LA DEGENERAZIONE MACULARE SENILE PUO' ESSERE CURATA CON "ACETILCARNITINA" Il pericolo comincia a sessant'anni. Sintomi? Uno solo: la riduzione del campo visivo. Nella degenerazione maculare senile c'è una macchia che copre la parte centrale di ciò che si sta guardando. Restano nitidi i contorni. Gli oculisti portano l'esempio di piazza San Pietro, a Roma. L'anziano colpito da degenerazione maculare senile, dicono, non vede la basilica ma solo una parte del colonnato del Bernini. Ciò provoca serie conseguenze: diventa difficilissimo leggere e ancora più difficile guidare l'automobile. Questo perchè la macula (che è la pèarte centrale e più nobile della retina) è seriamente compromessa. Questa è una malattia tipic della terza età (dato che si vive sempre più a lungo i casi sono in aumento): negli ottantenni supera la soglia del 30%, nei settantenni si ferma al venti. E' quindi indispensabile una diagnosi precoce, certamente favorita da frequenti controlli dell'acuità visiva. Chi avverte difficoltà deve subito consultare uno specialista per sapere se si tratta di degenerazione maculare senile, di cataratta o di altre patologie. Nel primo caso è urgente correre ai rimedi. I ricercatori di tutto il mondo cercano da anni un rimedio sicuro per fermare l'avanzata di questa patologia, che rappresenta la prima causa di cecità dell'anziano. molte scoperte sono ancora sotto esame: servono, infatti, conferme affidate a studi controllati eseguiti in doppio cieco. Una novità arriva dall'Ungheria, nazione in cui l'oculista Janos Feher ha condotto uno studio clinico in collaborazione con Sigma - Tau Health Science su cento pazienti di età compresa tra i 55 e i 70 anni, tutti affetti da degenerazione maculare secca, ma fortunatamente nella fase iniziale. Cinquanta di essi sono stati trattati con un placebo, cinquanta con un mix di acetilcarnitina, acidi grassi polinsaturi e coenzima Q10, che protegge dall'ossidazione i mitocondri. Dice il professor Feher, visiting professor all' università romana La Sapienza: " Lo studio è durato un annoma già al quinto - sesto mese abbiamo ottenuto non solo la decelerazione che ci aspettavamo, ma adirittura una magiore acuità visiva nei cinquanta soggetti che avevano assunto per via orale il nuovo preparato. Ho presentato lo studio un mese fa, inb Florida, al congresso internazionale dell'Arvo". Feher sostiene di aver curato fino ad oggi più di cinquemila pazienti, ma di aver capito che si stava aprendo una nuova possibilità per la terapia della degenerazione maculare soltanto con questo trial,destinato ad entrare nella stria di questa brutta malattia. da "IL GIORNALE" NUOVI TRAGUARDI NELLA RICERCA DEGENERAZIONE MACULARE UMIDA Si cercano pazienti per una nuova sperimentazione clinica. All'esame un medicamento del quale si intende accertare la non nocività e l'efficacia rispetto al trattamento con la terapia fotodinamica La Alcon Laboratories ha in corso di effettuazione una sperimentazione clinica multipla di fase 3 per persone che presentano perdita della vista a causa della forma "umida" della Degenerazione Maculare Senile (DMS) derivata dalla neovascolarizzazione della coroide (NVC), cioè la crescita di vasi sanguigni anormali nella parte posteriore dell'occhio. Questi vasi sanguigni spesso sanguinano, perdendo liquido, fenomeno al quale la DMS "umida" deve il suo nome. La sperimentazione clinica, che al momento "arruola" pazienti, paragonerà la non nocività e l'efficacia di un medicamento denominato "Anecortave acetato" rispetto al trattamento con la terapia fotodinamica Visudyne, approvata dalla Food And Drug Administration (FDA) per l'inibizione della crescita di vasi sanguigni nella parte posteriore dell'occhio, salvando la vista delle persone che sono state colpite dalla DMS umida. Nel corso di due anni, i pazienti del gruppo Anecortave acetato riceveranno quattro iniezioni (una ogni sei mesi) di Anecortave acetato dietro l'occhio, mentre i pazienti del gruppo Visudyne riceveranno fino ad otto trattamenti con Visudyne. Inoltre tutti i pazienti verranno sottoposti gratuitamente ad esami fisici ed oculistici. I pazienti ignoreranno ovviamente se assumeranno il farmaco sperimentale Anecortave acetato o il Visudyne e per essere ammessi alla sperimentazione devono prima sottoscrivere una dichiarazione di consenso con la quale riconoscono di essere stati informati circa i trattamenti cui verranno sottoposti e i rischi correlati. La sperimentazione clinica è stata offerta a cittadini statunitensi affetti da DMS umida, di almeno 50 anni di età. Per maggiori informazioni, consultare il sito della "Alcon Laboratories": www.alconic.com Tratto da "LUMEN", numero 30/2003 da Newsletter, inverno 2002, organo di Fighting Blindness Irlanda. Traduzione e adattamento di Carlo Parolini CHE COSA SONO LE SPERIMENTAZIONI CLINICHE? Le sperimentazioni cliniche sono studi atti a stabilire la non nocività e l'efficacia di terapie sperimentali in soggetti ammalati e rappresentano la fase finale di ricerca prima che la FDA dia l'approvazione perché un trattamento possa essere utilizzato su esseri umani. La prova è normalmente attuata in tre fasi, ciascuna delle quali implica in successione un numero crescente di persone. Gli studi della fase 1 sono principalmente rivolti ad accertare la non nocività del farmaco e a determinarne il dosaggio massimo tollerato. Questa fase iniziale della prova su esseri umani si svolge su un numero piccolissimo di volontari. Talvolta vi sono sottoposti adulti sani privi della malattia; a volte lo sono invece pazienti all'ultimo stadio. Ad esempio, nelle sperimentazioni della fase 1 iniziale, che tendono a provare soltanto la non nocività dei trapianti di cellule retiniche, sono implicati unicamente pazienti già non vedenti: in questo modo non si mettono a rischio di peggioramento della funzione visiva pazienti che presentano ancora un residuo visivo. Una volta che un farmaco sia trovato non nocivo, il passo successivo è di testarne l'efficacia in uno studio di fase 2, la cui durata dipende largamente dalla natura del trattamento in sperimentazione e dalla patologia specifica. Gli studi di fase 2 possono interessare grandi numeri di pazienti presso diversi Centri medici in tutta la nazione, i quali partecipano alla sperimentazione. Quando le terapie approvate dall'FDA già esistono per una determinata patologia, si richiedono studi della fase 3 per verificare il nuovo trattamento nei confronti della terapia standard al fine di stabilire quale sia la più efficace. Gli studi della fase 3 consentono inoltre ai ricercatori di monitorare gli effetti collaterali di un medicamento su una vasta popolazione di pazienti affetti e questa verifica su vasta scala fornisce all'industria farmaceutica e all'FDA una comprensione più approfondita sia della validità del farmaco in esame, sia dei suoi benefici e della gamma di possibili reazioni indesiderate. Queste fasi delle sperimentazioni cliniche sono state originariamente studiate per l'utilizzo nella ricerca sul cancro, quali strumenti di aiuto per sperimentare nuovi trattamenti in modo sicuro e sistematico. Tuttavia, le varie fasi di una sperimentazione vengono talvolta combinate: ad esempio, le sperimentazioni della fase 2 e della fase 3 sono spesso combinate quando non esistano già terapie standard. In altri casi sono le sperimentazioni della fase 1 e della fase 2 ad essere combinate quando siano ben compresi la non nocività e il dosaggio di un farmaco. Tratto da "LUMEN", numero 30/2003 CURA DELLA RETINITE PIGMENTOSA ALLO STATO AVANZATO Un nuovo tipo di trapianto dai risultati tutti da verificare Al professor Valter Gualandi è stato richiesto di commentare una sperimentazione che sembrerebbe aver avuto esiti promettenti. LA NOTIZIA: Il trapianto di una porzione di retina di occhi di feti abortiti sembra avere notevolmente migliorato la visione di due persone, sulle quattro sottoposte a questo intervento, tutte affette da retinite pigmentosa a uno stadio avanzato. Il miglioramento è stato attestato soggettivamente dagli stessi due pazienti, i quali hanno affermato di riuscire a vedere, dopo l'intervento, particolari del viso di altre persone, anche se poste a distanza. La sperimentazione è stata condotta da Robert Aramant e Magdalene Seller, dell'Istituto Oculistico Dehany di Los Angeles, che, alla luce dei risultati ottenuti, hanno chiesto l'autorizzazione a continuare questi studi sperimentali. Il tessuto trapiantato ha una superficie di due millimetri quadrati e comprende due strati istologici. IL COMMENTO del Prof. Valter Gualandi: "Anzitutto precisiamo che la retina ha per l'appunto una struttura istologica a strati: lo strato più esterno si chiama epitelio pigmentato ed è formato da cellule ricche di pigmento. Sopra di esso, ovvero verso il cristallino, sono stratificati lo strato dei coni e dei bastoncelli, ossia le cellule che propriamente ricevono la stimolazione della luce e hanno la proprietà di trasformarla in segnale nervoso, e poi lo strato delle cellule nervose che accolgono impulsi nervosi trasmettendoli al cervello. Il trattamento sperimentale delle malattie degenerative della retina prevede da diversi anni il trapianto di cellule fetali; la loro finalità dichiarata non è però quella di sostituire il tessuto retinico in via di degenerazione, bensì quello di salvare le cellule retiniche ancora biologicamente attive. Questo salvataggio avverrebbe tramite la produzione di fattori di crescita, ovvero di sostanze chimiche che sostengono lo stato trofico delle cellule-bersaglio. La novità della sperimentazione messa in atto dai due ricercatori statunitensi, sta nell'avere trapiantato una porzione di retina che ha due precipue caratteristiche: 1) proviene da feti abortiti. Quindi, è verosimile che le cellule che la costituiscono non abbiano ancora sviluppato gli antigeni di superficie che condizionano il rigetto. In tale condizione il rigetto non si verificherebbe sensibilmente e i pazienti non necessiterebbero del trattamento immunodepressivo. 2) il tessuto trapiantato comprende lo stato epiteliale pigmentato e anche quello delle cellule sensoriali e nervose. Queste ultime. Pertanto, sarebbero supportate fisicamente e nutrite dallo strato sottostante, per cui potrebbero sopravvivere e stabilire una connessione con le altre strutture retiniche. Si realizzerebbe così non solo l'arresto della malattia (il salvataggio) ma anche una vera e propria sostituzione del tessuto trapiantato con quello in corso di degenerazione. Questa sperimentazione comprende purtroppo tanti condizionali e non si può escludere che il risultato ottenuto sia appunto ascrivibile all'effetto salvataggio e sia pertanto transitorio. Sta il fatto che i pazienti dichiarano "un sensibile miglioramento" nella capacità visiva, un miglioramento di rapida realizzazione, ma non "un arresto" nella progressione della malattia. Esprimere un giudizio definitivo su questa sperimentazione non appare pertanto possibile, in quanto si pone infatti la necessità di verificare: a) se il miglioramento è duraturo e se evolve in qualche maniera. b) se si possono cogliere segni obiettivi (per esempio elettrofunzionali o che altro) sulla situazione che si instaura nella retina nella quale è avvenuto il trapianto. Diversi clinici, esperti in questo specifico campo, pur riconoscendo il danno che conseguirebbe a generare false o troppo anticipate speranze, ritengono comunque giustificato che gli esperimenti di tale natura continuino anche per altre patologie degenerative della retina, come la degenerazione maculare senile". Tratto da "LUMEN", numero 30/2003 RETINITE PIGMENTOSA: CELLULE DAI CADAVERI LONDRA - Cellule prelevate dagli occhi dei morti potrebbero un giorno essere utilizzate per curare la cecità nei vivi. Secondo quanto riportato dalla rivista britannica New Scientist infatti, un'équipe di scienziati dell'università di Toronto è riuscita ad isolare delle cellule staminali intorno all'iride. Le cellule, iniettate poi negli occhi di topi appena nati, hanno generato a loro volta altre cellule retiniche tra cui coni e bastoncelli sensibili alla luce, accendendo così la speranza di nuove cure per alcuni tipi di cecità. Le cellule staminali sono state prelevate da occhi umani donati alla Banca dell'Occhio del Canada. Ogni occhio ha fornito circa 10.000 cellule staminali, da ciascuna delle quali potevano essere cresciute altre 15.000 cellule «figlie». Presto Derek van der Kooy, direttore della ricerca, ripeterà l'esperimento iniettando le cellule negli occhi di topi adulti affetti da retinite pigmentosa. da "LA GAZZETTA DI PARMA" STUDI SULL'INNOCUITA' DELLA PRIMA TERAPIA MEDICA PER LA CURA DELLA RETINITE PIGMENTOSA Da questo autunno sono in corso le sperimentazioni di fase 1 Grazie ad una nuova tecnologia individuata dalla Neurotech, si spera di riuscire ad introdurre attraverso la barriera ematica i promettenti farmaci FCNT, che hanno la capacità di ritardare la morte dei fotorecettori retinici. La statunitense Foundation Fighting Blindness ha di recente appreso che la FDA ha approvato una richiesta da parte della società di biotecnologia Neurotech per iniziare già da questo autunno una sperimentazione clinica di fase 1 sugli esseri umani per verificare l’innocuità di uno strumento di somministrazione contenente un farmaco per il trattamento di pazienti affetti da retinite pigmentosa allo stadio terminale. Una delle sfide maggiori per il trattamento delle affezioni retiniche era rappresentata dalla difficoltà di somministrare farmaci terapeutici direttamente nella retina. La Neurotech, con sede in Francia e Rhode Island, ha sviluppato la tecnologia della cellula incapsulata (TCI), che permette la somministrazione continua controllata, nel lungo periodo, di un farmaco denominato fattore ciliare neurotrofico (FCNT). La Foundation Fighting Blindness è stata uno dei primi sostenitori dell’uso di questa tecnologia per le malattie retiniche e il Dottor Gerald Chader, che ne dirige il settore scientifico, ha dichiarato al riguardo che «l’annuncio è del genere che noi tutti da tempo attendevamo con ansia. Le terapie con l’FCNT e con altri farmaci hanno di-mostrato di essere promettenti in un ampia gamma di modelli animali affetti da retinite pigmentosa. Tuttavia, nessuno di questi farmaci può attraversare la barriera ematica retinica, rendendo inefficace la loro somministrazione con iniezioni sistemiche o pillole. La tecnologia di impianto introdotta dalla Neurotech si spera possa finalmente superare questo enorme ostacolo». UNA PROMETTENTE CAPSULA La TCI è una minuscola capsula contenente cellule dell’epitelio pigmentato retinico, geneticamente modificate per produrre l’FCNT. La capsula possiede minuscoli pori che permettono la diffusione di ossigeno e di altri elementi nutritivi a sostegno delle cellule dell’epitelio pigmentato retinico, permettendo altresì la diffusione dell’FCNT proteggendo le cellule del sistema immunitario del corpo. L’FCNT è stato scelto per la sua notevole capacità di ritardare, negli studi sugli animali, la morte delle cellule dei fotorecettori retinici e l’esperimento clinico della prima fase su pazienti preselezionati affetti da retintite pigmentosa all’ultimo stadio servirà ad attestare l’innocuità sia del dispositivo TCI sia del farmaco. In questo modo si potrà valutare l’innocuità del trattamento senza rischio per il residuo visivo esistente e se, come si spera, tutto andrà bene in questo studio di fase 1, la sperimentazione di fase 2 servirà a comprovare la capacità del trattamento di preservare la vista sui pazienti RP che ancora ci vedono. Non è ancora dato sapere il calendario delle future sperimentazioni e al mo-mento non risulta che si stiano ri-cer-cando nuovi pazienti. Il TCI e altri strumenti di somministrazione dei farmaci potrebbero comunque aprire la porta ai numerosi fattori di sopravvivenza che, come l’FCNT, hanno dimostrato di essere promettenti nel trattamento dell’intera gamma di affezioni degenerative retiniche. Speriamo di vedere presto altre terapie farmacologiche, oltre all’FCNT, in sperimentazioni cliniche: c’è ancora molto lavoro da portare avanti per chi si è dedicato a queste ricerche, ma gli sforzi della FFB stanno chiaramente dando i primi promettenti frutti. da "LUMEN" (Ottobre 2003) DOMANI LA RETINA SI POTRA’ RIGENERARE La Retinite Pigmentosa è una malattia genetica incurabile che rende progressivamente cieche un milione e mezzo di persone. Essa causa la degenerazione delle cellule che formano la retina, la parte dell’occhio che risponde alla luce. EREDITARIA. Nell’ultimo decennio si è tentato di trapiantare vari tipi di cellule della retina, ma venivano rigettate. Ora Robert Aramant del Doheny Eye Institute