Applicazioni innovative delle piante officinali in alimentazione

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APPLICAZIONI INNOVATIVE DELLE PIANTE OFFICIANALI IN ALIMENTAZIONE UMANA
Prof.ssa Anna Arnoldi
Presidente del Corso di Laurea
In Scienze e Tecnologie Erboristiche
Dipartimento di Scienze Farmaceutiche
Università degli Studi di Milano
Questa relazione si propone di illustrare alcuni usi innovativi delle piante officinali nel settore
alimentare, offrendo degli spunti utili applicabili anche nel territorio lombardo. In questi anni
l'interesse per le specie officinali e aromatiche è in continua crescita, non solo per il sensibile
incremento nella domanda dei prodotti erboristici, sia per il consumo diretto che per le diverse
utilizzazioni industriali, ma anche nella finalità di contribuire, attraverso nuove scelte colturali ad una
migliore diversificazione della produzione agricola, con valide prospettive di redditività. In tutto il
mondo, quindi anche nel nostro paese, l'interesse nel comparto officinale è in continua crescita,
per l'aumento del fabbisogno, sia da parte dell'impiego erboristico, sia da parte dell'industria, i cui
principali settori di attività sono il farmacologico, il cosmetico, l'agro-alimentare e il liquoristico. In
base alla destinazione, tutto il comparto può suddividersi con una certa approssimazione in
quattro principali filiere: spezie di origine tropicale, di antichissima tradizione nei traffici mondiali;
specie aromatiche delle zone temperate, che tendono ad affermarsi nei Paesi industrializzati; oli
essenziali, di largo impiego nel settore profumiero; piante medicinali, sulle quali si avverte un
rinnovato interesse per la maggior richiesta di fitoterapici. Questi impieghi necessitano di materiale
di buona qualità organolettica, alimentare e con buon contenuto di sostanza attiva,
preferibilmente proveniente da coltivazioni anziché da raccolta spontanea, per garantire
l’uniformità del prodotto e la salvaguardia della biodiversità. Le importazioni da paesi con
agricoltura non professionale possono presentare problemi di qualità e sicurezza dovuti alla
possibile contaminazione con agrofarmaci persistenti, alle condizioni di raccolta, essiccazione ed
ai metodi di disinfestazione delle derrate immagazzinate, oltre che alla confusione nel
riconoscimento delle specie raccolte. La disponibilità di dati statistici sulla distribuzione delle colture
officinali in tutto il mondo è piuttosto frammentaria. Alcune stime indicano una superficie intorno a
75.000 ha, in massima parte concentrata in India e Cina. In Europa, una maggiore espansione si
riscontra nei Paesi dell'Est, quali Ungheria, Romania, ex Iugoslavia. In Francia il settore delle piante
officinali è molto attivo, anche se, nonostante la consistente produzione nazionale, notevole è
l'entità delle importazioni. La Germania vanta un'antica tradizione nell'impiego di specie officinali in
fitoterapia; queste colture occupano circa 7000 ha e sono particolarmente diffuse in Baviera. Si
rileva anche una buona espansione sia in Spagna, sia in Olanda. Una discreta diffusione è
presente negli Stati Uniti, dove si stima una superficie di circa 50 mila ha, in gran parte a menta. In
Italia la superficie destinata a colture officinali è di circa 4000 ha e comprende anche il
bergamotto ed il frassino da manna, specie legnose con caratteristiche alquanto differenti dalle
tipiche specie officinali erbacee ed arbustive. Le recenti indagini confermano la tendenza
all'aumento delle superfici coltivate ad officinali, ma gli incrementi appaiono del tutto modesti
rispetto al mercato erboristico, a conferma della preferenza dell'industria italiana per l'importazione
della materia prima dall'estero, stimata intorno a circa il 70% dell'intero fabbisogno. E’ tuttavia
significativa la crescente attenzione da parte dell'industria ad inserire nella propria filiera produttiva
la coltivazione di specie adattabili alle condizioni pedoclimatiche italiane.
UN POSSIBILE FUTURO PER LA COLTIVAZIONE DELLE PIANTE OFFICINALI NEL TERRITORIO PAVESE
Una buona parte del territorio della provincia di Pavia, essendo localizzato in un’area collinare o
montana, è caratterizzato da un’economia tendenzialmente rurale e presenta un contesto
ambientale ben conservato e privo di situazioni di degrado e di inquinamento. Per questo preserva
l'attività tradizionale agricola e offre potenzialmente buone possibilità turistiche, soprattutto nel
settore enogastronomico.
In questa area, oltre ad altri settori maturi come l’enologia, anche la coltivazione, la trasformazione
e la commercializzazione delle piante officinali possono diventare un settore strategico di sviluppo.
Il territorio risulta essere particolarmente adatto a tali coltivazioni, per una serie di peculiari
condizioni, sia di ordine propriamente produttivo che prettamente ambientale:
è contraddistinto da un elevato grado di naturalità a causa della limitata pressione industriale;
presenta una situazione sociale attenta ad individuare soluzioni innovative a seguito della
riduzione locale dell'agricoltura tradizionale mista ed estensiva;
si distingue per un clima peculiare, caratterizzato da venti che riducono fortemente il tasso di
umidità della zona e che contrastano la virulenza delle colonie fungine;
dispone di caratteristiche ambientali pregevoli, contraddistinte anche dalla presenza di un
terreno calcareo e da una buona esposizione dei versanti collinari.
La coltivazione delle piante officinali potrebbe avere numerose ricadute di tipo socio-economiche
e coinvolgere diversi settori economici locali, secondo le seguenti modalità:
Nel settore agricolo:
agricolo comportando risultati estremamente positivi in ambito agricolo,
preservando la manodopera operante nell'ambito del settore, diversificando e potenziando le
attività delle aziende agricole insediate e/o creando nuove attività professionali.
