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5. Il taoismo
.5.
Lao-tzu
Il tao
AA
T6
Vivere
secondo
il tao
"
PROFILO
Il taoismo
Lao-tzu, che in cinese significa «Vecchio Maestro», è il nome attribuito a un pensatore vissuto, secondo la tradizione, fra il V I e il
V secolo a. C. in Cina. Si narra che fosse contemporaneo di
Confucio, anche se probabilmente più anziano di qualche decina d’anni, e che i due maestri si sarebbero incontrati in
occasione di numerose dispute, nelle quali Lao-tzu sarebbe
regolarmente risultato superiore. Studi recenti smentiscono
tuttavia molte di queste storie, cosı̀ come la stessa
esistenza storica di Lao-tzu. Infatti, esaminando
il Tao-te ching, il Libro della via, che raccoglie i
pensieri attribuiti al maestro, appare evidente che
non si tratta di un testo completamente originale, dato che in gran parte esso ripropone pratiche magico-religiose e ricette di longevità più antiche. È del
tutto probabile che il taoismo, il movimento spirituale che si
rifà alla sua figura, fosse una corrente di pensiero esistente già
da tempo e che Lao-tzu, sempre che sia realmente esistito, si
sia limitato a fornire un compendio di idee già diffuse.
Lao-Tzu.
Il tao indica la composizione in un unico insieme di due princı̀pi fra loro antitetici, lo yin e lo
yang, le qualità o modalità delle forme di vita di ogni essere. Lo yin rappresenta il bianco, il
passivo, il femminile, il tenebroso, l’umido, il negativo ecc., mentre lo yang rappresenta il
nero, l’attivo, il maschile, il luminoso, il secco, il positivo ecc. L’alternanza fra queste due
energie primarie contrapposte domina sia il mondo nel suo complesso sia le singole entità e
gli eventi che lo compongono, tempo e spazio compresi. Nulla esiste che non sia dominato
dal tao, un principio che, secondo la terminologia filosofica occidentale, può definirsi una
determinazione metafisica dell’essere come congiunzione di opposti. Nota è la rappresentazione iconografica del tao: un cerchio diviso al suo interno da una linea curva in due
metà simmetriche, diversamente orientate e colorate in bianco e nero. Il successo di questo
simbolo, diffuso oggi anche in Occidente, è dovuto alla sua capacità di veicolare significati di
grande suggestione filosofica. La curva a «S» che separa le due polarità contrapposte indica
bene il carattere dinamico della loro alternanza; è come dire che nulla vi è di stabile al
mondo e che ogni cosa si tramuta sempre nel suo contrario. Anzi, come il simbolo rappresenta visibilmente, nel nero esiste un punto bianco e viceversa, a significare che in ogni
cosa esiste una componente alternativa.
La proposta di vita offerta da Lao-tzu è una diretta conseguenza della speculazione sul tao.
L’esistenza perfetta è quella che riesce a porsi in sintonia con il divenire, il perenne corso
delle cose che regola la natura. Ciò che ostacola questa coincidenza e provoca una frattura
Tao
Letteralmente in cinese significa «via», «cammino», per
estensione «il corso delle cose». Esprime il principio che
governa il divenire del mondo, il flusso vitale e continuo
che dà vita alla realtà. L’elemento dinamico del tao è
espresso dall’alternanza fra due princı̀pi opposti ma
complementari, yin e yang, la cui azione combinata
produce ogni mutamento naturale.
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MODULO
Tre saggi
taoisti
circondati
dai simboli
di lunga vita
e immortalità:
l’albero
di pesco
e il cervo.
Al centro,
il simbolo
del Tao.
