Viaggio in... Tibet ... ... Andare sul tetto del mondo è un’esperienza unica e indimenticabile Testo e foto di Carmine Negro «Il 22enne Tsering Tashi, conosciuto anche come Tsebe, si è dato fuoco nella città di Achok, nella prefettura di Kanlho (Gannan per i cinesi), nella provincia cinese del Gansu, alle 13 circa del 12 gennaio 2013 e lì e morto poco dopo a causa delle ferite riportate. Dandosi fuoco, il giovane ha urlato slogan per la liberazione del Tibet e in favore del ritorno del Dalai Lama». Leggo su un vecchio foglio di giornale l’annuncio della morte di Tsebe e mi ritornano alla mente le immagini e le emozioni di un viaggio che mi hanno segnato e che ho rimosso, come tanti occidentali che ascoltano le ultime che provengono da questa parte del mondo e aspettano che le notizie si sbiadiscano come i fogli dei giornali che le riportano. Eppure andare sul tetto del mondo è un’esperienza unica e indimenticabile. L’aria rarefatta e frizzante, i versanti delle montagne punteggiati e animati dai tanti Yak al pascolo, le cime delle montagne più alte del mondo, i laghi, incastonati tra le montagne di un intenso cobalto, le acque dei grandi fiumi sacri che iniziano la loro corsa verso le grandi pianure smarriscono i sensi, colorano il viaggio di atmosfere magiche e misteriose. L’incontro con una terra che concentra tanti primati diventa una esperienza, piena di attrazione, fascino e ricca di avvenimenti e, proprio per questo, difficile da tradurre in parole. Si ha la sensazione di non riuscire a descrivere l’evento-viaggio senza sminuirlo, di non riuscire a con- dividere una esperienza che coinvolge sentimenti, impressioni e stati d’animo senza trasformare la natura stessa del viaggio che da collettivo diventa intimo e personale. Girando l’altopiano in lungo e in largo si può osservare certo l’aspetto “turistico”, presente nelle principali città ma soprattutto si può scrutare quello meno conosciuto, ma ugualmente interessante dei piccoli villaggi: vere e proprie realtà fuori dal mondo. Se è vero che si resta incantati dai paesaggi, impressionanti e mozzafiato, si è soprattutto attratti e conquistati dagli usi e dai costumi della vita quotidiana, dai monasteri e dalla loro arte che dicono di un popolo mite, che utilizza il corpo come strumento privilegiato di relazione e un sorriso discreto, cordiale e contagioso per raccontare una cultura millenaria profondamente legata al buddismo che è più una filosofia di vita che una religione. I tibetani hanno la leggendaria caratteristica di saper sopravvivere a temperature molto fredde e notevoli altitudini, come quelle presenti negli altopiani del Tibet. Alcuni scienziati hanno affermato di aver isolato il gene responsabile di questo speciale adattamento; un gene che migliora la saturazione dell’ossigeno nell’emoglobina e responsabile di un’altra peculiarità: la crescita dei bambini tibetani, molto più rapida di quella dei bambini di altre etnie asiatiche. Il Tibet Paleolithic Project sta studiando la colonizzazione degli altopiani del Tibet risalente all’età della pietra, nella speranza di poter trovare e isolare La Rassegna d’Ischia n. 4/2013 37 definitivamente le cause della straordinaria adattabilità del popolo tibetano ad ambienti così estremi. Il rapporto intenso e viscerale dei tibetani con la loro terra cementato da una religiosità, fatta di spiriti e demoni, testimoni del forte legame con la natura che li circonda, che preesiste al buddhismo e che il buddismo ha saputo ereditare nei suoi insegnamenti e conservare nei suoi templi, rappresenta l’identità non negoziabile di questo popolo, una ricchezza che appartiene all’umanità. Un’agenzia del 21 luglio 2013 riporta che Kunchok Sonam, monaco tibetano di 18 