di Los Angeles, ha trapiantato dietro la retina in degenerazione di quattro malati, un doppio strato di cellule retiniche fetali: due millimetri quadrati di tessuto contenente lo strato di supporto delle cellule epiteliali e lo strato superiore delle cellule che “sentono” la luce: coni e bastoncelli. Le epiteliali hanno una funzione di supporto, e dovrebbero fermare la malattia, mentre coni e bastoncelli dovrebbero rimpiazzare quelli perduti. Due pazienti su quattro dicono di aver notato miglioramenti, ma i ricercatori non si sbilanciano. “È troppo presto per dire qualsiasi cosa” dice Aramant. da “FOCUS” (Dicembre 2003) RETINITE PIGMENTOSA: SINDROME DI USHER Scoperto un nuovo gene responsabile della Sindrome di Usher; fino ad oggi ne erano stati scoperti 7 geni La Sindrome di Usher è una malattia genetica, caratterizzata dalla presenza contemporanea di Retinite Pigmentosa e di un difetto uditivo. A seconda dell’epoca di insorgenza e della gravità del deficit uditivo si distinguono tre forme di Sindrome di Usher (il tipo 1 in cui la sordità è profonda, presente fin dalla nascita e tale da non consentire lo sviluppo del linguaggio, il tipo 2 con deficit uditivo più tardivo e lieve e il tipo 3 in cui la perdita dell’udito è rapida e progressiva). Recentemente presso il Dipartimento di Neurobiologia dell’UCLA Jules Stein Eye Institute è stato identificato nei topi un gene, denominato “SLC4A7”, responsabile di una forma di Sindrome di Usher. Il medesimo gene è presente sul cromosoma 3 nell’uomo e ciò rende il gene SLC4A7 uno dei geni candidati per la sindrome di Usher di tipo 2 nell’uomo. L’importanza di avere a disposizione un modello animale che riproduce una malattia presenta nell’uomo offre la possibilità di studiare la malattia in modo più approfondito e rapido, con una maggiore possibilità di valutare la scoperta e l’efficacia di una terapia che miri a curare la malattia stessa. da "RETINITIS:IT" CONTRO LA RETINITE PIGMENTOSA di Enrica Strettoi La Retinite Pigmentosa comprende una famiglia di malattie ereditarie caratterizzate dalla progressiva degenerazione delle cellule fotosensibili della retina, ossia dei bastoncelli e dei coni (i fotorecettori). A tutt’oggi non c’è cura per la Retinite Pigmentosa; esistono, tuttavia, promettenti strategie terapeutiche in fase di attiva sperimentazione. Gli scienziati che studiano la RP sono consapevoli del fatto che questa famiglia di patologie ha un impatto molto elevato sulla qualità della vita dei pazienti che ne sono affetti, e già negli ultimi 5 anni si sono riscontrati notevoli avanzamenti nell’ambito di vari approcci terapeutici. Le più promettenti strategie di trattamento della RP comprendono: a) la terapia genica, che permette la sostituzione del gene difettoso con uno appropriato, mediante l’uso di virus non patogeni. Questa strategia è attualmente applicata con successo in vari modelli animali di retinite pigmentosa. Il successo maggiore è stato ottenuto nel 2001 da un’equipe di scienziati americani, che hanno restituito la vista a dei cani nati ciechi e affetti da una patologia denominata “amaurosi congenita di Leber”, affine alla retinite pigmentosa). b) il trapianto di cellule multipotenti, in grado di attecchire nella retina e di differenziarsi come fotorecettori, rimpiazzando, quindi, le cellule che nella RP sono andate perdute; c) l’impianto di protesi elettroniche contenenti elementi fotosensibili, che dovrebbero stimolare direttamente gli strati interni della retina, scavalcando così i fotorecettori danneggiati. Recentemente, vari pazienti hanno ricevuto l’impianto di “retine al silicone”, sia negli Stati Uniti che in Europa. Queste promettenti terapie si basano su un unico fondamento, e cioè che la retina interna, quella situata “a valle” dei fotorecettori, e contenente cellule fondamentali per la funzione visiva, sia assolutamente intatta, indenne dagli effetti della degenerazione dei bastoncelli e dei coni, pronta a ricevere cellule trapiantate, a formare connessioni, a essere stimolata elettricamente da protesi siliconiche. Tuttavia, non si deve dimenticare che la retina è una vera e propria “fettina di cervello”; come nel cervello, le cellule della retina sono connesse le une alle altre in circuiti complessi. E’ probabile che la morte di un numero elevato di cellule (i fotorecettori) abbia effetti a cascata sugli altri elementi ad essi collegati. Questi effetti devono essere descritti e studiati, per essere eventualmente prevenuti, perché potrebbero rendere vani i tentativi terapeutici sopra descritti. Pochi ricercatori si sono interessati finora agli effetti che la morte dei fotorecettori produce sulle altre cellule della retina. Il nostro laboratorio, invece, sta studiando proprio queste cellule, con l’idea di conoscere meglio gli effetti della RP sulla retina “residua”. Infatti, è proprio conoscendo cosa accade nella retina residua, che si possono disegnare meglio eventuali terapie di trattamento della RP. La retina “residua” è l’oggetto su cui si fondano molte terapie possibili, compresa quella della stimolazione con protesi bioniche. I nostri studi hanno dimostrato, finora, che le cellule della retina interna reagiscono in modo piuttosto imponente alla scomparsa dei coni e dei bastoncelli. La reazione è tanto più evidente e precoce tanto più è aggressiva la forma di RP considerata. I neuroni della retina che abbiamo studiato perdono progressivamente i contatti con le altre cellule e, a un certo punto, muoiono. Tuttavia, lo fanno in maniera graduale, e, in qualche modo, prevedibile. Questo fa pensare che, se la terapia è disegnata precocemente, gli effetti secondari da noi descritti possano essere evitati. Attualmente, il nostro laboratorio è impegnato a cercare di capire i meccanismi cellulari per cui questi effetti secondari si innescano, per cercare di prevenirli o di combatterli con efficacia. Dott.ssa ENRICA STRETTOI Primo Ricercatore - Istituto di Neuroscienze del CNR di Pisa LA RICERCA IN BREVE Genetica La ricerca genetica é il primo passo critico per lo sviluppo di trattamenti e cure per le malattie degenerative della retina. I ricercatori della statunitense Foundation Fighting Blindness (FFB) hanno isolato più di cinquanta geni con mutazioni che causano le degenerazioni retiniche. TERAPIA GENICA I ricercatori finanziati dalla FFB hanno ridato la vista a cani nati ciechi e su questa base sono stati preparati programmi di terapia genica per l’intero spettro delle degenerazioni retiniche. TRAPIANTO DI CELLULE RETINICHE E CELLULE STAMINALI Mediante il trapianto di cellule retiniche sane i ricercatori cercano di porre rimedio alla perdita della vista. La recente scoperta di cellule staminali retiniche adulte sta preparando la strada alla sostituzione delle retine ammalate, restituendo la vista. IMPIANTO DI RETINA ARTIFICIALE Retine artificiali impiantabili ottenute da silicone hanno terminato le prove cliniche. La chirurgia di trapianto retinico mostra di promettere la restituzione della vista perduta a pazienti di DMS. NUTRIZIONE E STILE DI VITA Prove cliniche hanno provato che certi nutrienti possono rallentare la perdita della vista. Risultati di studi epidemiologici stanno scoprendo fattori che influenzano il rischio e l’andamento della malattia. MEDICAMENTI Per lo più, le terapie a base di medicamenti non raggiungono la retina. Ricercatori della FFB stanno lavorando allo sviluppo di sistemi innovativi tesi alla penetrazione della barriera ematica retinica per il passaggio di sostanze farmacologiche. TERAPIA FARMACOLOGICA I ricercatori della FFB hanno scoperto vari medicamenti che rallentano in modo sostanziale la perdita della vista. IL GENE "RPGR" NEL FUNZIONAMENTO DELLA RETINA Progetto di ricerca coordinato dal Dottor Alfredo Ciccodicola, Istituto di Genetica e Biofisica “Adriano Buzzati - Traverso”, Centro nazionale delle ricerche di Napoli La diagnosi della retinite pigmentosa rappresenta spesso una sfida difficile per i genetisti molecolari: sono infatti oltre trenta i geni noti per essere causa della malattia e altri restano ancora da scoprire. Già nel 1996 il gruppo di ricerca coordinato dal Dottor Alfredo Cic-codicola aveva identificato il gene RPGR, responsabile di una delle forme più gravi di retinite pigmentosa chiamata RP3. Dato che il gene si trova su uno dei due cromosomi sessuali, il cromosoma X, la forma RP3 colpisce quasi esclusivamente i maschi, che ne possiedono una sola copia. Le femmine possono, invece, compensare iI difetto con una copia normale dello stesso cromosoma e non si ammalano, ma possono risultare portatrici sane. Tuttavia, contrariamente alle aspettative, il gene RPGR risultò alterato solo in un numero molto piccolo di pazienti affetti da RP3, mentre la maggior parte dei casi rimaneva senza spiegazione. Studiando più a fondo il problema, i ricercatori napoletani e i loro colleghi hanno ora scoperto che la maggior parte delle mutazioni che causano la RP3 si concentra in una “zona calda” del gene di cui finora si ignorava l’esistenza: «Abbiamo scoperto che il gene RPGR è più grande di quanto si pensasse, contiene infatti una regione che viene “letta“, cioè trascritta in RNA messaggero, soltanto nelle cellule della retina e che finora non era mai stata esplorata» spiega Ciccodicola. Una scoperta di grande importanza scientifica Analizzando il DNA di 47 pazienti affetti da RP3, e per i quali i precedenti esami molecolari avevano dato esito negativo, i ricercatori hanno scoperto che oltre la metà di essi possedevano mutazioni proprio nella porzione appena individuata: «Grazie a questi risultati potremo allargare le possibilità di diagnosi pre e post-natale fino a comprendere circa il 70 per cento dei casi di retinite pigmentosa legata al cromosoma X» conclude il Dottor Alfredo Ciccodicola. Un altro importante risvolto della ricerca riguarda il ruolo del gene RPGR nel funzionamento della retina, un aspetto tuttora poco conosciuto. La sequenza di basi nucleotidiche della regione identificata è risultata infatti molto simile in tutte le specie esaminate, dall’uomo ai pesci, suggerendo che si tratti di una porzione particolarmente importante proprio perché conservata nel corso dell’evoluzione e nella quale potrebbe esserci la chiave per comprendere i meccanismi di funzione del gene. Attualmente, il progetto di ricerca si propone l’analisi funzionale della proteina RPGR, la caratterizzazione degli elementi di regolazione del promotore e l’isolamento di nuovi geni coinvolti in altre forme di patologie retiniche, il che consentirà di aumentare le conoscenze sul ruolo svolto da RPGR nella fisiologia della retina. L’analisi degli elementi trascrizionali del promotore permetterà di analizzare la regolazione dell’espressione di RPGR, dando inizio a nuove ricerche nell’ambito della trascrizione tessuto specifica della retina. Inoltre, l’analisi di nuovi geni consentirà di approfondire le conoscenze sulla eterogeneità genetica della malattia. IL GENE DELLA CECITA' SENILE L'identificazione del gene CFH potrebbe condurre verso nuovi trattamenti Una variazione di un singolo gene potrebbe essere responsabile della metà di tutti i casi di degenerazione maculare senile. Lo sostengono tre diversi gruppi di ricercatori, la cui scoperta potrebbe condurre verso nuovi e migliori trattamenti per quella che è la principale causa di cecità in età avanzata. La degenerazione maculare senile provoca il deterioramento della retina dell'occhio, danneggiando così la vista. Finora non esistono cure efficaci, anche se un farmaco di recente approvazione pare in grado di rallentare il disturbo in alcuni pazienti. Gli scienziati hanno ora scoperto che le persone con una mutazione nel gene CFH (complement factor H), coinvolto in un componente del sistema immunitario che regola l'infiammazione, hanno maggiori probabilità di sviluppare la malattia. Anche se la mutazione di un solo gene non può essere l'unico fattore della degenerazione maculare, la scoperta potrà aiutare a identificare gli individui a rischio e a comprendere il processo di degenerazione. I tre gruppi di ricercatori, guidati da Albert Edwards del Southwestern Medical Center dell'Università del Texas, da Josephine Hoh della Scuola di Medicina dell'Università di Yale, e da Margaret Pericak-Vance del Medical Center della Duke University, hanno pubblicato separatamente i propri risultati sulla rivista "Science". da "Le Scienze" DAL SILICIO E DALLE STAMINALI LE SPERANZE PER RECUPERARE LA VISTA Affascina e inquieta l'immagine ormai realistica di un corpo bionico: quello che non molto tempo fa era retaggio della fantascienza, si sta facendo strada nella vita reale. E l'ingegneria biologica alimenta ora anche le aspettative di chi ha subito dei danni, come quelli alla vista. Negli ultimi anni, negli Stati Uniti, hanno fatto progressi importanti gli studi sull'occhio elettronico. Grazie alle ricerche della University of Southern California, si sono sperimentate delle retine artificiali, per pazienti affetti da malattie degenerative. Così, è stata messa a punto una videocamera montata su un paio di occhiali, che trasmette i segnali a degli elettrodi posti nella stessa retina. I test hanno mostrato come i pazienti sottoposti alla ricerca riescano almeno a riconoscere la presenza di una fonte di luce. Nel frattempo, la società Optobionics, in Illinois, ha cercato di realizzare una retina in silicio dotata di sensori, evitando l'uso della telecamera esterna. Non del tutto dissimile è il cosiddetto Implantable Miniature Telescope: una piccola sfera che va a sostituire il cristallino dell'occhio, concepita dalla società californiana VisionCare Ophthalmic Technologies. Anche in questi casi i dati visivi fanno leva sulla parte non danneggiata della retina. C'è poi il metodo Brain Implant, messo a punto dal centro Dobelle, che trasmette le immagini riprese dalla telecamera a un impianto di elettrodi posto direttamente sulla corteccia cerebrale. I danni della retina e del nervo ottico sono in tal modo scavalcati. Nei mesi scorsi, all'occhio bionico si è affiancata anche la sperimentazione con le cellule staminali provenienti dall'embrione: se finora si è proceduto sugli animali, fra poco più di un anno potrebbero cominciare i test sull'uomo. In prima linea ci sono i ricercatori della Advanced Cell Technology di Chicago. «Non solo possiamo prevenire ulteriori perdite della vista, ma le staminali sembrano in grado di ricostruire l'itero bulbo oculare», afferma Robert Lanza, scienziato e autore, con altri, di un recente studio, disponibile online (www.liebertpub.com/media/content/clo92204.pdf). Ma dal fronte dell'occhio elettronico arrivano ora delle novità. Nel corso del convegno annuale della Association for Research in Vision and Ophthalmology (www.arvo.org), appena tenutosi in Florida, ne sono stati ribaditi i progressi, corroborati da qualche numero. Gli scienziati della University of Southern California e dell'affiliato Doheny Eye Institute hanno constatato la fertilità delle loro ricerche sulla retina artificiale, tanto da presagire una sua disponibilità sul mercato. Si tratta dell'impianto di una minigriglia con 16 elettrodi. Una microcamera wireless, montata sugli occhiali, trasmette prima le informazioni visive a un chip posizionato dietro l'orecchio dei pazienti: esso le trasforma in impulsi elettrici, facendole poi arrivare agli elettrodi della retina mediante un cavo posto sottopelle. Gli elettrodi stimolano i fotorecettori che il danno impediva di funzionare: il segnale proveniente dalla telecamera può così raggiungere il nervo ottico e infine il cervello. «I nostri pazienti sono ciechi perché non hanno fotorecettori», osserva Mark Humayun, professore di oftalmologia e ingegneria biomedica alla University of Southern California. Il sistema, battezzato Argus, funziona infatti solo su soggetti che hanno perso la vista a causa di patologie che alterino i fotorecettori della retina (coni e bastoncelli), come la retinite pigmentosa. Sono escluse le persone col nervo ottico danneggiato o con altre forme di cecità. «L'impianto riesce a mettere in moto le cellule rimanenti della retina, creando una vera simbiosi con la telecamera», aggiunge lo scienziato, che presto comincerà a testare un sistema da 60 elettrodi, in grado di incrementare la qualità dell'occhio bionico. La sperimentazione procede su 6 pazienti, all'inizio completamente ciechi: essi sono ora in grado di percepire la luce e di coglierne i movimenti. Secondo quanto dichiarato da Humayun alla rivista Wired, il sistema Argus sarà messo in commercio non prima del 2008 dalla società Second Sight Medical Products (www.2sight.com); il costo dei dispositivi potrebbe oscillare tra i 30 mila e i 50 mila