“Guidaci per la retta via” Il culto islamico come sottomissione alla volontà di Dio INTRODUZIONE Nella nostra riflessione cercheremo di approfondire il culto islamico sia dal punto di vista descrittivo, inserendolo nelle coordinate della prassi rituale islamica tradizionale, e sia sotto il profilo più strettamente spirituale, tentando di cogliere l’atteggiamento psicologico del fedele musulmano. L’idea di fondo da cui muove tutto il nostro percorso di approfondimento è, tuttavia, estremamente semplice: il credente desidera, attraverso il culto, uniformarsi al volere di Dio, quel volere che Dio ha manifestato nel Corano. PRIMA PARTE IL PROBLEMA DELLA VISIONE DI DIO (Ru’ya) Dio è nel Corano il “conoscitore del visibile e dell’invisibile”. E l’invisibile (alghayb) è propriamente la sua dimensione. Il termine arabo deriva da una radice (gh-yb) che denota principalmente l’idea di “assenza”, sicché il termine intende un po’ suggerire che Dio è in una dimensione assente ai nostri sensi, non percepibile con facoltà umane. Il termine, poi, è passato ad indicare il “Mistero di Dio”, il suo essere ovunque pur nell’assenza. Questa assenza, diversamente da quanto afferma la dottrina escatologica cristiana che prevede nell’altra vita una visio beatifica, rischia di protrarsi anche nell’aldilà giacché – stando al più stretto dettato coranico – non è la visio Dei il premio promesso ai beati. Al-ghayb andrebbe quindi forse meglio tradotto con “l’impercepibile”, nel senso di “non afferrabile dai sensi umani”, non inquadrabile in umane categorie. Eppure il Corano suggerisce una sorta di onnipresenza – pur nella sua invisibilità – del volto di Dio (wajh Allāh): “A Dio appartiene l’oriente e l’occidente, e ovunque vi volgiate ivi è il volto di Dio, ché Dio è ampio, sapiente” (Cor 2, 115) Dio insomma è dappertutto. Facile era interpretare versetti come questi in senso panteistico; dire, come fanno certi sufi trascinati a volte dall’empito mistico: ma allora “Tutto è Lui!”; oppure: ogni volto del creato è un “volto di Dio”. Però altri versetti, e proprio in connessione con il nostro tema, sembrano negare questa possibilità: “E tutto quel che vaga sulla terra perisce/ e solo resta il volto del Signore, pieno di potenza e di gloria” (Cor. 55, 26-27) “E non invocare insieme con Dio un altro dio: non v’è altro Dio che Lui, e tutte le cose periscono salvo il suo volto”. (28, 88). La concezione che ne esce – ricorda giustamente Saccone - non è certo di tipo panteistico: Dio è dappertutto, ma ha comunque un suo volto ben distinto da ogni altra cosa, per cui vedere il mondo non significa vedere Dio. Alla domanda: dov’è il volto di Dio? La teologia islamica risponde che il volto di Dio è ubiquo, è onnipresente, ma non immanente ad alcunché. L’idea immanentistica è profondamente estranea al Corano, come alla stragrande parte della riflessione teologica. Dio è piuttosto il testimone per eccellenza dell’universo e della sua storia, ma con essi non si identifica. Egli viene sin nelle prime fibre di ogni anima e di ogni atomo; è colui – si legge in un suggestivo passo coranico – che “ha posto i suoi segni negli orizzonti e nelle anime” (Cor. 46, 53), ma non è in essi. Dio, dunque, come ci ricorda L. Gardet, è Creatore (Khāliqa) di ogni cosa mediante il comando (amr) espresso con la parola Kun (sii), Giudice, Remuneratore; è Dio Unico (wahid) che non si comunica e non si incarna, ma si manifesta nel Corano e nei segni dell’universo ayat Allāh; è dio onnipotente e misericordioso (al.rahman). Ma di Dio non ci si può fare alcuna immagine artistica; non lo si può rappresentare. L’unico modo traslato di rappresentarlo è attraverso la scrittura dei 99 nomi di Dio (cfr. scheda in allegato): il pio musulmano avrà una riproduzione dei 99 nomi esposta in casa e gira spesso con una coroncina (tasbih) di 99 grani in mano che gli permette di recitare quando e ovunque voglia tutti i nomi conosciuti. I nomi rappresentano le attività di Dio: il Benevolo, l’Autosufficiente, il Ricco, il Clemente, il Primo e l’Ultimo, il Santo, il Soccorritore, il Nascosto e il Palese, il Giusto, il Santo, il Perdonatore, il Vendicatore. A Dio – dice il Corano a più riprese – “appartengono i nomi più belli”. Il centesimo nome secondo la tradizione lo conosce solo Dio stesso, ovvero è impronunciabile, di cui nulla è dato sapere, neppure lo scheletro consonantico come avviene col nome del Dio del Primo testamento. Tuttavia, per evitare ogni scivolamento che potesse compromettere l’Unicità di Dio, i dottori affermarono molto presto che gli attributi di Dio sono distinti dalla sua essenza divina, ma ad esse risultano inerenti (qa’im), ovvero da essa non separabili. Solo un attributo, il Verbo o Parola eterna di Dio, avrà nell’Islam un destino tutto speciale: essa discende nel mondo e nella storia, si “incorpora” nelle sure del Corano come noi lo conosciamo, ritenuto unanimemente “parola eterna ed incerata” di Dio. In questa “incorporazione” della parola divina nel libro per eccellenza di ogni musulmano non a torto si è visto una sorta di pendant islamico del mistero cristiano dell’Incarnazione del Verbo. Il confronto termina qui, non essendo il Corano in sé fatto oggetto di una adorazione, così come avviene con il Verbo in ambito cristiano. E tuttavia nel culto emerge tutta la specialissima considerazione per questo attributo di Allāh. Il pio musulmano si accosta al Verbo coranico con tutta una serie di atti e accorgimenti atti a garantire la sua purezza rituale: scelta di un posto pulito, preliminari scrupolosissime abluzioni, espressione in equivoca dell’intenzione di pregare. Stando a quanto si è venuto dicendo, si può affermare che la via maestra attraverso la quale il pio musulmano entra in rapporto con Dio è l’osservanza della parolarivelazione: è mettendo in pratica ciò che Dio ha affermato che l’uomo procede, con fede salda, sulla via retta. SECONDA PARTE FEDE – SOTTOMISSIONE – BENE: il paradigma del credere islamico Prima di iniziare la trattazione diffusa di questi aspetti, è tuttavia fondamentale operare una chiarificazione di tipo terminologico. Il Corano, infatti, distingue tra due termini, come ha ben sottolineato l’islamologo Roger Arnaldez (1993): la fede (īmān) e la sottomissione a Dio (islām). A questi due termini, poi, deve necessariamente esserne aggiunto un terzo, come sottolinea Rizzardi: ihsān, “bene”, che completa il quadro di riferimento terminologico essenziale. Per comprendere appieno il significato dei tre termini in questione, occorre rifarsi ad un hadith del Profeta, il secondo dei quaranta hadit Qudsi 1 : “Omar (DCL) 2 riferisce: Un giorno, mentre eravamo seduti accanto al Messaggero di Dio (SLPBD) 3 , ecco apparirci un uomo dagli abiti candidi e dai capelli di un nero intenso; su di lui