Federico Battistutta La profezia nuova di Thomas Merton e Raimon Panikkar 0. Il termine profeta deriva dal tardo latino prophèta che ricalca a sua volta il greco antico προφήτης, parola composta dal prefisso προ- (davanti, prima) e dal verbo φημί (parlare, dire). Il profeta è letteralmente “colui che parla prima”, nel senso di colui che anticipa ciò che sta per accadere, annuncia il veniente; non il futuro dei futurologi che è comunque una declinazione del già dato, del movimento del passato, ma il novum radicale che sfugge a ogni previsione. E non è vero, come sostengono tanti, gli eterni rassegnati o gli amministratori dell’esistente, che non si dà più profezia, è che non sappiamo coglierla, abbiamo disimparato a leggere i segni del nostro tempo. A testimonianza di ciò, qui, in forma sommessa, presentiamo due personaggi che hanno saputo cimentarsi con l’arduo alfabeto della profezia, preannunciando gli esiti possibili di un pluriverso interculturale e interreligioso. Ci riferiamo a Thomas Merton e a Raimon Panikkar. Cominciamo ripercorrendo i momenti significativi della loro esistenza. 1.1. Thomas Merton nasce nel 1915 in Francia; a causa dello scoppio della “grande guerra”, nel 1916 si trasferisce con i genitori vicino a New York (la madre era statunitense). In seguito si sposterà alle isole Bermuda, di nuovo in Francia, infine in Inghilterra, dove inizia gli studi universitari che completerà alla Columbia University di New York, discutendo una tesi sulla poesia di William Blake. Intanto, scopre l'aspetto sociale del Vangelo e decide di accostarsi alla religione cattolica. Dopo la laurea, si dedica per qualche anno all'insegnamento della letteratura inglese. In seguito a un ritiro spirituale presso un’abbazia trappista rimane profondamente segnato dalla vita di solitudine e preghiera dei monaci e matura la decisione di entrarvi; nel 1947 pronuncerà i voti solenni, diventando monaco. In quegli stessi anni perde anche suo fratello, caduto in combattimento durante la seconda guerra mondiale: tale evento contribuì molto a far maturare in lui una profonda avversione nei confronti delle guerre, diventando uno dei principali punti di riferimento del movimento pacifista degli anni ’60, schierandosi con convinzione anche a sostegno del movimento nonviolento per i diritti civili, che egli definì come «il più grande esempio di fede cristiana attiva nella storia sociale degli Stati Uniti». Durante la guerra del Vietnam, Merton maturò un profondo interesse per il buddhismo, intraprendendo numerosi viaggi in Oriente, incontrando anche il Dalai Lama. Nel 1968, a Bangkok, durante uno di questi viaggi, trovò la morte, folgorato da un ventilatore difettoso. Doveva partecipare a un congresso monastico panasiatico con una relazione intitolata Il marxismo e le prospettive della vita monastica. In quel testo, fra le altre cose possiamo leggere: «Lo scopo della vita monastica è quello di vivere di amore: una formula semplice tanto popolare in Occidente era la trasformazione agostiniana della cupiditas in caritas, dell’amore egocentrico nell’amore altruistico. (…) In Marx stesso si può trovare qualcosa di quel desiderio di passare dalla cupiditas alla caritas. L’idea centrale del comunismo è stata quella di un’evoluzione dall’avidità capitalistica verso la dedizione comunista. Secondo la formula marxista il comunismo consisterebbe nel fatto che ognuno dà ciò che può e prende ciò di cui ha bisogno; ma questa è anche la definizione della comunità monastica». 1.2. Raimon Panikkar nasce a Barcellona nel 1918, dunque tre anni dopo Merton, da madre catalana e padre indiano. Studia a Barcellona, Madrid e in Germania, conseguendo prima una laurea in Scienze e poi in Lettere. Negli anni ’40 si avvicina al primo nucleo di fedeli laici dell’Opus Dei, divenendo membro di tale organizzazione per vent'anni (in seguito parlerà con reticenza di tale periodo). Nel 1946 ottiene l’ordinazione sacerdotale e inizia l’attività di insegnamento presso università e seminari diocesani. Negli anni Cinquanta si reca in India; l'incontro e la conoscenza dell’induismo e del buddhismo modificano alla radice la sua sensibilità religiosa. Dirà in proposito: «Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindu e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano». Nel 1961 svolge la dissertazione della propria tesi in Teologia a Roma; il testo, The Unknown Christ of Hinduism, diventerà uno dei suoi libri più tradotti e pubblicati; in esso Panikkar espone la presenza viva di Cristo nell'induismo, esaminando la relazione tra questo e il cristianesimo. Nello stesso periodo partecipa a Roma alle attività del Concilio Vaticano II. Negli anni Settanta è invece negli Stati Uniti, all’università di Santa Barbara in California, pur continuando a recarsi periodicamente in India. Ritiratosi in seguito dalla vita accademica, Panikkar si stabilisce a Tavertet, in Catalogna, dove morirà nel 2010. Descriverà il ritorno in questa terra come il completamento del proprio karma: «chiudere il cerchio o radicare la mia vita, tornando al luogo dove sono nato». Quasi la metà dei suoi lavori vengono pubblicati negli anni ‘90. 2. Com’è intuibile non è possibile nello spazio di poche pagine dar conto della valenza profetica di queste due figure. Focalizzeremo l’attenzione sull’inestimabile contributo che ci hanno lasciato per quanto riguarda il dialogo interreligioso, dove tale termine non va inteso in un’accezione ristretta, quella riguardante il confronto fra le diverse confessioni religiose. Limitarsi a ciò significherebbe chiudere il cerchio prima ancora di averlo aperto, deprimere ogni apertura, meglio ancora, lo sfondamento di orizzonti che è possibile intravedere. Insomma, qui ci interessa cogliere il respiro di una prospettiva più ampia in grado di scorgere i lineamenti di una religiosità al di là delle religioni stesse. 2.1. Iniziamo con Merton. Egli laddove parla di meditazione e di preghiera le descrive nei termini di pratiche aventi come esito «una profonda integrazione personale». Al di là quindi dei conflitti come quelli fra vita attiva e vita contemplativa, fra sfera sacra e sfera profana, fra naturale e soprannaturale - che rivelano nell’esperienza diretta e concreta la loro inconsistenza, nell’intima consapevolezza che «tutta la vita sulla terra debba fondere elementi di azione e di riposo, di lavoro corporale e di illuminazione mentale». E ancora: «Un falso soprannaturalismo che immagina il ‘soprannaturale’ come una specie di regno platonico di essenze astratte totalmente separato e opposto al mondo concreto della natura, non offre alcun vero sostegno a una vita genuina di meditazione e di preghiera. La meditazione non ha nessuno scopo e nessuna realtà se non è fermamente radicata nella vita. Senza queste radici, non produce altro che frutti di disgusto, di indifferenza, e perfino di morbosa e degenerata introversione, masochismo, dolorismo, negazione». Vita contemplativa est similior caelesti quam activa, diceva Tommaso d’Aquino, citando Agostino, tracciando la medesima via calpestata da altri prima di lui e che altri percorreranno. Noi qui seguiamo Merton: vita attiva e vita contemplativa sono due ambiti differenti, com’è ovvio, ma non significa che siano due opposti in cui uno costituisce l’azzeramento dell’altro (opposizione reale, reciproca repulsione alla relazione, realrepugnanz, in termini kantiani), bensì sono due poli in cui l’uno non può stare senza l’altro, poiché nei confronti degli opposti c’è attrazione reciproca perché esiste un fondo soggiacente, non-duale, su cui entrambi si distendono (advaita, direbbero gli hindu). Non solo: il dispositivo profetico di Merton passa a mettere a confronto pratiche meditative di differente provenienza. Monaco trappista e profondo studioso delle vie meditative e contemplative della tradizione cristiana, egli volge il suo interesse verso l’Oriente, in particolare verso il buddhismo e nello specifico verso lo zen. In un testo dedicato proprio all’esplorazione dello zen così scrive a proposito dell’impasse del pensiero teologico occidentale: «La coscienza moderna tende a creare questa bolla solipsistica di consapevolezza – un io-sé imprigionato nella propria coscienza, isolato e fuori da ogni contatto con gli altri ‘sé’ in quanto sono tutte cose più che persone. E’ questo il tipo di coscienza esacerbata fino all’estremo, che ha reso inevitabile la cosiddetta ‘morte di Dio’. Il pensiero cartesiano cominciò col tentativo di raggiungere Dio come oggetto partendo dall’io pensante. Ma quando