dollari. di Andrea Rustichelli de "La Repubblica" RETINITE PIGMENTOSA: TERAPIA INNOVATIVA Uno studio americano ha evidenziato che l’acido docosexanoico contribuisce a rallentare la degenerazione retinica di chi soffre di Retinite Pigmentosa. Lo studio, condotto secondo i dettami della moderna sperimentazione clinica, prevedeva la possibilità di confrontare gruppi di pazienti sottoposti a diversi regimi terapeutici, con lo scopo di valutare gli effetti dell’acido docosexanoico sulla progressione della Retinite Pigmentosa. È stato evidenziato che dopo quattro anni di terapia i pazienti che avevano iniziato ad assumere per la prima volta 15.000 U.I. di Vitamina A palmitato associata a 1.200 mg al giorno di acido docosexanoico presentavano un rallentamento della progressione della malattia. Lo studio ha anche messo in evidenza che una dieta ricca di acidi grassi Omega-3 riduce il peggioramento del campo visivo nei pazienti che già assumevano la Vitamina A palmitato da almeno due anni. Questo articolo è un ulteriore esempio della necessità di sostenere la ricerca scientifica, adesso non solo con la donazione dei somme di denaro ma anche con il vostro impegno civile e consapevole. Il 12 e 13 Giugno prossimi Vi invitiamo ad esprimere un Vostro diritto civile e democratico: SOSTIENI LA RICERCA CONTRO TUTTE LE GRAVISSIME MALATTIE EREDITARIE CHE COLPISCONO MIGLIAIA DI BAMBINI E PERSONE ADULTE. ESPRIMI UN "SI" PER OGNI SCHEDA. LA RICERCA E’ ANCHE LIBERTA’ E DEMOCRAZIA! COME SI FORMA IL NERVO OTTICO In assenza di segnali, i neuroni primitivi sono programmati per costruire solo la retina. Quando le cellule nervose primitive dell'embrione del topo cominciano a formare un occhio, sono inizialmente programmate per costruire solo una retina. Ma la capacità di vedere dipende dalla connessione della retina al cervello attraverso il nervo ottico. A meno che queste cellule embrionali non ricevano il segnale giusto al momento giusto, esse formeranno un gigantesco occhio consistente solamente di una retina e privo di nervo ottico. La scoperta che la retina rappresenta il "setting di default" per lo sviluppo nell'occhio dell'embrione è stata fornita da una ricerca del neurobiologo Greg Lemke e colleghi al Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, in California, pubblicata sulla rivista "Genes & Development". Gli scienziati hanno utilizzato topi in laboratorio come modello della biologia umana. "I nostri risultati - spiega Lemke - suggeriscono che la retina rappresenti effettivamente il percorso di default per lo sviluppo degli occhi nei mammiferi". Gli autori hanno dimostrato che due segnali chimici (proteine segnalatrici) devono essere presenti al momento giusto e all'istante giusto per arrestare questo processo di default e consentire al nervo ottico di svilupparsi. La scoperta ha importanti conseguenze, in quanto il controllo del destino delle cellule staminali trapiantate nel cervello è fondamentale se si intende usare queste cellule in maniera sicura ed efficace nelle terapie su esseri umani. "È probabile - commenta Lemke - che ci siano anche altre aree del cervello il cui sviluppo si basa sull'arresto di una tendenza delle staminali a trasformarsi nello stesso tipo di cellula di quelle vicine". da "Le Scienze" LA DEGENERAZIONE MACULARE NELLE SCIMMIE La malattia è simile nell'uomo e nei macachi. La degenerazione maculare senile (AMD) è la principale causa di cecità in età avanzata, eppure i ricercatori ignorano ancora molti dei fattori che causano questa malattia incurabile. Ora, però, alcuni scienziati negli Stati Uniti e in Germania affermano che un legame genetico fra i macachi “resi” e gli esseri umani che soffrono di AMD potrebbe svelare indizi importanti sulle prime fasi della malattia, quando la perdita della vista può ancora essere impedita. Gli autori hanno analizzato una regione cromosomica e alcuni marcatori genetici della degenerazione maculare negli esseri umani e nei macachi. L'associazione della malattia delle scimmie con quella degli uomini consentirà agli scienziati di studiare come progredisce negli animali e di giungere a trattamenti migliori e forse addirittura a una cura. A differenza di quasi tutti gli altri animali, gli occhi dei macachi resi presentano l'identica struttura complessa di quelli umani, rendendoli un perfetto modello per la ricerca. William W. Dawson dell'Università della Florida e colleghi hanno studiato sette siti genetici nelle scimmie i cui siti corrispondenti nei cromosomi umani sono associati alla malattia maculare. Una di queste aree contiene geni che predicono lo sviluppo della malattia. Gli autori sospettavano da tempo che il disturbo negli uomini e nelle scimmie fosse molto simile, ma i risultati, pubblicati online sulla rivista "Experimental Eye Research", finalmente lo confermano. da "Le Scienze" L'EQUILIBRIO NEURONALE DELLA VISTA Alcuni gruppi di neuroni collaborano per escludere le informazioni non essenziali. Scavando sempre più in profondità nell'intricata architettura del cervello, alcuni ricercatori del Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, in California, hanno scoperto come due differenti tipi di cellule nervose, o neuroni, agiscono insieme per trasmettere esattamente la giusta quantità e il giusto tipo di informazione sensoriale. Lo studio, pubblicato online sulla rivista "Nature Neuroscience", spiega come specifici gruppi di neuroni inibitori nella corteccia visiva del cervello di un topo sono collegati - e "parlano" - con singoli neuroni eccitatori. Questa "conversazione", che serve a mantenere il corretto equilibrio di segnali chimici, spesso esclude i neuroni circostanti. "I neuroni inibitori - commenta il neurobiologo Ed Callaway, co-autore dello studio insieme a Yumiko Yoshimura dell'Università di Nagoya - non sono semplicemente dei freni ma agiscono anche da timone". Nel sistema della vista, per esempio, le risposte inibitorie nella corteccia visiva aiutano a concentrarsi sulle cose che si desiderano vedere, ignorando tutto il resto. Lo studio contribuisce a chiarire il quadro dell'organizzazione del cervello in network "intelligenti" ed efficienti, e i ricercatori sperano che un giorno questi dettagli possano chiarire le radici di disturbi neurologici come la schizofrenia. da "Le Scienze" LA RETINA ARTIFICIALE Lo sviluppo delle biotecnologie apre ogni giorno nuovi campi di ricerca. È dagli inizi degli anni ’90 che gruppi di ricercatori, in tutto il mondo, sono impegnati nelle realizzazione di retine artificiali cioè elettroniche. Una elevata percentuale (oltre il 50 % nel mondo civilizzato) di handicap visivo o cecità consegue a patologie che compromettono la funzionalità della retina. A tutt’oggi non esistono sussidi medici o chirurgici in grado di ripristinare il tessuto retinico compromesso. Prospettiva ma ancora nulla di realistico proviene dalle cellule staminali. È così comprensibile come, seppure sporadicamente praticamente, in tutto il mondo gruppi di ricercatori sono impegnati, fin dall’inizio degli anni ’90, nella realizzazione di retine artificiali cioé elettroniche; veri e propri pezzi di ricambio per retine usurate e compromesse. L’enorme evoluzione delle nanotecnologie rappresenta una concreta incentivazione per tali ricerche. Permangono allo stato attuale problematiche complesse che risulteranno meglio comprensibili illustrando quali sono le funzioni fisiologiche della retina e quali le strategie seguite per realizzare un supporto elettronico sostitutivo. La retina è la membrana interna bulbare che ha la caratteristica di trasformare l’impulso fotonico, cioè la luce che giunge dal mondo esterno, in impulso bioelettrico. Questo processo, indicato come trasduzione si realizza grazie a cellule specializzate dette fotorecettori dotate di pigmento (derivato dalla vitamina A) che, assorbendo i fotoni, attivano canali ionici della membrana cellulare innescandone l’eccitamento. Queste cellule sono estremamente sensibili quando si consideri che un singolo fotone è già in grado di indurre l’attivazione di membrana. L’eccitamento è quindi trasmesso ad un complesso sistema di neuroni (cellule nervose) intraretiniche (cellule bipolari e cellule orizzontali) dove subisce codificazioni che traducono il mondo esterno in punti luminosi a diverso contrasto, colore, orientamento e movimento. Le cellule nervose intermedie sono connesse ad un altro strato di cellule dette ganglionari ottiche che codificando il segnale in modulazione di frequenza attraverso il loro assone e lo inviano al corpo genicolato, prima stazione centrale, che lo smista alle cortecce visive. Va precisato che ciascun punto della retina comunica con una corrispondente area corticale (V 1), formandosi quindi una sorta di calco retinico (retinotopico) a livello cerebrale e che la retina periferica è abilitata a trasmettere immagini in movimento mentre la retina centrale dà la percezione dei particolari (capacità discriminativa) e dei colori. La retina artificiale è finalizzata a sostituire integralmente il ruolo dei fotorecettori e parzialmente del sistema cellulare interposto fra fotorecettori e cellule ganglionari ottiche. In talune patologie ed in particolare nella retinite pigmentosa la lesione di base coinvolge fotorecettori ed epitelio pigmentato e solo tardivamente le cellule nervose più interne. In tale situazione un dispositivo elettronico capace di captare la luce e di convertirla in stimolo elettrico permette un ripristino della funzione retinica cioè la percezione della luce. Sono questi i concetti che hanno ispirato all’inizio degli anni ’90 ricercatori dell’Università dell’Illinois a Chicago alla impostazione della prima retina artificiale assemblando microfotodiodi fra loro connessi da resistori ed inserendoli in una sorta di tasca realizzata chirurgicamente tra retina nervosa ed epitelio pigmentato. Per dare l’idea del grado di miniaturizzazione precisiamo che in un area di 2 millimetri sono inseriti 3500 diodi. Gli studi successivi condotti anche dalla scuola tedesca (Prof. Eberard Zrenner Tubinga) hanno portato a costruire microfotodiodi capaci di indurre polarizzazioni positive o negative con voltaggi di stimolo e distanze tra elettrodi collimanti con le caratteristiche bioelettriche e con la densità delle cellule retiniche interfacciate. Si è inoltre provveduto a dotare la protesi di superfici porose tali da permetterne un connessione ottimale con le cellule retiniche. La biocompatibilità al livello sperimentale risulta assai soddisfacente. Realmente adottabile quindi al livello clinico la retina artificiale? A riguardo sussistono notevoli riserve concernenti innanzitutto le capacità di sopravvivenza del tessuto retinico nervoso quando venga a mancare il supporto della coriocapillare e del epitelio pigmentato. Un possibile effetto coadiuvante nel migliorare la vitalità neuronale è delineato dall’uso dei fattori di crescita in particolare le neurotrofine quali BDNF. A livello sperimentale è stata documentata un’azione diretta sulla vitalità dei neuroni retinici di cui è in grado di inibire l’apoptosi e stabilizzarne le sinapsi genicolate. Riserve, inoltre, sul rendimento visivo cioè sull’entità del recupero fin qui verificato. Le percezioni realmente ottenibili sono limitate a sensazioni di luce-ombre. Prospettive decisamente meno allettanti derivano dalle protesi studiate dai ricercatori del Boston Harvard Medical School in collaborazione con il Massachussets Istitute of Tecnology e da un altro team di ricerca coordinato dal Prof. Rolf Eckmiller dell’Università di Bonn che hanno messo a punto protesi concettualmente diverse in quanto sfruttano un apparato esterno all’occhio che converte le immagini di una fotocamera in impulsi laser che vanno ad attivare un chip interno all’occhio situato sulla faccia interna della retina. Il chip a mezzo di appositi elettrodi trasferisce l’impulso alle cellule ganglionali. RETINA: NUOVE IMMAGINI CATTURATE PER LA PRIMA VOLTA Presso il Center for Visual Science dell'Università di Rochester (Stati Uniti) sono state catturate per la prima volta delle immagini esclusive della retina. Le immagini, pubblicate su Journal of Neuroscience sono molto diverse e per questo molto sorprendenti. Sorpendenti perchè gli studiosi non immaginavano che le migliaia di cellule responsabili nel rilevare i colori nella parte più profonda dell'occhio, fossero così diverse da individuo ad individuo. Tutti gli individui, tranne chi ha problemi di visione, vedono i colori nello stesso modo. La retina è una sottile membrana che riveste quasi tutta la parte interna dell'occhio. Si tratta di una struttura estremamente complessa formata da milioni di cellule (fotorecettori) sensibili alla luce che trasformano gli stimoli luminosi in impulsi elettrici. I fotorecettori sono di due tipi: i coni e i bastoncelli. I coni sono cellule nervose che funzionano in condizioni di piena illuminazione e il loro compito è quello di produrre immagini molto dettagliate e a colori. I bastoncelli, invece, sono responsabili della visione notturna o comunque in condizioni di scarsa illuminazione. Lo strato dei fotorecettori si trova nella parte più profonda della retina e appoggia su uno strato detto epitelio pigmentato. Finora si riteneva che in media ogni individuo possiede circa sette milioni di coni in una retina, il 64% dei quali sono rossi, il 32% verdi e il 2% blu, i colori che servono per raccogliere la luce dell'intero spettro luminoso. Le nuove fotografie della retina realizzate mostrano che da persona a persona c'è una differenza nel numero dei coni dei vari colori che giunge addirittura al 40%. Il dott. Joseph Carrol, uno dei ricercatori dell'Università di Rochester racconta: -In un primo momento ci siamo chiesti se in conseguenza a questa variabilità le persone vedessero i colori in modo differente. Ma non è così. Allora si deduce che il cervello interviene in modo diverso in ciascun individuo nel compensare il numero dei coni al fine di offrire ad ogni persona la visione dei medesimi colori. Ora bisognerà capire come fanno diversi cervelli a lavorare per dare ad ogni individuo la medesima tonalità di colore o al più una piccola differenza. I ricercatori sono riusciti in questi intento utilizzando 'ottiche adattative' che correggono nelle macchine fotografiche usate i difetti presenti nell'occhio così da ottenere immagini ad altissima risoluzione. Le ottiche adattative sono utilizzate dagli astronomi che vogliono osservare oggetti molto lontani e che appaiono sfuocati dopo che la loro luce ha attraversato l'atmosferaspiega il prof. David Williams, direttore del Center for Visual Science. La tecnica sarà ora utilizzata per studiare le malattie che colpiscono la retina, le cui ricerche erano fino ad ora ostacolate proprio dall'impossibilità di avere una visione precisa della parte più profonda dell'occhio. Dell'Università di Rochester da "Occhio.it" UNA NANO-BATTERIA NELL'OCCHIO In futuro potrebbe alimentare una retina artificiale e contribuire a curare certe forme di cecità. Il progetto inaugurerà un nuovo centro di ricerca statunitense dedicato alla nanomedicina. Albuquerque (USA) - Un team di ricercatori del Sandia National Laboratories, insieme a scienziati di altri istituti di ricerca americani, sta sviluppando una batteria nanometrica che in futuro potrebbe essere impiantata in un occhio per alimentare una retina artificiale. Il progetto verrà condotto in un nuovo centro di ricerca di prossima apertura, il National Center for Design of Biomimetic Nanoconductors (NCDBN), la cui costruzione è stata finanziata dal National Eye Institute of the National Institutes of Health (NIH) per sviluppare e sperimentare nuove nanotecnologie per la medicina. L'NCDBN, con sede nell'università Urbana-Champaign dell'Illinois, controllerà l'intero ciclo di sviluppo, che va dall'ideazione fino alla produzione, dei dispositivi medici basati sulle nanotecnologie. Il primo obiettivo del nuovo istituto di ricerca sarà quello di progettare una nuova classe di dispositivi capaci di generare elettricità. Il fabbisogno di elettricità è da considerare primario nel caso in cui non ci sia possibilità di alimentare tramite rete elettrica le apparecchiature. Inoltre, la possibilità di fornire dispositivi che vengano integrati all'interno di un sistema vivente, detta la necessità di trovare fonti diverse di alimentazione. Per questo motivo, le batterie che alimenteranno tutte le apparecchiature che il centro di ricerca svilupperà, saranno delle bio-batterie, capaci di immagazzinare elettricità direttamente dal corpo umano. Infatti, il progetto della retina artificiale non potrebbe essere completo se non vi fosse un'alimentazione di tipo biologico. Insieme