ERWIN PISCATOR Il teatro politico1 Erwin Piscator nacque i 17 dicembre 1893 a Ulm, una cittadina dell’Assia, dove il padre faceva il commerciante. Dopo aver studiato filosofia e storia dell’arte, prima a Marburgo, poi a Monaco, decise (1914) di consacrarsi al teatro. Allo scoppio della prima guerra mondiale era «attore libero» al Münchener Hoftheater. Chiamato alle armi nel 1915, entrò a far parte due anni più tardi di una compagnia che inscenava spettacoli per le forze armate. Il suo orrore per la guerra lo portò a prendere posizione politicamente e a rivedere il suo concetto di arte. Al momento della smobilitazione, nel 1919, fondò a Königsberg un piccolo teatro il «Tribunale», ed entrò a far parte della Lega di Spartaco e quindi del Partito comunista tedesco. La sua attività di regista teatrale lo occupò febbrilmente tra il 1919 e il 1929: lavorò per il Teatro Proletario (1920-21), per il Teatro Centrale (1923-24), per la «Volksbühne» (1924-27) e infine per il suo teatro, il Teatro di Piscator. Allestì spettacoli memorabili, dai Masnadieri di Schiller (che lo resero famoso, nel 1926), al Prode soldato Schvejk di Hasek, al Rasputin di Tostoj, ai drammi di Toller e di Brecht. Nel 1931 venne chiamato in Russia per dirigere un film tratto da I coolies dell’imperatore di T. Plivier, un dramma che, sotto la sua stessa regia, aveva successo un enorme successo in Germania. Recatosi a Mosca, dovette però abbandonare il progetto, che fu sostituito con un soggetto tratto dai Pescatori di Santa Barbara di Anna Seghers. Il 5 ottobre 1934 il film fu presentato a Mosca con enorme successo. Non potendo rientrare in patria in seguito all’avvento di Hitler al potere, si trattenne in Russia, dove però i suoi rapporti con la burocrazia culturale non furono sempre idilliaci, a causa della sua insofferenza e incapacità di tatticismo nei confronti della nascente dottrina del realismo socialista. I suoi progetti, sia teatrali (un teatro tedesco «in esilio»), sia politico-culturali (un fronte internazionale di intellettuali antifascisti, per il quale aveva stimolato la partecipazione anche dei surrealisti) trovarono così col passare del tempo ostacoli sempre maggiori. Nel 1936 si allontanò dalla Russia per una non meglio specificata missione da compiere, abbandonando d’un tratto la frenetica attività di progettazione che andava svolgendo dal 1934: poco dopo anche alcuni dei suoi collaboratori «scomparvero», mentre il suo più fervido sostenitore sovietico, S. Tret’jakov, venne fucilato come «spia».Piscator visse a Parigi dal 1936 al 1938, poi emigrò negli Stati Uniti, a New York, dove diresse una scuola d’arte drammatica e mise n scena numerose opere, tra cui Guerra e pace di Tolstoj. Il suo ritorno in Germania, nel 1951, segnò l’inizio di un lungo e movimentato periodo di viaggi e regie. Ricordiamo tra gli altri gli allestimenti di La morte di Danton a Marburgo (1952), Requiem per una monaca e una ripresa di Guerra e pace a Berlino (1955), La danza della morte ad Amburgo, Il lutto si addice ad Elettra a Essen, Gas a Bochum (1958), Biedermann e gli incendiari a Mannheim (1959), Madre Courage a Kassel e I sequestrati di Altona a Essen (1960-61), Dialoghi dei profughi a Monaco e Il balcone a Francoforte (1962). Finalmente nel 1962, a Berlino, Piscator riebbe un suo teatro e mise in scena Il Vicario di Rolf Hochhut (1963), Sul caso di J. Robert Oppenheimer di Heinardt Kipphardt (1964) e L’istruttoria di Peter Weiss (1965). L’apporto più originale dei suoi ultimi anni, il «Teatro documento», diventa l’oggetto di appassionate discussioni. Piscator morì a Starnberg, il 30 marzo 1966. Anche se la stagione più fervida e innovatrice di Piscator è quella che si chiude con il 1930, l’anno in cui si arresta Il teatro politico, la sua vicenda di operatore e teorico continua sino al 1966, ricca di scritti e polemiche che confermano la continuità del suo lavoro. [...] M.C. [...] II. Per la storia del teatro politico Il teatro politico, come si è sviluppato nel corso delle mie varie imprese, non è né un’invenzione personale, né una conseguenza del rivolgimento sociale del 1918. Le sue radici risalgono alla fine dello scorso secolo. A quell’epoca irrompono nel buon ordine spirituale della società borghese forze che, coscientemente o per il semplice fatto della loro esistenza, sconvolgono e in parte distruggono questo ordine. Le forze in questione hanno due origini diverse: provengono dalla letteratura e dal proletariato. 