Cap 2 visuale, performativo, mediatico 1. Dispositivi visuali/ defiguranti ‹‹La scena, il quadro, il piano, il rettangolo ritagliato, ecco la condizione che permette di pensare il teatro, la pittura, il cinema, la letteratura, cioè tutte le “arti” diverse dalla musica che si potrebbero chiamare: arti diottriche. […]. Tutta l’estetica di Diderot poggia, com’è noto, sulla identificazione della scena teatrale e del quadro pittorico: l’opera perfetta è una successione di quadri, cioè una galleria, un salone: la scena offre allo spettatore “tanti quadri reali” quanti sono, nell’azione, i momenti favorevoli al pittore››.[…]. La scena epica di Brecht, il piano ejzenštejniano sono quadri: sono scene apparecchiate, […] che rispondono perfettamente all’unità drammatica di cui Diderot ha fornito la teoria: ben ritagliate [...]. - Diderot scrive - “Un quadro ben composto è una totalità racchiusa in un solo punto di vista, dove le parti concorrono a un medesimo scopo e formano, con la loro mutua corrispondenza, un insieme altrettanto reale di quelle delle membra in un corpo animale; […]”›› (Barthes,1982 [1985], pp. 90-91). In questo capitolo intendiamo analizzare le interferenze fra teatro e arti visive intese come reciproca codificazione delle arti visive sul teatro e viceversa. In particolare ci interessa capire come si comportano teatro e pittura nel momento in cui non sono più organizzati unitariamente come un organismo e, sciolti entrambi dall’obbligo di rispettare il frame, sperimentano nuovi modi di composizione in cui le materie espressive della pittura passano nel teatro e viceversa: ---1 Un contributo in tale direzione proviene dallo studio di Jurij Lotman (1979), basato sull’ipotesi che il teatro, nella Russia del primo Ottocento, abbia assunto il ruolo di codice traduttore fra il discontinuo della vita e il discreto della pittura, per cui diventa codice traduttore che funziona a doppio senso, codifica e rende discreto il continuum della vita reale e nello stesso tempo viene codificato dalla pittura nei cui confronti è il continuum. ---Considerare questa doppia relazione comporta rintracciare i tratti sensoriali comuni sia al teatro che alle arti visive, tenendo presente che non si tratta più di pittura come nel primo Ottocento - ma di un‘articolata serie di forme espressive in cui le arti visive, nel secondo dopoguerra, si sono declinate (happening, performance, installazione). La modellizzazione dunque, si verifica all’interno del doppio percorso: teatro - arti visive e arti visive-teatro, entrambi, negli ultimi decenni del Novecento, a loro volta, codificati dalle immagini in movimento del video e del cinema. --Per cui il teatro ha modellizzato le arti visive, declinate, nel corso della seconda metà del Novecento, come arte degli ambienti, installazioni, arte cinetica, performance art, che si sono teatralizzate (secondo l’accusa di Michael Fried, 1967) e contemporaneamente, entrambi - teatro e arti visive – sono stati modellizzati dal dispositivo codificatore dominante dei nuovi media. La modellizzazione plastico-visuale della scena teatrale ha introdotto dispositivi defiguranti la rappresentazione mimetica che hanno trasformato lo spettacolo e il suo procedimento costruttivo, nel senso che alla concatenazione del racconto drammatico è subentrato un processo di scomposizione e montaggio. La dominanza del corpogesto-movimento e dello spazio plastico-sonoro, la simultaneità di piani, il trattamento della parola come suono e traccia grafica con valenza plastica, la rottura della coordinazione fra azione e parola, la separazione e autonomia delle materie espressive, la magnificazione della dimensione percettiva, materica, cromatica e luminosa, sono i tratti più rilevanti della drammaturgia visuale. Essa ha modificato la rappresentazione convenzionalmente ordinata del mondo, dando dignità di espressione all’opacità, alle disconnessioni, al processo materiale di costruzione dell’opera e del rapporto di godimento/piacere instaurato con lo spettatore.Tali tratti mettono in crisi la pretesa semiotica di imbrigliare in griglie il testo, ne evidenziano invece la sua natura complessa, l’intreccio di diversi elementi (referenziali, diegetici, narrativi, tematici, contestuali-storici, simbolici). Come scriveva Roland Barthes, un testo è scomponibile in molteplici e interrelati livelli, ovvi e ottusi, nel senso che sfuggono alle misure analitiche, eccedono il decodificabile, il referenziale, l’enunciabile e riguardano lo spettatore, il modo in cui è colpito dall’opera. Il senso ottuso non privilegia i significati ma lascia emergere le materie espressive: luci, colori, corpi, contorni, dettagli che trovano un senso solo attraverso lo sguardo dello spettatore (Cfr. Barthes, 1982 [1985], p. 50). Il dispositivo visuale ha prodotto una drammaturgia antinarrativa, non organizzata per successioni di quadri concatenati, dove il tempo è il presente e l’obbiettivo è suscitare visioni ed emozioni, far succedere qualcosa tra opera e spettatore, un predisporsi, tramite i sensi risvegliati, alla scoperta. Lo spazio è il luogo degli eventi; il teatro è oralità; gesto e corpo: la scrittura di scena procede dalla voce alla pagina e non viceversa, privilegiando i valori fonici e ritmici. Come nelle arti visive, la scena teatrale del secondo Novecento presenta il corpo deformato, compresso, sospeso nel vuoto, assorbito nel colore, smaterializzato, con gli oggetti che diventano ‹‹figure attanziali››, fuori dalla loro scala di grandezza abituale. Corpo e oggetti, ambedue in primo piano, hanno assorbito la dicotomia fra sfondo e figura, eliminando il ruolo gerarchicamente ordinatore attribuito alle azioni del soggetto. Il mondo sulla scena è “natura morta”, pezzi che hanno fatto parte di un intero che si è disintegrato e dispone indifferentemente cose e persone, in quanto il soggetto è ridotto a corpus e il paesaggio è popolato di oggetti che si avvolgono in se stessi. Drammaturgia visuale vuol dire che lo spazio scenico si carica di proprietà temporali e tattili, rendendo densa e palpabile l’esperienza percettiva, mediante sovrimpressioni e simultaneità di azioni. Significa anche mettere in questione l’atto del guardare: se si accantona il colpo d'occhio che coglie il mondo come un insieme interrelato, si sperimentano nuovi modi di guardare, incluso il non poter vedere, l’ostruzione e il disturbo della visione. Moltiplicando i luoghi e le azioni sceniche in simultaneità, sezionando lo spazio in verticale e orizzontale e incorniciando quelle poche cose che vanno intraviste, si riduce in pezzi una totalità per ridare vitalità e energia alla visione. Il teatro che usa come dispositivo costruttivo l’immagine, esprime l’indecifrabilità rispetto alla chiarezza del testo verbale, una realtà instabile la cui conoscenza è intuitiva, che capta frammenti, intermittenze, guarda con le orecchie e ascolta con gli occhi. Il procedimento del collage (incastrare e sovrapporre molte trame), mutuato dalle arti visive, diventa una metodologia costruttiva anti-figurativa e antinarrativa. Invocata da Müller per combattere il descrittivismo e il simbolismo, essa implica un procedimento analitico di destrutturazione della rappresentazione figurativa (in pittura come a teatro) e di messa in evidenza delle materie espressive, delle sconnessioni anziché dei raccordi, della fisicità dei singoli linguaggi. Frantumare le forme e tensione all’unità ------Risaliamo alle origini, quando il rapporto fra teatro e pittura è stato un tema centrale della ricerca delle avanguardie del Novecento volta a sradicare le convenzioni teatrali e alle origini della questione della defigurazione che andiamo a indagare a partire dalla speculazione sull’astrazione.2 -----. Da qui la necessità di modificare il modo naturalistico di percezione e raffigurazione del mondo per rendere “meglio visibile”, cioè più vicino alla realtà, il mondo e nello stesso tempo, come istanza etica: aspirare all’universale e a fare dell’opera un’esperienza condivisa. L’ordine che cercava di rappresentare andava scoperto e ritrovato ‹‹sotto la pelle del visibile››, frantumando le forme . La tensione verso lo spirituale accomunava i maestri e teorici dell’astrazione (ma anche pensatori e artisti come Florenskij, Ejsenštejn, Rilke): obbiettivo è perseguire il bene che è creatività ed elevazione, per cui la ricerca di nuove forme artistiche coincideva con il contrastare il male, identificato con la forma pietrificata, da rimuovere per liberare le energie. Kandinskij difendeva le nuove forme comprese nei due poli de ‹‹la grande astrazione›› e ‹‹il grande realismo››, dall’accusa di essere disordinate e ne rivendicava l’ordine e la sistematicità e, pur evidenziando la diversità, ne sottolineava il comune obbiettivo: ‹‹Astratto e reale sono sempre stati presenti nell’arte, in cui dovevano essere definiti, l’uno come elemento “puramente artistico” e l’altro come elemento “oggettivo”›› (Kandinskij, 1967, p. 137). L’artista lungi dal contrapporre i due poli evidenzia la reciprocità e la tensione di entrambi a ‹‹raggiungere il vertice dell’ideale nell’equilibrio assoluto›› (Ibidem), equilibrio compromesso ai primi del Novecento perché ciascuno tendeva all’autonomia. ----- Per Kandinskij sia il realismo che l’astrazione condividono la tensione a penetrare oltre la superficie della convenzione estetica.3 Astrazione è liberare i segni dalla loro servitù denotativa: ‹‹Quando, nel quadro, una linea viene liberata dall’obbligo di servire a un fine, e cioè di indicare una cosa, e funge essa stessa da cosa, la sua risonanza interiore non viene più indebolita da alcuna funzione accessoria e conserva, tutta intera, la propria forza. […] Il fatto che l’artista si serva di una forma astratta o di una forma reale non ha alcuna importanza›› (Ivi, p. 151). La ricerca di nuove forme da parte dei movimenti artistici dei primi del Novecento - a partire dall’astrazione - segue strade diversificate, sia essa il procedimento di riduzione al minimo (sia dell’elemento artistico che oggettivo), sia quella dell’assimilazione di materiali grezzi, non trattati, esistenti in natura (il collage, il ready-made). In un saggio scritto in occasione del concerto di Russolo a Parigi, cui l’artista aveva avuto modo di assistere, Mondrian sostiene che l’astrazione sorge da ‹‹la più profonda interiorizzazione dell’esteriore e attraverso l’espressione pura e ben definita dell’interiore›› (Mondrian, 1975, p. 166), dal rifiuto del naturale e dalla composizione del disordine (il rumore nel caso della musica). Nel neoplasticismo, come nella nuova musica, non c’è pausa, ma vuoto ‹‹che viene riempito immediatamente dall’individualità dell’ascoltatore›› (Ivi, p. 170) 4. Ritorniamo al quesito se e come il teatro abbia realizzato i principi dell’astrazione e, più in particolare, in che modo la scena teatrale è stata modellizzata dalla pittura. Sarebbe sbagliato far coincidere le speculazioni di Kandinskij (Il problema delle forme) sull’arte - musica, pittura - ai primi del Novecento con la sua sperimentazione scenica, nel senso di assumere Il Suono Giallo come realizzazione del suo manifesto sull’astrazione in teatro 7. I concetti su cui si innesta la sua ideazione scenica appartengono a una poetica d’impronta simbolista: innanzitutto l’idea della distinzione e equivalenza delle arti in base al loro obbiettivo comune, che è produrre l’evento spirituale, ovvero un complesso di vibrazioni che affinano l’anima. Kandinskij contrappone all’unità esteriore dei singoli mezzi espressivi (dramma, parola, suono, danza) la “risonanza e unità interiore” - motivo anche questo simbolista - che si traduce, drammaturgicamente, come rottura della linearità e consequenzialità dell’azione (fabula). In questo contesto di pensiero si inscrive Il Suono Giallo, in cui l’elemento innovativo è il trattamento, tendenzialmente autonomo, di ciascun mezzo espressivo, fermo restante i criteri delle relazioni