alle retine artificiali, le nano-batterie potrebbero contribuire a risolvere certi tipi di cecità causati dalla degenerazione maculare. Il gruppo di scienziati del Sandia si occuperà in modo particolare di progettare al computer modelli tridimensionali della batteria molecolare, e simulare la sua interazione con la retina artificiale e l'occhio. Ma i campi di applicazione della bio-batteria potrebbero essere ben più ampi: questa potrebbe infatti alimentare un'ampia varietà di microscopici chip in grado di curare o alleviare certe malattie e infermità. Per giungere alla progettazione di questi dispositivi, Susan Rempe, responsabile del gruppo di ricerca, afferma quanto sia importante l'apporto fornito dai programmi di modellazione grafica. "I nostri esperti di modellazione ci facilitano il compito mostrandoci come le strutture riescano a lavorare assieme. Le informazioni che riceviamo da questi programmi ci fanno capire quanta energia è necessaria per lo spostamento di determinate componenti e quindi di quale tipo di microbatteria è necessaria". La grande utilità dei software di modellazione e previsione è dimostrata anche "dalla possibilità di visualizzare su schermo ciò che si riesce ad immaginare e quindi, successivamente, a progettare". Il team della Rempe conta di riuscire presto a sviluppare nuovi dispositivi impiantabili capaci di sopperire alle funzioni biologiche che risultano lese o addirittura mancanti in alcuni soggetti. Interessante notare che tutti i software di grafica sui quali lavorano i ricercatori del centro di ricerca di Sandia utilizzano sistemi operativi basati su Linux. L'NCDBN è solamente uno dei tasselli del grande mosaico che, con un fondo di 43 miliardi di dollari, fa parte del programma di ricerca sulle nanotecnologie inaugurato nel 2003 dagli USA con il progetto di ricerca medica. Un progetto che presto si arricchirà di altri due sedi presso l'University of California a San Francisco e la Columbia University di New York. da "Punto Informatico" ...RETINA ARTIFICIALE La rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” ha divulgato la notizia della creazione di un nuovo prototipo di processore impiantabile da parte di un team di ricercatori della scuola di medicina dell'Università di Stanford. Questo chip ha una doppia funzione: può aiutare pazienti affetti dalla cosiddetta cecità della vecchiaia in quanto può essere adattato come retina prostetica; può fungere da somministratore di farmaci per patologie neurodegenerative come il morbo di Parkinson. Questo piccolo processore non utilizza l'elettricità come stimolatore dei nervi, come fanno gli altri chip, ma fa si che le cellule vengano stimolate da piccole quantità di sostanze chimiche. Una funzione peculiare se si tiene conto che le cellule solitamente interagiscono fra loro mediante i neurotrasmettitori, che sono sostanze chimiche. Questo chip, che è stato creato nei laboratori dello Stanford Ophthalmic Tissue Engineering dal dottor Harvey A. Fishman, potrebbe assolvere a delicatissimi interventi su tessuti estremamente sensibili come quelli dell'occhio e delle aree cerebrali. Esso ha la capacità di poter liberare piccolissime quantità di sostanze chimiche, servendosi dell'elettro-osmosi, e di controllare i neuroni. In caso estremo, il chip ha pure la possibilità di ritirare i fluidi onde evitare accumuli di sostanze che potrebbero risultare tossiche. di Massimo Bertolucci da “ecplanet.com” Istituzione scientifica citata nell'articolo: Stanford University School of Medicine N.B. Gli eventuali indirizzi di recapito presenti nell'articolo possono cambiare senza che la redazione di atritoscana.it ne venga a conoscenza. ARRIVA L'OCCHIO ARTIFICIALE Microelettronica e nanotecnologia potrebbero presto portare un po' di luce ad alcuni non vedenti. Il punto sulla ricerca, le sfide da raccogliere. Sin dagli inizi dell'era dell'elettronica, scienziati e autori di fantascienza (si veda ad esempio il film italiano Nirvana del 1997) hanno sognato di poter sostituire un occhio non funzionante con un apparato artificiale e ridare così una visione (almeno parziale) ai ciechi. Oggi questo ambizioso obiettivo sembra essere a portata di mano - anche se le soluzioni attualmente in sperimentazione saranno disponibili sul mercato solo fra qualche anno e potranno risolvere solo alcune specifiche patologie. Sostituire la retina artificiale. In molti laboratori sono in corso ricerche focalizzate sullo sviluppo di una retina artificiale, per sostituire l'organo umano che trasforma la luce in impulsi elettrici da trasferire poi al cervello attraverso il nervo ottico. Il primo esperimento di impianto di un sistema di visione artificiale in un essere umano risale ormai all'anno 2000. Il sistema, composto da una microtelecamera incorporata in speciali occhiali, accoppiata ad un sensore a ultrasuoni, trasmette i segnali a un piccolo computer tascabile, che elabora l'informazione, la ritrasmette a un altro computer e di qui a una rete di 68 elettrodi posti nella superficie del cervello. Questo impianto high-tech è riuscito a ridare un poco di vista a un paziente cieco da 36 anni. I risultati, se pur interessanti, sono solo un primo passo verso una buona soluzione: il paziente ha recuperato una capacità visiva pari a quella di una persona molto miope, e l'apparato è relativamente scomodo. Sono dunque partiti parecchi progetti destinati a costruire un occhio artificiale più performante e portatile. In Europa, solo per citare alcuni esempi, è stato attivo il progetto comunitario OPTIVIP con l'obiettivo di realizzare una protesi in grado di stimolare direttamente il nervo ottico, è in corso una ricerca da parte dell'ospedale oftalmologico di Colonia e avanzate sperimentazioni sono condotte dal pioniere Claude Veraart. La ricerca ha prodotto risultati e i primi prototipi di retina artificiale europea sono già stati impiantati, con risultati interessanti. Anche questo sistema si basa su un apparato esterno collegato però al nervo ottico: dovrebbe essere quindi applicabile anche a pazienti con la retina totalmente inattiva, ma che abbiano un nervo ottico funzionante. Si prevede che il prodotto potrebbe essere reso disponibile al pubblico entro il 2010, a un costo attorno ai 20.000 euro. Al lavoro anche i laboratori nucleari. Negli Stati Uniti si è addirittura mobilitato l'establishment militar-nuclear-industriale, coinvolgendo enti come il Sandia National Laboratories, un laboratorio chiave per la ricerca nucleare a fini bellici statunitense o l'Argonne National Laboratory, laboratorio che fu parte fondamentale del progetto Manhattan (legato, come noto, alla costruzione della prima bomba atomica). Ancora una volta, aziende ed enti seguono il principio "piatto ricco mi ci ficco" e cercano di godersi una fetta dei sostanziosi stanziamenti messi a disposizione dal National Institutes of Health (e meno male che ogni tanto si mettono i brillanti cervelli dei ricercatori a lavorare su progetti benefici per l'umanità). Almeno un paio di aziende statunitensi sono già a un discreto punto della sperimentazione su pazienti umani, chi usando device connessi a hardware esterni, chi passando invece a impianti interni come nel caso della retina artificiale (ASR), un chip di un paio di millimetri di diametro e più sottile di un capello, da impiantare all'interno dell'occhio. Questo particolare chip contiene 5.000 fotosensori in grado di convertire la luce in impulsi elettrochimici e con questi stimolare le cellule della retina del paziente ancora in grado di funzionare (il che dovrebbe rendere inutile l'apparato nel caso di pazienti con la retina totalmente compromessa). In cerca della nanobatteria. Questo nuovo tipo di dispositivi elettronici pongono agli scienziati tutta una serie di problemi, in parte inediti. Seguendo la tradizione consolidata dell'elettronica, a ogni successiva generazione il prodotto rischia di diventare più vorace di energia. Ci si potrebbe dunque trovare dinnanzi al problema di dover dipendere da una qualche forma di energia esterna o di accumulatore impiantato nel corpo. In realtà il microchip ASR si alimenta da solo, sfruttando la luce che lo colpisce- ma questa soluzione rischia di metterlo in difficoltà in situazioni di scarsa luce ambientale, il che limiterebbe la sua utilità. Sul fronte delle fonti energetiche impiantabili si sta dunque muovendo un consorzio di enti e aziende americane, che ha intrapreso il lavoro di ricerca su una batteria che dovrebbe produrre elettricità imitando i processi biologici degli organismi viventi. Una batteria tanto piccola da poter trovare posto nell'occhio insieme alla retina artificiale, per arrivare ad una soluzione del tutto interna e quindi più comoda ed "accettabile" per il paziente . L'altro grande problema è garantire il funzionamento di un dispositivo delicato come un microchip in un ambiente così aggressivo come l'interno del corpo umano, proteggendo al contempo il delicato corpo umano da possibili effetti collaterali del chip impiantato nell'occhio. Una soluzione a questo problema sta per essere individuata attraverso un sofisticato rivestimento, basato sull''applicazione di uno strato ultrananocristallino composto da cristalli di diamante del calibro di 5 milionesimi di millimetro. Piccoli passi verso l'uomo bionico. Anche se queste soluzioni, ancora ai primi passi, rappresentano una possibile soluzione solo per alcune forme di cecità, sembra si possa essere ottimisti, almeno per i ciechi del mondo occidentale, in grado di permettersi (anche grazie a una mutua o assicurazione sanitaria) il costo di apparato ed operazione. È dunque probabile che a medio termine questo tipo di impianti ridaranno almeno parzialmente la vista a un certo numero di non vedenti. Nel lungo periodo, conoscendo come funzionano gli esseri umani e tenendo in conto le probabili evoluzioni tecnologiche, non mi sorprenderebbe diventasse comune farsi sostituire occhi perfettamente funzionanti con occhi bionici, capaci di vedere più lontano, funzionanti in assenza di luce o in grado di captare radiazioni non visibili, essendo in grado di "vedere" l'infrarosso o l'ultravioletto. di Roberto Venturini NELLA MUTAZIONE DI DUE GENI LA PRINCIPALE CAUSA DI MACULOPATIA La scoperta è stata fatta dai ricercatori del Columbia University Medical Center Tre casi su quattro di maculopatia, la principale causa di cecità dopo i 60 anni, sono legati a mutazioni a carico di due geni che producono proteine del sistema immunitario. L'importantissima scoperta è merito degli studi coordinati da Rando Allikmets del Columbia University Medical Center e potrebbe consentire lo sviluppo di terapie preventive o che arrestino l'inesorabile decorso di questa malattia della retina. La notizia è stata riportata sulla rivista Nature Genetics e i due geni coinvolti nel 75% dei casi di degenerazione maculare senile sono quelli che producono il fattore B e il fattore H, due proteine del sistema di difesa dell'organismo con un ruolo chiave nel controllo dei processi infiammatori. La degenerazione maculare senile è una grave malattia degenerativa che colpisce il centro della retina, la macula, rendendo progressivamente meno nitida la visione fino a deteriorarla in modo rovinoso se non si interviene tempestivamente per bloccarne il decorso. La maculopatia è un problema che interessa soprattutto gli anziani ed è in costante aumento nel mondo occidentale. Oggi non ci sono strategie per prevenirla se non la raccomandazione di seguire stili di vita sani ed adottare una alimentazione corretta che prediliga verdure e frutta, centellinando invece il consumo di fritti e altre preparazioni meno salutari. Le sue cause sono sicuramente complesse e di certo coinvolgono, oltre che fattori ambientali, fattori ereditari come numerosi screening genetico hanno dimostrato in passato. I genetisti Usa avevano dimostrato solo pochi mesi fa in un precedente studio il possibile coinvolgimento del sistema immunitario nella malattia ed individuato i fattori ereditari coinvolti. In particolare i ricercatori avevano pubblicato la scoperta del coinvolgimento del gene per il Fattore H, una molecola che controlla la risposta infiammatoria ad agenti patogeni penetrati nell'organismo. Gli esperti avevano visto che mutazioni a carico di questo gene erano presenti in un caso su due della malattia. Persone con mutazioni sul gene per il Fattore H hanno un'eccessiva reazione infiammatoria a piccole infezioni, inoltre difetto del fattore H si traducono in incapacità di sopire la reazione infiammatoria dopo che l'infezione è stata eliminata, quindi quando la reazione infiammatoria non serve più. Ma poiché si tratta di una malattia complessa, la maculopatia non può essere spiegata con difetti su un solo gene. Questa considerazione ha indotto i genetisti Usa a cercare ancora, concentrando l'attenzione su altri geni legati ai processi infiammatori. Con l'analisi genetica di 1300 pazienti ed individui di controllo, i genetisti hanno quindi trovato che un'altra molecola immunitaria, il fattore B, è il principale agente modificatore della malattia. Questa molecola ha un'attività opposta (induce i processi infiammatori e immunitari) a quella inibitrice del fattore H, quindi, hanno dichiarato i due esperti, sembra logico che entrambi i geni siano coinvolti nella maculopatia e le loro mutazioni rafforzino a vicenda il rischio di ammalarsi. I ricercatori, infatti, hanno visto che circa tre pazienti su quattro, (74% dei pazienti), hanno uno o entrambi questi geni difettosi. «Non conosco nessuna malattia complessa (ossia in parte di natura genetica in parte ambientale) ha dichiarato con estremo entusiasmo Allikmets in cui sia stato identificato il 75% della causa genetica». Il sistema immunitario deve avere un ruolo principe nella genesi della malattia, ha concluso Allikmets, per questo ora bisogna andare alla ricerca di quegli agenti esterni, per esempio infezioni, che premono il grilletto facendo scoppiare la maculopatia nelle persone geneticamente predisposte. da "Corriere.com" NEI TESTICOLI TROVATE CELLULE SIMILI ALLE EMBRIONALI GERMANIA - Risultato sorprendente, e destinato a provocare scossoni nel mondo scientifico internazionale. Nei testicoli di alcuni topi di laboratorio sono state isolate cellule staminali del tutto simili a quelle embrionali, sul cui utilizzo nella ricerca si scontrano buona parte degli scienziati da un lato, e diversi schieramenti politici dall'altro. Anche in Italia. La scoperta è stata realizzata dai ricercatori dell'università di Goettingen, in Germania, secondo cui “estraendo queste staminali dai testicoli umani, tramite una semplice biopsia, si potrà avere a disposizione una fonte alternativa di cellule 'factotum' da utilizzare all'occorrenza per uso terapeutico”. Lo studio è pubblicato sulla rivista "Nature". Una scoperta "epocale", che "vale 10" in una ipotetica classifica di importanza per gli scienziati. e che " e' destinata a relegare la disputa epica e politica sull'utilizzo nella ricerca delle cellule staminali embrionali a dibattito datato e sterile". Ruggero De Maria, ricercatore dell'Istituto Superiore di Sanità, si congratula apertamente con gli scienziati tedeschi che hanno trovato e isolato staminali simili alle embrionali nei tessuti dei testicoli di topi di laboratorio adulti. da "Adnkronos" A SECONDA VISTA: ARRIVA L'OCCHIO ARTIFICIALE Microelettronica e nanotecnologia potrebbero presto portare un po' di luce ad alcuni non vedenti. Il punto sulla ricerca, le sfide da raccogliere. Sin dagli inizi dell'era dell'elettronica, scienziati e autori di fantascienza (si veda ad esempio il film italiano Nirvana del 1997) hanno sognato di poter sostituire un occhio non funzionante con un apparato artificiale e ridare così una visione (almeno parziale) ai ciechi. Oggi questo ambizioso obiettivo sembra essere a portata di mano - anche se le soluzioni attualmente in sperimentazione saranno disponibili sul mercato solo fra qualche anno e potranno risolvere solo alcune specifiche patologie. Sostituire la retina artificiale. In molti laboratori sono in corso ricerche focalizzate sullo sviluppo di una retina artificiale, per sostituire l'organo umano che trasforma la luce in impulsi elettrici da trasferire poi al cervello attraverso il nervo ottico. Il primo esperimento di impianto di un sistema di visione artificiale in un essere umano risale ormai all'anno 2000. Il sistema, composto da una microtelecamera incorporata in speciali occhiali, accoppiata ad un sensore a ultrasuoni, trasmette i segnali a un piccolo computer tascabile, che elabora l'informazione, la ritrasmette a un altro computer e di qui a una rete di 68 elettrodi posti nella superficie del