LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA: LA STORIA La leucemia mieloide cronica (LMC) è stata descritta per la prima volta da scienziati inglesi e tedeschi nel 18451, che osservarono la morte dei pazienti colpiti dalla malattia entro 12 mesi dalla diagnosi. Dopo più di 100 anni, arrivando ai nostri giorni, la prospettiva per i pazienti con LMC è completamente cambiata. La ricerca ha portato allo sviluppo di nuove opzioni terapeutiche che colpiscono selettivamente le basi molecolari della malattia rendendo la sopravvivenza un obiettivo reale per il paziente. La storia dell’evoluzione nella gestione della LMC è un cardine della medicina. L’importanza del modo in cui la malattia è attualmente trattata va oltre i confini della LMC e del cancro. La leucemia mieloide cronica è una malattia progressiva caratterizzata da una serie di fasi: 1) fase cronica; 2) fase accelerata; 3) fase blastica. Senza alcun trattamento, la progressione attraverso ogni fase è inevitabile e fino a poco fa la LMC era una malattia terminale per i pazienti2. Le opzioni di trattamento disponibili per la gestione della LMC alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento erano insoddisfacenti. Prima degli anni Cinquanta, era utilizzata la radiazione della milza ma era poco efficace o prolungava la sopravvivenza di circa 30 mesi. Negli anni Quaranta furono introdotti i derivati del gas mostarda e in qualche caso prolungarono le aspettative di vita. Comunque si era ancora distanti dal curare le cause della malattia. Negli anni Cinquanta la radioterapia fu sostituita dal busulfano, una chemioterapia basata sull’agente alchilante. Questa cura fu popolare per alcuni anni e aiutò a prolungare la sopravvivenza da 2,5 a 3,5 anni. Ma oggi questa cura non è più usata per la gestione cronica della malattia. Successivamente, l’idrossiurea, agente antineoplastico, sostituì il busulfano3. La LMC ha un tratto distintivo, la presenza del cromosoma Philadelphia. Con la scoperta di questa caratteristica da parte di Nowell e Hungerford negli anni Sessanta, per la prima volta si collegò la mutazione genetica alla malattia. Anche se ciò non ebbe un effetto immediato a quel tempo sui pazienti, fu un momento determinante nella comprensione scientifica della biologia del cancro e rappresentò un passo importante per i ricercatori nella studio di nuovi interventi terapeutici4. All’inizio degli anni Ottanta, vi furono due grandi progressi: i trapianti di cellule staminali da midollo osseo, e l’introduzione della terapia con interferone alfa. Nel 1956 il primo trapianto di midollo osseo ebbe luogo tra due gemelli monozigoti. Anche se la mortalità era alta, si dimostrò che per la prima volta la LMC poteva essere curata 5. Con l’introduzione dell’interferone si ebbe il primo agente sperimentato per sopprimere il cromosoma Philadelphia nel midollo osseo. Presto divenne il trattamento di scelta per quei pazienti non idonei al trapianto di cellule staminali allogeniche6. Ci vollero 24 anni dopo la scoperta del cromosoma Philadelphia perché fosse definito il gene collegato all’anomalia cromosomica, il gene BCR-ABL. Il prodotto di questo gene, la proteina di fusione BCR-ABL, è una tirosin-chinasi, un enzima coinvolto nella segnalazione cellulare. Da un punto di vista terapeutico, gli enzimi possono essere più facilmente ostacolati rispetto a altri tipi di proteina – la capacità di neutralizzarlo era quindi una vera possibilità7. Nel 1998 vi fu un passo in avanti allorché fu usato su un paziente il primo inibitore della tirosin-chinasi, l’imatinib8. Sfortunatamente la resistenza alla cura cominciò ad emergere e fu associata alla riattivazione del segnale BCR-ABL9. Negli ultimi anni, per superare i limiti correlati a questo precursore, i ricercatori biomolecolari hanno concentrato i propri sforzi nel migliorare e superare i limiti della terapia standard, e dunque trovare molecole capaci di essere efficaci anche nei pazienti resistenti. Dasatinib, che nel 2007 ha ricevuto l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte delle autorità europee, rappresenta l’evoluzione di questo concetto. Questa molecola, infatti, mostra una maggior affinità per la proteina BCR-ABL e ciò si riflette in una efficacia terapeutica anche nei pazienti con LMC resistenti o intolleranti. L’esecuzione di test mutazionali sui pazienti affetti da Leucemia Mieloide Cronica, resistenti a imatinib, è particolarmente importante per determinare se sono presenti mutazioni nelle proteine BCR-ABL e per adottare strategie terapeutiche alternative. Ulteriori informazioni: 1 Randolph T. Chronic Myelocytic Leukemia - Part I: History, clinical presentation, and molecular biology. Clin Lab Sci. 2005;18(1):38-48 2 Jabbour E et al. Targeted therapy in chronic myeloid leukemia. Expert Rev Anticancer Ther 2008;8(1):99-110 3 Geary CG. The story of chronic myeloid leukaemia. Br J Haematol. 2000;110(1):2-11 4 Randolph T. Chronic Myelocytic Leukemia - Part I: History, clinical presentation, and molecular biology. Clin Lab Sci. 2005;18(1):38-48 5 Biotechnology Learning Hub. Timeline for bone marrow transplants. Available at: http://www.biotechlearn.org.nz/themes/biotech_therapies/timeline_for_ bone_marrow_transplants (Last accessed June 2008) 6 Mughal TI et al. Chronic myeloid leukemia: current status and controversies. Onc. 2004;18(7):837-844 7 Druker BJ. Investigator profile. J Hematother Stem Cell Res. 2001;10(6):721-724 8 Druker BJ. Investigator profile. J Hematother Stem Cell Res. 2001;10(6):721-724 9 Gorre ME et al. Clinical resistance to STI-571 cancer therapy caused by BCR-ABL gene mutation or amplification. Science. 2001;293(5531):876-880