non traspariva traccia di viaggio, ma nessuno di noi lo conosceva. Si sedette di fronte al Profeta (SLPBD), mise le ginocchia contro le sue e poggiando le palme delle mani sulle sue cosce gli disse: O Muhammad, dimmi cos’è l’Islam. Il Messaggero di Allāh (SLPBD) disse: “L’Islam è che tu testimoni che non c’è altro Dio che Allāh e che Muhammad è il Messaggero di Dio; che tu compia la preghiera rituale; versi la Zakat, digiuni nel mese di Ramadan e faccia il pellegrinaggio alla Casa, se ne hai la possibilità”. Tu dici il vero! Disse l’uomo. Ci sorprese che fosse lui ad interrogare il Profeta e lo approvasse. Gli chiese allora: Dimmi che cos’è l’Iman. Egli rispose: “E’ che tu creda il Dio, nei Suoi angeli, nei Suoi libri, nei Suoi Messaggeri e nell’Ultimo giorno, e che tu creda nel decreto divino, sia nel bene che nel male”. Tu dici il vero! Replicò l’uomo che riprese dicendo: Dimmi che cos’è l’Ihsān. Egli rispose: E’ che tu adori Dio come se lo vedessi; perché se tu non lo vedi, certamente Egli ti vede”. Questa trilogia (Islām-Īmān-Ihsān) assume il compito di fissare e circoscrivere le coordinate fondamentali della spiritualità. Una versione approssimativa dei tre termini, che vanno puntualizzati nei loro contenuti, potrebbe essere: credere in Dio (īmān), salvarsi nel sottomettersi alla legge (islām), fare il bene (ihsān). Non si tratta di tre atti, ma di tre attitudini interiori come base degli atti da compiere; sono le tre dimensioni che costituiscono la “forma islamica” della spiritualità, ciò che la caratterizza e la distingue dalle altre. Īmān è l’attitudine iniziale dell’Islām e l’Islām è compimento, pienezza dell’Īmān. In altri termini credere in Dio (Imān) consiste essenzialmente nel credere al fatto che Dio ha rivelato la sua Parola (Corano) e la sua legge (shari’ah). Il binomio indissolubile Īmān-Islām significa l’adesione e la sottomissione alla legge, Legge data e rivelata da Dio: la fede è la decisione 1 La tradizione islamica suggerisce la distinzione tra hadit qudsi e hadit di dubbia derivazione. Il criterio per la qualificazione originaria dell’Hadit è la verifica della catena dei trasmettitori (matn) L’hadit è tanto più santo (qudsi) quanto è più probabile il suo legame con il Profeta. Il testo dell’hadit qudsi è disponibile in lingua arabo-italiana. ANNAWAWI, Quaranta Hadīth, Centro editoriale studi islamici 8Cesi), Roma 1982. Altre raccolte di Hadith: ANNAWAWI, Il giardino dei devoti, Società italiana dei testi islamici, Trieste 1990; AL-BUKHARI, Detti e fatti del profeta dell’Islam, a cura di V. Vacca, S. Noja, M. Vallaro, Utet, Torino 1982. 2 Abbreviazione dell’eulologia araba: “Dio si compiaccia di lui”. 3 Abbreviazione dell’eulologia araba: “Su lui la pace e la benedizione di Dio”. esistenziale di lasciarsi guidare dalla Legge di Dio e l’obbedienza alla Legge è anzitutto un atto di fede. La dimensione verticale della Legge, come Legge di Dio, non dà origine solo ad un uomo “legale”, posto nell’ordine creaturale, ma ad un uomo “spirituale”, in quanto il credente, il mu’min, vede in ogni comando l’autorità, la volontà, l’onnipotenza e la “presenza” di Dio. Il culto islamico, quindi, è la risposta alla vocazione del credente di essere e di fare quello che Dio vuole e manifesta attraverso la Legge. Da questo punto di vista si può comprendere il termine antitetico a Imān, kufr, che significa infedeltà o mancanza di fede, ma che non indica l’ateismo di chi nega Dio, quanto piuttosto l’ateismo di chi si rifiuta di stare sotto la Legge. La vera infedeltà è quella di sottrarsi alla Legge di Dio. Il termine Ihsān, poi, completa le fede-īmān e la sottomissione-islām, venendo ad indicare, ad un livello più superficiale, la buona condotta, il bene operato senza interessi personali, il bene frutto della generosità e non ordinato direttamente della Legge, e poi, con sfumature desunte dalla mistica sufi, la ricerca del Sommo bene, ossia di Dio, la familiarità con Dio, la memoria costante di Dio, il vivere con gli occhi rivolti a Dio. L’uomo che vive improntando la sua esistenza all’īmān- islām –ihsān, tuttavia, non è santo, per come la santità è intesa nel Cristianesimo. Nell’Islām, infatti, tale santità appartiene solo a Dio e Dio non la partecipa ad alcun essere. L’uomo è e rimane nella dimensione della sua naturalità e della perfezione consentita da tale condizione. Il concetto corrispondente a santità nell’Islām potrebbe essere “realizzazione spirituale”, da concepirsi come raggiungimento della statura dell’uomo religioso sottomesso alla Legge. Per questo motivo, recitando la Prima Sura del Corano, il credente chiede ad Allāh che lo renda capace di seguire “la via retta”, che è la via stabilita dalla Legge rivelata, seguendo la quale si rientra nell’ordine stabilito dal Dio Creatore. La realizzazione attraverso la Legge non accresce la statura umana dell’uomo, non la eleva, non la spiritualizza: non è meritevole, perché non è frutto del libero arbitrio dell’uomo, quanto piuttosto frutto dell’opera creatrice di Dio che sostiene l’uomo nelle sue scelte; viceversa, anche l’incapacità di obbedire alla Legge è legata al volere di Dio, o meglio al suo disinteresse (Khidlan), che non è altro che la creazione da parte di Dio nell’uomo del potere di disobbedire che conduce gli empi all’empietà. Fare il bene, dunque, coincide con l’adeguarsi a ciò che è permesso (hallāl), mentre fare il male significa compiere ciò che è vietato (harām). Secondo la tradizione sannita maggioritaria il fondamento stesso della distinzione tra bene e male è la stessa Legge rivelata. Dunque, alcuni atti sono buoni e altri cattivi perché Dio ha deciso che sia così. In termini pratici, questo significa che l’essenza del bene per l’uomo è l’obbedienza, la sottomissione alla Legge di Dio, mentre l’essenza del male è la disobbedienza alla Legge di Dio. La religione (dīn) è dunque strettamente collegata al mondo (dunyā), nel senso che la vera realizzazione spirituale per il buon musulmano si ha quando la sfera del religioso e la sfera del secolare si intersecano, perché il secolare e il religioso sono due facce della stessa medaglia. Il culto, dunque, non è mai un affare privato, spiritualizzato, ma investe la vita nella sua pienezza e nella sua radicalità: un musulmano è tale sempre e in ogni momento deve attenersi alla Legge che gli indica la retta via. TERZA PARTE IL CAMMINO DELLA SOTTOMISSIONE: I CINQUE PILASTRI I cinque pilastri (arkān) dell’islām, le cinque pratiche religiose, sono dedotti dal Corano e dall’insegnamento del profeta: fanno parte, quindi dei diritti di Dio (huquq Allāh) e non sono sindacabili, ma fondativi dell’essere musulmano. Tra i credenti islamici si potrà trovare qualcuno che non li pratica in maniera continuativa, per differenti ragioni, non