cervello. Questo impianto high tech è riuscito a ridare un poco di vista a un paziente cieco da 36 anni. I risultati, se pur interessanti, sono solo un primo passo verso una buona soluzione: il paziente ha recuperato una capacità visiva pari a quella di una persona molto miope, e l'apparato è relativamente scomodo. Sono dunque partiti parecchi progetti destinati a costruire un occhio artificiale più performante e portatile. In Europa, solo per citare alcuni esempi, è stato attivo il progetto comunitario OPTIVIP con l'obiettivo di realizzare una protesi in grado di stimolare direttamente il nervo ottico, è in corso una ricerca da parte dell'ospedale oftalmologico di Colonia e avanzate sperimentazioni sono condotte dal pioniere Claude Veraart. La ricerca ha prodotto risultati e i primi prototipi di retina artificiale europea sono già stati impiantati, con risultati interessanti. Anche questo sistema si basa su un apparato esterno collegato però al nervo ottico: dovrebbe essere quindi applicabile anche a pazienti con la retina totalmente inattiva, ma che abbiano un nervo ottico funzionante. Si prevede che il prodotto potrebbe essere reso disponibile al pubblico entro il 2010, a un costo attorno ai 20.000 euro. Al lavoro anche i laboratori nucleari. Negli Stati Uniti si è addirittura mobilitato l'establishment militar-nuclear-industriale, coinvolgendo enti come il Sandia National Laboratories, un laboratorio chiave per la ricerca nucleare a fini bellici statunitense o l'Argonne National Laboratory, laboratorio che fu parte fondamentale del progetto Manhattan (legato, come noto, alla costruzione della prima bomba atomica). Ancora una volta, aziende ed enti seguono il principio "piatto ricco mi ci ficco" e cercano di godersi una fetta dei sostanziosi stanziamenti messi a disposizione dal National Institutes of Health (e meno male che ogni tanto si mettono i brillanti cervelli dei ricercatori a lavorare su progetti benefici per l'umanità). Almeno un paio di aziende statunitensi sono già a un discreto punto della sperimentazione su pazienti umani, chi usando device connessi a hardware esterni, chi passando invece a impianti interni come nel caso della retina artificiale (ASR), un chip di un paio di millimetri di diametro e più sottile di un capello, da impiantare all'interno dell'occhio. Questo particolare chip contiene 5.000 fotosensori in grado di convertire la luce in impulsi elettrochimici e con questi stimolare le cellule della retina del paziente ancora in grado di funzionare (il che dovrebbe rendere inutile l'apparato nel caso di pazienti con la retina totalmente compromessa). In cerca della nanobatteria. Questo nuovo tipo di dispositivi elettronici pongono agli scienziati tutta una serie di problemi, in parte inediti. Seguendo la tradizione consolidata dell'elettronica, a ogni successiva generazione il prodotto rischia di diventare più vorace di energia. Ci si potrebbe dunque trovare dinnanzi al problema di dover dipendere da una qualche forma di energia esterna o di accumulatore impiantato nel corpo. In realtà il microchip ASR si alimenta da solo, sfruttando la luce che lo colpisce- ma questa soluzione rischia di metterlo in difficoltà in situazioni di scarsa luce ambientale, il che limiterebbe la sua utilità. Sul fronte delle fonti energetiche impiantabili si sta dunque muovendo un consorzio di enti e aziende americane, che ha intrapreso il lavoro di ricerca su una batteria che dovrebbe produrre elettricità imitando i processi biologici degli organismi viventi. Una batteria tanto piccola da poter trovare posto nell'occhio insieme alla retina artificiale, per arrivare ad una soluzione del tutto interna e quindi più comoda ed "accettabile" per il paziente . L'altro grande problema è garantire il funzionamento di un dispositivo delicato come un microchip in un ambiente così aggressivo come l'interno del corpo umano, proteggendo al contempo il delicato corpo umano da possibili effetti collaterali del chip impiantato nell'occhio. Una soluzione a questo problema sta per essere individuata attraverso un sofisticato rivestimento, basato sull''applicazione di uno strato ultrananocristallino composto da cristalli di diamante del calibro di 5 milionesimi di millimetro. Piccoli passi verso l'uomo bionico. Anche se queste soluzioni, ancora ai primi passi, rappresentano una possibile soluzione solo per alcune forme di cecità, sembra si possa essere ottimisti, almeno per i ciechi del mondo occidentale, in grado di permettersi (anche grazie a una mutua o assicurazione sanitaria) il costo di apparato ed operazione. È dunque probabile che a medio termine questo tipo di impianti ridaranno almeno parzialmente la vista a un certo numero di non vedenti. Nel lungo periodo, conoscendo come funzionano gli esseri umani e tenendo in conto le probabili evoluzioni tecnologiche, non mi sorprenderebbe diventasse comune farsi sostituire occhi perfettamente funzionanti con occhi bionici, capaci di vedere più lontano, funzionanti in assenza di luce o in grado di captare radiazioni non visibili, essendo in grado di "vedere" l'infrarosso o l'ultravioletto. di Roberto Venturini de "Apogeonline" RIVEDERE LA LUCE GRAZIE AD UN'ALGA I primi esperimenti su topi geneticamente affetti da degenerazione retinica C'è ancora molto lavoro da fare, ma i risultati di un esperimento condotto da Zhuo-Hua Pan, della Wayne State University fanno sperare che grazie a una nuova strategia terapeutica sia in futuro possibile restituire la vista a chi soffre di alcune patologie degenerative della retina. Un primo risultato è stato già ottenuto in un ceppo di topi che soffre di una deficienza di funzionalità dei fotorecettori analoga a quella che si manifesta nelle persone affette da retinite pigmentosa. Utilizzando un virus innocuo, ZhuoHua Pan ha infatti introdotto nei neuroni che formano lo strato interno della retina, che normalmente non sono fotosensibili, un gene che codifica una proteina sensibile alla luce. Come riferisce Zhuo-Hua Pan in un articolo apparso sul numero odierno di Neuron, la nuova proteina prodotta dalla cellula - una forma di rodopsina (ChR2) comunemente presente in un'alga verde - ha fatto sì che i neuroni trattati si attivassero in presenza di luce, inviando un segnale alla corteccia visiva dell'animale. Inoltre, la proteina non viene degradata subito dagli enzimi presenti nella cellula nervosa e persiste in essa a lungo. Uno dei problemi che restano da affrontare è la determinazione dell'intensità del segnale che arriva alla corteccia cerebrale, dato che la proteina dell'alga è meno sensibile di quelle che vengono sfruttate da coni e bastoncelli. Inoltre, osserva Zhuo-Hua Pan, " le patologie degenerative della retina sono eterogenee e sono necessari ulteriori studi per stabilire quali tipi di esse siano eventualmente trattabili". Rispetto ad altre tecniche sperimentali perseguite in questo campo, quella ideata da Zhuo-Hua Pan offre il vantaggio di non richiedere l'impianto di alcuna protesi o chip elettronico all'interno dell'occhio, fonte di possibili reazioni negative da parte dell'organismo ricevente. da "Le Scienze" LA MOLECOLA CHE BLOCCA L'ANGIOGENESI Ricerca approvata in USA. Laser e farmaci neutralizzano la crescita dei vasi sanguigni. USA - Gli anziani possono perdere la propria indipendenza nelle attività quotidiane a causa della degenerazione maculare legata all'età, che può rendere difficile o impossibile leggere o guidare. Ma esistono anche forme cosiddette giovanili della malattia, una delle quali, la più diffusa, è quella miopica. In questo caso, i vasi sanguigni indeboliti dalla miopia favoriscono i processi di degenerazione maculare. In entrambi i casi il trattamento prevede l'uso di specifici farmaci o laser con particolari lunghezze d'onda. Scopo della terapia farmacologica è quella di neutralizzare con apposite sostanze le proteine Vegf (Vascular endothelial growth factor) che stimolano la crescita dei vasi anomali, principali responsabili della malattia. È stato recentemente pubblicato sull'American e sul British Journal of Ophthalmology che le statine, utilizzate per abbassare i livelli di colesterolo, possano essere utili anche a mitigare l'infiammazione cronica che porta alla produzione di Vegf e alla malattia. Ifarmaci di nuovissima generazione, testati in sperimentazioni cliniche internazionali, combattono direttamente i fattori di crescita vascolare che portano alla formazione dei vasi sanguigni patologici nella degenerazione maculare legata all'età. Il primo di questi farmaci ( per il quale abbiamo partecipato al Board europeo) ha avuto recentemente l'approvazione della Fda ( Food and drug administration), l'organismo americano di riferimento per farmaci e cibi, e da poco anche la pre approvazione dell'omologa europea Emea ( European medicine evaluation agency). Occorrono però ancora mesi perché sia in commercio in Italia. Tali farmaci devono essere posti a contatto della macula, e per questo occorre un piccolo intervento chirurgico che veicoli i farmaci sulla macula dall'interno o dall'esterno dell'occhio con speciali iniezioni. Per questo si stanno mettendo a punto e sperimentando particolari procedure chirurgiche mini invasive. I risultati dell'efficacia di questi farmaci, promettenti ma ancora non utilizzati su una grande scala, sono stati discussi a Chicago lo scorso ottobre durante il Congresso dell'American Academy of Ophthalmology. E farmaci simili sono in fase finale di sperimentazione ed entreranno presto in commercio. La terapia laser utilizza particolare lunghezze d'onda. Il raggio laser può andare direttamente a distruggere i vasi anomali, o indirettamente interagendo con una sostanza fotosensibile preventivamente iniettata in vena e affine ai vasi anomali. Quest'ultima è nota come terapia fotodinamica, e spesso sono necessarie più sedute prima di giungere alla chiusura definitiva dei vasi anomali. Negli ultimi due tre anni si è però constatato che tale terapia, seppur utile in molti casi, non è sempre efficace. Per questo sono stati avviati studi sperimentali - tuttora in corso - che associano le terapie laser con i nuovi farmaci antiproliferativi. Allo studio la possibilità di associare la « cura » fotodinamica ai nuovi antiproliferativi di Claudio Azzolini de "Il Sole 24 Ore" RENEURON (traduzione dall’originale di Serena Greci Green) ReNeuron annuncia primi dati preclinici ottenuti con il suo programma ReN003 con cellule staminali retiniche e firma un accordo di collaborazione con lo Schepens Eye Research Institute. Guildford, Regno Unito - il Gruppo ReNeuron plc (LSE: RENE.L) annuncia oggi alcuni primi dati sull'efficacia di sopravvivenza relativi al suo programma ReN003 di terapia con cellule staminali per le patologie della retina. La ricerca congiunta, guidata dai Prof. John Greenwood e Stephen Moss dell'Istituto UCL di Oftalmologia di Londra, ha evidenziato un'espansione delle cellule progenitrici retiniche umane con marker di fotorecettori su molteplici raddoppi di popolazione. Queste progenitrici hanno mostrato una capacità ad impiantarsi nello strato fotorecettore della retina ed a proteggerlo dalla degenerazione in un modello distrofico retinico. La ricerca è stata finanziata da una sovvenzione per la ricerca strategica sulle cellule staminali conferita dal Medical Research Council (il Consiglio nazionale britannico per la ricerca medica), ed è stata presentata all'assemblea annuale dell'Associazione per la Ricerca Oftalmica e sulla Vista (Association for Research in Vision and Ophthalmology - ARVO) che si è tenuta a Fort Lauerdale, in Florida, dal 30 aprile al 4 maggio, 2006. Per portare avanti il suo programma ReN003 sulle cellule staminali della retina, ReNeuron ha anche annunciato di aver firmato un accordo di collaborazione di ricerca con lo Schepens Eye Research Institute della Harvard Medical School di Boston (USA). La ricerca condotta da questa collaborazione si svolgerà presso i laboratori del Dott. Michael Young, e si propone di stabilire le condizioni chiave per coltivare linee di cellule staminali retiniche che possano essere sviluppate per ottenere una terapia dimensionabile, efficace e sicura che utilizzi la tecnologia di espansione cmycERTAM di proprietà di ReNeuron. L'obiettivo è sviluppare queste linee di cellule staminali per trattare importanti malattie causa di cecità, quali la degenerazione maculare legata all'età, la retinite pigmentosa e la retinopatia diabetica, che tutte assieme rappresentano una rilevante necessità medica tuttora non soddisfatta. Dice il dott. John Sinden, Capo Funzionario Scientifico della ReNeuron: "Sono molto felice che la ReNeuron stia lavorando così strettamente sia con l'Istituto di Oftalmologia UCL e con l'Istituto Schepens, ovvero con due dei centri clinici e di ricerca più importanti del mondo nel campo delle patologie della retina. La nostra nuova collaborazione con lo Schepens permetterà di unire la sua importante tecnologia brevettata e le sue conoscenze alla versatile piattaforma di cellule staminali della ReNeuron: l'obiettivo è generare nuove terapie con cellule staminali per queste gravi patologie della retina. Future collaborazioni con entrambe queste istituzioni offrono la possibilità di portare queste terapie alla pratica clinica nella maniera più efficiente possibile". ReNeuron Group plc ReNeuron, collocata nel Regno Unito, è un'azienda leader nelle terapie che utilizzano cellule staminali adulte. La società sta applicando le sue innovative tecnologie di piattaforma di cellule staminali per sviluppare terapie d'avanguardia che utilizzino le cellule staminali per necessità cliniche importanti ma ancora poco o affatto soddisfatte. ReNeuron ha usato la sua tecnologia cmycERTAM per generare linee di staminali neuronali geneticamente stabili. Questa piattaforma tecnologica è coperta da brevetti internazionali ed è pienamente regolata mediante un interruttore di sicurezza indotto chimicamente. La crescita delle cellule può dunque venire completamente arrestata prima dell'impianto in vivo. Altre applicazioni della ricerca ReNeuron La Re001, la sua principale terapia con staminali contro l'invalidità cronica a seguito di ictus, è in fase avanzata di sviluppo preclinico. Se la sperimentazione preclinica verrà completata con successo, la società intende richiedere quest'anno l'autorizzazione a procedere alle prime sperimentazioni cliniche per l'ictus, ed avviare tali prove appena possibile. Mediante la sua terapia ReN005 con cellule staminali, la società ha anche generato dati sull'efficacia preclinica per il morbo di Huntington, una rara e mortale malattia genetica neurodegenerativa che colpisce circa una persona su 100.000. Questo programma è in fase di sviluppo preclinico. In aggiunta ai suoi programmi per l'ictus e il morbo di Huntington, la ReNeuron sta sviluppando terapie con cellule staminali contro il morbo di Parkinson, il diabete di Tipo 1 e le malattie della retina. ReNeuron ha anche spinto le sue tecnologie a staminali in aree non terapeutiche: si tratta della sua gamma ReNcell di linee di cellule per l'utilizzo in applicazioni tese alla scoperta di farmaci nell'industria farmaceutica. Ulteriori informazioni su ReNeuron ed i suoi prodotti sono disponibili su www.reneuron.com. L'Istituto UCL di Oftalmologia L'Istituto UCL di Oftalmologia (IO) è uno dei più grandi istituti di ricerca al mondo consacrati al progresso della comprensione delle malattie della vista e dell'occhio. La sua missione è portare nuove terapie innovative alla pratica clinica a beneficio dei pazienti in tutto il mondo. L'IO fa parte della UCL Biomedicine, uno dei maggiori aggregati di scienze biomediche del mondo, ed è stata valutata 5* (la valutazione più alta possibile) negli ultimi due esercizi di valutazione della ricerca. I 40 scienziati che fanno parte dell'organico dell'IO coprono un ampio spettro di talenti, da chi indaga sui processi cellulari fondamentali agli scienziati clinici che eseguono le prove cliniche. L'IO collabora con la Fondazione NHS dell'Ospedale Oftalmico di Moorfields ed ha forti legami con altri ospedali oftalmici nel Regno Unito ed in Europa. La biologia delle cellule staminali ha un ruolo importante: sono quattro i progetti finanziati dal Medical Research Council attualmente in corso, uno dei quali sostiene la collaborazione descritta sopra. Per trattare pazienti con malattie della superficie oculare viene usato un centro clinico per le cellule staminali recentemente accreditato. L'IO è anche leader mondiale nel campo delle scoperte e delle terapie genetiche relative alle patologie dell'occhio. La varietà di malattie dell'occhio studiate dal personale dell'IO è ampia, ma particolare attenzione viene