NOVECENTO ________________________ UNA FILOSOFIA DELL'INTUIZIONE: BERGSON di Gianluca Militi http://www.filosofia.it/pagine/essais/bergson.htm NOTA BIOBIBLIOGRAFICA Henry Bergson nasce a Parigi nel 1859 da una famiglia ebraica. Conduce i suoi studi al Liceo Condorcet, poi alla Scuola Normale Superiore ed ottiene la licenza in lettere e matematica. Egli inizia quindi un periodo di insegnamento nelle scuole superiori; nel 1889 consegue il dottorato in filosofia (corrispondente all'abilitazione all'insegnamento universitario, alla "libera docenza") con due dissertazioni: Quid Aristoteles de loco senserit e Saggio sui dati immediati della coscienza (1889). Questo saggio rappresenta la sua prima opera importante, alla quale segue Materia e memoria(1896). Ricopre in seguito, nel 1907, l'incarico di Maître des Conférences presso la Scuola Normale Superiore e diviene due anni dopo insegnante di Filosofia al Collège de France; i corsi da lui tenuti ottengono un notevole successo. Nonostante alcune ostilità mostrate nei suoi confronti dai circoli tradizionalisti legati alla Sorbona, Bergson si rivela progressivamente la figura di spicco della cultura filosofica francese dei primi decenni del Novecento. Pubblica molte opere, tra cui ricordiamo il saggio Il riso (1900), in particolare Introduzione alla metafisica (1902), che è una prima breve summa del suo pensiero, L'evoluzione creatrice (1907), l'opera forse più nota, L'energia spirituale (1919), Durata e simultaneità (1922) sulla Teoria della relatività di Einstein e Il pensiero e il movente (1934). Bergson affronta anche i temi dell'etica e della religione nel libro del 1932 Le due fonti della morale e della religione, avvicinandosi in seguito al cristianesimo. Gli viene conferito nel 1914 il prestigioso titolo di Accademico di Francia e riceve nel 1928 il Premio Nobel per la Letteratura. Muore a Parigi nel 1941. 1. IL TEMPO E LA COSCIENZA Al centro dell'intera filosofia di Bergson si trova la nozione di ''durata reale'' (durée reelle). Già nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), egli pone una radicale distinzione tra due diverse concezioni possibili del tempo, ossia della durata. La prima si determina quando ''proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e la successione prende per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi''. Questo procedimento si fonda sull'idea di una serie reversibile della durata o anche, semplicemente, di un certo ''ordine'' nel tempo; essa implica la rappresentazione dello spazio, e a causa di ciò non può essere adoperata per definire la natura peculiare della durata. Il risultato è infatti la costruzione di un tempo schematizzato, ''spazializzato'' appunto, in una sequenza di elementi o stati immobili, distinti, ma tutti uguali. Per quanto la durata reale o pura risulti indefinibile, Bergson cerca comunque di delinearne i tratti fondamentali: è ''la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza, quando il mio io si lascia vivere e si astiene da ogni tentativo di stabilire delle separazioni fra stato e stato''. Egli utilizza delle similitudini prese dal mondo dell'arte e della musica: la durata è come la fusione di note in una ininterrotta melodia, è una successione, senza interne distinzioni, una mutua penetrazione, un'intima organizzazione di elementi, ognuno dei quali rappresenta il tutto, da cui viene distinto e isolato solo per effetto di un'astrazione operata dal pensiero. La pura durata ''potrebbe essere benissimo nient'altro che una successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, che si compenetrano, senza contorni precisi, senza nessuna tendenza a esteriorizzarsi gli uni nei confronti degli altri, senza nessuna parentela col numero: sarebbe l'eterogeneità pura'', che si differenzia dalla omogeneità intrinseca alla strutturazione dello spazio. Il senso del divenire coincide con la durata, escludendo la giustapposizione di stati ed istanti diversi e separati, poiché è un flusso continuo, nel quale, in termini strettamente temporali, il passato si proietta sul presente e si compenetra ad esso. Ogni stato, considerato in sé, è un perenne divenire e ciò costituisce un limite insormontabile per la comprensione spaziale-simbolica. La durata reale, di conseguenza, in quanto divenire implica sempre l'insorgere di qualcosa di ''nuovo'' e di ''imprevedibile'' e si rivela essere una ''creazione continua'' o autocreazione. La concezione della durata, a partire da queste formulazioni, si impone come il vero Leitmotiv del pensiero bergsoniano e deve perciò essere còlta nei diversi ambiti - ontologico, gnoseologico eccetera - in cui si manifesta. Il tempo espresso come durata, come puro divenire, è ''assoluto'' per la coscienza che lo vive: la coscienza ''dura''. Bergson afferma che c'è almeno una realtà che tutti possiamo cogliere nell'interiorità ed è proprio il ''nostro io che dura'', il nostro io nel suo fluire temporale. Quelli che appaiono come degli stati della coscienza stessa, gli stati psichici, in realtà, in quanto distinti, simbolizzati come elementi spaziali e giustapposti l'uno all'altro, non rappresentano la vera vita coscienziale, ma solo l'io superficiale, schematizzato, esteriorizzato: in profondità invece si può avvertire una fluida continuità. Bergson, sulla linea dello spiritualismo, sostiene in termini ''cartesiani'' che ''l'esistenza di cui siamo più decisamente sicuri, quella che conosciamo con maggior chiarezza, è la nostra senza dubbio. Potremmo giudicare infatti esteriore