per ultima quella di essere emigrante in terra straniera, ma sarà estremamente difficile incontrare qualcuno che non li condivida, o li ritenga superati. Nell’Islām non c’è spazio per una riforma liturgica, perché la liturgia nasce dalla volontà di Allāh e il credente vi si deve sottomettere senza limiti. Una tradizione attribuita al Profeta afferma che questi avrebbe detto: “L’islām è che tu testimoni che non c’è altro Dio che Iddio e che Muhammad è il Messaggero di Dio; che tu compia la preghiera rituale, versi l’elemosina, digiuni nel mese di Ramadan e faccia il pellegrinaggio alla Casa, se ne hai la possibilità” Gli arkān sono il segno della sottomissione non solo a Dio ma anche al Profeta: “Allāh Onnipotente ha stabilito dei doveri, non li trascurate; ha fissato dei limiti, non li oltrepassate; ha proibito alcune cose, non le trasgredite; ha mantenuto il silenzio su certe cose per misericordia verso di voi e non per dimenticanza, non cercate di conoscerle”. (Hadit) Dunque gli arkān sono il segno e la causa della sottomissione. Gli arkān inoltre rappresentano la misura giusta della spiritualità, la via media, che non asseconda le tendenze eccessivamente ascetiche per tener conto della possibilità media dell’uomo secolare. Infine è bene richiamare la finalità comunitaria della realizzazione spirituale: un unico atteggiamento di fronte ad un’unica normativa crea il “vivere insieme” della Comunità. L’islām concepito come religione di comunità, non di individui, richiede questa fraternità, che si manifesta nell’uguaglianza anche nell’esperienza della vita spirituale. I pilastri sono dunque il “fondamento” dell’islām, anche se non nel senso di “vertice” o di “essenza”. Un hadit ci conduce a fare questa chiarificazione: “Poi disse (è Muhammad che parla): “Vuoi che ti parli dell’essenza della religione, del suo pilastro e del suo vertice?” Io risposi: Sì, o Messaggero di Allāh. Ed egli disse: “L’essenza della religione è la sottomissione, il suo pilastro è la preghiera e il suo vertice è il Jihād”. Gli arkān sono dunque ordinati al jihād, vertice della dīn (religione) e sono in funzione della sottomissione, essenza della dīn. Essi non rappresentano un assoluto, ma una modalità di espressione della sottomissione all’interno del “combattimento”, ossia dello sforzo, per restare sulla via di Dio e per far trionfare universalmente la sua Signoria. Questa considerazione ci porta a riconoscere la superficialità del giudizio che definisce l’Islām come “legalismo” proprio in riferimento ai suoi cinque fondamenti. La sottomissione è un orizzonte più largo dell’obbedienza e il “combattimento” è una modalità più dinamica dell’osservanza. 1.LA PROFESSIONE DI FEDE (SHAHāDAH) “Non vi è altro Dio che Iddio e Muhammad è l’inviato di Dio” “La ilaha illa Allāh wa Muhammad rasul Allāh”. Sul primo pilastro ci siamo già soffermati negli approfondimenti degli anni scorsi, a cui rimando. Tuttavia, mi preme sottolineare che essa lega il muslim simultaneamente a Dio e al Profeta, due riferimenti indissociabili nella vita musulmana. In realtà, si tratta del riferimento a Dio e alla Sua Parola, di cui Maometto è il recitatore; in questo senso la shahādah non rappresenta una professione duale, ma unica. L’accento posto sul carattere teocentrico, però, non annulla il potere evocativo della professione di fede nei confronti del Profeta; egli viene inteso, ricordato e affettivamente nominato. La shahādah, proprio mediante la sua recitazione ripetitiva, stabilisce, conferma, radica il musulmano nel monoteismo professato. La potenza creatrice della parola e la sua forza incisiva nel cuore dell’uomo, convinzione comune nella cultura semitica, dà originalità alla recitazione ripetitiva; la Parola di Dio rimanda a Colui che l’ha proferita, perché la Parola è chi l’ha proferita. 2. LA PREGHIERA RITUALE: SALAT Come sottolinea giustamente Saccone, l’etica della sottomissione alla volontà divina rappresenta il cuore dell’islām e trova la sua espressione più immediata e insieme più alta nell’attività tipica del pio muslim: la preghiera. Nel Corano non si parla delle cinque preghiere; è un Hadit, che riflette una prassi posteriore alla morte di Maometto ma comunque molto antica, a prescriverne cinque. Per la verità esse sono considerate un’unica preghiera a Dio divisa in cinque momenti: all’alba, a mezzogiorno, a metà del pomeriggio, al tramonto e alla sera. Il dovere è assolto solo se si prega in tutti e cinque i momenti prescritti e seguendo un preciso rituale. Questa preghiera canonica – che è precetto per tutti i musulmani – va distinta dalle preghiere facoltative (du’ā) e da altre preghiere speciali, supererogatorie, che si fanno in comune come ad esempio la preghiera per ottenere il dono della pioggia dopo periodi di siccità (istisqā), quella per i morti (salāt al-jināza); o come le preghiere individuali tipo quella della istihāra che il pio credente esegue prima di accingersi a una nuova opera, a un viaggio, a una impresa cui tiene particolarmente. E’ fondamentale, tuttavia, comprendere il senso di fondo della salāt: la preghiera, infatti, offre al pio musulmano la possibilità di inquadrare o scandire la sua giornata attraverso un regolare contatto con Dio, ossia di ricordare che tutto il tempo quotidiano è in linea di principio consacrato a Dio. Non è certo un caso che, secondo un curioso hadit, Maometto inizialmente ebbe da Allāh la consegna di far pregare i suoi 50 volte al giorno, lasciando perplesso il giovane profeta… Discendendo verso un cielo più basso – si racconta nel medesimo hadit – Maometto incontra un “collega” più anziano ed esperto, il biblico Mosè, che informato della cosa lo invita perentoriamente a ritornare alla presenza di Dio per pregarlo di ridurre le preghiere giornaliere a 40, quindi, dopo ulteriori interventi di Mosé, a 30, 20 e così via sino a che Allāh finisce col pretenderne solo 5 (un curioso precedente biblico di questa “contrattazione” tra Dio e un profeta, Abramo nella fattispecie, si ha in Genesi 18, 22-33). Sull’eziologia della salāt, c’è da aggiungere che non pochi studiosi hanno voluto vedere un parallelo tra i tempi della preghiera islamica e la scansione delle preghiere giornaliere nel monachesimo siriano, certamente ben noto ai carovanieri arabi che si spingevano fino ai porti del Mediterraneo. L’islamologo e domenico Jacques Jomier, poi, ha sottolineato che perfino certe posture caratteristiche, come inchini e prosternazioni, avevano un preciso parallelo nei modi di pregare dei monaci cristiani orientali e tuttora si trovano nel monachesimo della chiesa etiopica. Passando alla descrizione del rituale, occorre rilevare che le condizioni preliminari della salāt sono tre: - lo stato di purezza (tāhir); - la pronuncia dell’intenzione (niyyah) - l’orientamento alla Mecca (qiblah). 