per contrasti o per trasposizione analogiche (cooperazione e reazione) e il ruolo nuovo assegnato alla luce-colore: ‹‹il tono cromatico assume un significato autonomo e viene trattato come mezzo dotato di diritti uguali agli altri›› (Ivi, p. 196). Le speculazioni e le esperienze teatrali di Laszlo Moholy-Nagy e di Schlemmer al Bauhaus ci sembrano più vicine de Il Suono Giallo alle istanze dell’astrazione. Il rovesciamento della rappresentazione figurativa, la disintegrazione del testo letterario e la dominanza dei codici sonori-cromatici e cinetici-spaziali, sono le premesse delle esperienze dadaiste e futuriste da cui entrambi partono: spezzare la continuità logiconarrativa, ingrandire figure e oggetti deflagrando dai rapporti abituali di scala, sostituire allo sviluppo drammatico ripetizione e simultaneità. Il teatro di Laszlo Moholy-Nagy non ha più al centro la figura umana, la sua psiche e interiorità: in scena prevede marionette, ballerini, acrobati fra piattaforme e ponti, i cui corpi, deformati dai costumi, dalle maschere, dai colori, sono trasformati in scultura.5 Al pari dei teorici dell’arte astratta, l’idea di teatro del Bauhaus mira all’universale:«compito dell’ATTORE FUTURO sarà quello di riportare entro l’azione teatrale ciò che è COMUNE a tutti gli uomini» [Moholy-Nagy, 1975, p. 46]. In sintonia con il pensiero di Ejzenštejn, contrario alla scomposizione fra forma e oggetto, il teatro della totalità è concepito come un organismo dinamico-ritmico in cui i diversi elementi (luce, spazio, movimento, suono, figura umana) si combinano in una forma ridotta ai suoi elementi primari ed essenziali che elimina il dato soggettivo e psicologico e punta ad introdurre le nuove tecnologie elettro-meccaniche ed i materiali artificiali. È un teatro che dispiega stimoli sensoriali, non solo visivi, che punta allo spettacolo, volendo però con ‹‹il gioco visivo rendere visibile e concreto ciò che è al di là delle apparenze immediate e trasforma il teatro in un’operazione magica, in una epifania dell’invisibile›› (Menna, 1975, p. 93). L’ideale è l’unione di tutte le arti, per cui il parallelo fra pittura e musica corre nel comune pretendere alla composizione di colore (suono) e non colore (rumore). Jazz e rumori diventano esempi di un nuovo procedimento espressivo, non descrittivo e non figurativo, in uno sviluppo lineare fra la pittura figurativa e neoplastica, espressione dell’interiorità. In relazione a queste poetiche, uno spettacolo come Deafman Glance (WilsonAndrews, 1971), può essere assunto come esempio significativo di un “teatro immagine” che, nel secondo Novecento, ha realizzato pienamente le istanze di una drammaturgia visuale defigurante. ..Se compito primario dell’arte è creare pause, luoghi, istanti di silenzio per strappare le cose al rumore e all’indistinto e quindi istituire il vedere oltre e al di là del guardare, ovvero un lasciarsi penetrare più in profondità dalle cose, Deafman Glance lasciava intravedere la coincidenza fra fisico e psichico, il rapporto fra materialità delle immagini e loro natura mentale, rieducava lo spettatore ad andare oltre la superficie visibile, ad ascoltare e guardare con altri occhi e, solo allora, scriveva Alain Jouffroy, «il silenzio comincia a parlare» (1971). Come nella musica di John Cage è l’intervallo silenzioso fra un suono e un altro che rende possibile la percezione sonora, così in Deafman Glance l’assenza di testo verbale e sonoro (essere privati dell’udito) magnificava gli altri sensi 6 Frédéric Maurin accosta l’uso della luce e del colore, la vibrazione della materia luminosa di Deafman Glance alla pittura di Rothko, all’espressionismo astratto e al minimalismo di Donald Judd, Carl Andre, Barnett Newman. In effetti Wilson disegna lo spazio scenico secondo figure geometriche, rettangoli, quadrati disposti in orizzontale e in verticale, integrandovi gli attori come in un tableaux vivant. Le azioni sono un modo per percepire il tempo e lo spazio, un’architettura percettiva dalle regole geometriche e pittoriche, composta di minuti, piuttosto che di metri e centimetri, in cui il gesto viene amplificato e messo in risonanza, grazie al fatto che è isolato e limitato nelle direzioni possibili, come in Einstein On the Beach (Wilson, 1976). Rallentare il tempo fino quasi a fermarlo, produce quello che Benjamin (1955 [1966], riferendosi al ralenti cinematografico), chiama l’inconscio ottico, che restituisce allo spettacolo una dimensione auratica. Altro tratto che qualifica la drammaturgia visuale di Wilson è procedere per registri separati, quello visuale distinto da quello sonoro, il che significa che né l’uno contrasta l’altro, né lo commenta, né lo doppia, sono due sistemi di rappresentazione (sonoro-verbale e visuale) che si confrontano in tensione senza precludersi né il contrasto né l’accordo. Come nelle coreografie di Cunningham con musica di Cage, movimento e musica vivevano separatamente, così negli spettacoli di Wilson, sono accostati- differite e ritardate - performance vocale e gestuale. Le voci sono aprassiche, quasi disincarnate e i corpi afoni (come nel bunraku giapponese, dove il gesto non mima la parola ma ne è un’eco a distanza e ritardato). La dissociazione dei canali visivi e sonori, rafforzata grazie al contrappunto della luce e del buio, produce altresì effetti di sinestesia che intensificano le emozioni (Cfr. Maurin, 1998). ------------l’ammutolire dell’arte Come si è visto già in Kandinskij e Mondrian, i fondamenti dell’astrazione non precludono la via al realismo, piuttosto ne rinnovano il concetto: non si tratta di contrapporre il figurativo all’astratto, l’individuale all’universale, il corpo allo spirito, se mai di superare “la plastica tragica” per una penetrazione più profonda nella realtà. Astrazione è esperienza sensibile che permette di recuperare la flagranza percettiva, nel senso che la materia si molecolarizza per intercettare le forze del cosmo, includendo sia la frammentazione che la tensione all’unità. Su tale direttrice lavora la speculazione teorica e la pratica registica di Ejzenštejn, il cui dispositivo principe è il montaggio, paradigma di scissione e sintesi dinamica, secondo cui la frammentarietà della percezione non deve contrastare il realismo dell’immagine. Ejzenštejn criticava l’avanguardia francese cubista e impressionista, come pure Kandinskij, per la separazione di contorno e colore e Moholy-Nagy per la prevalenza dell’analisi sulla sintesi, la moltiplicazione dei punti di vista che dissolvono l’oggetto e osservava che l’eliminazione dell’aspetto visibile dell’oggetto porta via con sé anche la drammaticità del tema. Come Ejzenštejn, anche Florenskij era contrario all’arte cubista, all’immissione della quarta dimensione che implica una violenza al modo di ‹‹vedere l’oggetto artistico come organismo, nella sua “interezza”››, per cui criticava l’azione di smontaggio dell’unità e organicità della forma - anche attraverso la rappresentazione della simultaneità - portata avanti dall’avanguardia del tempo (Picasso incluso) - giudicandola una violenza alla “contemplazione” della forma stessa (Cfr Florenskij, 1993 [1995]) 7. La preoccupazione per il predominio del principio di scomposizione delle forme, per la dispersione della tensione all’unità è espressa anche da Rilke in Worpswede (1902), un saggio in cui metteva in rapporto la scomparsa della figura umana dal paesaggio - come tema figurativo – con l'avvento dell'arte astratta che a sua volta, per lo scrittore, coincideva con il dileguarsi della morale e della bellezza dal mondo. Lo studioso di icone Pàvel Evdokimov ([1972], 1984), ideale seguace di Florenskij, in un momento in cui il dibattito sui temi dell’astrazione, in occidente, si era da tempo spento, riprende in pieno queste tesi: l’astrazione si oppone alla contemplazione, smaterializza l’oggetto, sottrae bellezza e rapporto con il divino. Anche in questo caso l’accusa è duplice, sia di ordine etico che estetico: sopprimendo ogni supporto ontologico, come ogni dato oggettivo, l’opera si dà chiusa in se stessa e, proprio per questo, aperta a tutti i significati possibili. .. Hans Georg Gadamer ([1977], 1986), in un saggio in cui esamina la sparizione della figura umana dal quadro, tenta di superare la polarità frammentazione/unità. Divenire natura morta e quindi, soggetto non degno, secondo i canoni estetici premoderni, di essere raffigurato, per la pittura significa rimuovere l’unità del contenuto figurativo: «Non sono rimaste che relazioni di forme e colori private di qualsiasi supporto concreto, una specie di musica oculare che si impone a noi risuonando dal linguaggio ammutolito delle immagini pittoriche moderne» (Gadamer, 1977 [1986], p. 138). Tale processo, efficacemente definito come ”ammutolimento della pittura”, assenza dell’immagine del volto umano, è la premessa da cui Gadamer procede verso una negoziazione che lo porta aldilà della registrazione dell’assenza come espressione di perdita di bellezza e spiritualità. Ammutolire, sottolinea il filosofo, rovesciando ciò che fin’ora era stato visto come negativo in potenzialmente positivo, non implica non aver nulla da dire, se mai l’affollarsi di tante immagini e parole che si esprimono in un balbettio e che annunciano un venire alla luce: «Nell’ammutolire si approssima ciò che sarebbe necessario dire come qualcosa per il quale siamo alla ricerca di nuove parole» (Ivi, p. 133). Gadamer nel saggio citato, si chiede se esista qualcosa che ridia parola alle immagini mute della pittura moderna, divenute “musica oculare” (riecheggia Florenskij), puri rapporti formali e cromatici che escludono la riconoscibilità mimetica (storia, oggetto), la cornice unitaria da cui cogliere la visione, «l’unità dell’esperienza interiore» (Ivi, p. 139). Non si limita a verificare ciò che si è disintegrato nei modi della raffigurazione pittorica, ma vi integra ciò che emerge: l’arte vive in una realtà in cui la somma e la serie, l’intercambiabilità delle parti sono i nuovi paradigmi, per cui : «[…] cosa può ancora rappresentare in questo mondo contrassegnato dalla scambiabilità la singolarità dell’immagine pittorica?» (Ivi, p. 140). Dal momento che non si tratta più per l’arte né di imitare né di rigenerare la natura, tale sganciamento sia dalla forma esteriore che dall’esperienza interiore (figurativo e astratto) - propone il filosofo - potrebbe portare ad assimilare l’opera (spettacolo, quadro, scultura), agli elementi naturali, dunque né astratti né figurativi. L’opera, è la conclusione di Gadamer, si pone come qualcosa che fa parte della natura, in quanto «ha alcunché di regolare e di cogente» (Ivi, p. 141) e ciò vuol dire che, frantumazione, serialità, disordine sono tratti costitutivi dell’opera che deve però avere una coesione interna «cui nulla manca e nulla è troppo» (Ivi, p. 142). strategie del figurale L’astrazione, si è visto, ha un’anima duplice in cui si inscrivono anche le istanze realistiche che si sono manifestate sia con le avanguardie storiche (la fattografia di Vertov, ad esempio) che con le neoavanguardie. Bisognerebbe riconsiderare l’apporto del realismo nei movimenti d’avanguardia senza connotarlo negativamente come mimetismo naturalistico, come ci invita a fare Hal Foster (1996 [2006], p. 134). La pop art e l’iperrealismo, osserva lo studioso, sono intrisi di immagini referenziali e simulacrali (immagini di immagini) la cui origine si ritrova nella serie di Warhol, Death in America, a proposito della quale Roland Barthes aveva scritto «l’oggetto della pop art […] non è né metaforico né metonimico, esso si offre spoglio di ciò che gli sta dietro e di ciò che lo circonda; […]›› (Barthes, 1982 [1985], p. 198) 8 Anche da questa prospettiva in cui il referente non è dissolto, verifichiamo una riduzione dell’oggetto a immagine di immagine, una sottrazione di significato e profondità, l’allentamento della tensione equilibratrice fra esteriore e interiore che