangue di raggiungere i
territori ipoirrorati attraverso i vasi adiacenti.
Le manifestazioni cliniche croniche sono conseguenti ad un restringimento stabile dell'arteria
colpita, che rende il flusso ematico fisso, cioè
incapace di aumentare quando le condizioni
funzionali lo richiedono, come ad esempio
durante gli sforzi fisici. Di conseguenza la sintomatologia, in particolare il dolore, tende ad
essere assente a riposo e a presentarsi in occasione di esercizio fisico più o meno intenso, a
seconda della gravità dell'ostruzione arteriosa e
dell'efficienza dei circoli collaterali. Tipiche
sindromi croniche sono: angina pectoris stabile,
angina abdominis, claudicatio intermittens,
nella quale il dolore insorge durante la deambulazione e scompare tipicamente dopo pochi
minuti di riposo.
Le manifestazioni cliniche acute sono invece
il risultato di una improvvisa riduzione del lume
arterioso, che provoca una brusca riduzione del
flusso ematico nel territorio dipendente. In
genere l'occlusione arteriosa è causata dalla rottura (fissurazione) di una placca aterosclerotica,
con conseguente trombosi in corrispondenza
della ulcerazione. Raramente alla base delle
manifestazioni acute vi può essere uno spasmo
vasale, che viene chiamato in causa quando gli
esami angiografici non rilevano alterazioni dei
vasi. Sono sindromi ischemiche acute: angina
pectoris instabile, infarto miocardico, infarto
intestinale, ictus ischemico.
I fattori responsabili della fissurazione della
placca ateromatosa sono molteplici e complessi,
ma due fenomeni sembrano di particolare
importanza: l'infiammazione della placca e la
presenza di un'abbondante componente lipidica,
che renderebbero la placca meno resistente
all'urto della corrente ematica. Le cellule
infiammatorie e soprattutto i macrofagi producono enzimi idrolitici (metalloproteasi), capaci
di lisare il collagene della cappa fibrosa, che
diviene così meno resistente agli stress emodi-
L’aterosclerosi e le
sue manifestazioni
namici. Ecco l’importanza del ruolo delle statine che consente di avere un effetto pleiotropo a
livello dell’endotelio del vaso con un’azione
antinfiammatoria che permette di stabilizzare le
placche evitando che possano andare incontro a
fenomeni di fisssurazione.
Ogni anno vengono diagnosticati circa
200.000 nuovi casi di aneurisma dell'aorta
addominale. Un aneurisma dell’aorta addominale, noto anche con la sigla AAA, è una dilatazione dell'aorta che può andare incontro a rottura, con esito potenzialmente fatale. L'aorta è
l'arteria principale che trasporta il sangue ricco
di ossigeno dal cuore a tutte le parti dell'organismo. Nell'addome, l'aorta si divide, biforcandosi, nelle arterie iliache, che trasportano il sangue alle gambe e ad altre aree della parte inferiore del corpo ( Figura 1). L'aneurisma è una
dilatazione dell'aorta dovuta all'indebolimento
di una porzione dell'arteria che non è in grado
di sostenere la forza del flusso sanguigno (vedere Figura 2). Benché possano formarsi in qualsiasi arteria del corpo umano, gli aneurismi
sono più frequenti nell'aorta addominale e nelle
arterie iliache. Il diametro dell'aorta
è normalmente compreso tra 2 e 2,6 cm; in
caso di aneurisma, può superare di diverse volte
le dimensioni normali. Con il passare del
tempo, l'indebolimento dell'aorta dovuto ad una
malattia vascolare, ad un trauma o ad un difetto
genetico (ereditario) del tessuto della parete
arteriosa può portare alla formazione di un
aneurisma dell'aorta addominale. La continua
pressione esercitata dal sangue sull'area indebolita può indurre la dilatazione dell'aorta
(aumento di volume e riduzione dello spessore
della parete). I fattori di rischio per lo sviluppo
di un aneurisma comprendono l'ereditarietà
(anamnesi familiare), il fumo, le malattie cardiache, l'ipertensione e un'alimentazione scorretta. Generalmente, il medico prescrive semplici misure preventive, come il controllo della
pressione arteriosa, l'astensione dal fumo e la
riduzione del colesterolo nella dieta. Questi
cambiamenti del proprio stile di vita possono
anche contribuire alla prevenzione di ulteriori
disturbi futuri. Sicuramente se il paziente è un
soggetto a rischio per lo sviluppo di un aneurisma, il medico potrebbe anche prescrivere farmaci che abbassano la pressione arteriosa.Il
rischio di rottura aumenta con le dimensioni
dell'aneurisma e con l'ipertensione. Infatti il
diametro trasverso oltre il quale tale rischio
diventa elevato è 5,5 cm per gli uomini e 5 cm
per le donne e quindi solo in questo caso diventa indicato un trattamento della patologia aneurismatica. Inoltre il rischio di rottura aumenta
in modo direttamente proporzionale al diametro
trasverso, per cui aneurismi di 6 cm avranno un
rischio di rottura del 20% annuo, mentre quelli
di 7 cm di diametro trasverso avranno un
rischio del 30%. Se non trattata, questa patologia può causare la rottura dell'aorta e la rottura
di un aneurisma è spesso fatale e rappresenta
una delle principali cause di morte negli Stati
Uniti. Molte persone affette da AAA non avvertono alcun sintomo. Per questo, è molto importante valutare con il proprio medico di base il
rischio di avere o di sviluppare in futuro un
AAA. Se compaiono sintomi, quello più frequente è il dolore, che può presentarsi a livello
dell'addome, della schiena o del torace. Alcuni
pazienti descrivono il dolore in modi diversi: da
lieve a intenso oppure come dolorabilità a livello della parte medio-alta dell'addome o della
parte bassa della schiena. Altri pazienti avvertono l'aneurisma come una massa pulsante o
vibrante nell'addome. Altri pazienti ancora, pur
con diagnosi di AAA, non accusano nessuno di
questi sintomi. Il medico curante può diagnosticare un aneurisma dell’aorta addominale
durante una normale visita di routine. È possibile che il medico avverta con la palpazione un
rigonfiamento o una pulsazione nell'addome.