anni, è morto dopo essersi dato fuoco per protestare contro l’oppressione di Pechino, fuori da un monastero nella prefettura cinese di Aba, nella provincia di Sichuan. Una volta esanime, altri monaci avrebbero impedito alla polizia di impadronirsi del cadavere e di portarlo via. Dal febbraio del 2009 sono stati 120 i monaci che hanno manifestato in questo modo rabbia contro la repressione che il regime comunista esercita in Tibet. Una notizia che deve invitare a riflettere le autorità di Pechino, la comunità internazionale, ciascuno di noi. .. Un'esperienza che coinvolge sentimenti, impressioni, stati d'animo in un viaggio che da collettivo diventa intimo e personale.. “Sono le 17,00 e giovani monaci nelle loro vesti rosse riempiono il cortile dei dibattiti del collegio Sera. Alcuni sono seduti, altri partecipano in piedi con il corpo e rumorosi battimani alle discussioni sulle teorie apprese negli studi”. Nei pressi di Lhasa, capitale del Tibet, si trova il complesso monastico di Sera fondato nel 1419. All’epoca della sua massima espansione Sera ospitava cinque collegi per l’insegnamento. Divenne ben presto una delle istituzioni più importanti del buddhismo tibetano, un centro rinomato per l’approfondimento della conoscenza della dottrina di Buddha attraverso lo studio dei sutra, dei tantra e delle pratiche rituali, dell’arte e della letteratura sacra. Nel 1959, anno dell’invasione cinese del Tibet i collegi erano ridotti a tre: Sera Me, dedicato ai precetti fondamentali del buddhismo, Sera Je, preposto all’istruzione dei monaci provenienti dal remoto Tibet centrale e Sera Ngagpa adibito agli studi tantrici. I monaci, un tempo numerosissimi (circa 5000), ora sono stati ridotti a poche centinaia. Sera non subì gravi danni nel decennio della Rivoluzione Culturale, anche se parecchi collegi minori andarono distrutti e i lavori di restauro dei restanti edifici non sono ancora stati terminati. Nel cortile dei dibattiti tra le 15.00 e le 17.00 i monaci si riuniscono a discutere. Non è difficile arrivarci, basta farsi guidare dai suoni dei battimani, che sottolineano i momenti essenziali delle discussioni. È un vero spettacolo assistere a queste discussioni dove gli allievi giovani e i meno giovani si confrontano scandendo le parole con fragorosi battimani che 38 La Rassegna d’Ischia n. 4/2013 animano il confronto sotto l’occhio attento e vigile dei docenti seduti a cerchio in un angolo. Nel 1969 Sera Me venne rifondato nel sud dell’India. Attualmente è uno dei centri più attivi per lo studio e la formazione del buddhismo tibetano. Lo spettacolo proposto dai monaci del monastero di Sera Me è molto ricco e comprende una serie di danze che celebrano in special modo gli animali sacri del buddismo tibetano: il leone delle nevi, lo yak e il cervo, nonché la storia e le leggende di quella cultura. I dieci monaci di Sera Me sono diretti dal Lama Kyabje Gosok Rinpoce, una delle personalità più importanti della tradizione monastica detta “Gelugpa”. “Pervaso dall’odore intenso del burro di yak e animato dal mormorio sommesso dei pellegrini che recitano i mantra il Jokhang, fatto costruire dal re Songtsen per custodire le statue di Buddha della sposa nepalese e della sposa cinese, è l’edificio più sacro e venerato del Tibet”. Situato nel cuore della città vecchia di Lhasa il Barkhor è un quadrilatero di strade che circondano il Jokhang l’edificio sacro più venerato del Tibet. Tradizionali case in stile tibetano e diversi piccoli templi fiancheggiano la strada ricca di negozi e bancarelle dove è possibile acquistare oggetti di devozione come ruote e bandiere di preghiera, statue buddhiste, dipinti, ciotole, campane, incenso ma anche prodotti tipici come