Dio diventa oggetto, presto o tardi ‘muore’». Proprio partendo da simili considerazioni egli intravede una possibile uscita dalla crisi per l’uomo occidentale volgendosi a Oriente e in particolare allo zen. Scrive ancora: «Nel cristianesimo la dottrina oggettiva mantiene la priorità sia di tempo sia di valore. Nello zen l’esperienza precede sempre, non nel tempo ma in importanza. Ciò perché il cristianesimo è una religione della grazia e del dono divino, quindi di totale dipendenza da Dio. Lo zen non è classificabile come ‘religione’ (è infatti separabile da ogni matrice religiosa e potrebbe fiorire sul terreno delle religioni non buddiste o di nessuna religione), e in ogni caso cerca, come ogni buddismo, di rendere l’uomo completamente libero e indipendente, anche nei suoi sforzi per la salvazione e l’illuminazione». Soffermiamoci su alcune parole-chiave presenti nella citazione sopra riportata. C’è l’affermazione della priorità dell’esperienza rispetto all’adesione a principi dogmatici; c’è un riferimento all’interculturalità e all’interreligiosità; c’è un cenno, ancor più lungimirante, alla possibilità che la sensibilità e il cuore dello zen possano fiorire anche al di fuori di qualsiasi confessione religiosa, intravedendo l’inedita prospettiva di una via religiosa senza le religioni. Come si può notare siamo al centro della questione di una religiosità al di là delle confessioni religiose. 2.2. Veniamo ora a Panikkar. Egli ci ha lasciato una messe di materiali verso cui ci vorrà del tempo per apprezzarne fino in fondo la portata. Lo sfondo su cui si muove la riflessione panikkariana è che la realtà è sempre più ricca di qualunque teorizzazione o concettualizzazione; queste sono delle semplificazioni, in qualche misura inevitabili, di cui va al contempo ben mantenuta la consapevolezza dello scarto. Egli, negli ultimi anni della sua vita riconosceva di aver assunto nel corso della sua esistenza una quadruplice identità: cristiana, essendo nato ed educato nel cristianesimo; hindu in quanto l’induismo faceva esso pure parte della sua origine, pur scoprendolo poco a poco («Dovevo lasciarlo emergere in me»); buddhista, «quale risultato del lavoro interiore» che col tempo il buddhismo andò sviluppando in lui e, ultima ma non ultima, l’identità secolare quale risultato del suo contatto col mondo occidentale. In Panikkar possiamo dunque notare non solo il forte riferimento alla prospettiva interreligiosa (l’asse cristiano-hindu-buddhista), ma accanto a questi la tradizione secolare come lascito della modernità dell’Occidente (dal pensiero scientifico a quello filosofico sino al mondo letterario), la quale nella misura in cui si confronta con “questioni ultime” è condotta a confrontarsi con le tradizioni religiose. Ad esempio, quando si interroga su quale significato il buddhismo possa assumere nel mondo attuale, di fronte all’odierna crisi globale ed epocale, egli giunge a dire che tale contributo può toccare due tematiche che nella via di Buddha posseggono una forza carismatica: l’ateismo religioso e il silenzio come metodologia espressiva. Ma l’ateismo religioso di Buddha non è, secondo Panikkar, una contrapposizione alle varie forme di teismo presenti nelle tradizioni religiose, né, tantomeno, è riducibile all’affermazione della non esistenza di Dio: è invece una forma quanto mai affinata di religiosità, purgata da ogni ombra di idolatria, pertanto assai prossima alla sensibilità culturale che connota la condizione dell’Occidente contemporaneo. «Se quindi ci rivolgiamo ora al messaggio del Buddha predicato venticinque secoli fa, non è per un desiderio anacronistico o per un interesse apologetico, ma perché ci sembra di scorgervi un elemento indispensabile per una spiritualità contemporanea. Entrambe le culture, infatti, quella moderna di impronta occidentale e quella buddhista, sono atee e presentano un atteggiamento apofatico di fronte agli interrogativi ultimi sulla realtà». Per questo la predicazione del Buddha può riguardare l’uomo occidentale, perché chiede la liberazione, perché mira a rendere l’uomo libero, libero da tutto: «da un Dio oggettivato, da un’Umanità idealizzata, da una Società programmata, da una Scienza sognata». Tratto da “NonCredo”, n.20/novembre-dicembre 2012, pp. 571-574.