dedicata a, fra l'altro, la degenerazione della retina, compresa quella che colpisce i giovani, alla degenerazione maculare legata all'età (AMD) ed al glaucoma. L'AMD è la causa più comune di cecità non curata presente nel mondo industrializzato. Lo Schepens Eye Research Institute Fondato nel 1951, lo Schepens Eye Research Institute è il maggiore centro indipendente di ricerca oftalmica presente nelle Americhe. Affiliato alla Scuola di Medicina di Harvard, l'istituto ha avuto un notevole impatto sulla pratica oftalmica a livello internazionale. I suoi ricercatori hanno pubblicato oltre 4.000 relazioni scientifiche e formato più di 600 scienziati della vista e specialisti in oftalmologia negli USA e in più di 40 altri paesi nel mondo. Gli scienziati dello Schepens fanno parte di équipes di ricerca interattive i cui obiettivi sono di sviluppare metodi più potenti per la diagnosi non invasiva delle malattie dell'occhio e di creare nuovi trattamenti basati sulla terapia genetica oculare, sul trapianto di cellule retiniche e staminali, su apparecchi adiuvanti e riabilitazione per ipovedenti, sul trapianto della cornea, sulla bioingegneria e sull'ingegneria dei tessuti. (Il presente annuncio contiene dichiarazioni prospettive sulla situazione finanziaria, sui risultati dell'attività e sull'andamento/performance economica della ReNeuron, come anche ad alcuni piani ed obiettivi della dirigenza ReNeuron. Tali dichiarazioni possono generalmente, ma non sempre, essere identificate dall'uso di parole quali "dovrebbe", "prevede", "stima", "ritiene" od altre espressioni analoghe. Questo annuncio contiene altresì dichiarazioni prospettive attribuite ad alcuni terzi relativamente alle loro stime circa la crescita dei mercati e della domanda di prodotti. Per loro stessa natura, le dichiarazioni prospettive implicano rischi ed incertezze perché rispecchiano le attuali aspettative e supposizioni di ReNeuron in merito a circostanze ed eventi futuri che potrebbero rivelarsi inesatte. Diversi fattori potrebbero far sì che la reale situazione finanziaria, i risultati delle sui risultati dell'attività e sull'andamento/performance economica della ReNeuron differiscano materialmente dalle stime fatte od implicite in tali dichiarazioni prospettive; di conseguenza, non bisogna fare affidamento su tali dichiarazioni. I termini "ReNeuron" e "la Società" si riferiscono a ReNeuron Group plc e le sue attività sussidiarie. LUCENTIS: LA RICERCA VA AVANTI E’ allo studio un nuovo farmaco contro la forma essudativa della degenerazione maculare legata all’età – il suo nome è LUCENTIS. Anche in questo caso il farmaco si somministra mediante iniezioni direttamente dentro l’occhio. Il Lucentis (ranibizumap) è un anticorpo che inibisce il VEGF, una proteina che gioca un ruolo critico nella angiogenesi ed è direttamente coinvolta nella formazione di nuovi vasi. Il Lucentis bloccherebbe quindi la formazione della neovascolarizzazione che è la causa principale di perdita della funzione visiva nei pazienti affetti dalla forma essudativa della degenerazione maculare. Novartis ha appena annunciato che si è concluso il primo di uno degli studi di Fase III e i risultati sono decisamente confortanti. Il 95% dei pazienti trattati con iniezioni intraoculari di Lucentis manteneva o migliorava la vista (definita come perdita di meno di 15 lettere) a distanza di un anno dal trattamento, contro il 62% dei pazienti nel gruppo di controllo. Gli effetti collaterali oculari erano inferiori all’1%. Al momento Lucentis non si trova ancora in commercio in quanto deve passare il vaglio di ulteriori sperimentazioni cliniche e della approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA). da "Occhioallaretina.it" UN FATTORE DI CRESCITA PER IL NERVO OTTICO È attivo, in vitro, anche su altre cellule nervose. BOSTON - Ricercatori del Children's Hospital di Boston hanno scoperto un fattore di crescita naturale che stimola la rigenerazione degli assoni lesi all'interno del sistema nervoso centrale. In condizioni normali gran parte degli assoni presenti nel sistema nervoso centrale non sono in grado di ricrescere dopo essere stati danneggiati. La scoperta di questo nuovo fattore di crescita nervoso, battezzato oncomodulina, è descritta nell'ultimo numero della versione on line di Nature Neuroscience. Lo studio è stato condotto sul nervo ottico, che connette la retina ai centri cerebrali della visione. Quando l'oncomodulina è stata addizionata al brodo di coltura in cui era conservato uno di questi neuroni lesionati, la velocità di ricrescita è raddoppiata, evidenziando una capacità di stimolazione della sostanza molto superiore a quella di qualsiasi altro fattore di crescita noto. Gli autori della scoperta sperano che l'oncomodulina possa essere in futuro utilizzata per riparare danni subiti dal nervo ottico in seguito a glaucoma, tumori o insulti traumatici. L'oncomodulina ha inoltre mostrato di essere attiva, quanto meno in vitro, su almeno un altro tipo di cellula nervosa, inducendo i ricercatori a iniziare ulteriori ricerche in vista di una sua possibile utilizzazione anche nel caso di danni conseguenti a ictus o a lesioni del midollo spinale. da "Le Scienze" VISTA DA LINCE GRAZIE ALL'RNA Nuova arma per colpire la proteina VEGF, responsabile dello sviluppo della degenerazione maculare senile USA. Minare le basi della cecità che colpisce molte persone con l'avanzare dell'età servendosi di minuscoli pezzetti di RNA (acido ribossinucleico, il 'cugino' del più noto Dna) diretti contro i geni che scatenano la malattia. è questo l'oggetto della prima sperimentazione sull'uomo di una terapia genica che sfrutta un processo naturale di regolazione dell'espressione dei geni da parte di piccoli frammenti di Rna; i risultati sono stati presentati la scorsa settimana in occasione di un incontro tenutosi a Baltimora, organizzato dalla società americana che si occupa di terapia genica. Lo studio ha valutato in via preliminare l'efficacia di un farmaco chiamato Bevasiranib su pazienti affetti da degenerazione maculare senile, una malattia sempre più frequente che può portare a cecità irreversibile per la crescita di vasi sanguigni che ricoprono la parte posteriore dell'occhio. Le terapie disponibili oggi, infatti, hanno un'efficacia limitata e non rallentano la progressione della malattia. I ricercatori della Acuity Pharmaceuticals di Philadelphia si sono quindi concentrati sul meccanismo che porta alla sovra produzione di vasi sanguigni nella retina, elemento centrale per lo sviluppo della malattia. Il protagonista di questo fenomeno è una proteina detta VEGF, dimostratasi necessaria e sufficiente allo sviluppo della degenerazione maculare se presente in alta quantità e che rappresenta un bersaglio riconosciuto non solo in campo oftalmico ma anche in quello oncologico. Per colpire questa proteina, Bevasiranib si avvale di piccoli frammenti di Rna che agiscono come proiettili molto precisi, andando ad attaccarsi alle molecole di RNA cellulari da cui verrebbe prodotto VEGF. I piccoli proiettili non interagiscono invece con il Dna, scongiurando il rischio di alterare il patrimonio genetico emerso con altre forme di terapia genica. Questo meccanismo d'azione, efficace e specifico, avviene normalmente all'interno delle nostre cellule per regolare l'espressione dei geni e quindi la successiva produzione delle proteine. Il tutto acquisisce un interesse clinico in situazioni in cui ci sia un'abbondante produzione di una proteina chiave come Vegf alla base di una malattia: è in questi casi che piccole molecole di Rna possono diventare veri e propri farmaci. Le molecole vengono dunque prodotte artificialmente in modo da raggiungere la destinazione prescelta per spegnere il segnale desiderato. Devono quindi essere specifiche, agire per un periodo di tempo sufficiente e non causare effetti collaterali rilevanti: tutte caratteristiche che Bevasiranib sembra possedere. Lo studio che ha coinvolto circa 130 persone affette da degenerazione maculare senile avanzata, nelle quali si è osservata una riduzione della crescita dei vasi sanguigni nella retina con un evidente miglioramento della capacità visiva. Alla dose più bassa gli effetti durano qualche mese, a quella più alta perdurano più a lungo senza effetti collaterali di rilievo fatta eccezione per una reazione infiammatoria nel sito dell'iniezione. La somministrazione locale del farmaco rappresenta un vantaggio per il suo profilo di sicurezza, accanto a una maggiore praticità di somministrazione. Secondo i ricercatori che lo hanno sviluppato, Bevasiranib potrebbe essere usato anche in combinazione con altri farmaci che agiscono sempre su Vegf andando a bloccare la proteina già prodotta. In questo modo si produrrebbe un effetto sinergico di blocco totale della proteina patogena. Questo e altri aspetti verranno indagati negli studi futuri: l'azienda si è già impegnata a comunicare i risultati degli studi di fase due entro il prossimo settembre e ad avviare l'anno successivo quelli di fase tre. I GENI CHE CAUSANO LA DEGENERAZIONE MACULARE Proviene dalla Sardegna un'importante scoperta in ambito di genetica della degenerazione maculare, malattia che colpisce quasi il 20% degli anziani dell'Occidente, diventando poi la prima causa di cecità. Una scoperta che ha ottenuto anche un prestigioso riconoscimento internazionale. Secondo i dati più aggiornati, circa il 18-20% degli anziani dell'Occidente soffrono di degenerazione maculare, deterioramento della retina che diventa poi la prima causa di cecità. Si tratta quindi di un problema notevole, rispetto al quale appare importante capire come si sviluppi e se vi siano dei geni che ne determinano la predisposizione. Recentemente, in Sardegna, le ricercatrici Annalisa Loi Zedda (Società di Ricerca Genomica Shardna) e Maria Cristina Mallocci (Clinica Oculistica dell'Università di Cagliari) hanno messo in luce la scoperta che effettivamente un gruppo di geni è interessato a questa patologia che colpisce la parte più delicata dell'occhio. La ricerca - premiata con il Premio Internazionale Alcon, uno dei più prestigiosi riconoscimenti di oculistica - è il frutto di una collaborazione tra la già citata Società Shardna e l'Istituto di Genetica delle Popolazioni del CNR di Sassari. Un'immagine di Talana, nell'area dell'Ogliastra, in provincia di NuoroA fornire un ottimo campo di indagine sono state le caratteristiche genetiche della popolazione dell'Ogliastra, zona della Sardegna dove è presente una percentuale tra le più alte al mondo di ultracentenari. Il relativo isolamento di tale territorio ha in sostanza permesso il formarsi di popolazioni con caratteristiche genetiche particolari e molto fertili per questi tipi di studi. Nei laboratori si indaga in particolare sulla genotipizzazione, ovvero sull'individuazione dei polimorfismi, le variazioni delle quattro basi del DNA. Questa viene poi incrociata con le caratteristiche ambientali e di vita dei vari paesi. Durante appunto una di queste ricerche - condotta nella località di Talana - Loi Zedda e Mallocci hanno rilevato che in un consistente numero di persone non vi era traccia né della degenerazione maculare senile, né dei geni che alcuni ricercatori statunitensi avevano ipotizzato essere la causa di questa malattia. Un risultato, quindi, che la comunità scientifica ha giudicato come un'importante dimostrazione indiretta del collegamento di quei geni con quella patologia. di S. B. da "Superando.it" CELLULE STAMINALI UMANE: UTILI PER MALATTIE DEGLI OCCHI - STUDI NEGLI USA WASHINGTON - Le cellule staminali embrionali umane possono parzialmente ripristinare la vista nelle cavie cieche e possono essere una fonte di trapianto per alcune malattie degli occhi. Lo rende noto una ricerca Usa, pubblicata sul giornale Cloning and Stem Cells. "Abbiamo sviluppato una tecnologia che speriamo possa essere usata per curare le malattie oculari degenerative come la maculopatia", ha detto il dottor Robert Lanza della Advanced Cell Technology a Worcester, Massachusetts, che ha condotto lo studio. "Abbiamo dimostrato che queste cellule staminali embrionali possono salvare le funzioni visive in animali che altrimenti diventerebbero ciechi", ha spiegato Lanza in una e-mail. Le staminali sono un tipo di cellule che riescono a riprodurre vari tipi di tessuti. Quelle prese dagli embrioni sono particolarmente malleabili e possono produrre qualsiasi cellula o tessuto del corpo. Il loro uso e la loro produzione è controversa, con gli oppositori che sostengono che non sia etico usare embrioni umani a questo scopo. Il presidente Usa George W. Bush ha ristretto i finanziamenti federali per la ricerca sulle staminali embrionali a poche sequenze di cellule già esistenti nell'agosto 2001. Le società private come Advanced Cell Technology possono fare come vogliono, e il team di Lanza ha usato alcune delle sequenze del 2001 e altri prodotte usando finanziamenti privati. di "Reuters Italia" TELETHON FINANZIA CON 645 MILA EURO LA RICERCA SULLE NEUROPATIE OTTICHE EREDITARI E' stato finanziato da Telethon con 645.000 euro il progetto di ricerca sulla Degenerazione del nervo ottico nelle neuropatie mitocondriali presentato dal Dott. Valerio Carelli del Dipartimento di Scienze Neurologiche dell'Università di Bologna, che coordina una rete di 6 laboratori italiani. Il progetto riguarda un gruppo di malattie ereditarie - la neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON) e l'atrofia ottica dominante (DOA) - che portano a cecità. Si tratta di malattie rare ma non rarissime (stime da 1:10.000 a 1:50.000). Il significato della ricerca sta anche nel fatto che queste neuropatie ottiche sono malattie mitocondriali pure, e quindi costituiscono un importante modello di studio per il funzionamento dei mitocondri. I mitocondri sono la "centrale energetica" di tutte le cellule, e la ricerca può quindi fornire indicazioni sul coinvolgimento di questi organelli in patologie neurodegenerative più frequenti come la malattia di Alzheimer e la malattia di Parkinson e su possibili interventi terapeutici. Spiega il dr. Carelli: "Le neuropatie ottiche mitocondriali sono caratterizzate da una degenerazione selettiva di uno specifico tipo cellulare retinico, le cellule ganglionari della retina. La maggior parte dei pazienti perde la vista in età precoce (prima dei 10 anni nella DOA, e nell'adolescenza per i maschi nella LHON). Le basi genetiche di entrambe le malattie sono ora conosciute e coinvolgono proteine che svolgono le loro funzioni nei mitocondri. Nonostante l'origine genetica di queste malattie sia nota e le funzioni dei mitocondri siano ben conosciute, non siamo ancora in grado di capire perché solo le cellule ganglionari della retina sono colpite e perché non tutti gli individui portatori del difetto genetico si ammalino. Inoltre, al momento non esiste una cura per questi pazienti. Il nostro progetto ha l'obiettivo di chiarire gli enigmi sopra menzionati usando diverse strategie che includono ulteriori studi genetici, studi funzionali in vivo, e modelli cellulari di malattia. In particolare, abbiamo già dei risultati preliminari che ci indicano come le cellule siano in grado di organizzare una strategia compensatoria al malfunzionamento mitocondriale tale che alcuni individui non sviluppano mai la malattia. Crediamo fermamente che la conoscenza dettagliata di questi meccanismi sia di grande aiuto per la comprensione della malattia e possa fornirci dei mezzi per la terapia". Il prof. Baruzzi, direttore del Dipartimento di Scienze Neurologiche aggiunge: "Questo finanziamento, ottenuto da una istituzione scientifica di alto prestigio come il Telethon, è anche un riconoscimento all'impegno del nostro dipartimento nella ricerca scientifica sulle malattie neurodegenerative, su cui abbiamo fatto negli ultimi 10 anni importanti investimenti in termini di persone e strutture". Il progetto si svolgerà in un arco di tempo di 3 anni, e oltre all' Università di Bologna come centro principale con 3 laboratori (il coordinatore dott. Valerio Carelli, Laboratorio di Genetica, Dipartimento di Scienze Neurologiche - la dott.sa Anna Ghelli, Laboratorio di Biologia cellulare del Dipartimento di Biologia - il prof. Raffaele Lodi, Diagnostica con Spettroscopia RM del Dipartimento di Medicina Clinica e Biotecnologia Applicata), partecipano anche l'Università "La Sapienza" di Roma (la prof.ssa Giulia D'Amati, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia), l'IRCCS "E. Medea" (il dott. Andrea Martinuzzi), e l'Università di Bari (il prof. Palmiro Cantatore, Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare). di "Bur.it" UN BIOCHIP CHE RESTITUISCE LA VISTA Chip impiantati direttamente