e superficiale la nozione che possediamo degli oggetti esterni; ma per quel che riguarda noi stessi, percepiamo intimamente e profondamente'' (Evoluzione creatrice). Egli spiega come ogni stato di coscienza si arricchisca continuamente della durata che raccoglie e nota, acutamente, che non c'è differenza tra il cambiare di stato e il permanere nello stesso stato. Questi ''stati'' non costituiscono nemmeno in senso rigoroso una molteplicità, se non una volta vissuti e fatti oggetto di rappresentazione, poiché nella coscienza avviene una ''transizione continua'' o compenetrazione assoluta di tutti gli elementi. Bergson propone molte metafore, che però, come egli stesso dichiara, sono in quanto tali inadeguate a fornire un'immagine del processo o divenire vitale della coscienza; tra queste troviamo quella dello srotolarsi di un gomitolo che è, al contempo, l'arrotolarsi del filo in un altro gomitolo. La coscienza è ''il progredire del passato che rode l'avvenire e ingrossa a mano a mano che avanza'', ed è perciò un continuo crescere su sé stessa. ''Coscienza vuol dire memoria'', conservazione del passato nel presente ma anche anticipazione dell'avvenire: questa è l'altra tesi fondamentale di Bergson. Di conseguenza, una coscienza non può vivere due stati identici, poiché dovrebbe incessantemente finire e rinascere, ma ciò rappresenterebbe la negazione della memoria e quindi la pura ''incoscienza''. Se la coscienza è memoria, la memoria, cui Bergson dedica interessanti analisi - in particolare in Materia e memoria (1896), che mette a fuoco in generale il rapporto tra spirito e materia - non deve essere intesa in senso materialistico. Si devono distinguere due forme di memoria, quella dei ''meccanismi motori'' e quella dei ''ricordi indipendenti''. La prima è la memoria dello spirito, la memoria ''per eccellenza'', la seconda è invece legata ad un ''esercizio abituale del corpo'', ad una automatica ripetizione di azioni e si può perciò definire memoria del corpo o memoria-abitudine. La prima forma di memoria registra, come ''immagini-ricordo'', tutti gli avvenimenti della nostra vita a mano a mano che si svolgono; coglie ogni dettaglio, lascia ad ogni fatto e a ogni ''gesto'' il suo posto nel tempo trascorso. Questa memoria non ha fini di utilità e di azione pratica, immagazzina il passato solo per effetto di una necessità naturale e rende possibile il riconoscimento intellettivo di una percezione già provata, di un'immagine trascorsa. Bergson ne esemplifica il funzionamento riferendosi al sogno; nella dimensione onirica, in cui ''mi disinteresso della situazione presente'' nonostante il presente o l'''attualmente vissuto'' rimanga il segno fondamentale della coscienza -, emergono ricordi legati a eventi e dati remoti dell'esistenza: il passato rimane quindi depositato nel fondo della coscienza e può in ogni momento riaffiorare. ''Ma ogni percezione si prolunga in un'azione nascente; e via via che le immagini, una volta percepite, si fissano e si dispongono in questa memoria, i movimenti che le prolungavano modificano l'organismo, creano nel corpo nuove disposizioni ad agire''. Si crea in tal modo un'esperienza d'altro genere che si deposita nel corpo, e cioè una serie di meccanismi già impostati di cui si prende coscienza nel momento in cui essi entrano in funzione. Questa coscienza di un intero passato di ''sforzi'' raccolto nel presente indica una memoria molto differente dalla prima, dal momento che, concentrata nel presente, è sempre tesa verso l'azione e quindi verso il futuro. Essa trattiene solo i movimenti coordinati mediante l'intelligenza, in questo modo si consolida lo sforzo accumulato; gli sforzi passati non vengono richiamati come immaginiricordo, ma nell'ordine rigoroso con cui concorrono a realizzare i movimenti attuali. Come afferma Bergson, tale memoria ''non rappresenta il nostro passato, ma lo gioca'', lo attiva prolungando l'effetto delle immagini fino al momento presente. È basata sulla peculiare funzione del cervello, che consiste nel far riemergere da un fondo ''dimenticato'' quei ricordi che in proiezione futura possono essere utili all'azione. Il cervello è allora ciò mediante cui si traduce in movimento e si materializza la vita dello spirito. Questa, per ricordare la nota metafora bergsoniana, trascende, come una sinfonia i movimenti della bacchetta del direttore, i meccanismi cerebrali. Tra il piano dell'azione e quello del rivolgimento al passato, del sogno, si determina comunque un'infinita intersezione di piani intermedi e una continua e reciproca interazione. 2. INTUIZIONE E INTELLIGENZA: METAFISICA E SCIENZA Quella bergsoniana si può definire, dal punto di vista della conoscenza, una ''filosofia dell'intuizione''. L'intuizione, come si legge in Introduzione alla metafisica, è quell'atto metafisico, quella ''simpatia'', mediante cui ci si inserisce nell'interiorità di un oggetto e si attua una ''coincidenza'' con ciò che c'è in esso di unico e di inesprimibile, dunque con qualcosa di ''assoluto''. L'intuizione si distingue dall'intelligenza - strumento proprio della scienza -, che è invece analisi. In base al procedimento analitico si operano ''rigide'' distinzioni e si riconduce l'oggetto a elementi già noti, ossia comuni a più oggetti: questa è una conoscenza del relativo che si serve di simboli e schemi astratti (in tal senso opera in maniera simile all'intelletto astratto definito da Hegel). L'analisi è l'espressione di una cosa ''in funzione di qualcosa che essa non è''; è una traduzione, una