Le filosofie orientali
da cui discendono tutti i mali del mondo
sono le tendenze, esclusivamente umane, a
pensare troppo, ad agire in vista di uno scopo, a credere che tutti i problemi abbiano una
soluzione, ad essere erroneamente convinti
che sia necessario uno sforzo per raggiungere
un obiettivo. Tutto ciò non fa che allontanare
l’uomo dai ritmi della vita universale. La
cultura va rifiutata perché si oppone alla natura e finisce con il rendere complicato ciò
che è semplice; ogni superfluo attivismo va
rifiutato perché ostacola il principio vitale
che regola la realtà e, alla fine, si tramuta
sempre in un intralcio allo scorrere del divenire. Porsi nel perfetto spirito del tao significa
recuperare il valore del silenzio, della quiete,
dell’attesa, dell’indifferenza, della feconda
inattività o dell’agire senza scopo e senza
sforzo, della brevità nel fare e nel parlare. Il
Tao-te ching, composto com’è solo da cinquemila caratteri ideografici, evita accuratamente ogni discorso sistematico ed è
strutturato in brevissimi aforismi. Le poche
verità che enuncia sono argomentate per via paradossale, secondo una specie di principio
diametralmente contrario a quello di non contraddizione. Un esempio: «Il tao che può
essere chiamato tao non è il vero tao. Se il suo nome può essere pronunciato, non è il suo
vero nome. Ciò che è senza nome è il principio del cielo e della terra».
Il principio
del nonagire
Uno degli ostacoli alla conquista dell’armonia è la tendenza umana a eccedere nell’azione.
Spesso lo sforzo profuso nel risolvere un problema è non solo superfluo, ma anche dannoso,
perché, nonostante le intenzioni, in pratica rende più difficile la soluzione, che sarebbe
arrivata spontaneamente se non si fosse intralciato il corso naturale dei fatti. Bisogna quindi
esercitare il principio del wu-wei, il non-agire, ossia, letteralmente, non far nulla, non
intervenire, non preoccuparsi, non affannarsi, non dire, non pensare. Solo cosı̀ sarà raggiunto lo scopo.
Ecco come una storia della tradizione taoista spiega tale concetto. Un monaco ricevette dal
suo abate il compito di diffondere la dottrina in un regno straniero. Ponendosi nello spirito del
tao, il monaco eseguı̀ l’ordine esercitando il wu-wei. Si recò in quel paese, scelse la cima di una
collina frequentata da contadini e si mise a vivere là, senza fare assolutamente nulla. Dopo un
po’ di tempo, la curiosità di conoscere le ragioni del suo strano comportamento spinse i
contadini a porgli delle domande, alle quali il monaco risolutamente non rispose. Ciò non fece
altro che aumentare l’attenzione verso di lui, sino al punto che persino il re volle conoscere il
suo segreto e lo invitò a corte. Ma il monaco non accettò di compiere il viaggio e il re finı̀ per
recarsi presso di lui. Solo a quel punto, potendo dimostrarne tutta la potenza, il monaco
accettò di rivelare la sua dottrina. Convinse il re e per suo tramite il paese intero.
La norma del
non avere
norme
La via del tao esclude la formalizzazione di un sistema etico. A parte l’appello ad attenersi
alla «via naturale», il taoismo non impegna al rispetto di alcuna specifica regola morale.
Come farlo, del resto, se si pensa che anche le norme etiche sono necessariamente in
divenire ed esistono solo per essere infrante e sostituite da altre destinate alla stessa fine?
L’unica norma possibile è non ingabbiare il proprio comportamento in norme prefissate,
intralciando cosı̀ la spontanea risoluzione dei problemi per via naturale. Non di sistemi o
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6. La spiritualità giapponese: zen e shintoismo
PROFILO
dogmi vi è bisogno, ma di una duttile saggezza fondata sulla semplicità. Il tao esclude
programmaticamente qualunque sviluppo dottrinario sistematico, qualunque proposta
positiva. Vuole essere uno strumento privo di contenuti. «Il tao è vuoto», dice Lao-tzu, cosı̀
come una strada prima che un viandante vi si incammini.
La nonazione
politica
Applicato alla politica, il principio del comportamento inattivo implica una riduzione al
minimo dell’attività dello Stato e dell’intervento dell’autorità pubblica nella vita dei cittadini.
Solo la pratica della non-azione politica può produrre una società sana, stimolando i cittadini ad assumere spontaneamente gli atteggiamenti adeguati al vivere civile, non per
costrizione ma per libera scelta e, quindi, con maggiore rigore. Per attenersi al tao, un
governante deve ridurre al minimo l’ingerenza dello Stato. In diretta antitesi al confucianesimo, di cui costituisce l’unica importante alternativa sviluppata dalla cultura cinese, il
taoismo propugna un modello di vita fondato sull’autonomia personale, sulla libera e
gioiosa espressione dell’individualità.
GUIDA ALLO STUDIO
O L’idea del tao come armonia e congiunzione di opposti ha una certa parentela con la filosofia di
Eraclito. Sai indicare somiglianze e differenze?