Nel contesto ambientale:
ambientale incidendo positivamente sulla salvaguardia e la sicurezza del
territorio, relativamente all'attività di recupero, di manutenzione e di gestione di aree a rischio di
dissesto idrogeologico, come le superfici terrazzate delle pendici montane e collinari.
Nel settore turistico:
turistico determinando effetti positivi in termini di qualificazione e cura del
paesaggio e potenziando le possibilità di fruizione del territorio. Ad illustrazione di cosa si potrebbe
fare coltivando piante officinali in questo territorio, può essere utile illustrare un progetto portato a
termine nella Comunità Montana Valli Curone, Grue e Ossona, che si colloca nella Provincia di
Alessandria, non lontano dal territorio pavese di cui condivide molte caratteristiche. Nel 2002 in
questa zona è iniziato il progetto: "Le erbe officinali: un percorso innovativo per il rilancio di un
settore strategico". All'interno di questo progetto la Comunità Montana ha aiutato i coltivatori
disposti ad aderire alla conversione delle proprie colture tradizionali in coltivazione di erbe
aromatiche ed officinali biologiche, al fine di favorire uno sviluppo più stabile di questo settore. In
questa zona anche il panorama sta parzialmente cambiando; sui rilievi si coltivano ora le piante
aromatiche più frugali: salvia, rosmarino, lavanda e timo; negli appezzamenti pianeggianti e fertili,
invece, troviamo quelle più esigenti: menta, malva, melissa e coriandolo. Sono ormai molti gli ettari
destinati a queste coltivazioni biologiche che escludono l'impiego di fitofarmaci, conseguendo
così il duplice obiettivo di inserire, senza danni, nello splendido contesto naturale delle valli nuove
colture e garantire la genuinità del prodotto. Ho seguito personalmente una delle attività di questo
progetto, volta alla coltivazione di piante officinali da utilizzare nella produzione artigianale della
birra, attraverso la tesi di Veronica di Piazza, una laureanda di Scienze e tecnologie erboristiche,
che ha svolto il suo tirocinio nell’ambito del progetto con grande entusiasmo. Il progetto è
interessante per il coinvolgimento dell’intera filiera dalla coltivazione in campo, alla raccolta,
all’utilizzo nella produzione della birra, fino alla sua commercializzazione.
BIRRA ARTIGIANALE: UN MERCATO IN CRESCITA
Quello delle birre artigianali è un mercato estremamente interessante. Infatti, anche se la bevanda
alcolica per eccellenza in Italia continua ad essere il vino, da alcuni anni il consumatore,
soprattutto giovane, ha un interesse crescente per la birra, anche per il tenore alcolico molto più
ridotto di alcune birre rispetto al vino. Oltre alle classiche birre industriali, c’è una grande attenzione
per i birrifici artigianali, che utilizzano il più possibile ingredienti naturali, e anche per i "birrifici
agricoli" che utilizzano orzo e luppolo o altri ingredienti, provenienti dal territorio di loro
appartenenza. Tutto questo contribuisce a creare dei prodotti che sono unici e assolutamente
irripetibili. La birra viene prodotta principalmente con il malto d'orzo e/o con il malto di frumento (e
in alcuni casi anche con altri cereali maltati), elementi base, ai quali vengono aggiunti luppolo,
lievito ed acqua. A questo punto la birra è pronta per essere bevuta, ma ha una durata limitata
nel tempo. Per aumentarne la conservazione, nelle produzioni industriali, il prodotto viene
dapprima sottoposto ad alcuni trattamenti come la pastorizzazione ed il filtraggio, che inattivano
ed eliminano i lieviti, e poi addizionata di conservanti e stabilizzanti. Questi trattamenti consentano
di stoccare e movimentala birra senza alcun problema. Le birre artigianali, invece, non subiscono
questi processi e di conseguenza si differenziano sostanzialmente da quelle industriali all’esame
organolettico. Inoltre, la presenza di lieviti attivi le rende un alimento vivo che evolve nel tempo. Se
il tipo di birra lo consente, è possibile l’invecchiamento in cantina anche per alcuni anni in quanto
l’alcool ha comunque un effetto stabilizzante. Le birre artigianali sono “crude”, non pastorizzate e
non filtrate, hanno caratteristiche organolettiche eleganti e originali, con un “corpo” morbido e
persistente, fresco e piacevole, di alta bevibilità. Il contenuto in alcool è spesso ridotto, compreso
tra il 4,5% e il 6,5%.
Il fenomeno dei birrifici artigianali, nato negli Stati Uniti a partire dagli anni ottanta, si sta
affermando anche in Europa ed in Italia proponendo prodotti artigianali di elevata qualità. Nel sito
www.microbirrifici.org sono elencati 102 birrifici artigianali in Lombardia, 7 dei quali si trovano a
Pavia e provincia.
La produzione dei microbirrifici italiani nel complesso presenta una varietà notevolissima con birre
ispirate ai più diversi stili internazionali. Frequente in Italia è anche la creazione di birre
comprendenti ingredienti inusuali sia come materia fermentabile che come aromatizzazioni, spesso
integrando produzioni locali (ad esempio farro, frutta DOP e IGP).