Più spesso, gli aneurismi vengono diagnosticati
in occasione di esami quali la TC (tomografia
computerizzata o Tac) o l'ecografia.
Le modalità di trattamento dell'aneurisma
dipendono dalle dimensioni e dalla sede
dell'aneurisma dell’aorta addominale e dalle
condizioni generali di salute del paziente. Se
l'aneurisma è piccolo, è auspicabile che il medico consigli solo visite di controllo periodiche
per tenerlo sotto controllo. Al contrario, un
aneurisma di dimensioni maggiori o a rapida
crescita (espansione) è più facilmente esposto al
rischio di rottura e, pertanto, può rendersi
necessario un trattamento. Le opzioni terapeutiche sono due: il trattamento chirurgico tradizionale o il trattamento endovascolare.
Il trattamento chirurgico tradizionale costituisce il trattamento storico degli aneurismi dell'aorta addominale. Nell'ambito di questo intervento, il chirurgo incide l'addome o il fianco del
paziente e ripara l'aorta sostituendo la parte
malata (aneurisma) con una protesi sintetica
(tubo) mantenuta in sede tramite suture.
(Figura). Questa procedura richiede che il flusso ematico nell’aorta venga arrestato durante il
posizionamento della protesi. Il trattamento chirurgico tradizionale viene generalmente eseguito in anestesia generale e la procedura dura
circa 4 ore. I pazienti trascorrono normalmente
una notte in terapia intensiva e altri 5-7 giorni
in ospedale. A seconda della velocità di recupero dell'organismo, occorre un periodo di convalescenza di circa 30 giorni. Benché il trattamento chirurgico tradizionale sia una procedura
convalidata, non tutti i pazienti sono in grado di
tollerare questo tipo di operazione, in rapporto
alle condizioni dello stato di salute generale.
Il trattamento endovascolare è una procedura
relativamente nuova per il trattamento degli
aneurismi dell'aorta addominale. È meno invasiva della chirurgia a cielo aperto e prevede l'esclusione (isolamento) dell'aneurisma tramite il
posizionamento di una protesi endovascolare
all'interno della parte malata dell'aorta, con formazione di una nuova via per il flusso di sangue. La protesi endovascolare rimane permanentemente all'interno dell'aorta grazie ai suoi
uncini di ancoraggio in metallo e alla forza
radiale che la preme saldamente contro la parete aortica. Il trattamento endovascolare può
essere eseguito in anestesia generale o in anestesia regionale o locale, con il paziente
cosciente (sveglio) ma sottoposto a sedazione, e
la procedura richiede generalmente da 1 a 3 ore.
I pazienti rimangono in ospedale solo per pochi
giorni e possono in genere tornare a svolgere le
proprie attività quotidiane entro 6 settimane
dall'intervento. Dopo questo intervento sono
necessarie regolari visite di controllo periodiche (follow-up), nell'ambito delle quali vengono eseguiti test per valutare l’esito della procedura e monitorare l'efficacia del trattamento.
Però non tutti i pazienti possono essere trattati
con la tecnica endovascolare perché occorrono
delle condizioni anatomiche particolari come la
presenza di un tratto di aorta sano, poco calcifico e con scarso trombo parietale e non dilatato,
al di sotto delle arterie renali, che in termine
tecnico viene detto colletto, che permetta l’ancoraggio dell’ endoprotesi aortica. Inoltre
occorre che gli assi iliaci non siano tortuosi per
permettere la salita dei device per il posizionamento dell’endoprotesi.