O Taoismo e confucianesimo appartengono entrambi alla cultura cinese. Ma si tratta di due modi molto
diversi di intendere il mondo. Prova a specificare la natura di queste differenze.
O Perché il taoismo rifiuta di indicare qualsivoglia regola morale? È possibile, a tuo giudizio, una morale
senza norme prefissate?
.6.
La spiritualità giapponese: zen e shintoismo
Una storia
zen
Nel 1215 d. C. sbarca in Giappone un monaco buddhista cinese di nome Eisai, esperto nelle
tecniche del ch’an, la scuola cinese che rielabora in modo originale il buddhismo. È l’inizio
della straordinaria avventura spirituale del buddhismo giapponese, lo zen. Letteralmente il
termine si traduce con «risveglio», ma è difficile spiegare che cosa esso significhi, poiché lo zen
non può essere pienamente definito, soprattutto ricorrendo a una forma di comunicazione
verbale, di cui il buddhismo giapponese diffida apertamente. Lo zen non è interessato ad
alcuna forma di concettualizzazione, non ha una propria dottrina, né tanto meno una
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MODULO
Le filosofie orientali
teologia, dato che risolve il problema religioso accettando i princı̀pi etici e contemplativi del
buddhismo senza soffermarsi sull’aspetto metafisico della dottrina. Si definisce senza parole,
senza spiegazioni, senza istruzioni, senza conoscenza. Insegna il silenzio, il paradosso,
l’abbandono di ogni teoria in vista di una vita non eroica e non ascetica, ma normale e
naturale. Che cosa esso sia può solo essere mostrato con un esempio, una storia. Eccone una
celebre. Un monaco chiede al maestro: «Sono appena entrato a far parte del monastero. Ti
prego, istruiscimi». Il maestro domanda: «Hai mangiato la tua zuppa di riso?». Il monaco
risponde: «L’ho mangiata». Il maestro conclude: «Allora faresti meglio a lavare la tua ciotola».
Fine della prima lezione zen.
La strategia
laterale
dello zen
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T7
Scopo dell’educazione zen non è andare contro la ragione, proponendo comportamenti
illogici, che pur negandola ne confermerebbero l’importanza, ma superarla o, meglio, dimenticarla. Alla fine dell’apprendimento, la competenza richiesta al monaco sarà il saper
uscire di senno dolcemente, ovvero la capacità di trascendere la dimensione razionale e
utilitaristica della vita quotidiana per vivere nella condizione di satori. L’illuminazione, o
satori, è definibile come uno stato di beatitudine laica, che si configura, da una parte, come
«assenza», distacco da tutte le questioni poste da una vita normale, siano esse logiche,
politiche, economiche, religiose, sociali, dall’altra, come adesione alla natura, ai suoi ritmi,
alla sua fondamentale irrazionalità e casualità.
Il koan
Non ci sono regole nello zen, perché sarebbe inefficace stabilire leggi in grado di adattarsi a
tutti gli uomini. Esistono tuttavia sistemi di insegnamento incisivi e particolari, che ruotano
tutti intorno a una constatazione: per accedere alla verità il soggetto deve abbandonare tutte
le proprie convinzioni. Elemento fondamentale della scuola Rinzai, fondata da Eisai, è il
metodo del koan, un paradosso logico o un problema insolubile, un vero e proprio enigma
senza soluzione che il maestro sottopone all’allievo per provocarlo e per aiutarlo a scoprire
l’inadeguatezza della ragione a penetrare la realtà ultima. Eccone un esempio: all’allievo che
domanda istruzione, il maestro chiede di imparare a «battere le mani con una mano sola».
Ed è possibile che in cambio di una risposta un po’ sciocca, ad esempio qualche aggrovigliamento posturale, per risolvere il quesito, il volonteroso studente riceva un robusto colpo
di bastone (di cui il maestro non si priva mai). Ciò non significa che lo zen sia violento:
l’eventuale bastonata non ha lo scopo di punire, ma di risvegliare la mente dell’adepto
provocando in lui, con metodi estremi, quell’illuminazione che il koan non è riuscito a
ottenere. L’azione pedagogica tende sempre a produrre nell’alunno una scossa cognitiva che
anestetizzi le sue capacità razionali e logiche.