caratterizzava la ricerca dei maestri del primo Novecento. Centrale è diventato dunque il problema di quali strategie adottare per far sì che i procedimenti costruttivi defiguranti, attivi nelle opere del periodo storico che stiamo esaminando, non compromettino la composizione – l’etica della forma, per citare Pietro Montani ( 2007). Una strategia possibile in questa direzione, è il concetto di figurale elaborato da Gilles Deleuze in rapporto all’opera di Francis Bacon che tanta influenza ha avuto sull’universo artistico della seconda metà del Novecento, teatro incluso. La questione è: come sfuggire alla linearità drammatica narrativa, alla figurazione senza imboccare la strada dell’astrazione? Bisogna innanzitutto scartare l’equivoco della deformazione parodica, dell’imitazione che aggredisce il cliché, maltrattandolo e collocandolo fuori contesto. Pur partendo dalle immagini del mondo, dalla stratificazione e densità figurativa dei media di massa, stigmatizza Deleuze, bisogna rifiutare di venire a patti con gli stereotipi visivi. Altra prescrizione normativa implicita nel concetto di figurale è il divieto di collegare figura e sfondo (io-mondo, soggetto-oggetto), che vuol dire concatenazione narrativa: ‹‹Il figurativo (la rappresentazione) - scrive Deleuze - implica infatti il rapporto fra un’immagine e un oggetto che si presume essa voglia illustrare; ma implica anche il rapporto fra un’immagine e altre immagini in un insieme composto, il quale attribuisce precisamente a ciascuna il proprio oggetto. La narrazione è il correlato dell’illustrazione. […]›› (Deleuze, 1981 [1995], pp. 14). Il figurale, nella pittura di Francis Bacon è un dispositivo che opera mediante ‹‹estrazione e isolamento››: ‹‹Isolare è dunque il modo più semplice, necessario ma non sufficiente, per rompere con la rappresentazione, spezzare la narrazione, impedire l’illustrazione, liberare la Figura: attenersi al fatto›› (Ivi, p. 15) 9.La strategia di Bacon è quella di isolare e delimitare la figura nello spazio attraverso un tondo o un volume (un cubo o un parallelepipedo) per cui si crea una continuità, non nel senso che lo spazio contiene il corpo, ma assume la dimensione di una ‹‹struttura materiale spazializzante›› che ingloba le figure e viceversa (Ivi, p. 51). Figurale è realismo della defigurazione: nelle opere di Francis Bacon, il corpo diventa testa, mentre sarebbe la sua appendice e il volto si deforma, la testa è corpo che ha uno spirito animale, opera un procedimento di disorganizzazione e ripulitura dei tratti individuali, come i corpi imbiancati di Oreste e Pilade nell’Orestea (1995) della Raffaello Sanzio; divenire l’attore corpo e carne, ovvero rimuovere i tratti del personaggio e concepire lo spazio scenico come inglobante la figura (Cfr. Ivi, cap. III). Anche rendere il tempo sensibile in se stesso, sia l’istante che la durata, come avviene nel teatro di Robert Wilson attraverso l’estremo rallentamento dei movimenti, fa parte dei modi di rappresentazione che sfuggono alla figurazione. Verificare l’efficacia teorica-operativa di tale concetto significa recuperare la complessità dell’estetica dell’astrazione (nel contempo manuale e ottica, organica e geometrica, esteriore e spirituale), la sua strategia defigurante e antinarrativa, senza restare intrappolati nella disorganizzazione né negli stereotipi visivi. In questo senso il figurale lavora sulla catastrofe dei valori formali, senza arrivare all’indistinto (ottico puro o manualità violenta come nell’action painting), procede attraverso ‹‹Una composizione (che) è l’organizzazione stessa, ma sul punto di disgregarsi›› (Ivi, p.195), grazie alla velocità e al cambiamento di direzione, alla linea spezzata che non delimita contorni. Il figurale sta nella zona in cui linea manuale e linea ottica non sono incompatibili, perché entrambe, in modo diverso, disgregano ‹‹lo spazio tattileottico della rappresentazione cosiddetta classica e possono entrare per questo in combinazioni e correlazioni nuove e complesse›› (Ivi, p. 197). Quando sulla scena teatrale la luce e il colore si liberano e diventano indipendenti giocando sui rapporti di valore (contrasto di bianco e nero, chiaro e scuro, saturo o rarefatto) o di tonalità (lo spettro dei colori puri), la tattilità penetra nell’ottico, per cui si crea uno spazio aptico che è lontano e vicino insieme. Il figurale risponde alla strategia di disgregare la rappresentazione classica e di preservare la coesione della disgregazione. Si tratta di identificare nuove modalità e strategie narrative: il figurale è una di queste e assume un valore paradigmatico. Se la figura è legata al toccare e il racconto al vedere, puntare sull’aptico, può essere una prospettiva in cui comporre e includere sia figura che racconto, sia soggetto che mondo. Si tratta di spingere l’analisi di Deleuze oltre il limite decostruzionista in cui, nonostante l’opera di Francis Bacon ve lo spinga e ve lo conduca, il nostro resta bloccato 10. la scena tangibile L’astrazione per Tadeusz Kantor si è declinata nelle varie fasi della sua lunga pratica artistica con nomi diversi: Teatro Zero indicava un orientamento verso il vuoto, un processo in cui allentare, spezzare le concatenazioni:‹‹Disprezzo dello svolgimento/degli avvenimenti (testo), /creazione di una zona di libera attività[…]. Ripetizione automatica›› (Kantor, 2000 [1977], p. 113) e insieme eliminazione degli impulsi, delle emozioni, dei significati, non interpretazione dell’attore della parte prevista dal testo, ma un far funzionare il testo e l’attore come sistemi indipendenti. Il teatro di Kantor esprime pienamente la coincidenza di astrazione e realismo, in quanto sottrae il convenzionale rivestimento artistico e la fungibilità familiare dell’oggetto. Sulla scena degli spettacoli di Tadeusz Kantor vaga una umanità ferita, mutilata, deforme, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti, alle guerre, allo stalinismo. Il suo teatro ha origine nelle arti visive e nei movimenti in cui queste, dalla seconda guerra mondiale, si sono declinate (surrealismo, happening, informale…). Il rapporto fra spettacolo e testo verbale è di reciproca autonomia: questo costituisce un registro che non viene illustrato dalle azioni degli attori, né dai loro gesti, entrambi vivono separatamente (come in Wilson) e lo spettacolo si costruisce per scomposizione dei legami e dei raccordi di causa-effetto, temporali, ecc., secondo categorie prese dalle arti visive. È un teatro in cui il procedimento defigurante è in opera, in cui cade il rapporto tra figura e sfondo e la scena si presenta come piano avanzato e tangibile, divenendo tattile-ottico-sonora. In Gallinella acquatica (Kurka wodna, 1967), l’attore non indossava dei costumi, ma forme astratte create dalla pittrice Maria Jarema: «Cosa possiamo fare per distruggere la forma singolare e personale dell’attore affinché divenga materia?” Materia umana, materia senza le caratteristiche di un individuo; materia decomposta, naturalmente, perché quando si vuole conoscere la materia, bisogna scomporla›› (Kantor in Quadri, 1984, p. 19). E la stessa operazione viene condotta sul linguaggio verbale: come ridurlo a materia? Ed ecco l’introduzione di borbottii, balbettii - per cui diventa incomprensibile - gesti sonori (piangere, gridare, sputare), mescolati con altri materiali sonori (cani che abbaiano). Attraverso il paradigma dell’informale, dispositivi costruttivi dello spettacolo diventano il caso, la spontaneità, la materia decomposta (fango, argilla, pasta), l’assemblage :infatti gli attori erano imballati con i loro stessi abiti e scarpe e costretti a trasportare zaini e valigie smisurati. Gli spettacoli di Kantor sono popolati da oggetti trovati ma, a differenza di Duchamp, mettere in scena detriti, oggetti buttati, non discende da un voler demistificare l’arte e i suoi apparati, quanto da un profondo senso etico di stampo adorniano: non è più possibile costruire l’oggetto artistico, l’opera «[…] bisogna solo prendere, strappare l’oggetto dalla vita e dargli il nome di opera d’arte» (Ivi, p. 22). E, mentre l’operazione di Duchamp di collocare l’oggetto trovato su un piedistallo lo sterilizza, rispetto alla carica materica e vitalistica che la sua origine gli attribuisce, gli oggetti di Kantor conservano la tensione e la drammaticità di qualcosa di vivo. Oggetti trovati e attori imballati come pacchi costituiscono un insieme reversibile. Architettura e scultura sconfinano, come i manichini e gli attori con il viso bianco di biacca, seduti sui banchi di scuola de La Classe morta (Umarla klasa, 1975) 11. Abbiamo visto che Rilke (1902) aveva messo in rapporto la sparizione della figura umana dal paesaggio con la comparsa dell’arte astratta, relazione che si riscontra nel teatro di Kantor dove oggetto e figura umana convivono con pari funzioni, nel senso che l’essere vivente diventa corpus, pari a un oggetto trovato, salvato dalla spazzatura, dalle discariche, dall’abbandono, «l’oggetto misero, povero, non in grado di essere utile nella vita, alla soglia dell’immondezzaio, un oggetto che destava pietà e COMMOZIONE!!» (Ivi, p. 15), come una “ruota del carro infangata”, in grado di fare concorrenza all’attore sulla scena. Se viene reinventato il rapporto tra corpo e oggetto, ciò accade in uno spazio che è vivente , non è semplice cornice, capace di sperimentare molteplici possibilità, di caduta ed elevazione, di oscillazione, di avvicinamento e allontanamento, un multispazio, dotato di energia dove avvengono gli Emballages di Kantor (1962) che sono contemporanei alle Antropometrie di Klein, cerimonie di smaterializzazione e distruzione. Nel teatro di Tadeusz Kantor gli oggetti, viventi, si trasformano, per cui una culla diventa uno strumento di tortura ginecologico, un letto girevole uno strumento di morte, un armadio un imballaggio di corpi-materie, congegno meccanico che prima comprime e imballa gli attori e poi li espelle, macchina che impedisce loro la possibilità di esistere come attori e di recitare. E, dal momento che corpi e oggetti insieme, avendo analogo trattamento (ne Umarla klasa, 1975 [La classe morta]), sono affiancati sullo stesso banco - l’attore in carne e ossa e la sua copia, un manichino di cera-, entrambi aspirano ad assumere e assumano la dimensione del corpo morto. ‹‹Per me - è Kantor che parla - il modello per l’attore è il morto. L’uomo morto ha le stesse caratteristiche che deve avere l’attore. Il cadavere attira l’attenzione della gente e la respinge: la stessa cosa deve avvenire per l’attore. Deve attirare e respingere […] E deve essere morto, deve essere separato per sempre, in maniera inimmaginabile, dagli spettatori. […] Creare una barriera invisibile, come quella che sta fra i morti e i vivi.›› (Quadri, 1984, p.29). Concepire lo spettacolo secondo i procedimenti figurativi dell’astrazione e dell’informale per Kantor ha significato trasferire sulla scena teatrale concetti quali spazio, tensione, movimento, figure geometriche, come la linea retta e il punto, affermare l’autonomia dello spettacolo dalla mimesi naturalistica, opera autosufficiente, puro prodotto della mente e del cervello umano. Nello stesso tempo ha significato rappresentare l’organico, l’azione che scaturisce da situazioni psicologiche ed emozionali primarie come paura, vergogna, sofferenza, violenza; stati patologici come le malattie, la vecchiaia, la morte; fatti veri (in Crepino gli artisti [1985] viene data lettura della lettera di Mejerchol’d che chiedeva la grazia a Stalin) e luoghi reali. Il teatro di Kantor mette in scena una realtà profonda (non solo un’esperienza ottica ma mentale e immaginativa) strappata, al già visto e conosciuto, per porre in risalto la ‹‹materia cruda dell’esistenza›› (Ivi, p. 34), non i casi particolari, borghesi, privati, ma universali (astrazione spirituale) e collettivi, sociali (costruttivismo rivoluzionario). 