Esempio particolarmente significativo l'uso delle castagne, utilizzate in un numero di birre che non
trova riscontri in altre nazioni produttrici, tanto da diventare quasi un simbolo della birra artigianale
italiana: alcuni birrifici lombardi, ad es. nei pressi di Como e in Val Tellina, stanno utilizzando le
castagne locali per la produzione della birra. Sempre nelle valli alpine lombarde, alcuni birrifici
artigianali producono birre a partire dal grano saraceno (Fagopirum esculentum), che ha la
caratteristica di non contenere glutine. L'uso di produzioni locali in certi casi è esteso anche agli
ingredienti tradizionali, con uso di malto ottenuto da cereali locali e maltazione effettuata in
proprio. Interessante anche l’uso del mais, che nell'industria serve per contenere i costi, mentre in
ambito artigianale diventa una materia prima di alto pregio, se si usano varietà antiche locali
come lo "sponcio", il "pignoletto" o il "marano". Altri birrifici, ad esempio in Umbria, si sono
specializzati nell’utilizzo di cereali o legumi locali, come farro, cicerchia e lenticchia, che
determinano un alto valore nutrizionale ed un forte legame con il territorio. Nel territorio pavese ci
sono buone produzioni di ceci e fagioli, che per il loro tenore in amido, potrebbero essere presi in
considerazione anche a questo scopo.
PIANTE AROMATICHE E OFFICINALI NELLA PREPARAZIONE DELLA BIRRA
Come indicato in precedenza in questa relazione ci occuperemo delle piante officinali coltivabili
nel territorio pavese e utilizzabili nella produzione della birra: in particolare di luppolo, salvia e
coriandolo.
Luppolo
Il luppolo appartiene alla famiglia delle Cannabinacee che comprende, i generi Humulus e
Cannabis. Il genere Humulus comprende tre specie: Humulus lupulus, quello usato nella produzione
della birra, è coltivato in gran parte dell'emisfero nord tra i 35 e i 70° di latitudine e attualmente
anche in Sudafrica, Nuova Zelanda e Australia, Humulus japonicus è diffuso in Cina e Giappone,
mentre Humulus yunnanensis è meno conosciuto e non coltivato.
Il luppolo è una pianta dioica
perenne, rampicante, lianosa
e cespitosa; presenta in natura da 4
a 12 fusti che si arrampicano
senza viticci, attorcigliandosi con
andamento sempre destrorso
a qualsiasi tipo di supporto con
l’aiuto
di
piccole
spine
uncinate situate agli angoli del fusto.
L’apice impiega circa 2 ore a
compiere la rivoluzione completa.
Aumentando il diametro del
supporto diminuisce l’inclinazione
del fusto, in modo che il
raggio di curvatura dell’elica rimane costante. La parte aerea della pianta può arrivare a 7 m di
altezza ed è composta da fusti lianosi, poco ramificati, angolosi e caratterizzati da 6 strie scure su
cui sono inserite le spine, brevi e ottuse, che servono appunto per il sostegno della pianta. Sul fusto
sono inserite foglie opposte, due per ogni nodo, tramite un lungo picciolo solcato superiormente; le
foglie presentano margine sempre dentato e di forma variabile: le più comuni, lunghe e larghe 1218 cm, sono trilobate o pentalobate, ma, soprattutto vicino alle porzioni apicali e sui rametti laterali
che sorreggono le infiorescenze, sono presenti foglie cuoriformi di dimensioni inferiori. La porzione
sotterranea della pianta (il rizoma e l’apparato radicale) è l’unica porzione perenne: può vivere
fino a 40 anni, anche se in coltura si tende a non superare i 20-25 anni. Ogni primavera la porzione
sotterranea del fusto produce gruppi di germogli che formano la parte superiore del rizoma e che
germogliano all’inizio di aprile. Il luppolo è noto per essere una pianta dalla crescita molto rapida,
da 20 a 50 cm alla settimana: in questo modo raggiunge i 4 m di altezza alla fine di giugno e i 6 m
all’inizio di agosto. A metà novembre la parte aerea della pianta si secca completamente, mentre
quella sotterranea, che può resistere anche a temperature molto basse, necessita di un periodo di
dormienza prima della ripresa vegetativa. Il fatto che alla fine di ogni inverno germoglino dal
rizoma i nuovi fusti, è sfruttato dagli agricoltori per produrre nuove piante da porzioni di rizomi, in
modo da accrescere la coltivazione con individui geneticamente identici. Essendo una pianta
dioica, le infiorescenze maschili e femminili si trovano su individui diversi. L’infiorescenza maschile è
composta da una pannocchia che porta dei fiori piccoli con cinque sepali verde-giallastro e
cinque antere poste su filamenti corti: schiudendosi, i fiori maschili liberano una grande quantità di
polline che viene trasportato dal vento, l’impollinazione è infatti anemofila. I fiori femminili si
sviluppano in infiorescenze raccolte in rametti laterali lungo tutta l’altezza del fusto e sono costituite
da un asse centrale, che porta su ogni nodo due brattee di consistenza cartacea; alla base di
ognuna sono presenti due bratteole che presentano una piega nella porzione inferiore al cui
interno si trova il fiore, che è costituito da un ovario chiuso nel perianzio con due stigmi papilliformi.
Durante l’estate l’infiorescenza femminile aumenta di dimensioni, in un processo definito
“maturazione del cono”: l’asse centrale si allunga, le dimensioni di brattee e bratteole aumentano
e nella porzione più interna del cono si sviluppa una grande quantità di tricomi ghiandolari di
forma sferica contenenti una sostanza resinosa gialla, la luppolina. Al termine di questo processo,
cioè tra la fine di agosto e la metà di settembre, l’infiorescenza ha la forma di una piccola pigna
allungata o rotondeggiante a seconda della varietà, lunga 2-5 cm, di colore verde che si definisce
generalmente “cono” o “strobilo”
Quando i fiori vengono impollinati, il frutto (un achene) si sviluppa
all’interno del perianzio e ciò comporta l’aumento delle dimensioni
delle bratteole, l’allungamento e l’ispessimento dell’asse dello strobilo
e frequentemente anche la pigmentazione: per questi cambiamenti
è facile distinguere le infiorescenze fecondate rispetto alle altre.
Siccome la presenza di semi è un indice di cattiva qualità del luppolo,
si opera per evitare la fecondazione coltivando solo piante femminili.