1. La richiesta dello stato di purezza viene dal Corano stesso: “O voi che credete! Quando vi accingete alla preghiera rituale, lavatevi il volto e le mani fino al gomito e con la mano bagnata stropicciatevi la testa e i piedi fino alle caviglie. Se siete in stato di impurità legale, purificatevi” (Cor, 5,6) Vi è un’impunità minore (Hadat), per la quale bisogna ricorrere alle abluzioni (wudū’) semplici (nelle modalità illustrate nella scheda in appendice), che si consegue in tutta una serie di casi, minuziosamente descritti nei manuali dei dottori: dopo essersi addormentati; dopo aver evacuato o toccato animali impuri (cane, maiale,…) o sostanze impure (escrementi, sangue, …); dopo aver toccato anche involontariamente una persone di sesso opposto (secondo alcune scuole anche una persona di fede diversa). Ma vi è anche un’impurità maggiore (janāba), legata solitamente all’atto sessuale, che esige una purificazione completa (ghusl) mediante bagno. Per le abluzioni semplici, presso ogni moschea si trova la “sala dell’acqua” (mīdāt), mentre, per il bagno, anche nei più remoti villaggi non manca mai un hammām, un bagno pubblico, ove già prima dell’alba i pii musulmani si recano per purificarsi in vista della preghiera. La richiesta dello stato di purezza si giustifica all’interno della dialettica puroimpuro, sacro-profano e ha il significato di togliere ogni impedimento somatico-morale che vieta l’accesso al sacro. Il significato religioso di questa ritualità va ricercato nella concezione della distanza ontologica tra Dio e l’uomo, tra il sacro divino e la profanità umana; la ritualità della purificazione non la elimina perché essa rimane, ma la riconosce e la confessa e, da parte sua, l’uomo si dichiara disponibile a sottomettersi alla sua condizione creaturale. 2. L’INTENZIONE (niyyah) La niyyah è raccomandata da un hadit: “Il Principe dei Credenti (Califfo) Abu Hafs Omar Ibn al Khattab (Dio si compiaccia di lui) ha detto: “Ho sentito dire al Messaggero di Allāh (Su di lui sia la pace e la benedizione di Dio): “Le azioni valgono secondo le intenzioni (Innamā al a’malu bi nniyyāti) ed ogni uomo avrà secondo il suo intento. Chi emigra (da La Mecca a Medina) per Allāh, sappia che la sua emigrazione vale come fatta per Allāh e il suo Messaggero; mentre chi emigra per avere dei benefici materiali o per sposare una donna, sappia che la sua emigrazione vale per lo scopo per cui è emigrato”. Possiamo riconoscere alla niyyah un triplice aspetto: un aspetto oggettivo, che comporta la volontà di mettersi nello stato di sottomissione mentre si compiono determinati atti; essa è la consapevole collocazione nel sistema religioso islamico. C’è poi un aspetto soggettivo che consiste nel creare le condizioni interne, spirituali, che predispongono all’atto richiesto. Potremmo parlare di concentrazione interiore, ritenuta necessaria e richiesta come indispensabile, perché essa è ciò che dà la forma religiosa all’operato. C’è infine un aspetto soggettivo-purificativo che consiste nell’eliminazione delle intenzionalità individuali umane mondane al fine di compiere l’azione per piacere a Dio e per seguire l’esempio del Profeta. 3. L’ORIENTAMENTO (qiblah) L’orientamento geografico-spirituale nella preghiera fa parte di tradizioni antichissime, basti ricordare la tradizione biblica (Gen. 2, 8; Es. 26, 22-27). I significati della qiblah possono essere ricondotti a due: anzitutto un significato teologico, che consiste nel rendere concreta la presenza di un solo Dio, rivolgendosi al simbolo (Ka’ba) dell’unico Dio; inoltre, un significato religioso, che consiste nel fatto che questa convergenza di orientamento fa unità nella stessa comunità dei fedeli, la ummah: gli stessi gesti, le stesse preghiere indirizzati univocamente verso la Ka’ba. La STRUTTURA DELLA PREGHIERA della salāt è determinata e rigidamente codificata in formule, gesti e posture (vedi scheda). Di solito l’orante, ritto in piedi, invoca preliminarmente la protezione di Dio dalle tentazioni di Satana con la seguente formula coranica: “Mi rifugio nel Signore degli uomini, re degli uomini, Dio degli uomini, contro il male del sussurratore furtivo!” (Cor., 114,1); esprime poi l’intenzione (niyya) dicendo semplicemente: “Ora intendo compiere la preghiera (dell’alba, della sera, ecc.). Quindi, portando le mani a fianco del capo, distese e con il palmo in avanti, entra in stato di sacertà pronunciando la formula “Dio è grande” (Allāh Akbar). Portate le mani sul petto col polso della sinistra stretto nella destra, può a quel punto aggiungere altre formule coraniche, come ad esempio: “Volgo la faccia verso Colui che ha creato i cieli e la terra, in purezza di fede, e nessun compagno a lui voglio dare” (Cor., 6, 79), con cui l’orante ribadisce la sua retta intenzione e la sua fede nell’unicità di Dio. La preghiera vera e propria prevede in apertura la recita della prima sura coranica o fatiha (l’aprente): 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. Nel nome di Dio, Clemente misericordioso! Sia lode a Dio, Signore del Creato, – il Clemente, il Misericordioso il padrone del dì del Giudizio! – Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto: Guidaci per la retta via, la via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell’errore! Segue la recitazione di altri brevi passi coranici, la cui scelta varia a seconda del momento della giornata. Quindi l’orante esegue un profondo inchino (ruku) poggiando le mani sulle ginocchia e ripete per tre volte Allāh akbar (Dio è grande); ritorna poi in posizione eretta e dice: “Dio ascolta sempre quelli che lo lodano. O nostro Signore, a te soltanto spettano le lodi ed esse ricolmano i cieli, la terra e tutto quel che tu vuoi!”. A quel punto si ha la prostrazione completa (sujūd) con l’orante che in ginocchio piega la testa in avanti sino a poggiare la fronte a terra da dove pronuncia ancora la formula Allāh Akbar e per tre volte la formula di lode subhan Allāh (sia lode a Dio!). Quindi assume la posizione in cui è seduto sui calcagni (julus) e richiede il perdono dei peccati con formule del tipo: “O mio Dio, abbi misericordia di me! Orsù nutrimi, guidami, proteggimi e perdonami le colpe!”