2 dispositivi performativi Happening, environment, Performance Art ‹‹Tutto è permesso se assumiamo lo zero come base›› (Cage 1987[1996], p. 286) All’interno del percorso a doppio senso teatro-arti visive, avviene che il teatro assuma qualità spaziali e la pittura temporali: la scultura minimalista, in particolare, ricorre ai codici "teatrali" per dispiegare ‹‹quella percezione complessa del luogo, del continuum fisico della percezione, alla quale mirava.›› (Maragliano, 2003, p. 235). Harold Rosenberg (1964 [1959]). aveva rilevato che, con l’action painting, il gesto dell’esecuzione dell’artista diventa la sostanza dell’opera: il pittore diventa actor, per cui il quadro diviene il dramma dove si svolge prima l’attività del pittore e poi quella dello spettatore. La valorizzazione dell’azione performativa sia a teatro che nelle arti visive era stata invocata come modalità per liberarsi sia dal formalismo che dal moralismo che minavano l’autonomia dell’esperienza artistica, la sua libertà di sperimentare i linguaggi e di rinnovare i comportamenti. L'estetica dell'effimero, perseguita con varie strategie dalle neo-avanguardie con la Body e la Land Art, ecc., enfatizzava la sensorialità istantanea del gesto artistico, l'uso del dispositivo del fortuito, dell'errore e dell'ignoranza come procedimenti che sostituiscono competenza e abilità, l'opera con l'azione, l’estetica con la psicologia e la sociologia. Portare l'attenzione alle circostanze di produzione e ricezione dell'opera - secondo l'insegnamento semiotico e antropologico -, magnificava il processo rispetto all'opera finita, responsabilizzava lo spettatore, attivandolo fisicamente oltre che percettivamente. Joseph Beuys incarna il modello ideale di artista, colui che traccia una linea rossa che va dal movimento Fluxus alla Performance art, in nome di un tutto estetico che si esprime in azioni extra-artistiche , come piantare degli alberi. Nei primi anni sessanta la tendenza alla dematerializzazione dei processi artistici - in opposizione alla mercificazione - è una istanza politica ispirata da situazionisti e da Fluxus che convive, in una feconda contraddizione, con l’oggettualizzazione del corpo umano: le Antropometrie di Yves Klein vedono all’opera corpi di donne in funzione di pennelli. Piero Manzoni negli stessi anni ha firmato corpi come opere d’arte e messo in mostra fiati d’artista, merda d’artista, impronte digitali su uova 12. Concepire inoltre, l’ignoranza delle tecniche come strategia di svuotamento, favoriva il ruolo del caso piuttosto che del progetto e tendeva all’abolizione delle funzioni della memoria considerata inibente l’invenzione. A sostegno di tali idee non era il pensiero nichilista occidentale, ma la concezione orientale dell’azzeramento, «una totale sparizione dell’io» per raggiungere un livello di spersonalizzazione che favorisce nuove forme di comunicazione. La tendenza antipsicologica che ha impregnato profondamente l’arte d’avanguardia nordamericana del secondo Novecento proviene dall’innesto soprattutto del buddismo zen che ha introdotto nelle pratiche artistiche i concetti di aleatorietà e caso, concetti che tendono a sottrarre spazio alla soggettività. Per John Cage avanguardia è sinonimo di invenzione e l’artista è un esperto del non mai sperimentato: avere una condotta etica come artista significa aprirsi al mondo nella sua evenemenzialità, con rigore e disciplina, agire collettivamente perché l’arte è un mezzo di automodificazione individuale e una forza di cambiamento sociale 13. Ignorando la propria tradizione storica e disciplinare, ciascun’arte si è resa disponibile a travalicare il proprio apparato e a diventare altro dall'identità accertata e riconosciuta. In modo particolare per le arti visive, ma - in misura diversa - anche per il teatro, la danza, il cinema, si è trattato di compiere un salto nel vuoto: dallo spazio delimitato della tela dipinta, ai paesaggi naturali della Land Art, dalla superficie pittorica al corpo dell'artista - la Body-Art -, dalla galleria d'arte ai luoghi trovati e imprevedibili dello spazio urbano ed extra-urbano. Il cinema ha immaginato il paesaggio mediatico, le reti intermediali e un rapporto sinestesico con le immagini in movimento (Youngblood, 1970); il teatro ha affidato allo spazio, al gesto, alla visualità e al suono, il ruolo di dispositivi dominanti. L’environment diventa un campo energetico in cui vivere l’utopia della totalità di arte e vita, in cui tutti gli elementi, spettatore incluso interagiscono, comune denominatore di esperienze e movimenti artistici articolati differentemente, dalla Land Art alle installazioni video, alla performance, al teatro ambientale, che basano le loro ricerche su due elementi primari: l’azione dell’artista in un luogo scelto e connotato di volta in volta dalla sua presenza attiva. Il concetto di environment per Tadeusz Kantor coincideva con happening, fare un’azione dove l’ambiente ne fa parte, è esso stesso l’azione, non il contenitore: lavanderie, stazioni, bar, casinò, perfino un ghiacciaio: l’azione performativa si mimetizza con quella reale nelle stesse circostanze e happening a sua volta comportava una estensione dal campo d’azione dell’oggetto ‹‹alla realtà stessa, con i suoi oggetti, con i suoi soggetti, coi suoi materiali, coi suoi esseri umani›› (Kantor, 1977 [2000], p. 128). L’happening, prima della performance 14, è l’espressione dello sconfinamento extradisciplinare sperimentato da artisti visivi: si tratta di una nuova forma di teatro come il collage è una nuova forma di pittura e precisamente di un teatro visuale che aveva rifiutato il palcoscenico, come la pittura aveva rifiutato il quadro, la prospettiva unica, l’idea che tutti gli spettatori debbano vedere nello stesso momento la stessa scena. Connaturato all’happening infatti è il concetto di spazialità, che permea sia le arti visuali che il teatro a partire dalla metà degli anni sessanta del Novecento, l’idea che l’opera debba espandersi nello spazio come un organismo che interagisce con lo spettatore. I primi happening usavano materiali trovati o approntati velocemente, pupazzi, elementi architettonici volti a modificare lo spazio, proiezioni di filmati o diapositive (molto spesso sulle persone e sugli oggetti dell’ambiente); scarso era il materiale verbale e, se c’era, era un monologo (Car Crash, 1960, di Jim Dine) oppure semplici elenchi di parole combinate a caso, senza sintassi. Più rilevante era l’uso della vocalità, della parola come sonorità e come materiale preverbale. Un happening non aveva una struttura con un inizio e una fine, ma procedeva a compartimenti autonomi, a isole. Benché avesse un progetto elaborato, in cui durate e traiettorie dei movimenti erano calcolate con la precisione di una partitura musicale, rimaneva aperto all’imprevedibile; cercava un coinvolgimento fisico e mentale e una interscambiabilità dei ruoli fra spettatore e attore (“lei sarà simultaneamente spettatore e protagonista”, scriveva Kaprow nelle lettere di istruzione che inviava ai potenziali spettatori); svalorizzava la finitezza del fare artistico e metteva l’accento sulla sua dimensione processuale. Ciò che avveniva era lontanissimo da quello che si vedeva sul palcoscenico, non c’erano personaggi, non c’era interpretazione di caratteri, ma prevalentemente delle azioni semplici come camminare secondo una traiettoria disegnata o anche eseguire dei movimenti che avevano più a che fare con la ginnastica e con l’acrobatica. Nell’happening si realizzava qualcosa in tempo reale (dipingere una tela o costruire un oggetto), si eseguivano delle azioni semplici come lavarsi i denti, far rimbalzare una palla, guidare un’automobile, lanciare fagioli secchi sugli spettatori, far scoppiare dei sacchetti di plastica pieni di vernice. Lo spettatore (sia nei primi happening che negli spettacoli di teatro ambientale) non era messo in condizioni di vedere tutto, ma costretto a scegliere una posizione di volta in volta: stava dentro l’ambiente, non guardava lo spettacolo. Nella Performance Art si sono incontrati le arti dello spazio con quelle del tempo in un interscambio che ha portato entrambi fuori dai propri stabiliti confini - galleria o teatro - per mimetizzarsi con la natura e l’ambiente, in un transfert fra animato e inanimato, come avveniva con le performance di land art, di arte povera e concettuale 15. Nello spazio si sprigiona l’energia del performer e la sensibilità del soggetto che lo abita, da cui partire per ricostruire una identità, per sapere «dove mi trovo e chi sono» (le locations del gruppo californiano dei Soon Three sono un esempio “di genere”). Peter Brook ha ambientato molti suoi spettacoli (Orghast come il Mahabharata) in paesaggi naturali, valli, cave, luoghi segreti e inaccessibili in cui si svolge l’evento, in accordo con il luogo scelto, dal tramonto all’alba. Richard Long, artista visivo, intraprendeva lunghi viaggi a piedi e lungo il cammino tracciava dei disegni (Cerchi sulla spiaggia e Quadrati sull’erba, 1967), raccoglieva pietre e rocce con cui componeva, alla fine del viaggio, sculture e installazioni nel museo o nella galleria. Michael Heizer scavava nel deserto forme geometriche (Quadrato cm 122 x 12, 1967), Jannis Kounellis e Mario Merz sceglievano di installare la loro opera in spazi non istituzionali, per cui un luogo, storicamente e socialmente connotato, come poteva essere una ex fabbrica, diventava un corpo unico con il gesto dell’artista che interveniva a modificarlo. La questione era di rendere indiscernibili il «trovato» - il naturale - con il «costruito» - l’artificiale -, l’arte con la realtà. Sono così entrati nel mondo dell’arte materiali viventi ed effimeri come i pappagalli (1967) e i cavalli (1969) esposti da Kounellis, ma anche i corpi umani della body-art; materiali originari come la terra, l’acqua, il fuoco; d’uso quotidiano (Orchestra di stracci di Michelangelo Pistoletto, 1968), la gomma, la plastica, la creta, il vetro, il cotone e il carbone (Cotoneria e Carboneria di Kounellis 1967-68), sostanze immateriali come il fuoco e il respiro (Yves Klein). Mario Merz espone un igloo fatto di metallo, vetro, fascine, una balla di fieno, un cumulo di terra e la sua stessa automobile. Si prelevano elementi naturali o si imitano con materiali artificiali per marcarne la perdita, nel senso che non si tratta di regressioni ad un originario scomparso quanto di un loro recupero nel presente metropolitano e tecnologico. La questione che tali movimenti artistici affrontavano era il tentativo poderoso di trasformare il processo di produzione-consumo dell’arte in qualcosa di dinamico che coinvolgesse primariamente lo spazio e lo spettatore, investendoli entrambi di una sorta di relazione organica. In questo senso, l’ambiente scelto dall’artista non è in funzione di sfondo che racchiude l’azione in primo piano, non è cornice che la inquadra, ma interviene come elemento strutturale che pone in essere l’opera, non l’accoglie semplicemente. In questa accezione, l’environment va considerato come funzione variabile della rappresentazione, nel senso che può sprigionare una energia propria, capace di agire distruttivamente nei suoi confronti 16. È il destinatario che dà senso alla performance, dominio “dei creativi di tutti i tipi”, di quel nuovo spettatore informato e avventuroso per il quale l’arte non è più un territorio sacro da guardare con reverenza, perché qualsiasi persona, anche se priva di educazione artistica poteva annunciare una piéce ed eseguirla, fotografarla, pubblicarla, descriverla in un catalogo (Cfr. Battcock, Nickas, 1984). La performance è arte viva (la presenza del presente), non ha possibilità di replica, è arte dell’esperienza, è radicale perché mira a cambiare la vita delle persone che la praticano, implica rischio personale e fisico del performer connesso anche all’attivazione della coscienza del proprio corpo. “Il corpo non mente” diventa l’assioma di questa estetica antiintellettuale che vuole