Lo svuotamento
della mente
Meditando sull’enigma, egli dovrà accertare la verità che non tutti i problemi sono risolvibili per via razionale, scoprire poi l’inadeguatezza di ogni sforzo della volontà e dell’intelletto, e cominciare infine a vivere in una dimensione non irrazionale, ma che vada oltre
la razionalità. Il monaco non abbandonerà mai il metodo del koan durante la meditazione:
anche quando sarà diventato un maestro e sarà quindi consapevole che tutti i problemi
filosofici sono senza risposta, egli continuerà a usare il paradosso per tenere occupata la
propria mente in riflessioni senza pretesa di coerenza logica. Infatti il maggior ostacolo
all’illuminazione è il desiderio di arrivarvi: lo sforzo, l’attenzione, la cura non servono, sono
anzi dannosi, perché riempiono la mente di nuovi contenuti invece di svuotarla.
Meditazione
«senza
oggetto»
L’illuminazione zen non implica una fuga dal mondo ma una partecipazione attiva alla vita
quotidiana, perché il risveglio non si raggiunge con pratiche eroiche o ascetiche, ma durante
le attività quotidiane. Molte ore della giornata del monaco sono dedicate alla pratica dello
zazen (meditazione in silenzio nella posizione yogica classica «del loto»), tuttavia la vera
meditazione è quella tipica del Mahayana, ossia «senza oggetto» e «senza intenzione»,
consistente nel compiere normali azioni (tagliare il pesce, affettare le verdure, preparare il
tè) in uno stato di annullamento dell’autocoscienza.
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6. La spiritualità giapponese: zen e shintoismo
PROFILO
LA STORIA E LA CULTURA DEL TEMPO
L’estetica del vuoto
Un detto taoista afferma che: «Si ha un bel riunire i trenta raggi in una ruota, l’utilità di una vettura dipende
sempre da ciò che non c’è. Cosı̀, traendo partito da ciò che
è, si utilizza quello che non c’è». È un buon esempio
dell’enfasi posta da molte culture orientali (taoismo,
buddhismo e zen, in particolare) su una nozione, o meglio
su un aspetto della realtà, che la tradizione occidentale
ha affrontato solo marginalmente e comunque secondo
una prospettiva differente: il non-esservi, in senso proprio e materiale, di molte cose che, comunque, non per
questo cessano di essere efficaci e influenti, esattamente come la capacità di movimento non esiste in alcuna
parte di una vettura o la vita in alcuna delle membra del
corpo umano. Questa insistenza su ciò che, pur esistendo,
non ha propriamente una realtà propria ha avuto importanti conseguenze nella mentalità, nel costume e
nell’arte, in particolare nella cultura giapponese, originando quella che è stata chiamata «estetica del vuoto».
Non si tratta di una teoria, ma di una proposta
esperienziale. Coerentemente con la radicata diffidenza
nei confronti delle teorizzazioni concettuali, lo zen non
propone alcuna dottrina estetica del vuoto, ma suggerisce pratiche capaci di realizzare con esso un rapporto proficuo, cosı̀ da realizzare la massima dell’Illuminato: «Contempla il mondo come vacuità, sempre
però restando rammemorante», ossia senza perdere
quello stato di concentrazione che è prodotto dalla
pratica meditativa. Si tratta quindi di un’attività che
deve «fare il vuoto», abituare la mente a «dimorare
sul nulla», ossia a non fissarsi né sul bene né sul male,
né sull’essere né sul non-essere, né sul dentro né sul
fuori, e cosı̀ via per tutte le infinite opposizioni possibili.
È straordinario come la cultura zen abbia saputo
concretizzare queste nozioni, tanto difficili da esprimere
nel linguaggio della razionalità discorsiva, in oggetti,
pratiche e riti di per sé significativi. Fra questi primeggia
il sukiya, la stanza da tè, il luogo dedicato ai riti e alla
meditazione. Nella casa tradizionale giapponese vi si arEE
Giardino Zen: è il giardino del Tempio di Toyokawa Inari a Inuyama, in Giappone.
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MODULO
Le filosofie orientali
EE
riva attraversando il giardino e percorrendo il roji, un
sentiero di pietre in rilievo che porta alla piccola costruzione in legno dove si svolge la cerimonia.