La sicurezza e l'efficacia a lungo termine del
trattamento endovascolare non sono state ancora accertate. Per alcuni pazienti possono rendersi necessari ulteriori trattamenti in caso di:
Endoleak, perdita periprotesica – condizione
che si verifica se il sangue dell'aorta continua
ad infiltrarsi nell’aneurisma addominale. La
maggior parte degli endoleak non causa alcun
problema medico ma, in una piccola percentuale di casi, si rende necessario un ulteriore
trattamento. Ingrandimento o rottura dell'aneurisma – non sempre sono presenti sintomi in
caso d'ingrandimento dell'aneurisma, ma, se ve
ne sono, il sintomo più comune è il dolore,
seguito da intorpidimento e debolezza degli
arti inferiori, della schiena, del torace o dell'addome. I sintomi della rottura di un aneurisma
comprendono capogiro, svenimento,
accelerazione del battito cardiaco o debolezza
improvvisa. Occlusione di un arto – i sintomi
comprendono dolore all'anca o alle gambe
durante la deambulazione o lo scolorimento o
freddezza delle gambe.
Nell’Unità Operativa Semplice di Chirurgia
Vascolare della Fondazione di Ricerca e Cura
Giovanni Paolo II di Campobasso, diretta dal
dott. Pietro Modugno, sono stati trattati dal
2004 al 2014 200 pazienti affetti da tale patologia, di cui 150 con tecnica chirurgica tradizionale, cioè attraverso una laparotomia con accesso extra peritoneale e 50 trattati con tecnica
endovascolare. I risultati sono risultati al di
sotto della media nazionale con una mortalità
del 1% ed una morbilità inferiore al 5%.
Ovviamente questi risultati derivano da un’attenta selezione del paziente, che viene prima
studiato a livello cardiologico, respiratorio ed
vascolare in toto e successivamente viene candidato alla tipologia di trattamento più idoneo
alle sue condizione generali e anatomiche.
III
CATTOLICA
MERCOLEDÌ 11 GIUGNO 2014
Anche i vasi epiaortici possono
essere colpiti da aterosclerosi
L’aterosclerosi può colpire anche i vasi epiaortici, definiti in questo modo perché partono dall’arco aortico e portano il sangue a livello del cervello
irrorandolo. Il vaso maggiormente colpito è l’arteria carotide destra e sinistra a livello della sua
biforcazione. Quando la stenosi interessa l’arteria
carotide interna, che porta il sangue al cervello, il
rischio è quello che la riduzione del flusso o il
distacco di frammenti da questa placca possa portare all’insorgenza di un ICTUS.
La stenosi carotidea è una patologia tipicamente
maschile, poiché l’aterosclerosi, la causa principale della stenosi, colpisce maggiormente l’uomo
rispetto alla donna.
Spesso la stenosi carotidea risulta essere asintomatica ma altre volte si manifesta con un attacco
ischemico transitorio, noto anche come TIA. Esso
si definisce transitorio, poiché ha un limite di durata: non più di 24 ore. L’attacco ischemico si verifica a livello cerebrale, facciale ed oculare, cioè le
aree non sufficientemente irrorate dalla carotide
occlusa. I segni clinici, dovuti al TIA, si manifestano con emiplegia del lato opposto a quello della
carotide occlusa, difficoltà nel parlare: il linguaggio diventa, talvolta, incomprensibile; problemi
alla vista: visione sdoppiata o annebbiata; possibile
cecità, che si presenta, inizialmente, con un velo
nero o grigio che cala davanti all’occhio; mancata
coordinazione nel camminare e paresi del volto.
Se la stenosi comporta danni ischemici di entità
maggiore, che si protraggono fino a 3 giorni, si
parla di Rind, cioè deficit neurologici ischemici
reversibili. I sintomi sono analoghi a quelli del Tia.
Se, infine, l’occlusione della carotide è grave e
quasi, se non del tutto, completa, il sintomo che ne
deriva è l’ictus ischemico, o stroke. Le conseguenze sono evidenti e non più transitorie: l’individuo,
che ne è affetto, perde totalmente la sensibilità, la
facoltà di movimento e le diverse funzioni controllate dalle aree non più ossigenate dal flusso sanguigno. Nella maggior parte dei casi, questa situazione porta alla morte.
Gli esami diagnostici strumentali consistono nell’ecocolordoppler dei vasi del collo, TAC Cranio
senza m.d.c., in casi particolari l’Angio Tc Vasi del
collo e circolo intracranico.
L’ecocolordoppler è un esame non invasivo,
utile
al
medico
per
individuare
la posizione della placca ateromasica e il grado di
stenosi, cioè quanto il lume si è ristretto. Infatti, è
una metodica che permette, tramite un’ecografia, di
osservare la morfologia delle pareti vasali ed individuare una loro eventuale anomalia; tramite
un doppler, invece, è possibile valutare, con un’analisi ad ultrasuoni, la situazione emodinamica,
cioè la velocità del flusso sanguigno, nell’area di
carotide interessata dalla placca. Quest’ultimo
dato, cioè a quanto viaggia il sangue nel punto di
occlusione, rivela il grado di stenosi della placca
ateromasica. .