Il valore commerciale del luppolo risiede nei costituenti della
luppolina, una sostanza resinosa gialla secreta in tricomi ghiandolari
che sono presenti in quantità economicamente non vantaggiose
nelle infiorescenza maschili (che non vengono coltivate) e sulla
pagina inferiore delle foglie, mentre ne sono molto ricche le
infiorescenze femminili. Le ghiandole di luppolina si trovano nella
porzione basale delle bratteole e in misura minore delle brattee; qui sono più numerose nella
pagina superiore (7/mm2) e meno in quella inferiore (5.8/mm2). Le ghiandole di luppolina sono
tricomi ghiandolari costituiti da 4 cellule basali, 4 cellule del gambo e un monostrato di 100-200
cellule secernenti le sostanze resinose e oleose della ghiandola. Durante la maturazione dei coni,
che inizia a fine luglio e finisce in agosto-settembre, queste ghiandole aumentano sia in numero,
sia in volume, proprio a causa della secrezione della luppolina. Tra i componenti della luppolina
sono presenti le due frazioni di molecole di maggiore interesse per la birrificazione, cioè gli alfa- e i
beta-acidi, precursori delle molecole amare, e l’olio essenziale.
Coriandolo
Il coriandolo (Coriandrum sativum L.)
appartiene alla famiglia delle
Umbrellifere, come l’aneto, il finocchio e il
prezzemolo. Viene coltivato in
maniera estensiva in India, Egitto, Europa
centrale, Unione sovietica,
Asia minore, Marocco, Stati Uniti, oltre che
in alcuni paesi del Centro e
Sud America. Originario dell’Oriente, il
coriandolo trovò impiego fin
dall’antichità come pianta aromatica e
medicinale. E’ una delle spezie
più antiche, come testimoniano le prove
del suo utilizzo risalenti a 5000
anni prima di Cristo. I romani lo usavano
moltissimo ed Apicio ne fa la
base di un condimento chiamato appunto “Coriandratum”. Coriandrum è una parola latina citata
nelle opere di Plinio, che ha le sue radici nella parola greca “Corys” (cimice), seguita dal suffisso
“onder” (somigliante), in riferimento alla supposta somiglianza con l’odore della cimice verde dei
prati, emanato spremendo o sfregando le foglie. In Italia il coriandolo si incontra con una certa
facilità, essendo una specie spontanea. E’ una pianta erbacea annuale, con radice sottile
fittonante e poco ramificata, con fusto eretto, cilindrico, glabro, di colore verde, spesso rosato, alto
circa 30-50 cm, con la parte superiore ramificata. Le foglie sono alterne e 2-3 pennatosette, le
inferiori sono appena incise e provviste di gambo, quelle superiori sono divise in lacinie
(frastagliate) molto sottili, bi-tripennatosette e senza gambo, di colore brillante e particolarmente
lucenti. Le infiorescenze sono delle ombrelle composte da 3-9 raggi, con involucretto formato da
tre brattee lineari, che portano fiori minuscoli con corolla formata da 5 petali bilobati che possono
essere bianchi o rosa. Il calice è formato da 5 denti ineguali, ovali lanceolati. Il frutto (spesso
chiamato impropriamente seme) è un diachenio subgloboso costituito da due “mezzi frutti”
contenenti ciascuno un seme.
E’ quasi sferico, con coste di colore prima verde poi marrone chiaro, a completa maturazione.
Separando i due acheni si vede che combaciano solo ai margini lasciando all’interno una cavità.
Ha dimensione simile a quella del pepe ed è estremamente leggero. Il sapore dei frutti secchi è
dolce con aroma delicato e versatile, con sentore di scorza d’agrume, mentre quelli freschi hanno
un odore poco gradevole. I semi conservano la capacità di germinare dai 2 ai 5 anni. Il peso
dei frutti varia da 4 a 10 g, perché esistono due varietà:
•
C. sativum L. var vulgare: tipico dei paesi tropicali e sub tropicali, che si caratterizza per i
frutti grossi (diametro di 3-6 mm e peso di 1.000 semi pari a 7-10 g).
•
C. sativum L. var microcarpum: tipico dei paesi delle fasce temperate, che si caratterizza
per i frutti piccoli (diametro di 1,5-3 mm e peso di 1.000 semi pari a 4-6 g).
Il coriandolo preferisce terreni di medio impasto e calcarei, ma si adatta a
qualsiasi tipo di terreno, purchè ben esposto e soleggiato. Le piante
tollerano un pH compreso tra 4,9 e 8,3. Il terreno deve essere ben drenato, la
presenza eccessiva d’acqua porta la pianta ad un veloce deperimento,
che può condurre alla morte. Il clima secco ed asciutto favorisce la comparsa dei semi. Si
tratta di una specie molto rustica, che resiste anche a temperature rigide. Entra nella
rotazione culturale come pianta da rinnovo e non dovrebbe essere coltivata su uno stesso
terreno prima di 4-5 anni. La sua coltivazione è relativamente semplice, con un ciclo culturale
di poco più di quattro mesi. Il periodo di semina è compreso tra la fine del mese di marzo e il
mese di aprile. La germinazione del seme è abbastanza rapida. Non necessita di interventi di
irrigazione, se non nei periodi secchi, come intervento di soccorso. La maturazione delle
ombrelle è scalare. In genere la raccolta si colloca tra la fine di luglio e l’inizio di agosto. Il
prodotto deve essere raccolto quando la pianta è completamente secca ed ha assunto un
colore marrone bruciato. In questo stadio di maturazione l’umidità del seme è intorno al 1012%. La resa in seme oscilla tra gli 8 e i 15 q/ha, ma può anche superare i 20 q/ha.