Già la struttura «a passi perduti» di questo sentiero
invita a realizzare la massima dell’Illuminato: contemplare il vuoto rimanendo concentrati: le pietre che formano il percorso, infatti, sono disposte a una distanza
irregolare e a un’altezza variabile: come nell’attraversare
un torrente bisogna fare attenzione ai propri movimenti
e, soprattutto, all’improvvisa mancanza di sostegni. Il
corpo deve abbandonare i movimenti usuali: il passaggio del roji è un’esperienza di purificazione, di allontanamento dai ritmi consueti della vita quotidiana.
Se il vuoto comincia a «farsi sentire» nel sentiero, è
però nel sukiya che si realizza in tutta la sua «presenza».
L’architettura stessa è antitesi dell’idea occidentale di
abitazione: quasi tutte le pareti, infatti, propriamente
non esistono affatto, sostituite da pannelli di legno
scorrevoli. Agendo su quelle interne si realizzano di
volta in volta ambienti di diversa grandezza; agendo su
quelle esterne si apre o si chiude a proprio piacere lo
spazio abitativo, spostando il confine che separa il
mondo umano da quello naturale, il giardino. Entrando
nel sukiya si è poi letteralmente colpiti dalla presenza
del vuoto: non vi sono mobili, sedie, tavoli e armadi, del
resto assenti da ogni ambiente della casa giapponese:
unici oggetti sono quelli essenziali al rito del tè (il bollitore, la tazza) e alla meditazione. Quest’ultima trova il
La cerimonia
del tè
Giappone: una Sukiya, tradizionale sala per la cerimonia del tè.
suo luogo elettivo nel tokonoma, anch’esso, propriamente una non-cosa, dato che si realizza in un vano
nella parete, uno spazio vuoto sulla cui parete di fondo
è appeso il kakemono, un rotolo di seta o di carta sul
quale è tracciata una calligrafia o dipinta una pittura a
inchiostro. Sulla mensola del tokonoma, unici oggetti
ammessi alla pratica meditativa, fiori composti secondo
le modalità ikebana.
Si può definire questo complesso di pratiche come una mistica operativa, ossia una forma
speciale di meditazione che si attua compiendo un lavoro manuale o determinate azioni,
quali il tiro con l’arco, le arti marziali o la preparazione del tè, la più antica e importante
pratica rituale zen. Il tè, bevanda un tempo rara in Giappone, fu introdotta dai monaci
buddhisti che la usavano come eccitante per aiutarsi nelle lunghe meditazioni notturne. Al
centro del rito, tuttavia, non vi sono le proprietà eccitanti della sostanza, ma le modalità
della sua preparazione, o meglio, quel particolare stato di sospensione della vigilanza, di
vuoto mentale, che si raggiunge quando tutta la persona, spirito e corpo, è impegnata in un
compito semplice, preordinato e abitudinario. L’officiante manipola con attenzione e rispetto gli oggetti necessari, in silenzio e con grande economia di movimento, come gli
eventuali ospiti, che si limitano ad assistere al rito. Tuttavia, egli non segue un piano d’azione prefissato; deve evitare di impegnarsi troppo in ciò che sta facendo in modo da
rimanere in accordo spirituale con i ritmi naturali dell’evento: per quanto sembri un paradosso, «deve essere spontaneo». Solo i grandi maestri, però, arrivano ad avere uno «stile
personale» nell’eseguire la cerimonia: essa finisce con il fissarsi in una liturgia sempre più
rigida, fino a trasformarsi in un formalismo complesso e sofisticato, attento ai dettagli e
preciso nelle prescrizioni. L’antico spirito anti-eroico è ripristinato nel X V I secolo dal grande
maestro Rikijù, che fa proprio lo stile «quotidiano»: paradossalmente si limita, fra l’iniziale
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6. La spiritualità giapponese: zen e shintoismo
PROFILO
sconcerto degli ospiti, a preparare e
servire la bevanda senza alcun particolare rituale, a volte con modi bruschi
e grossolani.
Lo
shintoismo
Questa originale ricerca della verità attraverso le vie del paradosso suscita
grande interesse in Occidente; lo zen,
tuttavia, non esaurisce affatto la spiritualità giapponese, la quale, sia prima sia
dopo l’avvento del buddhismo, conosce
anche l’esperienza religiosa dello shintoismo. Lo shinto (la «via degli dèi») non
ha alcun fondatore e non riconosce veri e
propri testi sacri. In origine è la mescolanza di tecniche divinatorie, riti,
miti, usi e costumi profondamente radicati nel modo di vivere del popolo
giapponese. In una prima fase, tale
complesso di credenze non possiede
alcun nome specifico. Soltanto con
l’avvento del buddhismo comincia a
essere indicato con un termine apposito.