recuperare la sfera del sensorio e della percezione. La sua ontologia dell’attualità, è che la cosa esiste solo se la provo: “non parlerò del dolore, ma proverò dolore”, è espressione efficace di Laurie Anderson . È in questo contesto di contaminazione artistica e di collaborazione fra musicisti, danzatori, attori, artisti visivi, sulla base di una sentita e condivisa ricerca per reinventare i linguaggi, che si sviluppa la Performance Art dai primi anni Settanta fino al 1975, che vede protagonista il performer, il suo corpo, le sue interazioni con lo spettatore. La sua poetica privilegia il fare, non delimitabile in un oggetto finito; oltrepassa il piano della rappresentazione, del simbolo, della metafora, è oppositiva nei confronti del sistema dell’arte e del valore di scambio dell’opera (infatti avveniva negli spazi più imprevedibili, come le strade, la metropolitana, la spiaggia, i boschi e poteva durare un istante, come un anno, sette ore o cinque giorni). Altro aspetto è il “rischio personale del performer” che accomuna la performance ai riti di iniziazione: in Velvet Water (1974), Chris Burden, uno dei più radicali performer californiani, immergeva ripetutamente la testa nell’acqua fino a che le forze non lo abbandonavano Nello sviluppo della Performance Art insieme alla musica (l’interpretazione spaziale del silenzio che diventa tattile di Cage e i suoni come pura durata, fuori da relazioni armoniche, di La Monte Young), anche la nuova danza ha avuto un ruolo importantissimo (Cunnignham) come libera figurazione del corpo nello spazio in cui non si richiede una particolare abilità, quanto si cercano nuove dimensioni di equilibrio 17. Nelle pratiche artistiche delle neo-avanguardie, l’estetica del vuoto inscritta nel pensiero e nell’opera di John Cage, si è declinata, come a) desoggettivazione e accentuazione dei tratti sensoriali su quelli cognitivi; b) azione vs opera-prodotto; c) rarefazione della densità dei segni per favorire l’installarsi dello spettatore come autore dell’opera e quindi desautorare l’atto di contemplazione; d) forme ibride che conducono il teatro e non solo il teatro fuori dalla sua forma storica; e) antintellettualità e antiprogettualità, per cui ciascun artista si costruiva una propria cultura d’adozione, piuttosto che accogliere la continuità spazio-temporale della sua “tradizione” di appartenenza: libertà di spaziare in qualsiasi campo si volesse attingere per alimentare la pratica sperimentale del proprio laboratorio e nello stesso tempo condivisione “comunitaria” del fare artistico, scambi fra diversi campi disciplinari. materie organiche e inorganiche Rispetto alle due strade espresse dalla tradizione del nuovo - secondo l’analisi di Harold Rosenberg (1959 [1964]) - quella spirituale-astratta (Mondrian e Klee) e l’altra che rappresenta la regressione dell’uomo verso l’inorganico (Bacon e Beckett), il teatro della seconda metà del Novecento ha espresso principalmente la seconda, declinandola in diverse forme: una scena composta con elementi naturali, con corpi e sostanze in putrefazione, con innesti di materie inorganiche su organismi viventi, rappresentando quello che Horkeimer e Adorno (1947 [1966]) hanno descritto come la reificazione della soggettività, il dominio delle cose sull’uomo (ricordiamo le lotte di Carmelo Bene con gli oggetti, i costumi, le armature). Questo processo parte in modo euforico con le avanguardie storiche che rivalutano il ruolo dei materiali, promuovendoli da supporti a materie espressive. Tatlin, negli anni Venti, lanciando il polimaterismo aveva sostenuto la necessità di un rapporto con la scienza, la tecnica e l’industria da cui rifornirsi di materiali nuovi come la plastica e la celluloide, le cui qualità - leggerezza e trasparenza - trasformano la scultura da materiale a immateriale, da volume a luce. L’informale, nel secondo dopoguerra, rivalutava le materie naturali (terra, intonaco, catrame, gesso, sterpi), rovesciando radicalmente la nobile tradizione del marmo, del legno, del bronzo. Entrano a far parte del manipolabile anche i detriti e i rifiuti, così come le materie organiche (sangue, carcasse di animali), come nelle performance de “il Teatro di orge e misteri” di Hermann Nitsch, e insieme a essi il corpo, non solo in quanto artista in azione “l’opera sono io” -, ma come carne, sangue, diventa materia espressiva, come in Meat Joy [1963] di Carolee Schneemann in cui l’artista compone una installazioneperformance con il suo corpo “decorato” con salsicce e pezzi di carne 18. Negli spettacoli di Eimuntas Nekrošius, la presenza di materiali naturali (acqua, fuoco, tronchi d’albero) si legge come accentuazione della dimensione evenemenziale dello spettacolo, come animazione della materia e vivificazione della scena: il divampare delle fiamme, il ghiaccio che si scioglie, l’acqua che trasborda dalle coppe, in Hamletas (1997), danno origine a dei microeventi che sono metafora del passaggio del tempo e della degradazione ad esso connessa. L’acqua è un elemento principale: ne Le Tre Sorelle (1995), Maša si bagna in continuazione in preda all’esasperazione; lo sgocciolamento dei blocchi di ghiaccio appesi al centro della scena “squagliano” la bianca camicia di carta che indossa Amleto durante il suo monologo.----Il teatro che stiamo analizzando è popolato di corpi-materie mutilati, putrefatti, marci, troppo grassi o troppo magri, dai quali si è volatilizzato il desiderio, i sentimenti, la volontà. Nella Fedra (1996) di Sarah Kane, Ippolito è un giovinastro grasso e debosciato che fa sesso per noia, sporco e perennemente intento a guardare la televisione, mangiare patatine fritte e hamburger e a giocare con macchinine telecomandate. Negli spettacoli di Rodrigo Garcia, si è visto, il processo naturale di assimilazione del cibo deraglia, in un gesto incontrollato di ribellione e trova compimento nel Filottete (Müller, 1968) dove gli uomini mangiano i corvi e insieme il corpo malato, ferito, putrefatto di Filottete diventa pasto per corvi, uccelli e cani. Nei testi di Müller per il teatro, il paesaggio di detriti della società industriale (Paesaggio con Argonauti, 1983), di derive meccaniche e di scheletri inorganici, convive con i corpi in decomposizione e putrefazione, le carcasse marce. È un paesaggio che ha qualcosa in più rispetto a quello inorganico, l’odore della carne fresca in decomposizione, il puzzo di carogna, la carne e le ossa fatti a pezzi, apoteosi della decomposizione del ciclo naturale del divenire in cui è incluso l’uomo, senza un ruolo speciale rispetto agli altri esseri viventi. Nell’Orestea della Socìetas Raffaello Sanzio, i corpi grassi di Clitennestra e di Cassandra e quelli magrissimi degli adolescenti efebici (Oreste e Pilade) compongono due serie: quella del corpo grondante sangue di Clitennestra - la serie dell'organismo -, differente da quella del meccanismo, formato dai vari dispositivi motori (pistoni, tubi, batterie), chiamati sia a mettere in azione oggetti inanimati (come il coro rappresentato da statuette di conigli) che persone (il braccio pneumatico che Pilade innesta sul corpo di Oreste affinché uccida la madre). Ciascuna delle due serie è disgiunta e congiunta con l'altra perché anche l'organismo si alimenta e respira attraverso protesi e queste, a loro volta, vivono di vita autonoma. Eseguito l'assassinio della madre, Oreste si stacca dal corpo il braccio (simbolo del fato in quanto è un esecutore dell'ordine dell'oracolo) e questo conserva il movimento impressogli. Così il trono di Agamennone - una sedia girevole - si muove pur essendo rimasta vuota del corpo del re, assassinato. Nello spettacolo i meccanismi, dotati di energia cinetica virtuale, acquistano l'energia cinetica che gli organismi viventi hanno perso morendo e ne impediscono la dissipazione. Avviene cioè un interscambio di energia fra le due serie, restando inalterate le loro reciproche funzioni: l'organismo e il meccanismo sono uniti da una linea di congiunzione (una scintilla, una scarica) che opera lo scambio ed eleva a potenza le differenti nature: è proprio il girare a vuoto del trono che grida la violenza subita dall'organismo. Gli esseri viventi vengono invece bloccati da armature, cinghie di cuoio, protesi, imprigionati in casse, inscatolati sotto vetro e affidano le funzioni vitali (il respirare) a boccagli e tubi, a meccanismi che immobilizzano e impediscono lo scorrere dell'energia. Essendo, i meccanismi, essi stessi attanti di pari grado con gli animali e i corpi degli attori, la loro presenza non marca la differenza fra natura e cultura, né la riduzione della scena a natura morta ma, più realisticamente, integrazione e scambio fra organico e meccanico (Cfr. Castellucci R., Guidi, Castellucci C., 2001, pp. 94-160). 3 dispositivi mediatici Un aspetto di cui non si tiene sufficientemente conto è che l’effetto delle tecnologie non è a senso unico, non si coglie soltanto nella smaterializzazione dei corpi, in un mondo di apparenze e di simulacri, in quanto agisce ambivalentemente fra virtuale e sensoriale (organico), fra imbalsamazione e resuscitazione (dell’aura), amputazione e estensione (delle facoltà cognitive). ------Al suo apparire, nei primi anni settanta, la storica dell’arte nordamericana Rosalind Krauss aveva, per prima, analizzato il ruolo che il dispositivo elettronico giocava all’interno delle nuove pratiche artistiche: l'immagine video, in origine, era indirizzata a tematizzare la relazione con l'alterità, a teatralizzare il rapporto tra opera e spettatore, fuori da intenti narrativi: gli artisti minimal erano affascinati da ‹‹opere spaziali o temporali composte da elementi identici, nelle quali perciò la ripetizione dello stesso andava a costituire un intero che, a differenza della Gestalt tradizionale, non risultava superiore alla somma delle sue parti, […]›› (Maragliano, 2003, pp. 231- 232). Enfatizzati erano i tratti dell’addizionalità, ripetizione e assenza di composizione-unità, in antitesi all’arte modernista che invece privilegiava la qualità ottica, la frontalità e il colpo d’occhio. Il modo in cui il dispositivo elettronico e digitale è entrato a modellizzare lo spettacolo teatrale o le nuove forme scaturite dalla sperimentazione degli artisti visivi, come le installazioni 19, dà a vedere che ha lavorato, sul piano drammaturgico, per scomporre l’unitarietà della scena teatrale, l’organismo attoriale, scindendo la voce dal corpo, il corpo reale e quello in immagine: preleva parti, le seziona, le mette in primo piano, ritaglia, costruisce ipertesti, moltiplica i piani, ma enfatizza sempre la dimensione dal vivo, della diretta, magnificando un aspetto che la tv ha mortificato. Questo dispositivo ha favorito l'indebolimento e la sparizione dei confini tra interno ed esterno, arte e non arte, esperienza quotidiana ed estetica, dei limiti che determinano la peculiarità dell'opera e la sua autonomia artistica. A differenza del dispositivo cinematografico che ha modellizzato la scena teatrale in funzione illusionistica, quello elettronico ha operato sia in direzione antillusionistica che di magia, indecidibilità fra il “per finta” e “per davvero”. In particolare ha problematizzato l’atto del guardare, spinto dall’ urgenza di attribuire senso all’immagine. Va in questa direzione la ricerca di Studio Azzuro in rapporto al teatro, alla danza alla musica: l’ipotesi che presiede alla composizione di Delfi (1990, studio per suono, voce, video e buio, da un testo di G. Ritsos, progetto musicale di P. Milesi e M. Ovaia) è la rigenerazione dello sguardo, la riattivazione della percezione visiva che passa attraverso il buio, la rarefazione, occultamento e disvelamento delle immagini: le telecamere a raggi infrarossi (in grado di riprendere senza luce), sono come occhi che affinano altri sensi e favoriscono una percezione aptica 20. ------Tv,cinema,real-time film La codificazione cinematografica della scena teatrale di fine Novecento