Il seme ottenuto deve conservare una bella colorazione bionda, perché una volta annerito si
deprezza. Il seme di coriandolo se ricco di umidità e conservato in cumuli, inizia subito a
fermentare, sviluppando elevate temperature e fenomeni di ammuffimento che deprezzano
irrimediabilmente il prodotto. E’ per questo motivo che chi si accinge a coltivare coriandolo
deve disporre di una struttura dove poter stendere ed essiccare naturalmente il prodotto
raccolto. Dalla distillazione del seme si ottiene l’olio essenziale. In genere i tipi a frutto piccolo
sono destinati all’estrazione, perché più ricchi in olio, mentre quelli a frutto più grande sono
destinati alla molitura. La resa in olio essenziale è variabile a seconda della cultivar: in quelle
da olio è frequente raggiungere valori compresi tra l’1 e il 2%.
I frutti di coriandolo trovano impiego in molti settori. Sono meno piccanti delle foglie, sono
dolci con lieve sapore di agrume e dovrebbero essere conservati interi, poiché se ridotti in
polvere perdono facilmente l’aroma. Il frutto macinato entra nella preparazione delle polveri
di curry nella quantità del 25-40%; trova impiego in liquoristica nella preparazione del gin,
vermuth, chartreuse e in molti amari. Sono impiegati soprattutto dall’industria alimentare
(insaccati, sughi, marinate di pesce, selvaggina, verdure sotto aceto). Grazie a spiccate
caratteristiche aromatiche sono usati anche nel settore farmaceutico per correggere sapore
e odore di molti medicinali.
Salvia sclarea
La Salvia sclarea L. appartiene alla famiglia delle Labiatae, che comprende 187 generi, con circa
3000 specie. L’area distribuzione di questa famiglia si estende a tutto il mondo, ma è più estesa
nelle regioni temperate e in quella mediterranea, dove costituisce un elemento dominante della
flora. Molte piante di questa famiglia trovano impiego nell’industria alimentare (aromatizzanti per
cibi e bevande), nell’industria farmaceutica, in cosmesi, profumeria e in liquoreria oltre ad essere
coltivate come piante ornamentali per il loro profumo e il piacevole aspetto.
E’ una pianta erbacea, di origine mediterranea, che raggiunge
un'altezza di 90-110 cm. Germoglia dalla parte basale dei fusti
rimasti dall’anno precedente. Il primo anno le pianticelle
acquistate e/o nate da seme formano soltanto una ricca rosetta di
foglie e sviluppano un robusto apparato radicale per
immagazzinare energie per l’anno successivo. Nel secondo anno di
vita si sviluppano i fusti che raggiungono le dimensioni finali
formando un cespo vigoroso largo 60 cm e alto circa 90, ma
anche più, se poste in terreni fertili e curate a dovere. Presentano
grossi fusti eretti, a sezione quadrangolare con scanalature
evidenti, ricoperti di peli ispidi e ben ramificati. Ogni fusto, di
sezione quadrangolare, è eretto, ingrossato, scanalato, rivestito di
peli crespi. Le foglie basali sono ampie, di forma ovale-oblunga e di consistenza rugoso-vellutata,
raccolte in rosetta basale, sono ricoperte da uno strato uniforme di peluria solcato da venature,
incavate e protette da uno strato di cera. La forma è ovale oblunga, più rotondeggiante nelle
forme coltivate che in quelle spontanee. Sono grandi (anche 20 cm) e di aspetto vellutato, di
colore scuro e brillante nella pagina superiore, bianco grigiastre inferiormente. Le foglie cauline,
che compaiono dal secondo anno, sullo scapo fiorale, sono di dimensioni più ridotte, e margine
dentellato, opposte e picciolate. La radice è fìttonante e legnosa.
I fiori compaiono dalla primavera inoltrata, sono portati da spighe ramificate in posizione terminale
riuniti in verticillastri di 5-10 unità: all’interno di una stessa spiga si aprono in modo scalare partendo
dal basso. Sono duraturi, la loro corolla è di colore azzurro/lilla e bianco avorio, valorizzati da vistose
brattee. I calici sono pieni di ghiandole, dove si forma e si accumula la maggior parte dell'olio
essenziale. A fioritura la pianta, specie nell'infiorescenza, si ricopre di resina ed emana un aroma
caratteristico. I frutti sono piccoli acheni di colore scuro che si disseminano con facilità. I semi sono
di colore bruno-marrone scuro. II peso di 1.000 semi è compreso fra 2,5 e 3,5 gr. La salvia sclarea è
pianta di origine mediterranea che cresce spontanea dalla pianura fino ad altitudine di 900 m
s.l.m. ed è presente in quasi tutto il territorio italiano.
Per la coltivazione, la salvia richiede una buona esposizione al sole, specialmente per la
produzione dell'olio essenziale; predilige terreni profondi, tendenzialmente leggeri o comunque di
buona struttura, con un pH vicino alla neutralità.
La pianta è molto suscettibile agli eccessi ed ai ristagni idrici che possono rappresentare il fattore
più critico nella conduzione di questa coltura, che invece resiste bene alle carenze e agli stress
idrici. Per queste caratteristiche è indicata ad essere coltivata in collina e su terreni in pendenza.
II suo ciclo biologico è biennale o perenne, mentre il suo ciclo agronomico è di 3-4 anni. L'impianto
può avvenire sia per semina diretta che per trapianto. Le rese ottenibili sono di 8-15 t/ha di
biomassa fresca, che si riduce a 4-5 t/ha di prodotto secco. Il tenore in essenza è dello 0,03-0,14%
sul fresco e di 0,1-1% sul secco. La resa in olio essenziale va da 7 a 15 kg/ha Il tempo balsamico
coincide generalmente con la piena fioritura, ma ai fini della distillazione, la raccolta viene fatta
più spesso con la pianta ad uno stadio prossimo alla fine della fioritura, poiché così si ritrova nell'olio
essenziale distillato una maggiore componente di acetato di linalile, che ne dovrebbe migliorare la
qualità, specie in previsione di un uso profumiero e cosmetico. Per gli usi erboristici, dove
interessano fiori e foglie, la raccolta va fatta a inizio fioritura, anticipatamente rispetto a quanto
indicato, senza attendere l'eccessiva "maturazione" dei tessuti vegetali e degli organi della pianta.