Shintoismo e buddhismo coesistono
pacificamente in Giappone, anche se in
alcuni periodi il primo è stato la religione
Veduta del Kinkakuji, il Golden Pavilion di Kyoto, tempio zen.
ufficiale dello Stato. In epoca moderna
ciò accade durante la restaurazione imperiale Meiji. Secondo la mitologia shintoista, infatti, la
famiglia imperiale discende direttamente dalla dea capostipite Amaterasu.
I kami
La spiritualità shintoista afferma l’idea di un’armonia profonda tra gli esseri umani, la natura
e le divinità che popolano l’universo. Questi esseri divini, detti kami, generalmente benigni e
protettori, si possono identificare sia in antenati familiari, sia in personaggi storici o mitici,
sia in oggetti naturali come animali, alberi, montagne, fiumi. Molte pratiche tradizionali
della cultura giapponese, come l’ikebana e il suiseki, caratterizzate dalla capacità di rintracciare valori estetici e filosofici in semplici oggetti come composizioni di fiori o sassi di
forma particolare, affondano le loro radici nella tradizionale mentalità shintoista, propensa a
vedere una presenza spirituale in ogni aspetto della natura. Nello shintoismo non sono in
uso idoli e manca una vera precettistica: la norma fondamentale è quella di evitare ogni
forma di impurità, offensiva per i kami.
GUIDA ALLO STUDIO
Lo zen afferma che «è lo sforzo a impedire il risultato». Ti sembra una massima condivisibile?
In che senso tale idea era già in qualche modo professata dal taoismo e dal buddhismo indiano?
Quali differenze scorgi fra il nirvana induista e il satori giapponese?
Che cos’è un paradosso? Quali filosofi greci proposero celebri paradossi? Quali sono le specificità dei
paradossi zen?
O Nella scheda iconografica La meditazione senza oggetto (p. 29) è descritto il rituale zen consistente nel
rastrellare un giardino di sabbia. Spiega perché la tradizionale cultura shintoista ha probabilmente
favorito la nascita di tale pratica.
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MODULO
Le filosofie orientali
FILOSOFIA PER IMMAGINI
La meditazione senza oggetto
Il buddhismo zen ha sviluppato forme di «meditazione
spirituale senza oggetto», ossia stati di coscienza in cui
la mente, pur raccogliendosi in se stessa, non si applica
ad alcun costrutto intellettuale. Uno dei modi per
conseguire questo «svuotamento della mente» è dedicarsi (ma «senza intenzione») ad azioni normali della
vita quotidiana, come preparare il tè o affettare il pesce.
Fra queste pratiche alcune consistono nella manipolazione estetica della natura.
L’ikebana (fig. 1) è l’arte di assemblare fiori (ma
anche rami secchi, sassi ecc.) in una composizione artistica. I valori fondanti dell’estetica zen sono l’asimmetria (i fiori devono essere in numero dispari), la
valorizzazione del vuoto, la semplicità delle tecniche e
la povertà dei materiali.
Il suiseki (fig. 2) è l’arte di cercare e trovare sassi
strani e belli (capaci di suggerire in piccolo la grandiosità del macrocosmo naturale), da esporre poi, senza
alcuna modificazione, come compiute opere d’arte.
1. Ikebana.
2. Suiseki.
ATTIVITÀ
O La tradizione artistica occidentale, fino a tempi recenti, ha sempre privilegiato soluzioni fondate
sulla proporzione, non sull’asimmetria. La proporzione, infatti, veicola valori espressivi quali
razionalità, misura, ordine ecc. Cerca di specificare il valore espressivo degli altri tratti che
distinguono l’arte zen da quella occidentale: valore positivo del vuoto, povertà dei materiali.
O Dalla pratica del suiseki, il dadaismo, un’importante tendenza dell’arte contemporanea occidentale,
ha derivato l’idea di ready made, l’oggetto artistico «già fatto». Nel 1915, ad esempio, il dadaista
Marcel Duchamp espose una Ruota da bicicletta e un Orinatoio. Cerca notizie su questa esperienza
dadaista, in cui arte e filosofia si fondono in modo veramente originale.