spiegazione simbolica. In generale, l'intelligenza pensa la realtà mobile e fluida attraverso la mediazione dell'immobile. L'intuizione è invece l'organo della metafisica, di una metafisica autentica che secondo Bergson non consiste, come nel pensiero filosofico tradizionale, nel passaggio dal divenire ad una struttura o entità immutabile, ma, al contrario, dal superamento dell'immutabile nel divenire, nella durata. La vita interiore è insieme varietà di qualità, continuità di progresso e unità di direzione; non può essere tradotta in un'immagine - che però ha almeno il vantaggio della concretezza - né, a maggior ragione, in un concetto o in un'idea astratta propri della conoscenza intellettiva o scientifica. Questa è per sua natura inadatta a cogliere la realtà della durata, la sua essenza profonda, che può essere penetrata solo attraverso l'intuizione metafisica. L'insufficienza dei concetti si mostra, ad esempio, nel fatto che la durata viene definita come molteplicità in quanto costituita da un insieme di stati di coscienza, i quali però non sono distinguibili poiché trascorrono e si prolungano l'uno nell'altro. In questo senso si potrebbe parlare di un'''unità'' sui generis, ''che si muove, e cangia, e varia di colore'', diversa dall'unità concettuale, immobile e vuota. Neanche la combinazione dei concetti di ''unità'' e ''molteplicità'' è in grado di rendere la natura della durata, la quale è originariamente un ''vissuto'', la sostanza della vita della coscienza. L'intelligenza, che per Bergson è una facoltà che serve alla vita pratica, domina esclusivamente la dimensione della materialità, spazialità, omogeneità e divisibilità, attraversi cui il pensiero cerca di ricostruire in modo aporetico la durata, componendo una serie di ''immobilità''. In questa prospettiva, egli critica il metodo della psicologia ''scientifica'', la quale risolve analiticamente l'io in una serie di sensazioni, sentimenti e rappresentazioni; l'io viene così sostituito da un insieme di fatti psicologici. Non si pone più così una distinzione tra razionalismo ed empirismo poiché entrambi, procedendo per analisi, hanno come risultato la frammentazione della coscienza, della ''personalità'', in stati immobili. Questi sono solo ''elementi di una traduzione'' e non ''parti dell'originale''. L'unica differenza è che l'empirismo cerca all'infinito l'unità dell'io nella dispersa molteplicità degli stati psicologici, mentre il razionalismo, mediante astrazione, concepisce l'unità come forma priva di materia, assolutamente vuota e indeterminata: questa è la fisionomia del ''concetto''. Se la conoscenza in generale assume una connotazione pratica e pragmatica, in quanto serve all'azione, ''per prendere una decisione, per trarre un vantaggio, per soddisfare un interesse'', la filosofia per Bergson deve, al contrario, ricercare una rappresentazione, o meglio un'intuizione unica e semplice, che sia conoscenza ''disinteressata'' dell'oggetto, incentrata sulla cosa e non sul concetto. Se l'analisi opera sull'immobile, l'intuizione ''ci inserisce nella mobilità, che è quanto dire nella durata''. Bergson - questa è una tesi importante - afferma che dall'intuizione si può passare all'analisi, ad una costruzione concettuale, ma che non vale il procedimento inverso. Sui limiti dell'analisi è degno di nota quanto egli scrisse - siamo agli albori del cinema, nel 1907 - a proposito della natura cinematografica del meccanismo conoscitivo. Nel caso del movimento nello spazio, l'''artificio del cinematografo'' riproduce in fondo l'artificio della percezione, dell'intelligenza e anche del linguaggio, poiché consiste nel proiettare un filmato con un apparecchio che svolge una pellicola, e la pellicola è costituita da una serie di istantanee, di fotogrammi di un evento (ad esempio, la parata di un reggimento). Questo tentativo di ricostruire il movimento a partire da elementi fissi, immobili, per sua natura dà luogo a una ''contraddizione'' e perciò non è adeguato a cogliere l'essenza del movimento: il movimento non può derivare dall'immobilità. Il ''metodo cinematografico'', al di là della dimensione pratica, conduce, in ultima analisi, all'assurdo. Sulla struttura logica di questo metodo si basa - è un punto interessante - anche l'argomentazione mediante cui Zenone, con il noto esempio della freccia, nega l'esistenza del movimento: in un dato istante la freccia in volo è ferma, perché altrimenti il suo movimento si realizzerebbe in due diversi istanti; è impossibile però che un istante sia composto da più istanti. Bergson cerca comunque di confutare la rigorosa logica di Zenone, che è rimasta per molti versi alla base del pensiero filosofico, asserendo che essa non si rende conto che la durata - quindi l'intervallo, la traiettoria - ''si crea tutto d'un tratto''. La conclusione è che, se è possibile suddividere a piacere la traiettoria ''una volta creata'' non si può però mai suddividere l'atto della sua creazione, che è sempre in sé enérgeia, atto progressivo e non ''cosa''. 