traduce sul palcoscenico le convenzioni linguistiche elementari del cinema, a volte per destrutturarne la sintassi e l’ordine del discorso, a volte per mimarne la forma espressiva. Tale modellizzazione produce effetti imprevedibili su entrambi i linguaggi, su quello che si lascia modellizzare (il teatro) e sul dominante (il cinema), che in un certo senso viene reinventato L’importazione nella scrittura scenica dello spettacolo di figure proprie del cinema, come i tagli di montaggio (che si producono attraverso il semplice espediente di illuminare alternativamente gli ambienti per indicare quello in cui si svolge la scena), le figure del decoupage cinematografico classico (come il campo e controcampo, le dissolvenze, i mascherini ecc.), riproposte in forme rudimentali, configurano un cinema deflagrato fuori dallo schermo, reinventato sul palcoscenico teatrale in una sorta di spazializzazione dei suoi codici. In tal modo si producono delle figure ibride (installazioni multimedia, cinema espositivo, media live, per citarne alcuni) che portano il teatro, le arti visive, il cinema, oltre le convenzioni della loro forma storica 21 Chi fa teatro, tra gli autori più giovani, si trova a disagio rinchiuso nei confini delle performing arts, non riconoscendosi affatto nelle convenzioni che le regolano. ‹‹In Québec, - afferma Robert Lepage, regista-attore-autore canadese - non c’è tradizione letteraria, cosí la nostra tecnica di scrittura viene effettivamente dalla televisione o dal cinema. Il teatro non è ufficializzato dalla scrittura: non si parla di scrittura teatrale, ma piuttosto di uno spazio di scrittura cinematografica affiliata al teatro›› (Lepage in Fazi, 2003, pp. 95-96). Nella drammaturgia di Robert Lepage l’immagine fissa e in movimento funzianano come dispositivo codificatore dominante: spazialità multipla, luci, giochi di ombre, immagini cinematografiche e video, dal vivo o registrate, provenienti da spy camere o da videocamere a raggi infrarossi, evidenziano un sottotesto, mostrano il lato nascosto dei protagonisti (interiorità, memoria, traumi ecc.), fanno da raccordo alla successione delle scene, le rendono tridimensionali e le contestualizzano. Nello spazio scenico strutturato da Lepage e dalla sua équipe per The Seven Streams of the River Ota (1994-96), la bidimensionalità è data dalle pareti di una casa che si chiudono e diventano schermi di proiezioni, superfici specchianti che moltiplicano i corpi degli attori e nello stesso tempo si aprono e compongono profondità, spazi tridimensionali, interni arredati, diversi luoghi fra loro comunicanti. Il palcoscenico si trasforma in un monitor video sezionato dallo squeeze in orizzontale e verticale in modo che in ogni quadrato possano scorrere immagini diverse, cosa che dà allo spettacolo una dimensione esasperatamente realistica, opposta alla natura del teatro 22. Lo spettacolo è un valido esempio di cosa può diventare il teatro quando a dominare la messainscena teatrale sono criteri costruttivi trasposti dai media di massa (cinema e tv). Nello spazio compresso del palcoscenico-monitor, la recitazione degli attori sottostà a una medietà che rifugge sia dai primi piani che dalle scene d'insieme, dispiegando una gestualità minuta non esente da forzature macchiettistiche, mantenendo con eccezionale abilità l'espressione vocale sui toni di un colloquiale sussurrato, proprio della comunicazione personale che si instaura fra personaggio e spettatore, che è una peculiarità della TV, parlare a un tu che sta ad ascoltare annullando le distanze spazio temporali. Ne risulta uno spettacolo dal ritmo fluido, in cui la tecnologia più che ostentata in scena lavora dentro il corpo dello spettacolo per rendere omogenei le differenti materie espressive e quindi lavora al servizio dell’illusione scenica, di tipo naturalistico, che fa scivolare la rappresentazione teatrale con la stessa fluidità e famigliarità percettiva cui lo spettatore odierno è abituato dalla televisione e dal cinema. Esempi significativi di modellizzazione cinematografica della scena teatrale sono alcuni spettacoli il cui dispositivo costruttivo è il live film: né cinema, né teatro, performance dal vivo restituita in immagine, un’immagine che viene composta, mixata in tempo reale, nella diretta di ripresa e montaggio. Il palcoscenico in questo caso è un set cinematografico che mantiene però il qui e ora della scena teatrale, la coincidenza di produzione e comunicazione: un ibrido che è indice dell’attuale oltrepassamento delle convenzioni disciplinari, del totale rimescolamento delle tradizionali categorie estetiche di ciascun mezzo espressivo (tradizione del nuovo comprese) 23 Il real time film è un film che si fa dal vivo, componendosi come sequenza audiovisiva che si produce in tempo reale con i performer sul palcoscenico (ricoperto di tessuto verde, il greenscreen) che vengono ripresi e contemporaneamente proiettati su uno schermo, montati in flussi di immagini. In questa nuova dimensione performativa, la bravura dell’attore non risiede tanto nella interpretazione del personaggio, quanto in una coreografia di movimenti millimetrica che gli attori eseguono dietro le videocamere. Ne risultano immagini “composte”, multiple, nelle quali il braccio di un personaggio può essere “impersonato” dalla spalla di un attore di colore, dall’avambraccio di un bianco e dalla mano con le unghie smaltate di un’attrice. Non si tratta di un raddoppiamento fra le due scene (come negli anni Ottanta la ripresa a circuito chiuso e telecamera fissa), una dal vivo e l’altra in immagine, né di una polarità oppositiva fra l’esuberanza del corpo e la geometria stilizzata dei corpi sezionati dalle cornici degli schermi. La compresenza e coesistenza delle due scene, la prima - la performance live - che genera la seconda la proiezione su schermo – mette insieme nello stesso tempo la sequenza di immagini proiettate - il film - e il making of: vedere i performer/manovratori che manipolano di fronte alle telecamere i loro puppets-props-corpi (una foto, una mano, il proprio volto) e contemporaneamente verificare l’effetto che tale azione produce una volta trasformata in immagine, va in direzione di uno svelamento dell’effetto di simulazione dei mezzi audiovisivi. Ma la fascinazione dell’immagine soverchia con la sua imponenza di dettagli (messa in primo piano, zoom, in e out, dissolvenze, campi lunghi e movimenti di camera), la presenza e l’azione organica dell’attore sul palcoscenico. In Madre assassina, (Teatrino Clandestino, 2004) lo spazio scenico si presenta come una installazione, una grande scatola al cui interno si proiettano su uno spesso velatino nero, le sequenze di azioni, ognuna con il suo setting: interno auto, interno casa, salotto, esterno giardino, mentre il design audio riproduce, con estremo mimetismo, i suoni dell’ambiente, perfettamente amalgamati con le voci recitanti Il linguaggio e la recitazione sono da soap opera o reality televisivo, cosí come lo è il disegno delle scene e gli oggetti (la cinquecento rossa, la cucina italiana anni Cinquanta, i vestiti degli attori), le immagini video che mostrano la strada che scorre dietro al parabrezza della macchina in movimento). Lo spettacolo svolge ordinatamente la messinscena del quotidiano tran tran di una famiglia medio borghese di provincia con il fidanzamento, il matrimonio, la giornata di una casalinga scandita dalla sveglia per portare i bambini a scuola, le chiacchiere con le amiche dal parrucchiere, le serate in compagnia della televisione fino all’acme, che arriva inaspettato, con il gesto in cui una mattina la madre uccide i suoi due bambini. Da qui la scena cambia registro e alle immagini proiettate si integra la presenza reale di un’attrice che intervista, in uno studio televisivo, la madre omicida, svelando il meccanismo con cui è costruito lo spettacolo: gli attori che fino a quel momento avevano prestato solo la loro voce qui e ora alle immagini preregistrate, compaiono sulla scena schermo, così la storia sembra emergere dal buio. Lo spettacolo svela la doppia natura dei media tecnologici, capaci di smaterializzare e nello stesso tempo dare liveness all’incorporeo, oltrepassando la zona dell’immaginario, del fantasma mentale, mescolando indiscernibilmente figure dell’inconscio e figure del quotidiano, rendendole omogenee e reciprocamente interscambiabili, entrambe reali ed entrambe fantasmatiche, senza scarto fra realtà e sogno, quotidiano e memoria, cui ci ha abituato il cinema. Lo spettacolo mette in crisi anche la convenzione dell’illusione, nel senso che non siamo in grado di distinguere se le figure, gli oggetti, gli ambienti siano fisicamente presenti sulla scena o se siano proiezioni che simulano la tridimensionalità. Ciò produce nello spettatore una sensazione di incertezza che non appaga, al contrario lo mette a disagio. I dispositivi elettronici e digitali creano un iperspazio ramificato, a strati, in cui vedi il dietro, il prima, l’altrove, l’oltre, tutto nello stesso contesto spazio-temporale, aguzzano e obnubilano la vista, la scena si spalanca al mondo e nello stesso tempo si racchiude sull’interiorità dell’io, crea uno spazio introspettivo, una camera del pensiero e la visione sostituisce l’azione. Essendo l’altro un simulacro e un fantasma, un doppio, una scissione dell’io, nonostante la liveness che produce in diretta, la voce., prevale una dimensione fantasmatizzata. Note cap II 1. In generale con il termine teatro immagine si definisce la drammaturgia dello spettacolo che ha scardinato la dominanza del testo scritto e che mette al centro i linguaggi plastici. Il volume a cura di Béatrice Picon-Vallin, La Scène et Les Images, raccoglie numerosi saggi dedicati al rapporto della scena con la visualità, a partire dalla rivolta antinaturalista delle avanguardie storiche, (da Craig a Chereau, Langhoff, Ljubimov, Svoboda). Cfr. anche Bonnie Marranca (a cura di), The Teathre of Images, PaJ Publications, New York 1977; S. Sinisi, Cambi di scena, Teatro e arti visive nelle poetiche del Novecento, Bulzoni, Roma 1995. Cfr.anche il volume V.Valentini, G. Mancini (a cura di), Giuseppe Bartolucci Testi critici 1964-1987, Bulzoni, Roma 2007, sia la sezione specifica, pp. 153183, che gli indici della rivista “La scrittura scenica Teatroltre”, ivi pp.385-398. 2. Nel teatro aristotelico la scena riproduce il mondo e lo incornicia, in quello epico lo addita, nel senso che le crepe aperte nel meccanismo dell’illusione sono tese a gettare un ponte fra scena e mondo, in quello metateatrale lo fa trasbordare continuamente fra finzione e realtà, mentre con la dimensione autoriflessiva la scena vive segregata dal mondo . Cfr il saggio di Maurizio Grande, Pirandello e il «teatro nel teatro». Soglie e cornici in “Ciascuno a suo modo” in “Il castello di Elsinore”, anno VIII, 24, 1995 , pp. 33-41, in cui analizza il paradigma del metateatro. 3. Nella speculazione teorica che accompagna la produzione di arte astratta rientra lo studio delle leggi ottiche e dell’atto del guardare che prefigura lo sguardo errante.: «l’occhio che si fissa su un punto (sia questo forma o contenuto) non può abbracciare una grande superficie. L’occhio che vaga disattento su una grande superficie la controlla panoramicamente o ne controlla una parte, ma si impiglia nelle discontinuità esteriori e si smarrisce in contraddizioni» (Ivi, p. 137). 4. In Mondrian il parallelo fra pittura e musica è costante: l’attenzione al ballo, alla fotografia, alla moda, al jazz, ai luoghi popolari, come, i bar, è teso a rinvenire in essi la presenza/assenza del naturale o dell’astratto. Il modo in cui Mondrian immagina l’edificio che dovrà accogliere la musica neoplastica, ci fa pensare alle esperienze di John Cage: ‹‹La sala non dovrà più essere né una sala di teatro né una chiesa […]. Non ci sarà personale a vigilare o servire durante gli intervalli; un buffet automatico o meglio ancora niente buffet. Si potrà, infatti, uscire dall’edificio senza perdere nulla. Le composizioni potrebbero essere, infatti, ripetute da capo di tanto in tanto nello stesso modo, come nei nostri cinematografi lo stesso film viene proiettato di nuovo a ore fissate›› (Mondrian, 1975, p. 182). 