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SINTESI
L’induismo
nella vita terrena dell’individuo lega desiderio a desiderio.
I L’induismo è una religione politeistica. Nell’induismo
I Fondamento teorico del buddhismo è la dottrina
convivono molteplici scuole religiose e filosofiche,
per cui non esiste una ortodossia dogmatica.
delle quattro nobili verità: 1) la vita è dolore; 2) la
causa del dolore è la voglia di vivere; 3) per annullare
il dolore è necessario annullare tutti i desideri; 4) il
comportamento va regolato secondo i princı̀pi dell’ottuplice sentiero.
I L’induismo intende il nirvana come interruzione del
ciclo delle reincarnazioni dell’anima.
I La spiritualità induista si è andata formando at-
traverso tre fasi principali: 1) la fase vedica, caratterizzata dall’elaborazione di una ricca mitologia; 2) la
fase brahmanica, caratterizzata dallo sviluppo della
ritualità e della liturgia cerimoniale; 3) il periodo
delle Upanishad, in cui si elaborano le fondamentali
nozioni di karma e dharma.
I Il karma è la legge che regola la reincarnazione delle
anime e più in generale il rapporto di causa-effetto. Il
dharma (legge religiosa divina, dovere morale, giustizia) indica il comportamento che ogni essere deve
assumere per essere in accordo con la propria natura.
Una delle poche dottrine comuni al mosaico delle
dottrine induiste è quella di brahman, la forza misteriosa che regge l’universo.
I Dal punto di vista storico e politico va sottolineata la
stretta relazione fra induismo e sistema castale.
I Il tantrismo è un complesso di riti, mitologie, pre-
scrizioni etiche e soprattutto tecniche di meditazione.
Il tantrismo riprende moltissime categorie del sistema
dello yoga, disciplina antichissima fondata sull’idea
che il totale dominio del corpo sia la via d’accesso a
stati di meditazione profonda. Un’altra pratica tantrica, il rito maithuna, prevede il controllo dell’energia sessuale.
Il giainismo
I Il giainismo è fondato da Mahavira e si caratterizza
per l’affermazione che la perpetuazione del karma è
strettamente connessa all’esercizio della violenza.
I Il giainismo propugna una programmatica non-vio-
lenza, la resistenza passiva all’aggressione.
I Il buddhismo Hinayana (Piccolo Veicolo) favorisce
l’eroismo dell’impegno personale nel distacco dal
mondo, quello Mahayana (Grande Veicolo) la compassione e la pratica dell’amore verso le creature.
Il confucianesimo
I Il confucianesimo cinese propugna la restaurazione
di un ordine armonico fra individuo, società e natura: tale armonia può essere raggiunta solo con il
ripristino dell’antica saggezza originaria.
I Il confucianesimo sottolinea il principio di gerarchia,
rilevando che le relazioni sociali non sono mai paritarie. Concepisce l’anzianità come sinonimo di saggezza, assumendola come un valore di per sé
(gerontocrazia). Fondato su una ricca precettistica,
valorizza l’osservanza dei riti, delle convenienze sociali e dell’educazione; insiste sulle virtù della rettitudine e della benevolenza.
Il taoismo
I Il taoismo invita a vivere secondo il ritmo della na-
tura, concetto sintetizzato dalla nozione di tao, rappresentato come congiunzione di opposti. Vivere
secondo il tao significa accettare il corso delle cose
che regola il mondo.
I Il taoismo insegna che bisogna recuperare il valore
del silenzio e dell’agire senza scopo e senza sforzo,
della brevità di atti e parole e del non-agire.
Lo zen
I Lo zen giapponese ha creativamente sviluppato la
Il buddhismo
I Buddha presenta la propria dottrina come una tec-
nica per non soffrire. A differenza dell’induismo, il
buddhismo considera il nirvana come uno stato di
beatitudine raggiungibile già durante l’esistenza terrena e intende il karma come la concatenazione che
tradizione buddhista. Intende il satori (o nirvana)
come assenza, svuotamento della mente, e come
adesione alla natura, ai suoi ritmi, alla sua fondamentale irrazionalità e casualità.
I Lo zen pratica la meditazione senza oggetto, forme di
mistica operativa (cerimonia del tè) e la pedagogia del
koan (lo studio di un compito impossibile).
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