3. L'EVOLUZIONE CREATRICE Il percorso filosofico di Bergson è partito da un'indagine sui dati immediati della coscienza, dalla quale è emerso, come tesi fondamentale, che è la ''durata'' reale a costituire l'essenza della coscienza stessa. Egli ha conseguentemente impostato la sua filosofia sull'intuizione della durata, come è testimoniato anche dalla teoria intorno alle due forme di conoscenza. Oltre la riflessione sul rapporto spirito (coscienza)-corpo, Bergson ha dovuto perciò affrontare, in particolare in L'evoluzione creatrice (1907), in chiave ''cosmologica'', l'esistenza della durata, la dimensione del divenire nel mondo esterno. Per un essere cosciente l'esistenza equivale al mutamento, il mutamento alla maturazione e questa al crearsi da sé stesso indefinitamente. Anche il mondo inorganico-materiale, però, è coinvolto, al di là dell'apparenza, nella durata, nel divenire: si può affermare allora che ''l'universo dura''. La percezione è ciò che isola un oggetto e fornisce così le linee-guida per l'azione, ma è l'insieme universale, la totalità delle interazioni tra i corpi la vera realtà del mondo. Il vivente, l'organismo, non può coincidere con l'oggetto della percezione perché è qualcosa, durando, che si evolve e condensa in sé il tempo. Bergson conduce una penetrante critica che coinvolge sia il meccanicismo che il finalismo, in quanto basati entrambi su schemi intellettualistici. Il meccanicismo implica una metafisica in cui la totalità della realtà è posta tutta insieme, come fosse eterna, e quindi la durata, il tempo, che permangono solo come espressione dei limiti conoscitivi del soggetto, sono, in ultima analisi, negati. Il finalismo ha lo stesso principio del meccanicismo ma in forma rovesciata, poiché ''alla spinta del passato'', per cui un dato è determinato come risultato di una serie di cause, sostituisce ''l'attrazione del futuro'', ossia prefigura un modello preesistente, un'Idea, una Forma che la serie stessa dovrà necessariamente realizzare. La vita - come l'azione che è sua espressione - o in generale la realtà, è invece per Bergson creazione incessante che apporta l'''imprevedibile'' e il ''nuovo''. La realtà deve essere compresa in termini di evoluzione. Ma il grande obiettivo della speculazione bergsoniana non è individuare il risultato ultimo e perfetto dell'evoluzione, ma piuttosto cogliere il suo unitario principio. Egli recupera il senso positivo nella dottrina del finalismo: il mondo è un'armonia, ma un'armonia tendenziale, non attuale, in quanto ammette al tempo stesso disarmonie, regressi e accidentalità, e quindi include la contingenza. Diversamente dal finalismo ''radicale'', la concezione bergsoniana prevede una ''visione del passato alla luce del presente''. La tesi centrale, che si pone anche come principio di dimostrazione, è che ''la vita, sin dalla sua origine, è la continuazione di un solo e medesimo slancio che si è diviso in linee di evoluzione divergenti'': lo slancio vitale (élan vital). A partire da un'origine comune, le specie tendono ad accentuare la loro divergenza nel corso dello sviluppo, ma proprio in base allo slancio vitale originario mantengono, in alcuni aspetti particolari, un'identica natura. La vita, che è una creazione che prosegue indefinitamente, procede per ''dissociazione'' e ''sdoppiamento''; si può dire che essa effettui uno scopo, che è intrinseco, immanente, anche in linee dell'evoluzione tra loro indipendenti. Bergson propone l'esempio dell'occhio: in esso la struttura complessa contrasta con la semplicità di funzionamento: questo dato non può essere spiegato mediante un meccanismo o attraverso il finalismo, né dalla concezione meccanicistica dell'evoluzione di Lamarck e di Darwin. L'unità e la semplicità vitale dell'organo è reale, mentre la sua struttura complessa appare tale attraverso gli schemi intellettualistici dell'analisi scientifica. La natura infatti forma l'occhio in modo analogo al semplice e indivisibile atto con cui solleviamo una mano. Bergson segue le tappe del percorso evolutivo, così come si configura nel mondo vegetale e in quello animale. L'evoluzione degli Artropodi raggiunge un punto culminante diverso da quello raggiunto dai Vertebrati, rappresentato dall'uomo. Le due diverse linee di sviluppo sono segnate, rispettivamente, dal prevalere dell'istinto e dell'intelligenza; nell'uomo comunque si ritrovano entrambe queste ''tendenze''. L'istinto è la facoltà di utilizzare a fini naturali strumenti organici, mentre l'intelligenza è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali; sul piano della conoscenza innata, il primo si rivolge alle ''cose'', alla materia, mentre la seconda ai ''rapporti'', alla forma. Oltre c'è l'intuizione della realtà del divenire, della vita, che fa cogliere la ''genesi ideale della materia''. L'evoluzione segnata dallo slancio vitale talvolta si arresta, contrastata dalla legge del minimo sforzo e dell'autoconservazione, e ricade su sé stessa. La materia consiste in questa ricaduta, nell'''interruzione'' della tensione vitale, nell'insorgere della infinita divisione degli enti (individuazione). La materia è anch'essa non una cosa, ma una tendenza o forza contraria, un movimento inverso rispetto al processo della vita e della natura. Per Bergson essa non è la negazione del processo di evoluzione, della ''realtà positiva'', ma la sua inversione, il suo opposto. La materia e la spazialità-estensione - àmbito dell'ordine geometrico, dell'automatismo - non hanno perciò origine da un principio diverso dallo slancio vitale, che è alla base della creazione continua, ordine del vitale, della volontà: rappresentano la soppressione di quest'ordine, che è insieme sostituzione, presenza di un ordine diverso. L'aporia del discorso bergsoniano deriva dal fatto che, al tempo stesso, la materia e l'estensione, di cui si deve spiegare la genesi, rimangono in sé un elemento di ''negatività interna'' alla positività dell'evoluzione creatrice. È l'uomo soltanto, come coscienza, libertà e apertura