Angiografia tomografica computerizzata, o
angiografia CT. Si basa sulla scansione dell’area
carotidea. Le immagini, ottenute tramite strumentazione radiografica, riportano la struttura tridimensionale delle cavità vasali carotidee. Richiede l’iniezione di un mezzo di contrasto iodato.
Angio-risonanza magnetica, o angiografia.
L’esame si avvale di un mezzo di contrasto paramagnetico, che è iniettato al paziente. Consente di
valutare la sede e l’entità delle alterazioni del lume
vasale carotideo.
La terapia farmacologica è utile a migliorare la
sintomatologia del paziente o a prevenirne il peggioramento, ma non «aggiusta» una lesione, come
l’ateroma, presente sulle arterie. Essa prevede
la somministrazione di farmaci che fluidificano il
sangue, antiaggreganti piastrinici, anticoagulanti;
farmaci che limitano l’evoluzione della placca ateromasica come gli ipolipidemizzanti, gli antidiabetici e gli antiipertensivi.
L’intervento chirurgico, invece, è l’unico approccio terapeutico utile a ristabilire il normale flusso
sanguigno all’interno della carotide occlusa. Non
tutte le stenosi carotidee devono essere sottoposte a
trattamento chirurgico, ma solo quelle asitomatiche
o sintomatiche, la cui percentuale di stenosi è del
70%. Il richio di ictus omolaterale alla stenosi carotidea è direttamente correlato al grado di stenosi
carotidea. Infatti quando la stenosi carotidea raggiunge il 70% di restringimento il rischio di ictus è
di circa il 15% annuo e la sola terapia farmacologia
risulta essre inefficace . Di qui la necessità di effettuare l’intervento chirurgico di ripristinare la normalità di flusso.
Sono possibili due tipi di intervento: l’endoarteriectomia della biforcazione carotidea ( TEA
Carotidea) e l’angioplastica e stenting carotideo.
Con il primo intervento si elimina la placca ateromasica e gli eventuali grumi e residui, legati rispettivamente a trombi ed emboli.
Questa tecnica prevede la rimozione della tonaca
intima e di parte di quella media, in cui è presente
l’ateroma. Si pratica tramite incisione diretta lungo
la parte anteriore del collo. La procedura d’intervento prevede che il chirurgo interrompa, per prima
cosa, il flusso di sangue attraverso la carotide. A
quel punto, il medico può incidere la carotide,
aprirla, e togliere la placca. La zona d’incisione,
chiaramente, è individuata grazie alla strumentazione diagnostica. Rimossa la placca, il tessuto
vasale eliminato è sostituito con del tessuto artificiale, o di origine venosa. A questo punto, si richiude la carotide. Con l’angioplastica e stenting carotideo si «respinge» la placca ateromasica, ristabilendo la normale grandezza del lume vasale della
carotide. Si pratica in anestesia locale. Il chirurgo
vascolare opera usando due cateteri: uno è fornito
di una reticella metallica (stent) e un altro di un palloncino. Introducendoli nel circolo arterioso e raggiungendo la zona interessata dall’ateroma, il
medico fa sì che, mediante il palloncino, si ristabilisca il normale diametro della carotide occlusa, e,
mediante la reticella metallica, si mantenga l’allargamento. Il palloncino viene gonfiato solo una
volta che il catetere è stato condotto nell’area interessata dalla placca. Successivamente verrà rimosso. L’intervento chirurgico è necessario quando
l’occlusione della carotide riguarda più del 70% del
lume vasale. Lo stesso dicasi nei casi in cui, nonostante il restringimento sia inferiore in termini di
percentuale, la sintomatologia preveda la possibilità di situazioni critiche, quali Tia, Rind o ictus. In
assenza di queste condizioni sintomatiche gravi e a
percentuali di stenosi inferiori al 70%, l’intervento
non è prioritario. Il motivo è dovuto all’estrema
delicatezza delle operazioni chirurgiche che interessano la carotide. Quando il paziente presenta
uno stadio avanzato di stenosi carotidea, i rischi
legati all’intervento non superano quelli che
potrebbero creare un ictus. Pertanto, si procede ad
eliminare la placca.
Nell’ Unità Operativa Semplice di Chirurgia
Vascolare della Fondazione di Ricerca e Cura
Giovanni Paolo II di Campobasso, diretta dal dott.
Pietro Modugno, sono stati trattati dal 2004 al
2014 circa 1000 pazienti affetti da tale patologia,
di cui 900 con tecnica chirurgica tradizionale con
TEA Carotidea ed un 100 attraverso Angioplastica
carotidea,. I risultati sono risultati al di sotto della
media nazionale con una mortalità del 0,2% ed
una morbilità neurologica inferiore al 1%.