. Segue un secondo sujūd e l’orante ritorna in posizione julus. Un ciclo completo di posture e formule del tipo su descritto costituisce una unità di preghiera, o rak’a. Ogni singola preghiera comprende diverse rak’a a seconda del momento della giornata: due all’alba, quattro per quelle del mezzogiorno, del pomeriggio e della sera; tre per quella del tramonto. La posizione finale, in ginocchio, richiede tre invocazioni: il tashahwud, cioè la confessione della shahadah la benedizione del Profeta, con la formula Sallā ilāh ‘alāyhi wa salam; la taslimah, cioè l’augurio della sālam volgendosi con il capo a destra e a sinistra. Come risulta chiaro da questa sommaria descrizione, molte posizione della preghiera prevedono prosternazioni parziali o complete, il cui senso è quello di esprimere in forma semplice ed efficace l’atteggiamento di umiltà creaturale e sottomissione incondizionata che il credente deve avere davanti a Dio. La preghiera festiva nel “giorno della riunione” (yawm al-jumu’ah) è un ordine coranico: “O voi che credete! Quando sentite l’invito alla preghiera nel giorno dell’adunanza, accorrete al ricordo nel nome di Dio e lasciate ogni affare! E’ la cosa migliore per voi: se lo sapeste!” (Cor., 62,9). Vi sono tenuti tutti i musulmani maschi maggiorenni, liberi, e si esige un numero di quaranta perché possa compiersi. La caratteristica del culto del Venerdì è la predica (Khutbah) recitata in piedi sul minbar da un incaricato che tiene in mano un bastone, o una spada o un arco. La predica è costituita dalla lettura e dal commento di passi coranici, da spunti pratici anche di carattere storico-politico e da preghiere di tutti i fedeli. Le festività ufficiali, quelle regolamentate dai libri di diritto, sono soltanto due: la “piccola festa” (al-‘īd al saghīr), che cade nel primo giorno del mese di Shawwāl, alla fine del mese di ramadān. Questa festa proprio perché cade alla fine del mese del digiuno è chiamata anche īd al fitr, ossia “festa della rottura”. L’altra invece è la “grande festa” (al-‘īd al Kabīr), che cade nel decimo giorno del mese di Du l Hijjah; giorno nel quale si celebra il sacrificio, legato alle cerimonie di pellegrinaggio. 3. L’ ELEMOSINA: ZAKAT La zakāt è una tassa religiosa, stabilita dalla shari’ah (legge) in base a riferimenti coranici , obbligatoria, al cui pagamento sono tenuti tutti quei credenti che hanno la possibilità di farlo. E’ una sorta di decima, che ha la funzione di purificare chi la pratica mediante un sano distacco dai beni terreni, il cui autentico proprietario resta soltanto Dio. Nella Sunna sono riportate tutte le disposizione precise che indicano chi deve versare tale tassa (coloro che hanno sufficienti entrate per farlo), cosa deve corrispondere (prodotti dei campi, frutta, bestiame, oro e argento, mercanzie), a chi deve essere versata (alla tesoreria pubblica “bayt al-mal”) e come devono essere impiegati i beni raccolti. Da quanto è stato detto è chiaro che l’elemosina ha sia un fine strettamente religioso, ovvero permette al credente di prendere coscienza che tutto ciò che ha è un segno della bontà di Allāh, unico proprietario del creato, sia un fine solidaristico, ovvero aiuta il singolo fedele e la comunità locale a farsi carico delle esigenze del territorio e dei membri di quella stessa comunità che si trovano in ristrettezze. In questo senso, dunque, la zakāt è uno degli aspetti che evidenzia maggiormente lo stretto rapporto religioso tra dīn e dunyā, cioè le implicazioni sociali del religioso. Riconoscere la zakāt tra gli arkān significa elevare a dovere religioso e di ordine cosmico un atto di giustizia sociale, e quindi impegnare l’autorità di Dio e del Profeta in merito a doveri di natura umana. Pertanto la zakāt non va confusa con sadaqah, che indica la beneficenza libera e volontaria, anche se la finalità spirituale che determina i due atti è la stessa. Come dice il Corano: “Ciò che date in elemonisa cercando il volto di Dio vi sarà raddoppiato” (Cor. 30, 39). Secondo la tradizione islamica, al dovere della zakāt si riferisce il Corano quando afferma: “Non così quelli che credono, che sono costanti nella preghiera e nelle cui ricchezze c’è una parte riservata al mendicante e all’indigente”. (Cor. 70, 22-25; un passo analogo lo si può trovare in Cor., 9, 60). Tuttavia, è bene sottolineare con il Corano che ciò che conta non è il dare qualcosa, ma aprire l’animo all’indigente: “Se poi ti allontani dai bisognosi senza poterli aiutare in attesa di un atto di misericordia del tuo Signore, di’ loro almeno una parola gentile” (Cor. 17, 28). Negli hadit, poi, si sottolinea la funzione pedagogica dell’elemonisa: “Quanto all’elemosina fatta al ladro, potrebbe essere per lui una ragione per smettere di rubare; quanto quello che hai dato alla prostituta, può essere per lei una ragione per smettere di prostituirsi; e, infine, quello che hai dato al ricco, può essere per lui un motivo di esempio, così che anch’egli dispensi parte di ciò che Iddio gli ha dato”. Se vogliamo organizzare per la nostra comprensione l’insieme di queste osservazioni riguardanti la zakāt e anche la sadaqah, possiamo dire che queste pratiche anzitutto sono ordinate a far vivere il senso del primato di Dio sull’uomo e su tutta la realtà creata. L’aspetto religioso della pratica è primario, perché Dio è l’Uno e l’Unico, cui tutto è sottomesso. Una seconda intenzionalità riposta nella pratica dell’elemosina è il ripristino dell’ordine naturale-cosmico: la destinazione “naturale” dei beni, ossia la destinazione comune e sociale. Una terza intenzionalità è quella pedagogicosociale: evitare l’accumulo della ricchezza nelle mani di pochi; si tratta del divieto di ogni forma di capitalismo in nome della funzione sociale dei beni. Infine, l’intenzionalità umanistica, l’aiuto alla persona bisognosa, la condivisione della sofferenza del povero. C’è un aspetto che merita di essere sottolineato in questa prospettiva: ciò che si dà è ciò che si deve dare, non ciò che si vuole dare: è il rifiuto di ogni forma di paternalismo della beneficenza, in quanto non deve emergere la bontà umana, ma il senso della giustizia. Non esiste, invece, un’intenzionalità ascetica e rinunciataria. Questo è uno degli aspetti che segna la differenza tra la charitas cristiana e la donazione islamica: la prima si pone in un contesto di perfezione individuale, di moralizzazione personale, la seconda, invece, in un contesto di ordine naturale. L’altro aspetto che segna una differenza è la significazione simbolica della carità cristiana, secondo la quale un gesto di bene fatto all’uomo è come se fosse fatto a Cristo. 