all'azione (diversa dall'automatismo dell'animale), che può sostenere lo slancio vitale e quindi la creazione, il divenire. All'origine della vita, dice Bergson, c'è una coscienza o ''supercoscienza'', che è un ''esigenza di creazione''. L'uomo, con le manifestazioni più elevate della sua attività e natura - la società, l'arte, la morale, la religione -, supera i limiti imposti dalla materialità e rappresenta, in ultima istanza, la linea fondamentale, che mai si arresta, di una complessa ed universale evoluzione. Un luogo decisamente interessante del pensiero bergsoniano è l'analisi dell'idea del ''nulla'' (néant o Rien), presente nel capitolo IV di L'evoluzione creatrice, (precedentemente apparsa nella ''Revue philosophique'', 1906); questa idea è considerata ''l'invisibile motore del pensiero filosofico''. Il ''nulla'' assoluto è concepito da Bergson essenzialmente come ''annullamento'' totale, concetto che si rivela però autocontraddittorio o ''distruttivo di sé stesso''. La sua argomentazione si sviluppa in questi termini: se anche l'universo, il tutto, venisse soppresso o si inabissasse ''nel silenzio e nella notte'', ci sarebbe sempre ''ciò che'' sopprime. Bergson mira a dimostrare in generale che la soppressione di qualcosa implica, al tempo stesso, il subentrare di qualcos'altro. Anche pensare l'abolizione di una cosa non è possibile che mediante la rappresentazione, implicita o esplicita, della presenza di un'altra cosa. In ultima analisi, la soppressione di un oggetto esterno o interno (stato di coscienza) è sempre una sostituzione, un ''rimpiazzamento''. Bergson assume, per confutarla, l'ipotesi che sia possibile una progressiva, oggetto dopo oggetto, abolizione del tutto. Ma ciò, come dimostrato, è sempre una progressiva sostituzione e perciò l'emergere di un diverso oggetto: ne deriva l'impossibilità dell'abolizione del tutto. L'annullamento delle cose si presenta come una ''cosa'' e quindi risulta inevitabilmente contraddittorio. L'idea stessa dell'''inesistenza'', il giudizio che nega l'esistenza, suppone l'esistenza dell'oggetto che si assume non esista; l'inesistenza allora non è altro se non la posizione dell'esistenza ''con in più la rappresentazione dell'esclusione dalla realtà''. Nella prospettiva bergsoniana, il nulla è sempre relativo e coincide con la posizione del ''diverso'': è lo stesso esito dell'argomentazione platonica nel Sofista. Nell'universo quindi non esiste il vuoto (vide). Con questa analisi, segnata da notevole spessore teoretico, ma anche da interne aporie, Bergson ha cercato di sostenere la sua concezione dell'universo come continua evoluzione e creazione. HENRI BERGSON A cura di http://www.geocities.com/diego_fusaro_2000/filos.htmlhttp://www.geocities.com/diego_fus aro_2000/filos.html IL RISO INDICE IL COMICO SECONDO BERGSON IL COMICO SECONDO BERGSON 1. Le fonti. Le riflessioni di Bergson sulla natura della comicità sono racchiuse in un breve libro, intitolato Il riso. Saggio sul significato del comico (1900), destinato ad un successo travolgente: ebbe infatti più di sessanta edizioni in poco più di quarant'anni, grazie anche alla leggerezza dello stile che rende tanto più piacevolmente leggibile un'opera che è peraltro assai più impegnativa e ricca di quanto non sembri. Quest'opera si situa in una fase importante dell'evoluzione del pensiero bergsoniano: si colloca infatti negli anni in cui da interessi prevalentemente psicologico-filosofici Bergson muove verso una filosofia della vita orientata metafisicamente. Il saggio sul riso accomuna dunque, come vedremo, queste due tendenze della speculazione di Bergson e rappresenta quindi una possibile introduzione al suo pensiero. 1. Un'idea antica: il riso ha una funzione sociale. Nelle pagine di questo suo libro, Bergson muove innanzitutto da una constatazione di natura generale: se il riso è un gesto che appartiene a pieno titolo al comportamento umano, allora deve essere lecito domandarsi qual è il fine che lo anima. Ora, per comprendere il fine cui mira un comportamento si deve in primo luogo far luce sulle occasioni in cui accade. E per Bergson vi sono almeno tre punti che debbono essere a questo proposito sottolineati: 1. "Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano" (ivi, p.4). Questa affermazione può lasciarci di primo acchito perplessi: si può ridere infatti anche di un cappello o di un burattino di legno. E tuttavia, se non ci si ferma a questa constatazione in sé ovvia, si deve riconoscere che in questi casi il rimando a ciò che è umano gioca un ruolo prevalente e comunque ineliminabile: di un cappello ridiamo perché vi vediamo espresso un qualche capriccio estetico dell'uomo, così come nella marionetta l'immaginazione scorge i gesti impacciati di un uomo sgraziato. Alla massima antica secondo la quale l'uomo È l'animale che ride si deve affiancarne dunque una moderna: l'uomo È un animale che fa ridere. 2. Il riso scaturisce solo di fronte a ciò che appartiene direttamente o indirettamente all'ambito propriamente umano; perché possa tuttavia scaturire è necessario che chi ride non si lasci coinvolgere emotivamente dalla scena che lo diverte. Per ridere di una piccola disgrazia altrui dobbiamo far tacere per un attimo la pietà e la simpatia, e porci come semplici spettatori o - per esprimerci come Bergson - come intelligenze pure: "il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore" (ivi, pp. 5-6). 