Contiene lo 0,1-0,15% di olio volatile, composto principalmente da acetato di linalile, linalolo, betapinene, beta-mircene e fellandrene, oltre che da costituenti minori, quali alfa-terpineolo, geraniolo,
l-terpinen-4-olo, benzaldeide, limonene, cineolo, canfora, neridiolo, esteri degli acidi acetico,
propionico, butirrico e valerico, ed ancora trans e cis-allocimene. Tra gli altri costituenti presenti
nella salvia vanno ricordati cere, acidi e due alcol diterpenici.
La salvia sclarea è una pianta officinale di utilizzo industriale principalmente legato all'industria dei
profumi. La materia prima è costituita dalle sommità fiorite da cui, per distillazione, si ottiene l’olio
essenziale, mentre dal resto della pianta ed dai residui della distillazione, viene estratta, per mezzo
di solventi, la "concreta". Quest’ultima è una pasta, da cui, una volta tolte le cere, si ottiene
l'assoluta, impiegata in cosmetica. La concreta è poi la base per l'estrazione dello sclareolo che,
puro, si presenta in forma cristallizzata, di colore bianco e viene utilizzato come fissatore dei
profumi. Il tenore in sclareolo nella concreta, oscilla dall’1 al 2%. Le infiorescenze e le foglie, una
volta essiccate, possono essere destinate all'uso liquoristico e/o erboristico. La salvia sclarea ha
proprietà neurotoniche, analgesiche, antispasmodiche ed anticonvulsive ed il suo olio essenziale
svolge un'azione antinfettiva, antibatterica ed antifungina.
La scelta della S. sclarea, specie meno nota di Salvia officinalis, è dettata da ragioni di prudenza.
Le foglie di S. sclarea sono prive di una sostanza tossica presente invece nelle foglie di S. officinalis.
La sostanza chimica in questione prende il nome di beta-tujone, la cui tossicità (LD50) è stata
stimata di 134 mg/kg peso corporeo nel topo. Il tujone è un terpenoide che agisce sul sistema
nervoso centrale contrastando l'azione del GABA, un inibitore dell'attività elettrica neuronale. Le
cellule nervose, non più protette dal GABA, subirebbero il bombardamento di una moltitudine
caotica di impulsi e ciò determinerebbe uno stato di euforia, accompagnato da apparente
lucidità, ma anche da allucinazioni, convulsioni e delirio. L'effetto tossico è certo nell'assunzione
cronica a lungo termine, o nell'abuso sopra una determinata soglia al giorno. Proprio per questo
motivo, una bevanda di uso tradizionale, l’assenzio, che contenente anch’esso il tujone, è oggi
illegale in quasi tutta Europa e negli USA.
PRODUZIONE DELLA BIRRA
Alla base di tutte le birre ci sono quattro ingredienti fondamentali: acqua, malto, luppolo e lievito.
Esistono tuttavia alcuni ingredienti "speciali" che, anche in quantità limitata, possono caratterizzare
molto le birre da un punto di vista organolettico. Gli ingredienti "speciali" più noti sono certamente
le spezie,, che appartengono alla tradizione birraria e rappresentano un mondo molto variegato.
L’amaricante (e il conservante naturale) più utilizzato nella produzione della birra è il luppolo, che
tuttavia è in uso solo dal XII secolo. Prima di tale data era molto comune la pratica della speziatura
della birra, sia per motivi di conservabilità, sia per ragioni di gradevolezza: una birra senza luppolo
nè spezie risulterebbe infatti eccessivamente dolciastra. Furono probabilmente i contatti con il
Medio Oriente (anche attraverso le Crociate) a favorire la pratica della speziatura della birra, con
pepe, finocchio, lavanda, anice, zafferano, cannella, genziana, chiodi di garofano. Nulla di
strano, quindi, se alcune tipologie di birra hanno mantenuto la speziatura, anche dopo
l'introduzione della luppolatura del mosto. Rimangono saldamente ancorati alla tradizione della
speziatura della birra soprattutto in Belgio: il più classici esempi sono le Blanche (speziate con
coriandolo e scorza d'arancia amara), ma anche le Saison, Ale o Noel. Rispetto alla Germania
dove la speziatura è molto rara, in Inghilterra, è più facile trovare birre speziate. In Italia esistono
birrai artigianali che non userebbero mai spezie e altri che invece apprezzano molto il suo utilizzo.
La birra, prodotta secondo un metodo naturale rimasto invariato nel corso dei millenni, è la
bevanda alcolica più antica al mondo. Le birre non sono tutte uguali: esse si differenziano per il
colore, il grado alcolico, la fermentazione, la provenienza, il sapore, e gli ingredienti “speciali”
utilizzati. Bere birra non è solo un piacere, ma anche una buona abitudine che influisce
positivamente sull'organismo. Medici e nutrizionisti la considerano una bevanda salutare e ne
consigliano il consumo, purché in modica quantità. La birra senza alcol può essere consumata
anche in gravidanza e durante l’allattamento, per l’interessante contenuto di vitamine e sali
minerali. In Italia con questo termine si indicano prodotti con un contenuto in alcol inferiore
all’1,2%. Anche nel nostro paese la birra sta riscuotendo un crescente successo, soprattutto tra i più
giovani che la preferiscono al vino, non solo per il basso tasso alcolico e per il gusto, ma anche per
il suo valore socializzante. Il culto delle birre artigianali, così come quello dei prodotti tipici e di
nicchia, fa parte della ricerca del piacere. Per produrre una buona birra si devono scegliere le
migliori materie prime (lievito, luppolo, cereali e acqua) e seguire scrupolosamente i criteri di
fabbricazione.