4. IL DIGIUNO NEL MESE DI RAMADAN: SAWM. Il digiuno obbligatorio nell’Islām consiste nella completa astensione da cibo e bevande dall’affacciarsi dell’alba sino al tramonto durante il mese sacro di Ramadān. E’ prevista anche l’astensione da ogni attività sessuale e da ogni atto illecito indicato dalla shari’ah (legge). Durante il digiuno, inoltre, ogni musulmano deve tenere la mente e la bocca lontano da cattivi pensieri e parole maligne, ed essere particolarmente premuroso verso i bisognosi. Bisogna evitare, quindi, di litigare, di rimproverare, di mentire e di calunniare e compiere opere buone: le giornate così trascorse valgono doppie agli occhi di Dio. Il mese di ramadān cadeva probabilmente in estate (il suo nome significa “torrido”), ma con l’Islām le cose sono cambiate. I musulmani infatti seguono un calendario lunare basato sulla sequenza di dodici mesi, alternativamente di 29 o 30 giorni. Essendo l’anno lunare di undici giorni più corto di quello solare ed essendo stato abolito da Muhammad un mese intercalare a cui precedentemente si ricorreva, non c’è più corrispondenza fissa tra le stagioni e i mesi: questi ultimi così di anno in anno arretrano rispetto alle prime e si trovano a cadere nello stesso periodo ogni 33-34 anni. Il mese di ramadan rimanda al momento in cui il Corano discese per la prima volta nell’anima del Profeta, nella cosiddetta “notte del destino”: è quindi un mese particolarmente benedetto in cui molto tempo è destinato alla preghiera e alla recitazione del Corano. Leggere Cor. 2, 183-187 Il mese di ramadān è fondamentale dal punto di vista della memoria storica dell’Islām in quanto in esso vi sono le ricorrenze più importanti del mondo musulmano: il 6 del mese ricorda la nascita del martire Husayn ibn Ali, il 10 la morte di Cadigia, prima moglie di Maometto, il 17 la battaglia di Badr nella quale Dio ha concesso la vittoria ai Musulmani (624), 1l 19 la presa della Mecca da parte di Muhammad (630), il 21 la morte di Ali, cugino e genero del Profeta (660) e, infine, questo è il culmine, la notte tra il 26 e il 27 è la notte benedetta della discesa del Corano (Cor. 44, 3-4), la Notte del Destino (Laylat al Qadr) così commemorato nella sura 97 del Corano: “In verità, il Corano l’abbiamo rivelato nella Notte del Destino. E come potrei sapere che cos’è la notte del destino? La notte del destino vale più di mille mesi. Scendono in essa gli angeli e lo Spirito, col permesso del loro Signore, a fissare ogni cosa. Notte di pace, fino allo spuntare dell’aurora!” (Cor. 97) Questa ricorrenza annuale intende riaffermare tre valori nell’esperienza religiosaculturale del musulmano: anzitutto, l’attitudine religiosa, in quanto il digiuno nel mese di Ramadān è l’osservanza di un ordine divino, è un atto di sottomissione alla sua volontà. In secondo luogo, il Ramadān tende a consolidare la coscienza di appartenere alla ummah non solo in senso sentimentale, ma anche effettivo, in quanto durante il mese vi è la ripresa intensiva dei doveri: dovere della preghiera, della lettura cranica, della catechesi musulmana, della beneficenza e della fraternità. In terzo luogo, il ramadan educa praticamente a vivere l’aspetto sociale della vita; l’ebbrezza del vivere insieme a livello familiare e sociale è una sua caratteristica inconfondibile. Al digiuno e al raccoglimento si destina la porzione più larga del tempo, ma una parte è anche destinata alla festa notturna. Le potenzialità psicofisiche dell’uomo vengono sospese dal digiuno, ma non vengono soppresse. In fondo, in questa esperienza promiscua di digiuno-piacere viene ripresa la dinamica strutturale dell’essere musulmani, il legame cioè tra dīn e dunyā. Il mese termina con la più grande solennità religiosa musulmana, īd’al-fītr (festa della rottura del digiuno), la cui celebrazione dura per parecchi giorni, in genere tre, in molti paesi, in cui sono d’obbligo solenni preghiere alla moschea e, insieme, grandi feste popolari. Tra le pratiche di queste festività che seguono la festa della rottura del digiuno, vi è l’usanza a visitare i cimiteri, il primo venerdì, con atteggiamenti non luttuosi, ma gioiosi e soprattutto come momento di carità dei poveri numerosi in quei luoghi. Sono tenuti al digiuno tutti i credenti e le credenti che abbiano raggiunto la pubertà e non appartengono alle categorie espressamente esonerate: malati e viaggiatori (che dovranno recuperare i giorni in cui non hanno osservato il digiuno), donne gravide e lattanti, i vecchi e i malati cronici, che sostituiscono il digiuno con una offerta di viveri per i poveri. Le violazioni che interrompono il digiuno sono distinte in quattro gruppi: - quando si mangia o beve intenzionalmente o si fuma tabacco; - quando si vomita intenzionalmente, anche su prescrizione medica; - quando si hanno rapporti sessuali; - quando si hanno emissioni di seme per cause diverse. Durante le notti del ramadān gli obblighi sono sospesi e il credente deve leggere il Corano, diviso in trenta parti. Come ci ricorda Rizzardi il precetto del sawm ha finalità strettamente religiose: “Esso rappresenta una modalità di “ricordo di Dio”: il distogliere il corpo e la mente delle cose significa rivolgerli a Dio; il “ricordo di sé” spegne il “ricordo di Dio”. Questo aspetto pedagogicoreligioso è fondamentale nella pratica del digiuno. Non va sottovalutato per questo il suo valore antropologico: la funzione di ristabilire l’equilibrio tra spirito e corpo; questo equilibrio è il risultato di una dinamica purificativa trattandosi di due potenzialità essenzialmente positive. Nessun disordine morale può intaccare la positività della realtà umana e nessuna rottura tra spirito e corpo riguarda il livello ontologico. E’ la logica del “ristabilire l’ordine”, di correggere una dinamica. Vi è poi la finalità morale del digiuno, che consiste nell’esprimere la solidarietà con i credenti più poveri. Lo spirito che comanda questo dovere è il medesimo che suggerisce la zakat, cioè collaborare per ridurre lo scarto di disuguaglianza tra i membri della ummah; la privazione assume questa finalità positiva che fa sentire il musulmano imitatore della misericordia di Dio verso tutti gli uomini. Il digiuno, infine, anche questa è una componente educativa, coltiva la virtù dell’uomo arabo, la pazienza (sabr), lo spirito di sopportazione di origine beduina, da intendere moderatamente come spirito di sopravvivenza, virilità, volitività, coraggio umano”. 5. IL PELLEGRINAGGIO: HAJJ Compiere, almeno una volta nella vita, il pellegrinaggio alla città santa La Mecca è l’aspirazione più sincera di ogni credente musulmano. Tale pratica è in evidente continuità con i riti di pellegrinaggio dell’epoca preislamica, anche se la rivelazione coranica e la predicazione del Profeta ne operano una profonda ristrutturazione semantica. In effetti, mentre gli antichi riti avevano una motivazione solo a metà religiosa (si andava a La Mecca anche perché la città diventava un pretesto di incontro per esigenze vari di gruppi altrimenti nomadi e che avrebbero fatto fatica a relazionarsi fra loro e a soccorrersi nelle vicendevoli necessità), il pellegrinaggio musulmano diventa importante per le nuove connotazioni simboliche che assume. Il viaggio è la metafora che più di ogni altra descrive la realtà intima dell’uomo nel suo procedere dalla nascita alla morte, nel suo passare dalla morte alla nuova vita celeste. Anche la devozione alla pietra nera viene reinterpretata dalla nuova ottica