3. Il riso - abbiamo osservato - chiede una sorta di sospensione del legame di simpatia che ci lega a colui di cui ridiamo. E tuttavia tutti sappiamo che il riso È un'esperienza corale: ridiamo meglio quando siamo insieme ad altri, ed il riso È spesso il cemento che tiene unito un gruppo di persone. "Il riso, - commenta Bergson - [...] cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano" (ivi, p.6). Non è difficile scorgere la nota che accomuna queste tre osservazioni generali: il riso sembra essere strettamente connesso con la vita sociale dell'uomo, con il suo essere un animale sociale. Possiamo allora - seguendo Bergson - far convergere i tre punti su cui abbiamo dianzi richiamato l'attenzione in un'unica tesi, che getta appunto la sua luce sul quando del riso: "Il "comico" nasce quando uomini riuniti in un gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza" (ivi, p.7). E se le cose stanno così, se il riso come comportamento umano sorge nella vita associata, allora si può supporre che esso risponda a determinate esigenze della vita sociale. 3. Il riso ed il diavolo a molla. Per far luce sul motivo che ci spinge a ridere non basta indicare quando ridiamo: occorre riflettere anche su ciò di cui ridiamo. Orientarsi in questa seconda parte delle analisi vuol dire innanzitutto lasciarsi guidare dagli esempi, e tra questi uno gode di una posizione privilegiata proprio per la sua estrema semplicità: il gioco del diavolo a molla. "Noi tutti abbiamo giocato [...] col diavolo che esce dalla sua scatola. Lo si schiaccia ed ecco si raddrizza; lo si ricaccia più in basso ed esso rimbalza più in alto, lo si scaccia sotto il coperchio ed esso fa saltare tutto" (p. 46) scrive Bergson, e propone subito dopo un'osservazione che ci spiega perché un simile gioco possa far ridere un bambino: "E' il conflitto di due ostinazioni, di cui l'una puramente meccanica finisce ordinariamente per cedere all'altra, che se ne prende gioco" (ivi, p. 47). Del diavolo ci fa ridere la cieca ostinazione, il suo "saltar su" come una molla: È dunque il comportamento rigidamente meccanico di ciò che pure nel gioco vale come un essere dotato di un'autonoma volontà a far ridere il bambino. Un comportamento rigidamente meccanico applicato a ciò che è (o immaginiamo che sia) vivente: su questa tesi dobbiamo riflettere perché per Bergson circoscrive in modo sufficientemente preciso l'ambito del comico. Molti esempi di comicità possono esserle immediatamente ricondotti: una marionetta ci fa ridere perché i suoi gesti sono rigidi e meccanici, ed è per questa stessa ragione che ci sembra ridicolo chi - giunto in fondo alle scale - tenta di scendere anche da un ultimo inesistente gradino, con un gesto goffo che non è motivato da un fine reale, ma solo dal meccanismo acquisito della discesa. Altri invece ci costringono a disporci nella prospettiva propria dell'immaginazione che con le definizioni non procede con la stessa metodica precisione dell'intelletto: così, non dobbiamo stupirci se il topos della meccanicità si estende per l'immaginazione fino a coprire campi che non sembrano in senso stretto spettarle. Per l'immaginazione una macchina È innanzitutto ripetitiva: di qui la comicità che sorge dalla ripetizione dei gesti, delle azioni, dei pensieri. "Due volti simili, ciascuno dei quali preso isolatamente non fa ridere, presi insieme fanno ridere per la loro somiglianza" diceva Pascal, e tutti sappiamo come un tic fisico o intellettuale (una frase, sempre la stessa, ripetuta troppo di sovente) sia causa di ilarità. Ma un meccanismo non è solo ripetizione: è anche - a dispetto del movimento - staticità. Una macchina è inchiodata alla sua funzione: così, chi voglia fare una caricatura, saprà farci ridere solo a patto di ritrarre nel volto una piega espressiva solidificata in un tratto stabile della fisionomia, un'espressione cui la macchina dei lineamenti non sa più sottrarsi. Nell'immagine della macchina si cela infine anche l'idea dell'ostinazione cieca, del movimento che non sa più aderire al presente, ma segue una regola tanto fissa quanto sorda alle esigenze del momento. Basta dunque che questa immagine si sovrapponga alla vita umana perché il riso si faccia avanti. Una simile sovrapposizione si ha per esempio quando l'anima ci si mostrerà contrariata dai bisogni del corpo - da un lato la personalità morale con la sua energia intelligentemente variata, dall'altra il corpo stupidamente monotono interrompente sempre ogni cosa con la sua esigenza di macchina. Quanto più queste esigenze del corpo saranno meschine ed uniformemente ripetute, tanto più l'effetto sarà vivo (ivi, p. 33). Non è dunque un caso - commenta Bergson - se i personaggi tragici debbono tenersi lontani da gesti che tradiscano le esigenze della corporeità, mentre il commediografo potrà senz'altro ottenere il riso del pubblico rappresentando i suoi personaggi comici in preda a un malanno o ad un fastidioso singhiozzo che interrompe ogni loro discorso. Proprio come la vita dello spirito può essere ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della macchina corporea, così la forma della vita sociale può soffocarne il senso. La lettera - le regole e le convenzioni sociali - si sovrappone alla sostanza - la vita in comune, e dalla contemplazione di questo travestimento della vita sorge la comicità: il deputato che interpellando il ministro su di un assassinio famoso rammenta che il colpevole, dopo aver ucciso la vittima, È sceso dal treno in senso contrario alla sua direzione, violando così il regolamento, è - per Bergson - comico perché in lui l'adesione alla regola ha soffocato la comprensione