coltelli, pelletteria, abbigliamento, tappeti e borse. Tanti pellegrini provenienti da terre lontane del Tibet girano in senso orario intorno alla strada, alcuni intonano canti altri si prostrano alla fine del loro viaggio al sacro tempio di Jokhang. Alcuni nomadi si avvicinano alle bancarelle per toccare e valutare un pugnale tempestato di pietre preziose e grossi anelli di osso di yak mentre alcune donne ornate con cinture d’argento sono attratte da orecchini, collane, fili turchesi e coralli intrecciati. Più avanti anziane signore fanno girare instancabilmente la “ruota della preghiera” mentre monaci sorridenti seduti a gambe incrociate sulle pietre del selciato recitano mantra davanti alla loro ciotola delle elemosine. La ricchezza delle merci, la miriade di colori, la moltitudine di etnie danno l’illusione di trovarsi nell’antico Tibet; tre posti di blocco di soldati cinesi, lungo il percorso, con mitra, elmetti ed estintori deterrente per sedare eventuali proteste di fuoco, riportano velocemente nella realtà. Il Tempio Jokhang, il primo e più sacro tempio buddhista in Tibet, presenta differenti caratteristiche architettoniche: indiane, cinesi e nepalesi. Per tutto l’anno moltissimi buddhisti tibetani vengono in pellegrinaggio da tutto il Tibet e altre province come Qinghai, Gansu e Mongolia Interna, solo per visitare questo tempio. Il grande Re Tibetano del Regno di Tubo, Songtsen Gampo (617-650 d.C.), sposò la Principessa nepalese Tritsun e la Principessa cinese Wencheng, ognuna delle quali portò in Tibet una statua di Sakyamuni. A quel tempo c’erano pochi edifici e la maggior parte delle persone vivevano in tende. Per adorare e conservare queste preziosissime statue, e diffondere il buddismo in una zona inospitale, la principessa Wencheng suggerì di costruire due templi; la sua scelta ricadde sul lago Wothang, che dovette essere prosciugato e interrato. Secondo la leggenda una enorme diavolessa era distesa in posizione supina lungo tutto l’altipiano e fu proprio la principessa Wencheng ad intuire la presenza, in quel luogo, di questa creatura malefica. Secondo calcoli basati sulla geomanzia cinese, il cuore della diavolessa giaceva sotto le acque del lago, mentre il busto e gli arti erano molto lontani, nelle zone esterne dell’altopiano. Come in tutti i miti questa figura si presta ad una interpretazione in chiave simbolica: rappresenterebbe la natura inospitale del Tibet ma anche l’ostilità del clero bön alla diffusione della nuova religione. La religione bön era una fede popolare sciamanica incentrata su figure di spiriti e demoni. Per poter radicare il buddhi- smo nel paese era necessario immobilizzare la diavolessa. Per neutralizzarla si decise di svuotare il lago di tutta l’acqua che conteneva (la linfa vitale della diavolessa) costruire nel centro del lago prosciugato un tempio buddista: sorse così il Jokhang. Trafiggere il cuore di una creatura malvagia, di tali dimensioni, non bastava il passo successivo fu quello di erigere una serie di templi minori, disposti in tre cerchi concentrici, per immobilizzare le estremità della diavolessa. Bianche capre furono impiegate per portare sabbia e terra nel lago in modo da riempirlo. Per commemorare l’enorme lavoro svolto da queste capre, il Tempio Jokhang venne inizialmente chiamato Rasa, che in tibetano significa “capre che portano la terra”. Ancora oggi in una delle sale si trova la statua di una capra, ricoperta d’oro e venerata come una divinità. Si dice ci siano solo tre statue di Sakyamuni a grandezza naturale in tutto il mondo che vennero modellate sul reale aspetto di Sakyamuni all’età di otto, venti e venticinque anni, tutte conservate in India originariamente. La statua di Sakyamuni a otto anni che la principessa