Il lievito. La fermentazione della birra non sarebbe possibile senza il lievito. Si fa uso principalmente
di due lieviti: il lievito ad alta fermentazione, conosciuto come Saccaromyces cerevisiae, e quello
a bassa fermentazione, Saccaromyces carlsbergensis. I lieviti sono funghi unicellulari che si
riproducono per gemmazione: la tipica cellula di lievito ha un diametro di 8-12 micron, si moltiplica
fino a 30 volte durante il suo ciclo vitale; ha la proprietà di trasformare il maltosio in alcool e
anidride carbonica. Ciò che li differenzia è la temperatura a cui agiscono, il gusto che
conferiscono alla birra e la sede in cui si trovano alla fine della fermentazione.
L’orzo. Il cereale più importante per la produzione della birra è l’orzo, dalla cui germinazione si
ricava il malto. Il suo chicco, lungo, rigonfio e appuntito alle due estremità è suddiviso
longitudinalmente da un solco mediano ed è ben protetto dal rivestimento. Esso sopporta lunghi
periodi di inattività, cioè lunghi periodi di conservazione, mantenendo inalterata la sua
composizione chimica (amido 54%, altri carboidrati 12%, proteine 10%, fibra grezza 5%, ceneri
2,5%), che rimane la più adatta tra quelle disponibili in natura per la produzione della birra. L’orzo
influenza il colore, la pienezza, la schiuma e, meno direttamente, l’aroma, il sapore e la leggerezza
della bevanda.
Ne esistono di due tipi: l’Hordeum vulgare, con quattro o sei chicchi per ogni nodo della spiga e
l’Hordeum disticum, con due soli chicchi per nodo ed è quello che viene impiegato di più nella
produzione della birra. Ogni seme d'orzo contiene una scorta di materiale nutritivo per la
germinazione e la crescita della nuova pianta e una certa percentuale di proteine (misurabile
come contenuto di azoto) con funzioni varie, tra cui quella di trama su cui si dispone l'amido nel
chicco.
Il malto. Prima di essere macinato l’orzo deve aver subito la maltazione; un processo di
germinazione controllata, che permette al chicco di produrre le amilasi, cioè gli enzimi che in
seguito degraderanno l'amido, e le proteasi, che degradano la matrice del chicco. Il processo di
germinazione avviene immergendo i chicchi in acqua per circa 48 ore e facendoli poi germinare
per 5-6 giorni prima di essiccarli in appositi forni. A seconda delle modalità di essiccazione si
ottengono tipi di malto di diverso colore: ad esempio quello più scuro avrà delle nette note tostate,
il più chiaro offrirà una gamma di sapori più freschi.
Ammostamento. L'ammostamento è l'operazione durante la quale si estraggono gli zuccheri dal
malto portandoli in soluzione nell'acqua e si riduce, eventualmente, il contenuto proteico del
mosto che si va formando; queste operazioni sono svolte dagli enzimi, quelli che si sono sviluppati
durante la maltazione.
Bollitura del mosto. Prima della bollitura, nel mosto vengono introdotti gli strobili del luppolo: la
quantità che si deve aggiungere dipende dall’amarezza che si desidera ottenere, che comunque
non deve mai essere esagerata, per evitare di coprire il gusto e il profumo degli altri aromi.
La bollitura del mosto porta ad alcune trasformazioni fondamentali: il cambiamento della struttura
degli alfa-acidi del luppolo; la coagulazione e precipitazione delle proteine ad alto peso
molecolare; la solubilizzazione dei polifenoli del luppolo e del malto, che si combinano con le
proteine del mosto; l’evaporazione di sostanze indesiderate naturalmente presenti nel malto; la
sterilizzazione del mosto; la distruzione di tutti gli enzimi; la colorazione del mosto.
Proprio a fine bollitura, si possono aggiungere le spezie aromatizzanti e cioè i semi di coriandolo
macinati e fiori e foglie di salvia, mediante l’immersione di un sacchetto filtro. Il passo successivo è
quello di separare le parti solide (luppolo, coriandolo, salvia, fiocchi di proteine) dal mosto vero e
proprio. Questa “pulizia” viene svolta grazie all’utilizzo di un mulinello separatore, denominato
“whirpool”.
Fermentazione. La fermentazione alcolica è un sistema multienzimatico che catalizza la
degradazione delle molecole degli zuccheri per il recupero di energia indispensabile alla vita dei
microrganismi, nella fattispecie dei lieviti.
Imbottigliamento. Passati circa 15 giorni a 4-5 °C nel maturatore, la birra passa in un miscelatore
dove viene ancora aggiunto lievito fresco e anche zucchero. A questo punto la birra viene
imbottigliata e conservata in una cella a 22 °C: in queste condizioni è in grado di rifermentare nella
bottiglia e quindi di gasarsi naturalmente. Il lievito presente svolge un’azione di conservante
biologico. Le birre industriali vengono successivamente pastorizzate.
Ruolo del luppolo. Nella filiera della birra, il luppolo viene utilizzato come aromatizzante ed
amaricante, ha proprietà antimicrobiche e aumenta la stabilità della schiuma. Il metodo più
comune di utilizzare gli strobili è aggiungerli al bollitore e bollirli assieme al mosto. Oltre
all’isomerizzazione degli alfa-acidi, durante l’ebollizione i tannini presenti, si combinano alle
proteine indesiderate, concorrendo a dare stabilità alla birra grazie alle loro proprietà
antibatteriche e alla loro capacità di abbassare la tensione di vapore superficiale del mosto,
in modo che l’ebollizione del mosto possa essere mantenuta facilmente. Le aggiunte
successive al bollitore sono responsabili della maggior parte del carattere "luppolato" di una
birra, per esempio del sapore e dell'aroma conferiti dagli oli essenziali di luppolo.