Ovviamente questi risultati derivano da un’attenta
selezione del paziente, che viene prima studiato
attraverso un attenta caratterizzazione morfologica
della placca carotidea attraverso
l’Ecocolordoppler dei vasi del collo e nei casi
dubbi o sospetti viene sottoposto ad Angio TC dei
vasi del collo e del circolo intracranico dove con
i colleghi radiologi del Dipartimento di Radiologia
, diretto dalla Prof.ssa SALLUSTIO, è stato messo
a punto un protocollo per lo studio della morfologia della placca carotidea per valutare le sue
potenzialità emoboligene.
TRATTAMENTO DELLA PATOLOGIA
Gli arti inferiori
L’aterosclerosi è la causa principale di
lesioni ostruttive, complete o parziali
(ossia inducente un restringimento o
stenosi), a carico di uno o più vasi dell’albero arterioso degli arti inferiori
responsabili di un’insieme di quadri clinici, genericamente definito arteriopatia
ostruttiva cronica periferica degli arti
inferiori o, in gergo, AOCP (acronimo
della precedente definizione). Si tratta
di malattie caratterizzate da uno stato di
insufficienza dell’apporto di sangue
arterioso ai tessuti periferici (ischemia
della pelle e dei muscoli degli arti inferiori), che impiega tempi generalmente
lunghi per instaurarsi e provoca effetti
persistenti (ischemia cronica). Le Aocp
si differenziano pertanto dalle ischemie acute, nelle quali avviene invece
un’improvvisa e brutale cessazione dell’irrorazione arteriosa periferica, che
impone, ai fini del salvataggio dell’arto
colpito, un intervento chirurgico urgente. Complessivamente questa malattia
coinvolge un’ampia fascia di popolazione; si stima infatti che ne sia affetto
sino al 2% dei soggetti di età inferiore ai
40 anni, sino al 7% dei soggetti di età
inferiore ai 60 anni, il 10-20% dei soggetti con età tra i 60 ed i 70 anni e oltre
il 20% dei soggetti di età superiore ai 70
anni. La claudicatio intermittens è il
sintomo più comune. Si tratta di dolori
crampiformi, localizzati, a seconda del
livello e dell’estensione delle lesioni
arteriose, a carico del polpaccio, della
coscia ed eventualmente anche del gluteo. Tale sintomo viene evocato dalla
deambulazione, dopo percorsi stereotipati in quanto a distanza. L’autonomia
di marcia, libera da dolore ischemico,
prende il nome di intervallo libero. Il
dolore crampiforme regredisce spontaneamente dopo un certo intervallo di
tempo durante il quale il paziente rimane fermo in piedi, detto tempo di recupero. Il III stadio rappresenta una fase
più grave della malattia, nella quale le
lesioni arteriose sono avanzate al punto
tale da indurre uno stato di ossigenazione insufficiente anche a riposo. Il IV
stadio dipende da una forma ancora più
grave della malattia nella quale, l’ischemia periferica supera ogni possibilità di
compenso da parte del circolo collaterale con necrosi (morte e distruzione cellulare) di un territorio tissutale più o
meno ampio. Gli equivalenti clinici
sono le ulcere trofiche ischemiche e la
gangrena, nelle forme secca ed umida,
quest’ultima dovuta al sovrapporsi di
infezioni batteriche con putrescenza. La
gravità della malattia agli stadi III e IV
è suggerita anche dalla suggestiva definizione fornita a queste forme, ossia
ischemia critica. Un accenno merita
anche l’arteriopatia diabetica, responsabile della condizione nota come piede
diabetico, nella quale al danno a carico
delle arterie di grosso-medio calibro si
associa quello del micro-circolo (vasi di
distribuzione tissutale) con lesioni
necrotiche generalmente umide, associate ad alterazioni dei nervi periferici e
deformazioni ossee. La diagnosi si
effettua grazie all’anamnesi, in cui il
paziente racconta i sintomi (dolore da
sforzo, difficoltà guarigione ferite) e
all’esame obiettivo.Si possono intraprendere diversi approcci terapeutici, in
relazione alla gravità della PAD. Un
approccio medico che consiste nella
prevenzione dell’evoluzione tramite
corrette abitudini di vita (innanzitutto
eliminazione del fumo e controllo di un
eventuale diabete), nell’associazione
dell’esercizio fisico controllato e nella
terapia antiaggregante. L’altro approccio più interventista si basa o sull’intervento intervento chirurgico a cielo
aperto ( bypass aortofemorale, femorofemorale, femorodistale ed endoarteriectomia o mediante procedure endovascolari ( Inserimento di uno stent o
semplice angioplastica). Ci sono poi
pazienti arteriopatici con un quadro cli-
nico molto più grave, affetti da ischemia critica, in cui sia il trattamento chirurgico tradizionale sia quello endovascolare non sono applicabili, per cui
questi vanno incontro ad amputazione.