Tritsun portò a Lhasa fu danneggiata, ed ora non è più integra. Quella di Sakyamuni venticinquenne fu persa. Quella che lo ritrae a vent’anni è la più preziosa e raffinata delle tre. La principessa Wencheng ci mise tre anni a portare la statua da Chang’an a Lhasa. Il valore spirituale e culturale della statua è incalcolabile. I buddhisti tibetani fanno moltissima strada per venire ad adorarla, non tanto perché è una reliquia culturale ma perché sono convinti che la statua rappresenti le esatte sembianze di Sakyamuni di 2500 anni fa ed è un’opportunità unica quella di osservare il viso della divinità. Lhasa è una città sacra in parte anche per questa statua. Il tempio Jokhang non è subordinato ad alcuna setta buddhista, ed è da sempre il luogo dove si sono tenute le maggiori cerimonie buddhiste in Tibet. Le Cerimonie d’Iniziazione del Dalai Lama si tenevano in questo tempio e come ogni anno è qui che si tiene il Festival della Grande Preghiera. Nel secondo cortile una dozzina di monaci sono intenti nelle loro funzioni religiose; colpiscono dolcezza e originalità della preghiera. Alcuni gesti, come gettare all’aria grani d’orzo per tenere lontani gli spiriti del male risentono dell’antica tradizione religiosa bön. Fuori il monastero di Jokhang è avvolto dai fumi d’incenso. Un recinto racchiude la stele-trattato sino-tibetano dell’822 sul rispetto dei confini. La base presenta molte scalfitture. Ai tempi del vaiolo, come rimedio, veniva graffiata e ingerita. Fuori dell’entrata al Jokhang, l’ingresso appare avvolto da fiumi d’incenso che provengono da due panciuti incensieri (sangkang in lingua tibetana). In questo luogo i tibetani si raccolgono per le preghiere, prostrandosi ripetutamente, prima di entrare. Il rito comprende orazioni in piedi, orazioni con le mani davanti al viso e poi inginocchiati in una posizione scorrevole prima di assumere una posiLa Rassegna d’Ischia n. 4/2013 39 zione completamente bocconi. Le continue prostrazioni: stendersi carponi sul selciato, rialzarsi per poi ridistendervisi nell’atto della preghiera, di pellegrini, donne, anziani e bambini hanno, nei secoli, completamente lucidato le grosse pietre del selciato. Dietro gli incensieri, guardando la piazza, vi sono due recinti. Il primo custodisce una stele su cui sono incise le clausole del trattato sinotibetano dell’822: l’iscrizione, ironia della storia, sancisce l’impegno reciproco delle due nazioni vicine a rispettare i confini convenuti. Il secondo ospita il ceppo di un antico salice chiamato “capelli del Jowo” che la tradizione vuole sia stato piantato dalla principessa Wencheng, moglie cinese del re Songtsen Gampo oltre ad una stele che ricorda le vittime del vaiolo del 1793. L’ampia piazza che per la sua posizione centrale è divenuto il fulcro delle manifestazioni di proteste politiche e in diverse occasioni, teatro di scontri cruenti tra cinesi e tibetani è sorvegliata in più punti da molti soldati. Sono muniti oltre che di elmetti, bastoni ed armi soprattutto da tanti estintori. Mentre stiamo seduti su un muretto sulla via Yuthok Lam, situata di fronte alla piazza, un gruppo di soldati, in fila, ci passa davanti per dare il cambio ai propri compagni; tutti sono muniti di un estintore. Dall’altra parte un bambino gioca con il suo papà con la macchinina elettrica che attraversa la strada in lungo e in largo. Dalla parte opposta un gruppo di pellegrini fa girare imperterrito la ruota della preghiera e recita in modo corale e determinato Om Mani Padme Hum. Carmine Negro Ischia Ponte - Galleria Ielasi Dal 3 al 31 agosto 2013 mostra di pittura moderna Saranno esposte opere di: Enrico Baj - Leonardo Cremonini - Wilfred Lam - Arnaldo Pomodoro 40 La Rassegna d’Ischia n. 4/2013