religiosa; il secondo califfo Umar avrebbe esclamato: “So che tu sei una pietra e non sei né di utilità, né di danno; e se non avessi visto l’inviato di Dio che ti baciava, non ti bacerei”. Queste parole peraltro convivono con tradizioni profetiche di segno opposto, che definiscono quel sacro meteorite “un Bianco Giacinto tra i Giacinti del Paradiso, reso poi nero da Dio per le malefatte dei peccatori”. Non dobbiamo comunque dimenticare l’aspetto litolatrico (culto delle pietre e dei luoghi elevati) della religione preislamica che si è trasferito quasi naturalmente da una prospettiva religiosa all’altra. Il culto della pietra nera si perde infatti all’interno di una grandiosa opera di riappropriazione che l’Islām fece del tempio santo della Mecca, ponendo le sue origini nell’epoca primordiale, al fine di ricollegarlo alla genuina tradizione monoteistica e di purificarlo dalla contaminazione del paganesimo. La tradizione vuole che il luogo in cui esso sorge sia stato scelto da Dio prima della creazione del mondo e che esso sia a immagine di un tempio costruito nel cielo per ordine di Dio stesso da parte degli angeli: come questi girano in adorazione attorno al tempio celeste così gli uomini sono chiamati a farlo attorno a quello terreno. Si afferma che già al tempo di Adamo una tenda fu fatta scendere dal cielo perché il primo uomo, cacciato dal Paradiso ma ormai perdonato da Dio, compisse attorno ad essa il rito della circumambulazione (tawaf). Perduta durante il diluvio essa fu sostituita dall’edificio cubico (Ka’ba) edificato, così dice il Corano, per ordine di Dio da Abramo insieme al figlio Ismaele: “Purificate la mia casa per coloro che attorno vi correranno venerabondi, vi pregheranno devoti, vi si inchineranno e si prostreranno reverenti”. 2,125. Il pellegrinaggio Hajj si deve compiere in uno specifico periodo dell’anno e da un gran numero di pellegrini insieme, come sottolinea giustamente A Bausani: da: ALESSANDRO BAUSANI, L’Islam, Garzanti, Milano 1980, pp.59-62. Gli elementi costitutivi dello Hajj sono essenzialmente tre: PRIMO ELEMENTO: bagno completo; taglio dei capelli; abolizione di abiti con cuciture (sostituiti da pezze di stoffa bianca, una delle quali ricopre la parte inferiore del corpo, l’altra la superiore, lasciando scoperta la spalla destra: questo è valido per il maschio). Poi si passa alla formulazione della niyyah, dell’intenzione sacra, pronunciando la seguente preghiera: O mio Dio! Ecco, io ho ferma volontà di compiere il pellegrinaggio. Me lo devi rendere facile, lo devi da me accettare. Eccomi (Labbaīka) O Dio, eccomi. Tu non hai associati alla tua divinità. Eccomi, lode, azione di grazie ti sono dovute, e così pure ti è dovuto il regno. Tu non hai associati (alla tua divinità). Dopo questo primo atto, il musulmano entra in stato di harām, ossia di sacralizzazione separante dal resto del mondo. In harām è proibito al maschio coprirsi il capo, radersi i capelli e barba o depilarsi, tagliarsi le unghie, profumarsi, andare a caccia, tagliare erbe del territorio sacro della Mecca (a meno che siano secche o siano giunchi), avere rapporti sessuali, usar galanteria con le donne. Per le donne, poi, ci sono usi e proibizioni speciali: deve essere vestita normalmente, anche se in bianco, e può indossare abiti cuciti; può coprire la testa e la faccia, purché il tessuto del velo non aderisca al volto; può portare calze e guanti. Per le proibizioni di profumi e di rapporti sessuali valgono le restrizioni imposte ai maschi. La donna non potrà gridare il suo Labbaīka (eccomi!) ad alta voce, ma lo dovrà dire sommessamente. SECONDO ELEMENTO: il musulmano giunge alla città della Mecca e si reca subito alla Ka’ba, edificio cubico situato al centro del cortile principale della moschea, Nel lato est è conficcata la pietra nera. L’interno della ka’ba è vuoto, mentre l’esterno è ricoperto da un velo nero con scritte sacre che si rinnova ogni anno. Attorno alla ka’ba il pellegrino compie la circumambulazione (tawaf), pronunciando ogni volta formule differenziate. Poi corre sette volte fra due alture (ora livellate dal piano edilizio della Mecca) situate ad est del tempio, Safa e Marwa, con passo accelerato. (il rito ricorda l’episodio di Agar ed Ismaele: Agar fu abbandonata da Abramo proprio in queste zone e, secondo la tradizione, Agar salì prima sulla collina di Safa e poi su quella di Marwa, facendo la spola sette volte fra i colli, alla ricerca di una sorgente d’acqua per dissettare il figlioletto Ismaele assetato, mentre la sorgente è ai piedi del bimbo.). Rimane alla Mecca fino all’ottavo giorno del mese di pellegrinaggio. Compiuti questi riti, il pellegrino parte per Mina, a sette km ad est della Mecca. Il nono giorno parte per Arafat, modesta pianura a 21 km dalla Mecca, attorniata da una parte di colline ad emiciclo, al centro delle quali si trova la “montagna della misericordia” (jabat-r-rahmati). Si tiene in piedi sulla montagna anche solo per pochi minuti. E’ il punto culminante del pellegrinaggio e il suo momento essenziale. Chi non avesse fatto questa stazione avrebbe annullato il suo pellegrinaggio. TERZO ELEMENTO Il decimo giorno è festa grande (‘īd al kabīr). Il fedele immola agnelli o capretti in ricordo di Abramo e del sacrificio di Ismaele (Isacco, nelle scritture ebraico-cristiane) interrotto dall’angelo e sostituito con quello di un capretto. Si tiene ritto in piedi nella località della Muzdalifā, anche solo per qualche minuto, poi scaglia sette pietre sulla jamrah (stele) di Al Aqabah. Poi scanna un agnello a Mina, dov’era tornato nel frattempo, divide il pasto con i poveri, si rasa la testa o almeno accorcia le chiome, rientra alla Mecca e ripete la circumambulazione alla ka’ba. CONCLUSIONE Dopo, gli diviene lecito tutto ciò che gli era stato proibito. L’undicesimo giorno scaglierà ancora sette pietre su altre tre steli e ripeterà il gesto nel dodicesimo giorno. In tal modo termina il pellegrinaggio. Rientrerà a casa e avrà il titolo onorifico di hajji (colui che è stato pellegrino). Prima di rientrare a casa, gli è consentito di visitare a Medina il sepolcro di Muhammad e quelli dei suoi successori, Abu Bakr e Umar. Partecipare al pellegrinaggio è un’esperienza che vivifica e rinnova il credente di una intensità tale da provocare in lui una sorta di nuova conversione, islamizzazione. Per comprendere l’intensità religiosa che accompagna il fedele giustamente il Branca riporta le parole che un grande scrittore egiziano, premio Nobel per la letteratura nel 1988, Nagib Mahfuz, pone sulle labbra di un musulmano in partenza per il pellegrinaggio: “Potessi restare fino alla fine dei miei giorni in quei luoghi santi, nella terra calpestata dal Profeta, respirare l’aria che ha sentiti il battito delle ali degli angeli e vedere