Proprio per questi pazienti da parecchi
anni è in uso un protocollo di ricerca
con le cellule staminali autoloche presso l’ Unità Operativa Semplice di
Chirurgia Vascolare della Fondazione di
Ricerca e Cura Giovanni Paolo II di
Campobasso, in cui i pazienti con un
quadro di grave arteriopatia sono stati
trattati prelevando le proprie cellule staminali dal midollo osseo e attraverso un
sistema di depurazione isolate ed ineittate nei muscoli della gamba in cui non
vi arrivava più sangue. Sono stati trattati circa 20 pazienti che erano candidati
all’amputazione di gamba presso altri
Centri di chirurgia vascolare, i quali
sono stati sottoposti all’autotrapianto di
cellule staminali riuscendo a salvare
l’arto in crisi.
IV
MERCOLEDÌ 11 GIUGNO 2014
CATTOLICA
POSSIBILI SCENARI z Le recenti scoperte per combattere
una tra le prime cause di morte in Italia
Cellule staminali nelle cardiomiopatie
ischemiche, una potenziale
terapia per lo scompenso
Le malattie cardiovascolari costituiscono uno dei
più importanti problemi di sanità pubblica. In Italia
sono la prima causa di morte e la principale causa
di inabilità nella popolazione anziana (dati Istat ).
In particolare la cardiomiopatia ischemica con
scompenso cardiaco congestizio è responsabile nel
nostro paese del 28% di tutte le morti. La prognosi
dell'insufficienza cardiaca congestizia vede una
mortalità del 50% a cinque anni. La terapia medica,
la rivascolarizzazione miocardica (percutanea o
chirurgica) e, in ultima analisi, il trapianto cardiaco
sono trattamenti consolidati per la cardiomiopatia
ischemica.
Tuttavia queste forme terapeutiche non consentono la rigenerazione cellulare e non possono ripristinare la completa funzionalità miocardica. Il trapianto cardiaco, quando indicato, prevede l'utilizzo
della terapia immuno soppressiva con le complicanze descritte e inoltre soffre della limitata disponibilità di donatori .
Le recenti scoperte hanno dimostrato che le cellule staminali derivate dal midollo osseo possono
differenziarsi in cellule cardiache funzionanti e
hanno un ruolo fondamentale nella formazione dei
circoli collaterali per riportare il sangue nelle zone
ischemiche .
I risultati clinici ottenuti da molti studi hanno
evidenziato una sostanziale sicurezza di questa
possibile terapia. Tuttavia l’efficacia non è stata
confermata.
Presso l’Unità Operativa di Cardiochirurgia della
Fondazione di Ricerca e Cura Giovanni Paolo II è
in atto una ricerca innovativa sull’utilizzo di concentrato di midollo osseo autologo (dello stesso
paziente) nella cardiopatia ischemica per i pazienti che non hanno altre opzioni di rivascolarizzazione.
Il midollo osseo è prelevato dal paziente in anestesia generale e concentrato nella stessa seduta
operatoria.
Si ottiene un concentrato ricco di cellule staminali, citochine e piastrine nel loro ambiente naturale.
Il concentrato è quindi iniettato nel cuore attraverso una piccola incisione toracica o durante l’intervento di rivascolarizzazione miocardica.
Le citochine sono piccole proteine che rimettono
in modo il metabolismo del cuore.
Il protocollo è stato approvato dalle autorità competenti.
I risultati clinici nei pazienti trattati sono stati
molto buoni e sono stati presentati in diversi congressi nazionali e internazionali.
Questo tipo di terapia è particolarmente innovativo perché non utilizza cellule coltivate artificialmente. Le cellule fino ad ora utilizzate per la terapia con cellule staminali nel cuore sono state cellule di un solo tipo e in genere coltivate.
Il processo patofisiologico che cerca di riparare
il danno ischemico nel cuore vede l’intervento di
più popolazioni di cellule staminali, citochine e sta-
minali.
Il concentrato di midollo osseo utilizzato nel
Centro di Campobassso contiene tutte le cellule e le
citochine ripristinando il processo patofisiologico.
La Cardiochirurgia di Campobasso è all’avanguardia per le ricerche inerenti la terapia della cardiomiopatia ischemica offrendo ai pazienti che possono essere arruolati nel protocollo una nuova
opzione terapeutica.
I risultati clinici ottenuti hanno consentito di
estendere lo Studio ad un trial multicentrico che
vede interessati i seguenti centri : Dipartimento di
Malattie Cardiovascolari dell’Università degli
Studi di Padova ( prof. Gino Gerosa ) ,
Dipartimento Malattie Cardiovascolari Università
degli Studi di Torino ( prof. Mauro Rinaldi),
Dipartimento Malattie Cardiovascolari Ospedale
San Raffaele ( prof. Ottavio Alfieri). collocando la
Cardiochirurgia del Molise all’avanguardia per la
cardiomiopatia ischemica.