nell'occhio per sconfiggere definitivamente le malattie degenerative dell'apparato visivo. Fantascienza? No, anzi, alcuni progetti avanzati sono in dirittura d'arrivo. ROMA - Prove di fusione definitiva tra apparati organici e processori al silicio, scienze biologiche e tecnologie informatiche. Non siamo ancora arrivati alla macchina di Turing biologica, ma gli innesti di microscopiche unità computazionali all'interno di organismi viventi complessi fa un altro passo verso la direzione indicata da anni dal fortunato filone della fantascienza cyber-punk. Scienziati dell'Università della Pennsylvania hanno annunciato la realizzazione di un chip impiantabile direttamente nell'occhio umano, capace di restituire la vista alle persone affette da gravi forme di degenerazione cellulare dell'apparato visivo. Il microchip è frutto di un progetto pensato per combattere la retinite pigmentosa, malattia degenerativa di origine genetica che distrugge progressivamente tutte le cellule retinali, unità biologiche fondamentali responsabili della transcodifica dei segnali luminosi catturati dall'occhio in impulsi nervosi inviati al cervello per l'interpretazione. Col passare degli anni, l'intero tessuto retinico viene affetto dal morbo fino alla perdita totale della vista da parte del paziente. Non è la prima volta che si registrano notizie di ricerche volte a restituire la vista con innesti tecnologici: ricordiamo a tal proposito il lavoro dei ricercatori dell'Università di Stanford, e il loro occhio bionico servo-assistito da computer e mini-telecamere esterne. In quel caso, la microcamera montata su uno speciale paio di occhiali catturava le informazioni visive che, una volta processate da un computer esterno, venivano trasmesse in wireless all'innesto tecnologico presente nell'occhio del paziente. L'approccio del Penn è molto più sofisticato: il microprocessore viene impiantato a diretto contatto con il nervo ottico, e da solo si occupa di catturare la luce e convertirla in segnali interpretabili dalla zona della corteccia adibita alla visione, esattamente come gli impulsi nervosi generati da un apparato visivo perfettamente funzionante. Non solo: il bio-chip sarebbe in grado di replicare la maniera in cui una retina sana percepisce il movimento e adatta l'intensità della luce e il contrasto dei colori. Un design minimale e perfettamente mimetizzato nel tessuto vitale dell'organismo, una fusione quasi perfetta di corpo e macchina in grado finalmente di realizzare uno dei sogni a lungo accarezzati dai ricercatori e dagli scienziati di mezzo mondo. O almeno è quello che promettono quelli del Penn: prima che si passi alle sperimentazioni cliniche, e si possa quindi verificare quanto di concreto ci possa essere nelle speranze suscitate da annunci del genere, il prossimo passo della ricerca consisterà nel ridurre ulteriormente le dimensioni del chip-innesto e il consumo di energia necessario al suo funzionamento continuato. da "Punto Informatico" IL RECETTORE CHIAVE DELLA MACULOPATIA Aumentare le possibilità di cura: un obiettivo al quale punta attivamente la ricerca nel campo della degenerazione maculare o maculopatia senile, problema crescente nei paesi avanzati in quanto legato all’invecchiamento (colpisce circa un ultrasettancinquenne su tre) e prima causa di cecità legalmente riconosciuta dopo i 55 anni. Una malattia della quale si conoscono i fattori di rischio, soprattutto età avanzata, familiarità, fumo, esposizione non protetta alla luce solare, deficit di vitamine antiossidanti, ipercolesterolemia, ipertensione, obesità, ma non sono note le cause. Si sa che insorge per degenerazione di strutture vicino alla macula retinica (epitelio pigmentato retinico, membrana di Bruch e coriocapillari) che iniziano decenni prima delle manifestazioni dei sintomi e conducono a due situazioni: la maculopatia secca, non essudativa o non neovascolare, più comune e graduale, e la maculopatia umida o essudativa o neovascolare, che annovera il 10% dei casi ma causa l’80% delle cecità, nella quale c’è una neoformazione di vasi sanguigni che danno essudazione ed emorragie sub-retiniche. Per quest’ultima è d’elezione la terapia fotodinamica con iniezione endovenosa di una sostanza fotosensibile (verteporfina) che aderisce ai neovasi e viene attivata da un laser, un trattamento efficace ma che in genere va ripetuto più volte e in molti casi non è sufficiente. Da qualche anno l’attenzione è puntata sull’uso di farmaci antiangiogenesi, che contrastano cioè la formazione dei nuovi vasi sanguigni, da combinare con la terapia fotodinamica. Il caso unico dei lamantini. L’angiogenesi è un processo da tempo individuato come essenziale per la crescita tumorale e più di recente è emerso che in esso svolge un ruolo importante la molecola VEGF (fattore di crescita endoteliale vascolare), contro la quale si potevano quindi dirigere terapie anticancro. Inibitori del VEGF sono anche gli anticorpi monoclonali bevacizumab e ranibizumab, il primo approvato dalla FDA statunitense per il tumore del colon ma dimostratosi valido pure nella maculopatia e il secondo approvato l’estate scorsa per questa patologia. Ad ampliare le prospettive d’impiego degli anti-VEGF nella terapie di combinazione della degenerazione maculare senile giunge ora una ricerca pubblicata sulla rivista Nature che ha individuato l’esistenza di una proteina che impedisce l’angiogenesi nella cornea. Questo tessuto trasparente di rivestimento dell’occhio permette una visione ottimale grazie all’assenza di vasi sanguigni, nonostante sia presente il VEGF: un’apparente contraddizione a lungo irrisolta, che adesso si spiega con la scoperta del recettore in forma solubile sVEGFR-1, o sflt-1, che a differenza della forma di membrana non consente la trasmissione del segnale per interazione con la proteina VEGF. I ricercatori hanno osservato che in topi geneticamente manipolati l’sflt-1 era asse e c’era vascolarizzazione corneale spontanea; la stessa mancanza è stata verificata nei lamantini, trichechi acquatici di zone costiere dell’ordine dei Sirenidi (da cui la leggenda) che sono gli unici animali noti con la cornea vascolarizzata, mentre l’sflt-1 è presente negli stessi altri Sirenidi come i dugonghi e in loro parenti terrestri come gli elefanti, suggerendo un significato evolutivo. Verso modulatori dell’angiogenesi. Dalla scoperta del ruolo del sflt-1 nel mantenere la cornea avascolarizzata si potrà forse arrivare alla messa a punto di modulatori dell’angiogenesi da utilizzare nelle patologie a base neovascolare, compresa la maculopatia senile. Nonostante i progressi compiuti, per quest’ultima la terapia ha ancora vari problemi da risolvere, tra i quali anche la possibilità di trattamenti meno costosi e impegnativi, da non ripetere più volte e con un migliore impatto sul benessere dei pazienti. Un aspetto finora poco analizzato ma che si lega alla mancanza di strumenti ottimali per valutare la qualità di vita dell’anziano colpito dalla malattia (sottovalutata finché non c’è un rapido peggioramento e non si estende all’altro occhio). All’inizio possono infatti non essere riconosciuti sintomi quali riduzione od oscuramento della visione centrale e distorsione delle linee diritte, che si accertano con il semplice test della griglia di Amsler; sono opportuni comunque periodici controlli della vista. Per la prevenzione si può poi agire sui fattori di rischio evitabili, dalla protezione degli occhi esposti a forte luce solare all’astensione dal fumo al consumo di alimenti (frutta e verdure tra cui quelle a foglia verde) ricchi di antiossidanti come vitamina C, E, beta-carotene e luteina. da "Dica 33" DEGENERAZIONE MACULARE SENILE: TROVATO IL GENE DELLA FORMA AGGRESSIVA È la prima causa di cecità nelle persone over 50. Una variante di un gene aumenta il rischio di sviluppare la forma "umida" della degenerazione maculare senile, che rappresenta la più importante causa di cecità nella popolazione ultracinquantenne. La scoperta è stata fatta da ricercatori della Yale School of Medicine, che ne danno notizia sull'ultimo numero di "Science". La degenerazione maculare, che porta a una progressiva perdita della visione centrale, si presenta in due forme: quella "secca", che progredisce lentamente nel corso di molti anni, e quella "umida" che è molto più aggressiva. Lo scorso anno lo stesso gruppo di ricerca diretto da Josephine Hoh aveva identificato un gene legato alla forma secca e scoperto che entrambe le forme erano correlate a una variante nel gene CFH (complement factor H), che esprime una molecola coinvolta nella risposta infiammatoria dell'organismo ad agenti patogeni. Nel nuovo studio Hoh e collaboratori hanno scoperto che il rischio di sviluppare la malattia nella sua forma più grave è fortemente condizionato dalla presenza di un polimorfismo a singolo nucleotide (ossia nel cambiamento di una sola base nucleotidica nella sequenza del gene) a carico del gene HTRA1 presente sul cromosoma 10. In particolare, mentre la variante del gene CFH porta alla lenta formazione a livello retinico di depositi di materiali metabolici di scarto, la proteina espressa dal gene HTRA1 influenza lo sviluppo dei vasi sanguigni nella retina, il carattere distintivo della forma umida della maculopatia. La compresenza di entrambi i meccanismi, pur alquanto rara, porta alle forme più complesse della patologia. da "Le Scienze TRAPIANTO DI CELLULE DELLA RETINA E ALCUNE CAVIE TORNANO A VEDERE Lo studio, pubblicato su "Nature", è stato condotto sui topolini. Apre nuove speranze per la cura delle malattie degenerative LONDRA - Riacquistare la vista grazie ad un trapianto di cellule della retina. Per la prima volta, in un esperimento condotto su topi, un gruppo di ricercatori è riuscito a ripristinare parzialmente la facoltà visiva, trapiantando negli animali cellule precursori della retina. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, si deve all'équipe del London Institute of Ophthalmology ed ha utilizzato un nuovo approccio sviluppato alla University of Michigan, presso il Kellogg Eye Center. I risultati sono stati accolti con grande interesse dalla comunità scientifica e potrebbero aprire la strada ad una cura per moltissime malattie degenerative della retina, compreso il diabete che affligge milioni di persone. Gli scienziati hanno utilizzato cellule staminali adulte e quindi, già con una destinazione precisa: fotorecettori, cioè cellule della retina, "in fieri". Nelle retinopatie si ha una degenerazione per cui i fotorecettori che costituiscono la retina, ovvero le cellule chiamate coni e bastoncelli, muoiono. Sono i fotorecettori a tradurre gli impulsi visivi in un messaggio che poi, viaggiando sul nervo ottico, arriva al cervello, che lo traduce in immagini. Senza fotorecettori al cervello non arriva nulla e la capacità visiva è persa. E' da tempo che si tenta il trapianto di cellule nella retina per ricostituire coni e bastoncelli, ma finora non c'erano sono stati progressi significativi. Una delle coordinatrici dello studio, la dottoressa Jane Sowden, si è detta sorpresa dei risultati ottenuti: "Abbiamo riscontrato che la retina matura, che finora si credeva non avesse la capacità di rigenerarsi, è invece in grado di sopportare lo sviluppo di nuovi fotorecettori funzionali", ha spiegato. I ricercatori guidati da Robin Ali, dell'istituto londinese, hanno invece pensato di trapiantare cellule "semi-adulte", cioè già abbastanza sviluppate e avviate a diventare cellule della retina, ma senza aver ancora raggiunto lo stadio di maturazione completa. Ha funzionato: trapiantando cellule della retina "in fieri", gli scienziati hanno ottenuto un miglioramento parziale della funzione visiva nei topi. Le cellule trapiantate hanno ultimato il loro sviluppo trasformandosi in fotorecettori, e si sono integrate nella retina, allacciando contatti con le terminazioni del nervo ottico, diventando così funzionali. "E' una ricerca sorprendente, che in futuro potrebbe portare ad un trapianto per curare la cecità nell'uomo", ha commentato alla Bbc il professor AndrewBrick dell'università di Bristol. Il cammino verso un'applicazione clinica è ancora molto lungo, ma già nel giro di cinque anni si potrebbero avere i primi sviluppi verso un utilizzo di questa nuova procedura anche sull'uomo. da "Superabile.it" Dopo questo e altri articoli sullo stesso argomento apparsi su vari organi di stampa, crediamo opportuno ospitare un intervento della Dottoressa Cristiana Marchese. Ricercatori inglesi e americani hanno riportato sul numero del 6 Novembre 2006 della rivista “Nature” i risultati ottenuti in seguito al trapianto di precursori di fotorecettori nella retina di topi sani e nella retina di topi con degenerazione retinica. Molte malattie che portano a cecità sono infatti causate dalla perdita progressiva dei fotorecettori (bastoncelli e coni) e un trapianto di fotorecettori sembra il modo più ovvio di curare queste malattie. I fotorecettori sono cellule specializzate del sistema nervoso il cui ruolo è quello di trasformare l'energia luminosa in stimolo elettrico che viene poi trasferito tramite altre cellule nervose retiniche e il nervo ottico alla zona del nostro cervello che ha il compito di trasformare in immagine lo stimolo ricevuto. Perché il trapianto sia efficace è però necessario non solo che i fotorecettori trapiantati sopravvivano, ma che stabiliscano le necessarie connessioni (sinapsi) per poter trasmettere lo stimolo ricevuto. Poiché le malattie causate dalla degenerazione dei fotorecettori lasciano, almeno inizialmente, integro il sistema delle altre cellule nervose retiniche, se il trapianto di fotorecettori avviene in tempi precoci, questi hanno ancora disponibile tutto il resto della rete di cellule retiniche funzionanti e devono stabilire soltanto un tipo di connessione (sinapsi). Sino ad ora i tentativi di trapianto con cellule staminali derivate dal cervello o dalla retina non avevano dato buoni risultati, infatti non si integravano nella giusta parte della retina, non si differenziavano in fotorecettori e non stabilivano adeguate connessioni con le altre cellule. In questo esperimento i ricercatori hanno trapiantato cellule (precursori di fotorecettori) derivate da una retina in corso di maturazione e giunte ad un punto di differenziazione subito precedente la trasformazione delle cellule stesse in fotorecettori (in particolare bastoncelli). Le cellule iniettate nella retina sia di animali sani che di animali con degenerazione retinica si sono inserite nella parte corretta della retina, si sono differenziate in bastoncelli , hanno stabilito le corrette connessioni (sinapsi) e i test elettrofisiologici hanno dimostrato ilfunzionamento dei fotorecettori trapiantati. Questo è un importante passo verso la comprensione dei meccanismi che regolano la differenziazione delle cellule in fotorecettori. Si tratta di una ricerca eseguita su animali da esperimento ed è necessaria una certa cautela prima di , poter affermare che è applicabile ai pazienti con degenerazione retinica, anche se per la prima volta èstato dimostrato che le cellule trapiantate sono in grado di funzionare correttamente. Dottoressa Cristiana Marchese Dirigente Medico Genetista ASO Ordine Mauriziano Torino IL MERIDIONE, AVANGUARDIA CONTRO LA RETINITE PIGMENTOSA ISTITUTI GENETICA E BIOFISICA di Michele D'Urso Dirigente di Ricerca dell'Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica del CNR, Napoli LA SCHEDA SCHEDA 1 Prima tappa contro la cecità. Isolato uno dei geni della retinite pigmentosa. La retinite pigmentosa è una malattia ereditaria dell'occhio che provoca nel corso degli anni una progressiva riduzione del campo visivo e rappresenta una delle più frequenti cause di cecità. Si stima che nel mondo ne siano affetti più di un milione e mezzo di individui; in Italia sono almeno quarantacinquemila le persone colpite. Da alcuni anni i ricercatori di tutto il mondo sono perciò impegnati ad individuarne le cause genetiche. L'impresa è tutt'altro che semplice, in quanto la retinite pigmentosa si può presentare in forme diverse (si parla infatti di retiniti pigmentose), con differenti modelli ereditari di trasmissione; non è improbabile che le alterazioni (mutazioni) dei geni responsabili siano addirittura alcune decine. È possibile, quindi, che in due famiglie affette da retinite pigmentosa apparentemente simili per epoca di insorgenza e decorso clinico, i geni che inducono la malattia siano diversi. Risultati incoraggianti sono stati ottenuti, grazie all'identificazione di alcuni di questi geni implicati nella malattia. È facile comprendere quale sia l'interesse pratico di queste acquisizioni: conoscere infatti la causa di malattie