le dimore dove è risuonata la rivelazione celeste che innalzava gli abitanti della terra fino al cielo. Laggiù si pensa solo all’eternità e il cuore vibra d’amore per Dio, là si trova rimedio e guarigione. Fratello, muoio dal desiderio di vedere la Mecca, di contemplare i suoi cieli, di udire intorno a me il sussurro dei secoli, di camminare per le sue strade, raccogliermi nei suoi santuari, spegnere la mia sete alla fonte di Zamzan, percorrere la strada aperta dal Profeta nell’egira, come si fa ininterrottamente da milletrecento anni, ritemprare il cuore visitando la sua tomba e pregando nel nobile giardino”. Ma qual è il significato di questa multiforme ritualità? Innanzi tutto, il pellegrinaggio è l’accettazione di un comando divino, al quale ci si sottomette nel momento in cui si pronuncia la niyyah. Il termine labbaīka (eccomi) esprime un atto di presenza al fine di soddisfare l’ordine divino. Il desiderio e la volontà di essere dentro l’ordine divino costituiscono l’atteggiamento interiore primario del pellegrino, così come per gli altri arkān. In secondo luogo, il pellegrinaggio rappresenta la riconferma della propria identità religiosa espressa mediante l’incessante professione di fede in Dio Uno e Unico. E’ emblematico a questo proposito il bel memoriale dell’antropologo di origini In terzo luogo, il pellegrinaggio è la riaffermazione della propria identità islamica e dell’appartenenza alla ummah al nabī, ossia alla comunità del Profeta. Accanto a questi aspetti più sociologici, ve ne sono altri che si inseriscono maggiormente nella dinamica morale-spirituale dell’uomo musulmano e cioè l’aspettativa redentivi, salutare che si esprime nell’attesa di “perdono” (tawbah) da parte di Dio e nella decisione di restare sul “cammino di Dio” (Shari’ah) Oltre che in occasione del vero e proprio pellegrinaggio, il musulmano si può recare alla Mecca per devozione a titolo personale: la visita (umra) o “piccolo pellegrinaggio” differisce dal “grande pellegrinaggio” come l’adempimento di un obbligo religioso differisce dalla celebrazione di una festività sacra; infatti, mentre la visita si può compiere in qualsiasi momento e individualmente, è specifico del pellegrinaggio essere celebrato una sola volta l’anno e da un gran numero di fedeli insieme. CONCLUSIONE Il senso del peccato e il bisogno del perdono manifestato in questo e in altri testi del pellegrinaggio, rappresentano il punto focale dell’esperienza religiosa islamica, in quanto punto di partenza e di arrivo del cammino spirituale. Si può dire, relativizzando il senso dei termini, che in questo sta la dinamica salvifica del musulmano. La Shari’ah educa alla coscienza critica circa il bene e il male e gli arkān sono in funzione dello stato di pace con Dio e con se stessi; la misericordia di Dio è la causa salvifica; la richiesta del perdono è la fiducia nella misericordia di Dio, ciò per cui si merita la misericordia. La distanza ontologica tra Dio e l’uomo non viene ridotta dalla vicinanza dell’uomo a Dio espressa mediante la sua perfezione morale acquisita tramite la sottomissione alla shari’ah. Come la prossimità di Dio all’uomo mediante la rivelazione della shari’ah non riduce la distanza ontologica così la qualificazione morale dell’uomo non elimina tale distanza. Nell’Islām il processo di qualificazione morale colloca l’uomo nel suo ordine creaturale. Si può ancora osservare che la giustificazione ultima dell’atto morale, nell’islām, è l’ordine divino; si tratta di una giustificazione immediatamente divina. Nell’Islam, dunque, come rileva giustamente Giuseppe Scattolin, Dio è, dal punto di visto ontologico, il Creatore (Khāliq) e l’essere umano la creatura (Khalq-khalīqa); mentre, dal punto di vista delle relazioni personali, Dio è il Signore assoluto (rabb) e l’essere umano il suo servo adoratore (‘abd). Dio, quindi, comunica mediante la rivelazione e l’ispirazione (wahy – tanzīl) e l’essere umano risponde nella preghiera e nell’invocazione. Dio, verso l’uomo, può mostrare misericordia (rahma); grazia (Ni’ma), ira (ghadab) e punizione (‘iqāb); mentre l’uomo può rispondere con la fede (imān); il ringraziamento (shukr); l’incredulità (Kufr) o la paura (taqwā), ma soprattutto la sottomissione (islām). Se sceglie di testimoniare la sottomissione nel culto, l’uomo chiede a Dio che gli venga mostrata la via e si affida interamente al Signore, come il servo, divenendo abd-allāh, servo del Signore. Il servo-uomo è a completa disposizione del suo Signore, ma è anche sotto la sua cura e la sua protezione. Di conseguenza, tutta la vita umana, in tutte le attività è nella visione coranica un servizio-culto (‘ibāda) reso al Signore. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE R. ARNANDEZ, Il fedele musulmano, in J. RIES (a cura di), Il credente nelle religioni ebraica, musulmana e cristiana, Jaka Book – Massimo, Milano 1993, pp. 285-340 G. RIZZARDI, Islām. Spiritualità e mistica, Cardini, Fiesole 1994 C. SACCONE, I percorsi dell’Islam. Dall’esilio di Ismaele alla rivolta dei nostri giorni, Messaggero, Padova 2003 G. SCATTOLIN, Dio e l’uomo nell’Islam, Emi, Bologna 2004 G. VERCELLIN, Istituzioni del mondo musulmano, Torino 1996 “Guidaci sulla retta via” Cor, I, 6 IL CULTO ISLAMICO COME SOTTOMISSIONE ALLA VOLONTA’ DI DIO Schema dell’intervento Introduzione: il culto come superamento dell’immagine - Il problema della visione di Dio (Ru’ya): il motivo del divieto di farsi immagini (aniconismo) - L’uomo come servo (‘abd) e immagine (sūra) di Dio - La teologia dei 99 nomi: il nome come immagine di Dio Prima parte: i significati del culto - Il paradigma del credere islamico: īmān, islām, ihsān (fede, sottomissione, bene); il culto come segno della fede nel Dio Unico; - La via della sottomissione come mediazione a Dio attraverso il culto; - La dialettica tra dīn e dunyā (religione e mondo) nel culto: il rifiuto dell’ascetismo. Seconda parte: descrizione ed interpretazione delle principali pratiche cultuali - Il cammino della sottomissione: i cinque arkān (pilastri) - La shahāda (professione di fede); - La salāt (preghiera rituale): significato spirituale e sociale della preghiera; analisi delle condizioni preliminari (harām, stato di purezza; niyyah, pronuncia dell’intenzione; qibla, orientamento alla Mecca); la prassi della preghiera; dialettica tra puro e impuro; - La zakāt (elemosina): differenze tra l’elemosina rituale e la sadaqah, beneficenza libera; aspetti religiosi, sociologici e pedagogici dell’elemosina - Il sawm (digiuno): senso del digiuno e motivi storico-religiosi; dialettica tra lecito e illecito; ‘īd al-fītr, festa della “rottura del digiuno” - Lo hajj (pellegrinaggio alla Mecca): prassi rituale e significati storico-religiosi. Conclusione: il senso ultimo della sottomissione