5. Se consideriamo la composizione scenica di Kandinskij Il suono giallo (musiche di Schöenberg), ci rendiamo conto che si inscrive nel contesto di un’estetica simbolista, con molti tratti in comune con i progetti di messa in scena di Artaud - i passaggi violenti dalla luce al buio, le mutazioni improvvise di voci e di toni, le brusche interruzioni di suoni e l’irrigidirsi inaspettato dei gesti con cui si chiude la rappresentazione, con l’intenzione di lasciare lo spettatore nella sospensione di un finale ambiguo, proprio della scena del sogno,– con le atmosfere evocate da Maeterlinck – il trattamento della figura umana come massa plastica confusa con gli elementi della natura (i giganti hanno ‹‹strani volti gialli e indistinti›› [Kandinskij, 1967, p. 204)]; - il principio dei contrasti (lacrime e risa, bestemmie e preghiere ‹‹tenebrosa luce nel più solare… giorno›› [Ivi, p. 201]); i passaggi bruschi dai registri alti a quelli bassi della musica, movimenti lentissimi e veloci;inversioni: se la luce aumenta, il suono diminuisce; uso smisurato delle pause, inanimato che si anima e viceversa, animato – il coro che ha un che di legnoso e meccanico. Cfr. Umberto Artioli, Il ritmo e la voce, Shakespeare & Company, Milano1984. 6. E Louis Aragon, ribadiva lo stesso concetto « Lo spettacolo è quello di una guarigione, la nostra, dall’arte fossilizzata, dall’arte appresa, dall’arte dettata. Attinge a una scienza particolare, quella delle probabilità (vorrei dire delle improbabilità). Esso ci guarisce, noi che siamo in platea e nei palchi, dall’essere come tutti, dal non avere i doni divini del sordo, ci fa sordi per il silenzio e magnanimi, di tanto in tanto ci rende l’orecchio per la musica o quella voce respirata dietro la scena che ritma uno strano e meraviglioso valzer […].» (Aragon, 1971 [1978], p. 437). .7. Lo studio di Florenskij sulla temporalità intrinseca alla rappresentazione pittorica - studio pionieristico negli anni venti del Novecento, nella giovane repubblica socialista sovietica, va a indagare l’organizzazione temporale interna all’opera pittorica di cui evidenzia - come gli artisti dell’astrazione, Mondrian e Kandinskij e lo stesso Ejzenštejn avevano teorizzato - la qualità musicale ovvero, quei tratti che producono effetti di tensione, dilatazione, rallentamento, fermate, accelerazione, che guidano lo sguardo dell’osservatore fra stasi e balzi in avanti, come nel montaggio cinematografico. Analizzando le proprietà di questo spazio che ha come centro l’uomo, Florenskij già parlava di percezione aptica, di uno spazio che ha una duplice natura, visiva e tattile: ‹‹Noi lo avvertiamo […] attraverso il “tocco” della vista o delle dita›› (Ivi, p. 231). 8.‹‹Ciò che la pop art vuole, scrive Roland Barthes in L’arte, questa vecchia cosa, è desimbolizzare l’oggetto, dargli l’opacità e l’ottusa caparbietà d’un fatto (John Cage, “L’oggetto è fatto, non simbolo”). Dire che l’oggetto è asimbolico, è negare che esso dispone di uno spazio di profondità e di vicinanza attraverso il quale la sua comparsa può propagare delle vibrazioni di senso: l’oggetto della pop art […] non è né metaforico né metonimico, esso si offre spoglio di ciò che gli sta dietro e di ciò che lo circonda; […]›› (Barthes, 1982 [1985], p. 198). 9 Nella speculazione di Deleuze, abbiamo visto, categoria centrale è il corpo senza organi di Artaud inteso come antiorganismo, ovvero rifiuto di concepire il corpo unitariamente come organizzazione di parti, come macchina e congegno, cui si antepone la carne viva, senza impalcature (L’Amleto mollusco della Raffaello Sanzio) che esprime una capacità nuova e intensa di provare emozioni. Nella prospettiva del corpo senza organi, si disfa l’organismo a vantaggio del corpo e il volto a vantaggio della testa. Ecco che la carne diventa il tratto comune fra uomo e animale, ma una carne priva di struttura ossea, di sostegni di linee, di contorni, ‹‹[…] la colonna vertebrale non è altro che la spada che un carnefice ha fatto scivolare sotto la pelle del corpo di un innocente che dorme›› (Deleuze, 1981 [1995, p. 57). 10. Le tre strade defiguranti che Deleuze individua sono: l’astrattismo che riduce al minimo il caos (ascetico e spirituale) e trascende i dati figurativi («Ha le mani pure, ma non ha mani»), uno spazio ottico non tattile, né manuale che funziona per scelte binarie in opposizione (verticale/orizzontale, bianco e nero). Informale (espressionismo astratto) all’estremità opposta dell’astrazione in quanto accoglie e dispiega il caos privilegiando il manuale anziché l’ottico, scomponendo la materia (esplosione del tratto-linea e della macchia-colore). Con l’action painting, la terza via, l’opera si produce con una danza frenetica del pittore intorno al quadro che non controlla più visivamente, nel senso che il volume, la linea, la superficie non sono più tali, perché lo spazio è manuale, il quadro è impenetrabile, il colore è gestuale e l’occhio non trova riposo perché «tutti i mezzi violenti dell’Action Painting, bastone, spazzola, scopa, straccio, siringa, si scatenano in una pittura-catastrofe […]» (Deleuze, 1981 [1995], p. 175). La differenza di procedimento è che nell’astrazione il flusso si sottopone a un diagramma (forma) che opera in relazione al pianoverticale/orizzontale, al colore, al chiaroscuro, al contrasto di ombra e luce, al corpo nel suo rapporto con lo sfondo, mentre nell’informale la materia non è imbrigliata in diagrammi o griglie 11. Kantor arriva al teatro dalla pittura convinto che ‹‹il teatro non ha un proprio punto di partenza. I punti di partenza sono la letteratura, il dramma, le arti visive, la musica, la danza, l’architettura›› (Kantor, 1988, p. 14. Il primo happening realizzato in Polonia, a Varsavia nel 1965, è stato Grande imballaggio dello stesso artista, e consisteva nell’eseguire un imballaggio di un corpo umano, una donna immobile per strada ‹‹Un uomo con un rotolo di nastro bianco/lo avvolge attorno al corpo della donna,/accuratamente,/in un clima di straordinaria tensione,/con molta precisione,/senza sosta,/avvolge,/fascia,/dappertutto,/ […] alla fine non resta/che la folla e inutile/azione di avvolgere,/imballare,/avvolgere,/ imballare›› (Kantor, 1977 [2000], p. 139). 12. L’opera di Klein coinvolge, nei primi anni sessanta del Novecento, modificazioni rilevanti nel modo di pensare l’arte e le sue pratiche: superare il conflitto e mirare all’indifferenziato, al monocromo. Ciò non lo avvicina però alla pratica situazionista di eliminare la separazione fra produzione artistica e industriale, perché Klein non aspira, come Beuys a estendere i confini dell’arte nel sociale, al contrario esalta l’artista ‹‹“un pittore deve dipingere un unico capolavoro, se stesso, in eterno”›› (Corà, Perlein, 2000 [2001], p. 37). Con la Symphonie-monoton, composta come equivalente musicale dei monocromi, in sintonia con Fluxus, Klein ha esplorato la musica d’ambiente, enfatizzando l’importanza del luogo e la site specific performance, che implica una presa di posizione politica da parte dell’artista, consapevole che il luogo in cui espone fa parte di un sistema. . 13. Il concetto di musicircus nella pratica di John Cage significa far accadere molte cose diverse contemporaneamente, come nella realtà. ‹‹Quando facciamo musica elettronica, dobbiamo inondare la sala di suoni con pochi altoparlanti, ma nella nostra vita di tutti i giorni, i suoni, analogamente agli oggetti visuali, alle cose che si muovono, spuntano da ogni parte intorno a noi. È questo che vorrei imitare, vorrei suscitare fantastici problemi architettonici e tecnologici. Ecco come sarà il teatro. […] in modo da permettere ai suoni di muoversi e creare le sensazioni che provengono da qualsiasi punto nello spazio, generalmente da tutto intorno›› (Cage, 1987 [1996]. p. 314). 14. Intorno al fenomeno happening si è creato un alone mitico, alimentato dalla scarsa conoscenza diretta dei fatti, dal momento che gli spettatori dei primi happening (che fra l’altro si svolgevano in spazi ristretti, come gli studi degli artisti, o in luoghi esterni insoliti, come il cortile del Greenwich Hotel, un parcheggio di automobili), erano pochissimi. La storia di questo fenomeno è affidata essenzialmente al libro di M. Kirby (1968), per cui è una storia nordamericana che ignora il versante europeo. Infatti il primo happening si fa partire dal Black Mountain College nel 1952: ‹‹Ci fu l’happening perché c’era molta gente e molte possibilità, e perché si potè organizzare tutto molto velocemente. Infatti, ci pensai la mattina e tutto venne messo in atto il pomeriggio stesso›› (Cage, 1987 [1996], p. 161). Con lui che teneva una conferenza con lunghi silenzi in cima a una scala, David Tudor che suonava il piano, Rauschenberg che sospendeva tele tutte bianche, i danzatori di Cunningham. Cfr anche Susan Sontag, Against Interpretation, Farrar,Straus& Giroux Inc.1964 A Parigi, Jean Jacques Lebel, il capeggiatore dell’occupazione dell’Odeon durante il maggio francese, già nel 1964 aveva importato entusiasticamente l’happening nel “Festival de la Libre Expression”, cogliendo la dimensione di partecipazione e quella politica., per cui, sintonia con i movimenti studenteschi e operai, interviene nei quartieri e nelle fabbriche, non per portare il teatro, per agire esemplarmente con azioni politiche vere e proprie, arricchite da elementi espressivi. L’happening, quindi, almeno in Europa, dove si è diffuso più tardi rispetto agli Stati Uniti, trova la sua dissoluzione e il suo sbocco nella negazione del teatro, in eventi extrartistici, nell’azione politica diretta. 15. Il tramite della performance art in Italia è stata l’arte povera, alla cui base si trovano la sensualità degli oggetti, il gesto e comportamento dell’artista, la spazialità (sia in senso minimalista che antiminimalista). Cfr. G. Celant, Arte Povera, Mazzotta, Milano 1969, p. 179. Certamente l’attività delle gallerie dirette da Fabio Sargentini è stata importantissima in Italia, unica e precorritrice anche rispetto agli Stati Uniti , insieme alle attività degli Incontri Internazionali d’Arte di Graziella Lonardi. Infatti, alcuni artisti come Vito Acconci, Philip Glass, Terry Riley ,Simone Forti, Steve Paxton, Charlemagne Palestine, Joan Jonas, Trisha Brown, La Monte Young sono stati valorizzati prima in Italia che negli Stati Uniti. In questo senso si può dire che l’Italia e l’Europa sono stati una scena eccellente perché hanno dato attenzione a esperienze innovative che solo successivamente hanno avuto consacrazione ufficiale presso il BAM (Brooklyn Academy of Music). 