genetiche come questa, che spesso possono insorgere non alla nascita (ma anche nell'infanzia, nella giovinezza e perfino in età adulta), significa essere in grado di eseguire una diagnosi preclinica ed addirittura prenatale, in modo da attuare programmi di prevenzione, ed aprire la strada a modelli di cura del tutto innovativi quali la terapia genica. Un'importante scoperta, pubblicata nel numero di maggio della prestigiosa rivista Nature Genetics, riguarda appunto l'isolamento del gene RP3 che, trovandosi su uno dei cromosomi sessuali X, colpisce in modo severo solo i maschi, che ereditano il cromosoma con il gene sbagliato, mentre le femmine (le madri e le figlie degli affetti, ma anche alcune delle loro sorelle) sono soltanto portatrici e, pertanto, a rischio a loro volta di generare altri maschi malati. Circa il 20% dei malati di retinite pigmentosa sono affetti da questa forma. L'RP3 è il primo gene per la retinite pigmentosa identificato mediante la nuova strategia di sequenziamento (sequenziamento posizionale). Le implicazioni di questa scoperta hanno una rilevante importanza non solo ai fini nosografici (classificazione di malattia), ma anche per i nuovi sviluppi della ricerca biochimica, in quanto la proteina predetta rappresenta una nuova classe di proteine coinvolte nel processo della fotorecezione. Introduzione. Con il termine retinite pigmentosa (RP) viene indicato un insieme di retinopatie ereditarie, eterogenee dal punto di vista clinico e genetico, e che colpiscono, primitivamente ed in maniera progressiva, i fotorecettori e l'epitelio pigmentato della retina. La malattia ha una frequenza nella popolazione di 1:4000 e quindi costituisce la causa più frequente di cecità nell'uomo. La sua trasmissione genetica può essere distinta in tre forme: autosomica dominante (ADRP), autosomica recessiva (ARRP) e legata al cromosoma X (XLRP). Si può attualmente affermare che la causa primaria della distruzione progressiva dei fotorecettori nella malattia risieda in anomalie strutturali e funzionali di proteine retiniche coinvolte nel ciclo visivo, risultanti da differenti difetti genetici. Negli ultimi cinque anni nello studio della retinite pigmentosa sono state impiegate con successo tecniche di genetica molecolare che hanno portato a una maggiore comprensione dei meccanismi patogenetici di questo gruppo di malattie. Infatti l'identificazione di molti marcatori genetici altamente polimorfici ha facilitato la localizzazione di alcuni geni responsabili della malattia, mentre lo sviluppo di tecniche che permettono di individuare rapidamente ed efficientemente mutazioni ha consentito di indagare su geni "candidati" per la malattia. La retinite pigmentosa mostra un elevato grado di eterogeneità genetica e sinora sono stati clonati e/o mappati oltre 50 geni coinvolti nelle degenerazioni retiniche. Al momento, ben 30 loci distinti sembrano causare forme sindromiche e non per la sola retinite pigmentosa, 9 dei quali sono stati anche identificati. I geni finora identificati tengono però conto solo di una piccola percentuale delle famiglie affette, lasciando perciò presupporre l'esistenza di una complessa cascata di eventi metabolici che regola il processo visivo con il coinvolgimento di un numero ancora imprecisato di geni. Isolamento e caratterizzazione del gene RPGR (RP3). L'eterogeneità genetica evidente nelle forme autosomiche è riscontrabile anche nelle forme di retinite pigmentosa legate al cromosoma X. La XLRP, che in alcune popolazioni ha un'incidenza di circa il 20%, è forse la più devastante forma di RP, a causa dell'esordio precoce (nelle prime due decadi di vita nel maschio affetto) e della severità della malattia, che porta alla cecità completa nel giro di 10-20 anni. La tabella 1 mostra le tappe più importanti nello studio genetico e molecolare della Retinite Pigmentosa legata al cromosoma X. Nel 1984 S.S. Bhattacharya localizzò il primo gene RP sul braccio corto del cromosoma X (Xp11.3), mediante analisi di linkage ad un marcatore polimorfico di DNA. Questo gene, presente tra dieci, forse cento altri geni in una regione di 5 cM, non è stato ancora identificato. Subito dopo, analisi di linkage e tecniche di citogenetica confermarono la presenza di almeno altri due loci genetici per la XLRP e, grazie ad un'estesa delezione cromosomica osservata nel DNA di un individuo affetto da RP, il locus RP3 venne mappato in una regione relativamente piccola e compresa tra due marcatori polimorfici OTC e DXS1110 in Xp21.1. Tabella 1: tappe significative nello studio genetico e molecolare dell'XLRP 1984 Mappaggio per linkage del locus RP2 in Xp11.3. 1985 Eterogeneità genetica in XLRP. Evidenze di un altro locus in Xp21. Lunga delezione cromosomica nel paziente BB (affetto da DMD, CGD, fenotipo McLeod e RP). 1988 Conferma della localizzazione RP3 in Xp21. 1990 L'esistenza del locus RP6 viene suggerita per analisi statistica, in posizione distale a DMD in Xp21. 1995 Un altro locus RP15 viene mappato in Xp22. E' lo stesso di RP6? 1996 Primo gene XLRP, RPGR, che viene identificato. Più tardi l'analisi genetica rivelò la presenza di due altri loci (RP6 e RP15), in posizione più telomerica (Xp22). Attualmente sono stati quindi individuati ben quattro possibili loci candidati tra le regioni Xp11.21 e Xp22.13; RP2 in posizione Xp11.4-p11.23; RP3 in Xp21.11; RP6 in posizione Xp21.3-p21.2 e RP15 in Xp22.13-p22.11. I primi tre seguono una trasmissione genetica recessiva mentre l'ultimo locus è dominante. Nel corso di questi anni vari gruppi di ricerca si erano concentrati sull'isolamento del gene RP3 impiegando le tecniche classiche del "clonaggio posizionale" quali la "cDNA selection" e la "exons trapping" senza alcun successo soddisfacente. L'isolamento del gene RPGR è stata invece possibile grazie ad un'approccio che potremo definire di "sequenziamento posizionale". Questa tecnica richiede il sequenziamento in automatico della regione candidata per il gene responsabile della malattia e, successivamente, l'analisi computazionale della sequenza mediante l'uso di programmi che consentono la predizione di unità di trascrizione. Ciò è possibile solo dopo che l'analisi genetica, con l'uso di marcatori polimorfici, ha determinato la localizzazione cromosomica del locus malattia. Naturalmente lo studio può essere ulteriormente facilitato dalla presenza di grossi riarrangiamenti cromosomici che possono permettere di concentrare l'analisi molecolare su specifiche regioni cromosomiche. Infatti, una delezione all'interno della regione Xp21, presente in un paziente affetto da distrofia muscolare di Duchenne, da granulomatosi cronica, da fenotipo McLeod e retinite pigmentosa, ha portato all'isolamento dei geni responsabili delle patologie sopra indicate. L'individuazione del gene RP3 è risultata estremamente complicata non solo a causa della inaspettata eterogeneità del locus ma è stata ulteriormente complicata dallo studio di un paziente RP, chiamato B.B., che presentava una grossa delezione di 3500 Kb, a cui il gene sembrava strettamente associato. L'analisi di questo paziente aveva inizialmente portato a localizzare il gene RP3 all'interno della delezione stessa, grazie anche all'analisi di linkage di un marcatore genetico DXS7 che è risultato poi essere associato anche al locus RP2 (Figura 1). Successivamente e con l'impiego di altri marcatori polimorfici fiancheggianti la delezione, il locus RP3 è stato, invece, individuato fuori di essa. Il gene infatti è risultato centromerico rispetto alla regione prossimale della delezione, ad una distanza di 400 Kb, dalla stessa. Una mappatura più fine del locus RP3 è stata effettuata grazie all'analisi di un paziente affetto dalla sola RP, chiamato M.O., che presentava una delezione di 75 Kb della regione. È stato possibile quindi costruire una mappa fisica in cloni cosmidici della regione ed isolare un primo gene candidato (SRPX), nel quale però non sono state rilevate mutazioni in pazienti affetti da RP3. Quindi sequenziando per intero due cloni cosmidici che coprono la delezione del paziente M.O. è stato possibile prima individuare una EST (Expressed Sequence-Tagged) nella regione e poi predire, attraverso il programma GRAIL, una possibile unità di trascrizione (il gene RPGR appunto) che si estende per circa 60 kb ed è costituito da 19 esoni. Un'analisi più accurata ha evidenziato che questo gene è espresso in tutti i tessuti, codifica un trascritto di 2784 bp la cui open reading frame (ORF) è di 2446 bp e che la proteina prodotta è costituita da 815 aminoacidi. Tale proteina è stata innanzitutto chiamata RPGR (RP GTPase Regulator) perché nella regione ammino terminale sono presenti sei elementi RCC1 (regolatore della condensazione cromosomica) ripetuti in tandem e caratteristici di un fattore di scambio della guanina altamente conservato, la cui funzione è quella di regolare una piccola proteina nucleare GTPase-Ran (Rasrelated nuclear protein). Tabella 2: Mutazioni in 7 famiglie con RP3 Nome Sostituzione del Mutazione Famiglia(#DNA) nucleotide (nt) Dex14/15 delezione esoni delezione RP16/489 14,15 inframe G52X nt213G -> T Gly -> Stop a 52 RP07/122 H89Q nt353C -> A His -> Gln a 98 F47/29 W194X nt640G -> A Trp -> Stop a 194 F50/31 G215V nt703G -> T Gly -> Val a 215 RP49/S474 C250R nt807T -> C Cys -> Arg a 250 F75/52 DTISY1296 delezione di 16 bp delezione RP0259 nt945-959 in-frame. Quest'ultima appartiene alla superfamiglia delle proteine Ras (piccole GTPase) che, a differenza delle altre ha prevalentemente una localizzazione nucleare e manca, nella regione C-terminale, di un sito di isoprenilazione indispensabile per il suo ancoraggio. La proteina Ran è ubiquitaria ed è implicata in numerose funzioni cellulari quali il ciclo cellulare, il trasporto intra- ed extra-nucleare, la sintesi del DNA e la maturazione dell'RNA. RCC1 è un polipeptide di 421 aminoacidi che promuove la fosforilazione del GDP a GTP e stabilizza la conformazione attiva di Ran-GTP. La presenza dei repeats RCC1 in RPGR suggerisce una possibile interazione con una nuova isoforma di Ran comportandosi come fattore di regolazione del ciclo cellulare e del trasporto molecolare nella retina. Analisi delle mutazioni in pazienti XLRP. Nonostante il locus RP3 risulti strettamente associato al gene malattia (70-90% dei casi a seconda delle popolazioni studiate), solo in 7 pazienti su 74 sono state individuate mutazioni in questo gene (due delezioni e cinque mutazioni puntiformi, comprendenti due mutazioni non senso e tre missenso) (Tabella 2). Probabilmente ciò può dipendere dal fatto che le comuni mutazioni del gene RPGR non sono tutte individuabili mediante la tecnica della SSCP usata per l'analisi, oppure che le mutazioni possono essere presenti nel promotore o in una regione del gene non ancora identificata, oppure possono essere presenti in un trascritto con siti di splicing alternativi. È probabile che RPGR non sia l'unico responsabile della malattia nella maggior parte dei casi di RP3, e che quindi restino da identificare altri geni coinvolti in RP3. Un'analisi sistematica delle sequenze di RPGR in pazienti geneticamente definiti RP3, e il clonaggio dell'intero cDNA dell'RPGR dalla retina, può aiutare a scegliere tra le possibili ipotesi. Comunque tutte le mutazioni individuate cadono nei repeats RCC1 che, essendo altamente conservati, costituiscono una regione critica per la funzione della proteina. Malgrado il basso numero di mutazioni individuate risulta evidente una grande variabilità genetica, ed è quindi probabile che la maggior parte delle mutazioni RP3 abbia origine indipendente. Le recenti analisi genetiche delle famiglie XLRP, usando markers polimorfici per la regione RP3, mostrano che la maggior parte dei pazienti non imparentati hanno un differente substrato genetico. Questi risultati possono suggerire che il gene (o i geni) RP3 ha un'alta percentuale di mutazioni e che può anche essere responsabile di un inaspettato alto numero di casi sporadici di RP. Conclusioni. RP3 è, quindi, il primo gene della XLRP identificato mediante la tecnica del sequenziamento posizionale. La sua identificazione ha un'importanza rilevante poiché consente la diagnosi delle forme XLRP anche nei casi in cui non è possibile classificare la malattia sulla base dei segni clinici e consente l'individuazione delle femmine portatrici le quali hanno il rischio del 50% di trasmettere la malattia. Inoltre permetterebbe di risolvere almeno in parte quel 40% di casi "sporadici"di RP con storia familiare negativa. Nella stessa regione genomica sono state mappate due altre distrofie retiniche, la distrofia retinica dei coni (COD1) e l'emeralopia notturna congenita stazionaria (CSNB); sarà perciò importante stabilire se mutazioni nel gene RPGR possono causare anche queste malattie. Infine, la scoperta di una nuova famiglia di proteine "RCC1-related" fornirà sicuramente nuovi strumenti per il loro studio biochimico ed il loro ruolo nella funzione retinica nello stato normale e patologico. Ringraziamenti. Il presente lavoro è stato svolto nel laboratorio del Dr. Michele D'Urso, dirigente di ricerca dell'Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica del CNR di Napoli, presso l'Unità di Sequenziamento dell'Area di Ricerca di Napoli, grazie al contributo essenziale dei Dottori Alfredo Ciccodicola, Carmela Migliaccio, Vincenzo Cirigliano ed allo sforzo collaborativo di prestigiosi Centri Europei di Ricerca. Tale gruppo di studio è già da anni coinvolto nel progetto Genoma Umano con rilevanti risultati, e dispone di una notevole esperienza sul sequenziamento automatico del DNA, tecnica con la quale è stata resa possibile questa scoperta. Questi risultati sono stati ottenuti grazie anche ai finanziamenti concessi dall' Associazione Telethon, per lo studio delle malattie genetiche. Inoltre va sottolineato che già da qualche anno è stato intrapreso a Napoli uno studio interdisciplinare sulla retinite pigmentosa, che vede impegnati il CNR di Napoli (con il gruppo del Dr. Michele D'Urso), la Clinica Oculistica della II Università degli Studi di Napoli (Prof. Ernesto Rinaldi, Dott. Francesca Simonelli) e il Servizio di Genetica Medica dell'Ospedale A. Cardarelli (Prof. Valerio Ventruto), nonché l'ORAO, Associazione Campana di non vedenti (Prof. Giuseppe Imbucci). FORI MACULARI, ITALIANI INDIVIDUANO LA TECNICA CHIRURGICA MIGLIORE Colpiscono circa 3 soggetti su mille e sono più frequenti nella popolazione tra i 60 e gli 80 anni, in particolare di sesso femminile . Sono i fori maculari, veri e propri “buchi” della macula, la parte centrale della retina, ovvero quella che ci permette di vedere distintamente gli oggetti, di leggere da vicino, di vedere le cose piccole da lontano, di percepire i colori. Per fortuna, in genere, il foro non si presenta improvvisamente, ma progredisce secondo quattro stadi. Sull’utilità o meno delle diverse tecniche chirurgiche per guarire i fori maculari ci sono sempre state opinioni contrastanti. A far chiarezza sull’argomento ci ha pensato un gruppo di ricercatori della Clinica Oculistica dell’Università di Trieste, diretta da Giuseppe Ravalico. Lo studio, coordinato da Daniele Tognetto, ha raccolto l’esperienza di 28 chirurghi internazionali su più di 1500 casi di foro maculare ed è stato pubblicato su Ophthalmology, una delle riviste più autorevoli del settore. Una delle tecniche microchirurgiche utilizzate nella chirurgia del foro maculare consiste nel togliere la membrana limitante interna, una sottile pellicola presente nella parte più interna della retina, permettendo così la chiusura spontanea del foro ed il recupero della capacità visiva. Lo studio ha messo a confronto un gruppo di pazienti cui è stata rimossa la membrana e un gruppo con cui sono state utilizzate altre tecniche. La tecnica di rimozione della membrana ha dimostrato di garantire un maggior successo chirurgico rispetto alla tecnica senza rimozione. Infatti nel gruppo di pazienti in cui è stata effettuata la rimozione si è ottenuta la chiusura del foro nel 94,1 per cento dei casi, mentre in quello in cui la membrana è stata lasciata in sede solo l’89 per cento dei casi ha raggiunto la chiusura del foro. E’ stato possibile dimostrare inoltre che la probabilità della chiusura del foro è maggiore nel caso di fori più piccoli, cioè allo stadio 2 e 3. L’alto numero di variabili prese in considerazione, tra cui l’età del paziente, la durata dei sintomi, lo stadio del foro maculare ed il tipo di tecnica utilizzata, ha permesso inoltre di stabilire quali siano i fattori più importanti per una corretta prognosi e per il migliore approccio chirurgico secondo le peculiari caratteristiche di ciascun paziente. da "Yahoo Notizie"