della vita. Potremo soffermarci ancora sulle strade che l'immaginazione comica percorre, e non sarebbe difficile mostrare come a partire dalle poche cose che abbiamo detto possano comprendersi le ragioni che ci spingono a ridere dei travestimenti o - e su questo punto dovremo in seguito ritornare - dei vizi di natura morale. Per ora ci basta invece il risultato cui siamo pervenuti: ciò di cui ridiamo è - per Bergson - tutto ciò in cui l'immaginazione scorge una sorta di meccanicizzazione della vita. 4. Il riso come castigo sociale. La comicità morale e la funzione sociale della commedia. Le considerazioni che abbiamo sin qui svolto ci permettono di formulare ora, senza ulteriori indugi, una risposta alla domanda da cui avevamo preso le mosse, - la domanda sul fine che il riso persegue. Il riso - avevamo osservato - deve avere una funzione sociale, e sorge - aggiungiamo ora - dalla constatazione di una sorta di contraddizione: ciò che dovrebbe comportarsi in modo libero e vivo sembra assoggettare i suoi gesti a leggi meccaniche, alla cieca ostinazione del meccanismo. Al riso spetta dunque il compito di sanare questa contraddizione, richiamando quella parte della società (reale o immaginaria) che è colpevole di un comportamento rigido e ostinato ad un atteggiamento più elastico, ad uno stile di vita più duttile e desto. Il riso è quindi un castigo sociale:. È comico - scrive Bergson - qualunque individuo che segua automaticamente il suo cammino senza darsi pensiero di prendere contatto con gli altri. Il riso è là per correggere la sua distrazione e per svegliarlo dal suo sogno. [...]. Tutte le piccole società che si formano sulla grande sono portate, per un vago istinto, ad inventare una moda per correggere e per addolcire la rigidità delle abitudini contratte altrove, e che sono da modificare. La Società propriamente detta non procede diversamente: bisogna che ciascuno dei suoi membri stia attento a ciò che gli È intorno, si modelli su quello che lo circonda, eviti infine di rinchiudersi nel suo carattere come in una torre di avorio. Perciò essa fa dominare su ciascuno, se non la minaccia di una correzione, per lo meno la prospettiva di un'umiliazione che per quanto leggera non è meno temibile. Tale si presenta la funzione del riso. Sempre un po' umiliante per chi ne è l'oggetto, il riso è veramente una specie di castigo sociale (ivi, pp. 88-9). Di questa funzione sociale del riso, la commedia È per Bergson un'espressione esemplare. Tra tutte le forme di comicità una in particolare sembra stringere un rapporto strettissimo con la sfera sociale: È la comicità morale. Le passioni spesso si prendono gioco di noi e subordinano tutte le nostre azioni ad un unico meccanismo. E' questo ciò che accade ai personaggi comici di molte commedie: lo spettatore È chiamato a ridere di un uomo, i cui gesti sembrano quelli di una marionetta, mossa da un burattinaio - la gelosia, l'avarizia, la pavidità, ecc. - che ci è ben noto e di cui sappiamo prevedere i movimenti. Di qui la forma di tante commedie che hanno per protagonisti non già individualità ben determinate, ma personaggi tipici, marionette dietro alle quali traspare la passione che li domina. Ma di qui anche il fine che si prefiggono: correggere, ridendo, i costumi. Alle forme propriamente artistiche, caratterizzate dall'assoluta assenza di finalità pratiche si deve contrapporre dunque la commedia, che è - per Bergson - una forma artistica spuria, proprio perché affonda le sue radici nella vita e perché alla vita ritorna come ad un valore da salvaguardare e cui sottomettere i propri sforzi. Vi è tuttavia una seconda ragione che spinge Bergson a dedicare tanto spazio alle considerazioni sulla commedia, ed è propriamente il carattere per così dire teatrale della comicità. Possiamo ridere soltanto quando la rigidità di un carattere o di un comportamento si fa gesto e si mostra apertamente agli occhi dell'immaginazione: non ci basta sapere che la paura della morte ha trasformato Argan in un burattino; per ridere dobbiamo vedere i gesti in cui la riduzione dell'uomo a cosa si fa spettacolo. Ma lo spettacolo comico implica uno spettatore che sappia per un attimo guardare alla vita come ad una rappresentazione teatrale: Da ciò il carattere equivoco del comico. Esso non appartiene né completamente all'arte, né completamente alla vita. Da un lato i personaggi della vita reale non ci farebbero mai ridere se noi non fossimo capaci di assistere alle loro vicende come ad uno spettacolo visto dall'alto di una loggia; essi sono comici ai nostri occhi solo perché ci danno la commedia. Ma d'altra parte, anche a teatro, il piacere di ridere non è puro, cioè esclusivamente estetico, assolutamente disinteressato. Vi si associa sempre un pensiero occulto che la società ha per noi quando non l'abbiamo noi stessi; vi è sempre l'intenzione non confessata di umiliare e con ciò, è vero, di correggere, almeno esteriormente" (ivi, p. 89). Il riso sorge così come un gesto che per strappare la vita dalla sua negazione implica una momentanea sospensione della vita stessa: È dunque una contemplazione della vita volta a sanare i pericoli che la mettono in forse. 