L’unità operativa di cardiologia, elettrofisiologia ed aritmologia
L’Unità Operativa (U.O.) di
Cardiologia, Elettrofisiologia ed
Aritmologia della Fondazione di
Ricerca e Cura “Giovanni Paolo
II” di Campobasso, diretta dal Dr.
Matteo Santamaria, rappresenta
un centro di eccellenza per il trattamento avanzato dello scompenso cardiaco e di tutti i tipi di aritmie cardiache, per la profilassi
primaria e secondaria della morte
improvvisa cardiaca e per il
management completo dei dispositivi cardiaci impiantabili (pacemakers, cardioverter-defibrillatori
automatici). Nel corso degli anni
si è consolidata come un punto di
riferimento regionale e nazionale
sia per l’aspetto assistenziale sia
per quello relativo alla ricerca ed
alla formazione. L’importanza di
questa unità risulta dall’incontro
tra l’unicità del tipo di prestazioni
aritmologiche erogate, gran parte
delle quali non presenti sul terrirorio molisano ed in molte regioni limitrofe, e dall’interazione tra
elettrofisiologia e cardiochirurgia
che, nel Dipartimento di Malattie
Cardiovascolari, trovano le condizioni ideali per agire in sinergia
consentendo l’esecuzione di procedure ibride con il contemporaneo intervento di entrambe le
equipes e di procedure interventistiche particolarmente complesse
e rischiose con la presenza di uno
stand-by reale sul posto dell’equipe cardiochirurgica, garanzia fondamentale per la sicurezza del
paziente.
In circa il 30% dei pazienti
affetti da scompenso cardiaco è
presente un’anomalia della conduzione intraventricolare dell’impulso elettrico cardiaco che comporta una dissincronia dell’attivazione elettrica che può contribuire
in maniera significativa al deficit
della funzione sistolica (ovvero
della forza contrattile del ventricolo sinistro) documentata in questi
pazienti.
L’U.O.
di
Cardiologia, Elettrofisiologia ed
Aritmologia rappresenta un riferimento a livello nazionale per la
terapia di resincronizzazione cardiaca mediante impianto di devices biventricolari che si caratterizzano per la presenza di un elettrocatetere che viene posizionato
in un ramo del sistema venoso
principale del cuore (seno coronarico) e che permette di stimolare i
siti del ventricolo sinistro che si
attivano più tardivamente consentendo di ristabilire una “sincronia” nell’attivazione elettrica cardiaca. Evidenze scientifiche rile-
vanti hanno dimostrato che tale
terapia, in pazienti ben selezionati affetti da scompenso cardiaco
(soprattutto pazienti con presenza
di blocco di branca sinistra completo all’elettrocardiogramma di
superficie), può migliorare significativamente la capacità funzionale e la qualità di vita, ridurre le
ospedalizzazioni e prolungare la
sopravvivenza.
Negli ultimi 20 anni, il trattamento dei disturbi del ritmo cardiaco è profondamente cambiato.
Si è assistito ad una progressiva
riduzione dell’utilizzo dei farmaci
antiaritmici - unico approccio
terapeutico disponibile in passato
per il controllo dei sintomi e per
la soppressione delle tachiaritmie
cardiache - a favore di tecniche di
trattamento non-farmacologiche
quali l’ablazione transcatetere
mediante
radiofrequenza.
Ablazione è il termine che indica
la rimozione o distruzione di tessuto superficiale. Nell’ambito
delle procedure elettrofisiologiche si tratta della cauterizzazione
di tessuto cardiaco che determina
l’eliminazione del “substrato”
coinvolto nella genesi delle specifiche tachiaritmie cardiache.
L’U.O.
di
Cardiologia,
Elettrofisiologia ed Aritmologia è
in grado di effettuare il trattamento mediante ablazione transcatetere di tutte le tachiaritmie cardiache, da quelle più semplici (tachicardia parossistica sopraventricolare da rientro nel nodo atrioven-
tricolare o attraverso via accessoria nella sindrome di WolffParkinson-White, flutter atriale
tipico, tachicardia atriale, extrasistolia ventricolare) a quelle più
complesse (fibrillazione atriale
parossistica/persistente/longstanding-persistent, flutter atriale atipico, tachicardia ventricolare)
con la possibilità di utilizzo di
sistemi avanzati di mappaggio
elettroanatomico.
In casi particolari di pazienti
affetti da fibrillazione atriale (failure della procedura di ablazione
endocardica, fibrillazione atriale
permanente) può essere proposto
un approccio ibrido toracoscopico
epicardico e transcatetere endocardico grazie alla collaborazione
con l’U.O. di Cardiochirurgia.