16. Le differenze fra happening e performance sono rilevanti.. Gli happening sono preparati meticolosamente, non sono improvvisati e prevedono delle repliche, anche al di fuori della presenza dell’autore, per procura. La performance si pone come evento unico (la prima fase), senza prove, progettata mentalmente dall’artista, vede come protagonista unico e assoluto: il performer; è solitaria mentre l’happening è affollato di presenze, fra le quali quelle degli spettatori. La performance invece ha dei testimoni, è veloce e misteriosa, disturba mentre l’happening è mondano. Nell’happening ci sono molti materiali, oggetti, architetture, elementi fisici (cartapesta, blocchi di ghiaccio che si sciolgono, pupazzi, plastica), mentre la performance è concettuale, più astratta e immateriale anche perché (nella seconda fase soprattutto) usa i media elettronici per creare effetti percettivi di riflessione e raddoppiamento. L’happening nasce nella East Coast mentre la performance art nasce nella West Coast nei primi anni Settanta. Differenti sono anche gli artisti che si sono dedicati all’happening da quelli che hanno praticato la performance art (Vito Acconci, Chris Burden, Marina Abramovich e Ulay Terry Fox, Bruce Naumann e moltissimi altri sia negli Stati Uniti che in Europa), anche se comune a entrambi è la provenienza dalle arti visive. Inoltre, la natura immateriale della performance che, in molti casi si negava allo sguardo dello spettatore, in quanto avveniva in spazi poco frequentati o addirittura in solitudine nello studio dell’artista, o non "avvenendo" se non nella mente del performer che la racconta o la pensa ma non la realizza, rendeva indispensabile la documentazione video e fotografica, dal momento che costituiva l'unica prova di un evento senza né repliche, né spettatore. Realizzare un film o un video, per gli artisti visivi come Robert Morris, Richard Serra, Bruce Nauman, era un’esperienza che s’inseriva nella natura autoriflessiva e concettuale della loro pratica artistica. L'aspetto del video certamente più attraente, per gli artisti, era la sua disponibilità a modificarsi, perfino a cancellarsi, in sintonia con la nuova estetica che privilegiava la dimensione processuale del fare artistico e concepiva l'opera come qualcosa di non definitivo, ma in trasformazione come la realtà. 17 Il rapporto fra musica, danza e pittura, negli Usa è stato molto fecondo, alimentato dai vari sodalizi fra Simone Forti e Robert Morris, Joan Jonas e Richard Serra, John Cage e Merce Cunningham, confluito nella Judson Dance Group a New York, cui facevano parte Trisha Brown, Lucinda Childs. Ricordiamo lo spettacolo Dance, (1978) nato dalla collaborazione fra Sol Le Witt, Lucinda Childs e Philip Glass alla Brooklyn Academy of Music. L’influenza più rilevante nel cercare nuove forme e nuovi modi di “usare il corpo”, al di là delle tecniche della danza, ma soprattutto al di là della composizione, nel caso di Simone Forti è stata quella dell’happening di Robert Withman The American Moon (1956), dove la novità scioccante era costituita dalle azioni reali: arrampicarsi, tirare corde, spostare costruzioni. 18. Non dimentichiamo fra i materiali organici, quelli di natura alimentare, il cibo. Citiamo dal saggio Il teatro del cibo di Bonnie Marranca :‹‹Nel periodo del dopoguerra la Pop Art agì sia come critica del consumismo che come sua celebrazione: nelle scatole di minestra e nelle lattine di Coca Cola di Andy Warhol, nelle sculture di cibo di Claes Oldenburg e nelle cucine di James Rosenquist e Roy Lichtenstein. Nello stesso tempo, gli happening includevano cibo e, una delle celebrazioni di questa nuova forma di spettacolo, si chiamò addirittura YAM Festival. Kaprow ebbe il suo Apple Shrine [Santuario della mela] e le sue ambientazioni Eat [Mangiare]. […] E chi può dimenticare il dissacrante pezzo degli anni sessanta di Carolee Schneemann Meat Joy [Gioia della carne] ‐ qualcuno userebbe oggi un titolo come questo? – con le sue salsicce celebrative e polli attorcigliati che si dimenavano, corpi dipinti nello spazio scenico. O la sua documentazione Interior Scroll [Ghirigoro interno] imbrattata di succo di barbabietole e caffè. […] Soprattutto per le donne il cibo ‐ come seduzione, punizione, strumento del desiderio, tabù ‐ assumeva un significato speciale. Esempi dell’uso del cibo nella performance sono dappertutto: le ossessioni alimentari di Rachel Rosenthal, la semiotica della cucina di Martha Rosler, i digiuni di Adrian Piper e le diete di Eleanor Antin, le cerimonie alimentari dei Kipper Kids, i pranzi celebrativi di Suzanne Lacy, i surreali panorami alimentari di Paul McCarthy, la saggia gomma che scricchiola di Hannah Wilke, la vittimizzazione della cioccolata di Karen Finley, la sacra anoressia di Linda Montano›› (Marranca, 2006, pp. 112‐114). 19. Le installazioni multimedia sono una nuova forma espressiva emersa nella metà degli anni settanta dalla sperimentazione degli artisti che avevano esplorato i confini fra arti visive, dispositivo elettronico, performance art, coinvolgendo lo spazio e lo spettatore, le immagini in movimento e il suono. Nell' installazione multimedia si mescolano contraddittoriamente, istanze proprie dell'arte dello spazio e delle arti del tempo: oltre alla dimensione plastica oggettuale, propria della scultura, c'è quella effimera, dell'evento irrepetibile, dipendente dal processo di enunciazione qui e ora. Questa nuova forma espressiva smantella le convenzioni del vedere, le tradizionali norme delle arti plastiche, in quanto lo spettatore si trova cooptato in uno spazio disseminato in cui non ha più l'oggetto da afferrare “a colpo d'occhio”, secondo una prospettiva frontale. 20\. Il testo, dello scrittore greco Ritsos racconta di statue, opere d’arte antiche, che si animano, assumono una voce e uno sguardo e pretendono di vibrare per le emozioni che l’essere contemplate suscita nell’osservatore, uno sguardo vergine che sappia cogliere il loro mistero, a differenza di quello distratto dei turisti (Cfr. Studio Azzurro, 2005 p. 90). Al contrario, ma con significato analogo,in Neither (2004) (progetto di Studio Azzurro da una partitura‐nota di Feldman‐Beckett), protagonista è la luce che genera le immagini, rende visibile e occulta. 21. Il dispositivo elettronico è usato da Peter Sellars sia in funzione straniante (scorporare, raddoppiare, spiare e scrutare, far vedere ciò che non sarebbe evidente, quasi un commento critico) sia nel senso opposto di partecipazione emotiva, coinvolgendo lo spettatore, da una distanza ravvicinata, in scene intime o avvolgendolo in un magma plastico cromatico-luminoso che crea, come la musica, un effetto emozionale. In The Merchant of Venice (1994) un effetto di straniamento si ottiene quando gli attori usano la telecamera in diretta come strumento di dialogo e relazione fra sé e l’altro: anziché rivolgersi all’interlocutore direttamente, lo inquadrano producendo un “effetto maschera”, di deformazione del volto. Analogamente l’attore puntando la telecamera contro il proprio volto e crea un doppio che copre e sottolinea l’assenza di rapporti interpersonali. - -. Negli spettacoli del Wooster Group, media tecnologici e scena teatrale si fronteggiano per esaltare le reciproche differenze:: ‹‹Un performer dal vivo può interagire in diretta con gli altri, - su pellicola o su elettronico/digitale - pre-registrati, oppure la voce può essere separata dal corpo che la emette. A volte la stessa scena è rappresentata da due media diversi, il film e la performance dal vivo, oppure la performance dal vivo e la registrazione radiofonica dello stesso testo. Alcuni dialoghi si ascoltano da una cassetta audio, da un telefono, da registrazioni o dal computer. Un attore dal vivo e un attore in video conversano in tempo reale›› (Marranca, 2006, pp. 183-184). L’effetto che tale compresenza, alternanza, giustapposizione, raddoppiamento provoca è di natura concettuale, riflessiva, straniante: impedisce l’illusione e favorisce la dimensione analitica.. 22. Definito progetto in virtù della sua struttura modulare che si accresce nel tempo di nuovi episodi, The Seven Streams of the River Ota, dedicato all'anniversario della bomba atomica sganciata sulla cittadina giapponese di Hiroshima nel 1945, solleva alcune questioni degne di rilievo. La storia narrata si snoda attraverso due personaggi principali (un fotografo americano e suo figlio) circondati da una galassia di personaggi minori che incarnano con le loro microstorie le conseguenze (nel senso di ciò che si sviluppa nel tempo a partire da) della bomba atomica e dell’Olocausto nazista. Coerentemente all’autentica natura popolare dello spettacolo, Lepage trasforma un soggetto come la persecuzione nazista contro gli ebrei, in una sorta di varietà televisivo. Della struttura del varietà, infatti, lo spettacolo adotta la leggerezza con cui passa da un tema a un altro: dal problema dell'eutanasia del malato di AIDS, alla Parigi del dopoguerra dei cafè‐chantant, al brano di teatro nel teatro con testo di Mishima, alla favola con le marionette Bunraku. Ogni elemento viene passato al setaccio del bricolage culturale, il dispositivo che garantisce la mescolanza multiculturale, fragranze esotiche, alternanze di grave e leggero. Cfr il saggio di AnnaMaria Monteverde, Il teatro di Robert Lepage, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 2004. In Andersen Project (Robert Lepage, 2006), uno spettacolo con un solo attore, l’attore regista interpreta tre personaggi diversi: un drammaturgo-scrittore, un impresario cinico, un clandestino custode di un pornoshop. Tre persone in una, a esprimere la solitudine di ciascuna di esse. Più che uno spettacolo teatrale Andersen Project è costruito come un film, sia per le diverse storie che si intersecano, sia per il rapporto fra figura e sfondo che viene composto in modo realista: un maxischermo che simula la tridimensionalità di uno spazio reale, una strada, un teatro, un parco, sia per la qualità della recitazione, intimista, soffusa.Lo spettacolo usa in modo realista le possibilità portate dalle tecnologie, tendenza che - come abbiamo visto - convive con quella della defigurazione. 23 Gli spettacoli dei Motus, realizzati intorno al progetto Rooms, modellizzano la scena teatrale come un set e una installazione, nel senso che hanno del set la natura minuziosamente realista di scena allestita per la ripresa (luci, oggetti, décor, materiali, estranei alla scenotecnica teatrale classica) e dell’installazione una sorta di autosufficienza che li espone allo sguardo del visitatore di una mostra piuttosto che a quello dello spettatore di teatro. Infatti gli attori, delimitati in uno spazio chiuso, appaiono come sotto una lente di ingrandimento (nel senso che ogni movimento-azione viene amplificato),. La stanza ispirata ai motel di cui parla Don De Lillo in Americana, diventa il soggetto di una serie di spettacoli, nello stesso tempo pubblica, anonima, e intima, impregnata di vissuto ‹‹parallelepipido in plexiglas in Catrame, vuoto e trasparente, essenziale; dove interno ed esterno convivono e convergono, […] stanza/box di violenta confusione e collisione fra corpo e ambiente […]. Poi la “Living Room” bianca e abbagliante di Orlando Furioso, stanze sospese, di ghiaccio, per l’esposizione dei corpi […]. – e êTRANGETE’(1999), - la soglia, porta, passaggio fra chi vede e chi è visto, al di là dello specchio, o meglio della specchiera del salottino borghese […] ancora luoghi chiusi, dove l’esterno preme, il “caos melodioso delle città” spinge dal soffitto, dalle finestre, incombe e ossessiona, invade l’interno›› (Motus, Vacancy rooms, in Art’o, aprile 2001, pp. 61-69). Lo spettacolo Twin Rooms, stanze gemelle (Motus, 2002) si struttura intorno a due luoghi scenici, uno reale e l’altro virtuale, ambiente-schermo su cui si proietta quanto viene registrato nella prima stanza. Il dispositivo del fare un film in tempo reale funziona come destrutturazione della messa in scena, ulteriore livello di esplorazione drammaturgico e narrativo che importa le convenzioni del linguaggio del cinema: voci fuori campo, tagli, dissolvenze incrociate, effetti tendina, sequenze accostate seguendo una logica di montaggio in cui i passaggi da un episodio all’altro sono pensati come veri e propri “raccordi” che lo sguardo dello spettatore, come l’occhio mobile della macchina da presa, deve ricostruire seguendo da una stanza all’altra (ovvero da un lato all’altro del palcoscenico) i personaggi. Sullo schermo viene montata la “storia narrata” in tempo reale, utilizzando le riprese fatte dal vivo da due cameraman in sala con quelle riprese da un attore con microcamera all’interno della scena stessa e con altre preregistrate .Cfr. Motus, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, Sulla necessità dello sguardo: intorno al teatro dei Motus, in in V. Valentini (a cura di), “Biblioteca teatrale. Il teatro di fine millennio”, cit. pp. 255-265; cfr. Motus (Casagrande E., Nicolò D.), Io vivo nelle cose, Ubulibri, Milano, 2006.