5. Il riso e la metafisica bergsoniana. Nonostante la sua indubbia coerenza e la sua capacità di far luce su di un aspetto importante del comico, il saggio di Bergson sembra lasciare aperto più di un problema. Ciò che in particolare colpisce il lettore è forse il trovarsi di fronte ad un saggio che con tanto vigore sottolinea la funzione sociale del riso, senza tuttavia sfociare in un'indagine di natura sociologica che - tra le altre cose - ci mostri quali sono i processi di apprendimento del riso. Perché almeno questo è chiaro: se il riso è un gesto sociale che appartiene alla forma di vita propria dell'uomo, allora deve esistere qualcosa come un addestramento al riso, - un addestramento che insegni al bambino quali sono i vizi e i difetti di cui ridere e quando È opportuno riderne. In realtà, basta dare uno sguardo alle brevi considerazioni che Bergson raccoglie intorno a questi problemi per rendersi conto che le sue analisi si muovono in un'altra direzione. Se con Bergson indichiamo quali siano i "difetti" censurati dal riso siamo innanzitutto ricondotti a ciò che ci rende non tanto immorali, quanto poco adatti alla società, ma dobbiamo poi in secondo luogo - rammentare che troviamo comiche anche le fisionomie buffe nelle quali l'immaginazione può scorgere un irrigidimento della vita espressiva, ma in cui sarebbe insensato scorgere un problema per la società. Se il riso È un castigo sociale, allora si deve aggiungere che talvolta sembra castigare anche là dove non ce n'è alcun bisogno. Non solo: di un vizio morale come l'avarizia o la gelosia, noi non sempre ridiamo, poiché osserva in primo luogo Bergson - il riso chiede che il vizio da castigare non ci coinvolga troppo da vicino e ci permetta di mantenere la posizione dello spettatore. In secondo luogo, tuttavia, Bergson attira la nostra attenzione sul fatto che uno stesso vizio - l'avarizia, per esempio - pu• talvolta suscitare il riso, talvolta il nostro disprezzo. Ora, la diversità della reazione non dipende solo dalla gravità della colpa, ma soprattutto dal modo in cui questa si palesa. E ancora una volta il cammino da seguire ci È indicato dall'esperienza letteraria. Gli eroi tragici ci rivelano il loro carattere nelle azioni, e con azioni Bergson intende i comportamenti volontari della soggettività. Il personaggio comico invece si rivela nei gesti, e cioè in quei movimenti e in quei discorsi nei quali uno stato d'animo si manifesta senza scopo e senza alcuna premeditazione. Nell'azione la persona intera è in gioco, nel gesto una parte isolata della persona si esprime all'insaputa o (per lo meno) in disparte dell'intera personalità (ivi, p. 94). Il gesto - potremmo allora esprimerci così - è una sorta di irruzione improvvisa dell'inconscio nella vita desta, ed è proprio questo carattere di involontarietà e di immediatezza che ci fa apparire comico anche un vizio che detestiamo. Ma se il comico si esprime nel gesto, anche il riso è a sua volta un gesto sociale (ivi, p. 14) di cui si deve sottolineare l'immediatezza: non bisogna dunque stupirsi se non ha tempo di osservare sempre dove tocca [... e se] talvolta castiga certi difetti come la malattia castiga certi eccessi, colpendo gli innocenti, risparmiando i colpevoli, mirando verso un risultato generale, senza preoccuparsi del singolo" (ivi, p. 126). Così, accanto alla tesi secondo la quale il riso sorge come prodotto di un'antica abitudine sociale, Bergson viene sempre più chiaramente sostenendo che "il riso è semplicemente l'effetto di un meccanismo datoci dalla natura" (ivi, p. 126). Ed in questa prospettiva, il problema di un addestramento al riso non si pone, poiché il riso ci appare come una manifestazione diretta della natura, come una difesa immediata della vita che È la vita stessa a donarci, armandoci di una sorta di istintiva reazione alla comicità. Se dunque Bergson non si impegna sul terreno delle considerazioni sociologiche è proprio perché intende rispondere alla domanda sulle origini del riso sul terreno di una autentica metafisica della vita, che del resto si fa percepire in vari passaggi del saggio bergsoniano. La nostra immaginazione - scrive Bergson ha una sua filosofia ben salda; in tutte le forme umane essa scorge lo sforzo di un'anima che foggia la materia, anima infinitamente agile, eternamente mobile sottratta al peso perché non è la terra che l'attira... Con la sua leggerezza alata quest'anima comunica qualcosa al corpo che anima: l'immaterialità che passa così nella materia è ciò che si chiama grazia. Ma la materia resiste e si ostina. Essa attira, e vorrebbe convertire la propria inerzia e fare degenerare in automatismo l'attività sempre sveglia di questo principio superiore [...]. Laddove la materia riesce a far crassa esteriormente la vita dell'anima, irrigidendone il movimento ed ostacolandone la grazia, ottiene dal corpo un effetto comico (ivi, pp. 19-20). Non è difficile scorgere in queste pagine (o in quelle in cui si deducono le leggi della comicità dalla diretta negazione della nozione metafisica di vita) il germe di quella filosofia che troverà poi nell'Evoluzione creatrice la sua configurazione definitiva. La lotta tra l'urgere dinamico e multiforme della vita e la resistenza cieca e sorda che la materia le impone trova già qui, nella disamina sul comico, la sua prefigurazione. Così, non ci si deve stupire se l'abitudine al riso È tanto antica da affondare le sue radici in un meccanismo della natura (ivi, p. 126): il riso è sì un castigo sociale, ma le sue origini non appartengono alla società, ma alla vita stessa e debbono essere quindi viste sullo sfondo della lotta tra lo slancio vitale e l'inerzia della materia. E se ci si pone in questa prospettiva, le considerazioni bergsoniane vengono a collocarsi nell'orizzonte problematico di una filosofia della vita, - un orizzonte cui già alludevano le pagine di Schopenhauer.