La gittata di luppolo che si effettua verso la fine della bollitura, invece, influisce poco
significativamente sull’amaro finale, ma molto di più dal punto di vista aromatico: gli oli essenziali,
che costituiscono lo 0,5 - 3% del peso totale e che contengono oltre 200 composti, conferiscono
alla birra componenti che vanno a completare il bouquet aromatico del prodotto. A causa
dell’elevata volatilità di queste molecole, la gittata aromatizzante viene eseguita negli ultimi minuti
di bollitura, o addirittura durante la fermentazione, a mosto freddo, con una tecnica
comunemente denominata "dry hopping", per evitare di perdere gran parte degli aromi attraverso
la volatilizzazione.
Il carattere luppolato è influenzato sia dal tipo di luppolo che si aggiunge al mosto o alla birra,
sia al metodo e alla tempistica di tale aggiunta. In parte ciò è dovuto alla vasta gamma di
composti molto reattivi che compongono l'olio di luppolo. Il carattere “luppolato” è attribuito
alla presenza dell’olio essenziale di luppolo. Il tenore totale di olio può essere un indicatore
della qualità complessiva del campione. Tuttavia ci sono molti fattori che influenzano la
produzione di oli essenziali e la conservazione: in ogni stagione esiste la possibilità di una
variazione significativa sia della quantità totale di olio che della sua composizione. Da una
produzione all’altra ci possono essere differenze sostanziali, per non parlare delle ulteriori
variabili introdotte dalla trasformazione del luppolo e dallo stoccaggio.
Aromatizzazioni con salvia e coriandolo. Un aroma è la caratteristica sensoriale derivante dalla
combinazione di odore e sapore. Questo è conferito da specifiche sostanze chimiche
naturalmente presenti all’interno di una spezia o una pianta aromatizzante. Le droghe utilizzate per
l’aromatizzazione del mosto di birra, come ogni droga vegetale, contengono un insieme di
sostanze appartenenti a diverse classi chimiche. Le molecole più rilevanti dal punto di vista della
capacità aromatizzante, sono prodotti del metabolismo secondario della pianta, cioè sostanze
spesso presenti solo in alcuni tipi di cellule specializzate e differenziate e non necessarie per la
sopravvivenza della cellula, ma utili alla pianta nel loro insieme. Molti di questi composti giocano
un ruolo fondamentale in comuni meccanismi biologici quali l’attrazione degli impollinatori
(favorendo la dispersione dei semi), l’allelopatia o la difesa contro erbivori e patogeni.
L’aromatizzazione del mosto di birra consiste in una infusione di droghe vegetali nel solvente che in
questo caso è rappresentato dall’acqua. Ogni sostanza si scioglie in acqua con un “rendimento”
diverso, che può essere molto alto per le sostanze solubili, oppure molto basso per le sostanze poco
solubili o insolubili. In generale la capacità di solubilizzazione dipende dalla temperatura del mosto
e dalla sua composizione: una temperatura maggiore è associata ad un aumento della solubilità
delle varie sostanze. In acqua calda, quindi, è possibile che si solubilizzino alcune sostanze che in
acqua fredda hanno scarsa solubilità; la stessa cosa accade se si aumenta il tempo di infusione.
Questo è il motivo per cui la temperatura dell’acqua e i tempi di infusione sono così importanti per
ottenere una certa birra, con un ben preciso aroma e sapore. La temperatura di infusione deve
essere controllata: a temperature troppo alte le sostanze termolabili vengono degradate e
sostanze normalmente poco solubili in acqua possono diventarlo parzialmente e conferire
caratteristiche organolettiche all’infuso non desiderate. Gli stessi accorgimenti devono essere presi
nei confronti dei tempi di infusione: se questi sono troppo lunghi vengono estratte alcune sostanze
indesiderate, come i tannini, che conferiscono un sapore aspro e amaro, coprendo
completamente l’aroma degli oli essenziali e dei flavonoidi più delicati.
Sia il coriandolo che la salvia sono accomunate dalla presenza di alcune sostanze tra i quali
idrocarburi terpenici, acidi fenolici, flavonoidi, ossidi, aldeidi e chetoni, esteri. Di questi, i composti
fenolici come per esempio l’acido caffeico e l’acido clorogenico presenti nel coriandolo,
classificabili come acidi cinnamici, sono insolubili in acqua fredda, ma diventano totalmente
solubili in acqua calda. Questi composti sono caratterizzati da un forte odore caratteristico e
marcato. I flavonoidi sono dei composti polifenolici, principalmente idrosolubili, di solito presenti
nella pianta come glicosidi e nella stessa pianta un aglicone flavonoidico può esistere in
combinazione con diversi zuccheri.
I flavonoidi costituiscono una delle classi di composti più caratteristiche nelle piante superiori e
sono molto diffusi: d'altro canto la loro distribuzione non è limitata ai fiori, ma include tutte le parti
della pianta, in particolare frutti e foglie. Sia coriandolo che salvia contengono alcune sostanze
ascrivibili alla classe dei flavonoidi, come antociani, flavoni, flavani, tannini. Il sapore che
conferiscono al mosto può essere più o meno amaro.
Nell’esperienza condotta in questo progetto, l’aromatizzazione con luppolo, coriandolo e salvia
prodotti nella Comunità Montana Valli Curone, Grue e Ossona ha permesso di ottenere delle birre
artigianali con aromi particolari che sono state molto apprezzate dal consumatore. Certamente
una filiera innovativa dello stesso tipo potrebbe messa a punto anche nel territorio pavese.
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