Il cardioverter-defibrillatore
automatico impiantabile (AICD)
rappresenta un presidio terapeutico fondamentale della cardiologia
moderna che ha dimostrato di
abbattere drasticamente la mortalità in pazienti ad alto rischio di
morte improvvisa cardiaca su
base aritmica.
Presso l’U.O. di Cardiologia,
Elettrofisiologia ed Aritmologia
viene effettuato un inquadramento globale del paziente a rischio di
morte improvvisa cardiaca dalla
valutazione diagnostica non invasiva ed invasiva (studio elettrofisiologico endocavitario), per la
stratificazione del rischio aritmico, al trattamento mediante
impianto di AICD di ultima gene-
razione anche compatibili con l’esecuzione di risonanza magnetica
(MR conditional).
L’U.O. di di Cardiologia, Elettrofisiologia ed Aritmologia
garantisce un percorso diagnostico-terapeutico completo per il
paziente affetto da alcune cardiopatie aritmogene ereditarie (ad es.
sindrome di Brugada, displasia
aritmogena del ventricolo destro)
comprensivo di studio elettrofisiologico endocavitario mediante
mappaggio elettroanatomico per
caratterizzazione del substrato
aritmogeno e di eventuale
impianto di AICD nei casi con
elevato profilo di rischio aritmico.
In tale ambito è rilevante la collaborazione con l’ U.O. di
Radiodiagnostica
della
Fondazione che si caratterizza per
la presenza di operatori con elevata expertise nell’esecuzione di
esami di risonanza magnetica cardiaca. L’U.O. di Cardiologia,
Elettrofisiologia ed Aritmologia è
inoltre in grado di offrire un
management completo ed avanzato dei pazienti portatori di devices
cardiaci impiantabili.
Ad esempio, in caso di un’evenienza drammatica ed associata
ad un’elevata mortalità come la
tempesta (“storm”) elettrica ventricolare (ripetuti interventi in
shock del defibrillatore secondari
a tachicardie ventricolari recidivanti), è possibile effettuare una
valutazione accurata del paziente
e provvedere al trattamento
mediante ablazione transcatetere
con radiofrequenza.
Altri eventi spesso drammatici,
di difficile gestione e sempre più
frequenti in considerazione dell’incremento esponenziale del
numero di impianti di questi devices negli ultimi anni, sono rappresentati dall’infezione o da un
grave malfunzionamento degli
elettrocateteri endocardici. In tali
casi, spesso, l’unica soluzione
terapeutica definitiva è rappresentata dall’estrazione dell’elettrocatetere disfunzionante o di tutto il
sistema impiantato (generatore +
elettrocateteri) in caso di infezione.
L’U.O.
di
Cardiologia,
Elettrofisiologia ed Aritmologia
rappresenta un Centro di riferimento per la procedura di estrazione degli elettrocateteri endocardici; tale intervento viene
effettuato mediante le tecniche
più avanzate ed efficaci al
momento disponibili (laser ad
eccimeri a luce fredda) e con elevati standard di sicurezza per il
paziente grazie alla presenza di
uno stand-by effettivo cardiochirurgico in sede. Tali procedure
sono effettuate con simili caratteristiche tecniche e di sicurezza
solo da pochi altri centri in Italia.
Presso l’U.O. di di Cardiologia,
Elettrofisiologia ed Aritmologia è
attivo il controllo a distanza
(remote control/telemedicina) dei
dispositivi mediante tecnologia
wireless con possibilità di accesso
diretto ai dati tramite internet da
parte del Centro. Tale sistema
consente l’accesso rapido del
medico elettrofisiologo alla diagnostica del dispositivo con
acquisizione tempestiva di importanti informazioni sullo stato clinico del paziente finalizzata
all’ottimizzazione del management terapeutico (disease management) e garantendo, inoltre,
una maggiore sicurezza per il
paziente che può essere controllato a distanza anche quotidianamente.
“Last but not least” l’U.O. di di
Cardiologia, Elettrofisiologia ed
Aritmologia è in grado di proporre un iter diagnostico integrato al
paziente affetto da sincope comprensivo di head-up tilt test, studio elettrofisiologico endocavitario ed impianto di rilevatore di
eventi sottocutaneo (loop-recorder) e di mettere in atto le appropriate misure terapeutiche in caso
di sincope su base bradi- o tachiaritmica
(impianto
di
pacemaker/defibrillatore, ablazione transcatetere). Per tale motivo
si è già imposto come riferimento
sul territorio regionale creando un
rapporto consolidato con i neurologi, spesso coinvolti nella valutazione iniziale del paziente affetto
da
episodi
sincopali.
L’elettrofisiologia
della
Fondazione è in grado di offrire
un approccio integrato per le
patologie cardiache di alta qualità
. l’elevato standard qualitativo è
confermato dalle statistiche e dal
crescente numero di pazienti che
ad essa afferiscono.
Supplemento al numero odierno de
«Il Sannio Quotidiano»
EDITORE:
PAGINE SANNITE s.c.a.r.l.
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