1 Da Erwin Piscato, Il teatro politico [1929], traduzione italiana di Alberto Spaini, Introduzione di Massimo Castri, Einaudi, Torino 1976, pp. XXII-XXIII, 26-41, 61-69, 123-50. La prima edizione italiana, sempre di Einaudi, è del 1960. Dove esse si incontrano sorge nell’arte un nuovo concetto: il naturalismo, e nel teatro una nuova forma: la Scena del Popolo [Volksbühne]. È strano il grande ritardo con cui il proletariato organizzato entra in un rapporto positivo col teatro. Esso utilizza tutte le possibilità di espressione della società borghese, si crea, se anche in misura relativamente modesta, una propria stampa, si presenta nel parlamento, penetra nello Stato. Ma trascura il teatro. Quale ne è il motivo? Innanzitutto l’intensità della lotta politica e corporativa lega tutte le forze; per compiti culturali, per includere il fattore culturale nella lotta, non rimangono energie disponibili. Ma poi — e questo è forse il motivo decisivo — nel ventennio dopo il 1870, in fatto d’arte il proletariato è ancora completamente dominato dal modo di vedere borghese. L’uomo semplice vede ancora religiosamente nel teatro un «tempio delle muse» nel quale si può entrare solo col vestito da festa e in uno stato d’animo di particolare elevazione. Anche a lui avrebbe fatto l’impressione di un sacrilegio se nelle sale fastose con gli stucchi d’oro e il velluto rosso gli avessero parlato delle «brutture» della lotta quotidiana, di salari, di orari di lavoro, di dividendi e guadagni. Questo riguardava i giornali. In teatro dovevano dominare i sentimenti, l’anima, lo sguardo doveva spaziare al di là della vita quotidiana, nel mondo del bello del grande e del vero. Il teatro è un’arte solenne. È vero che l’operaio se la può concedere solo raramente. Non fosse altro che per i prezzi dei teatri berlinesi, che ne fanno qualcosa di riservato alle classi agiate.2 La cultura, i rapporti culturali: anche questa è una equazione che nei limiti di questa società si può esprimere più rapidamente e più chiaramente in cifre. Questa situazione non muta gran che dopo la fondazione della Libera Scena del Popolo [Freie Volksbühne] (Bruno Wille, G. Winkler, Otto Erich Hartleben, Kurt Baake, Franz Mehring, Gustav Landauer, ecc.). Il suo unico scopo apparente è: buone rappresentazioni teatrali a basso prezzo. Ma nello stesso tempo ha anche un’ambizione culturale. «Circa sei mesi dopo le prime rappresentazioni della “Scena libera” (una organizzazione sul modello del “Théâtre-Libre” di Antoine) il dottor Bruno Wille lanciò nell’organo socialista, il “Berliner Volksblatt”, un appello nel quale invitava le masse a raccogliersi in una Libera Scena del Popolo intorno all’idea di un teatro che non dovesse più servire alle vuote spiritosaggini da salotto e alla letteratura da passatempo, ma a un’arte che mirasse alla sincerità e alla verità». (S. Nestriepke, Il teatro attraverso i tempi). Un programma ideale, purtroppo non solo ideale, ma anche idealistico. Anche col nuovo grido di battaglia: «L’arte al popolo!», non riuscirà ad abbandonare la piattaforma spirituale della società borghese. L’arte, così come viene determinata dalla società borghese, rimane un concetto intangibile. Che ogni autore drammatico abbia da dire qualche cosa di specifico per la sua epoca, che non possa venire trasferito senza spiegazioni da un’epoca all’altra, è un fatto che non è stato ancora scoperto. Il nuovo criterio si limita per ora alla forma, non giunge al problema interiore. E forse sarebbe stata anche prematura la pretesa di considerare in questo stadio l’arte come fattore politico e di usarla come un’arma del movimento operaio. L’epoca non era ancora matura. Fu già un notevole progresso aver messo in contatto due fattori così eminentemente importanti dal punto di vista sociale: il teatro e il proletariato. Per la prima volta le classi proletarie si presentano come clienti del mondo artistico, non più a piccoli gruppi o individualmente, ma in masse compatte e organizzate. Fino alla loro fusione le due associazioni ebbero complessivamente ottantamila membri, la qual cosa 2 Durante le discussioni per il permesso delle rappresentazioni dei Tessitori [Die Weber], L’Arronge , direttore del «Deutsches Theater», avanzò come argomento principale che il prezzo dei biglietti nel suo teatro era assolutamente fuori della portata delle classi sociali sulle quali I tessitori avrebbero potuto avere una azione sobillatrice. dimostrava irrefutabilmente l’interesse culturale delle masse lavoratrici, contro le teorie dei ceti dominanti sull’«ignoranza della plebe». La fondazione di questa società3 è indivisibilmente collegata con la tendenza letteraria che intorno al 1890 conquistò il teatro tedesco. Non è questo il luogo per analizzare il naturalismo nei suoi elementi sociali e rivoluzionari. Ma non si può naturalmente spiegare la sua origine, come fanno gli storici dell’arte borghese, nel senso di una semplice questione di moda letteraria. Il naturalismo marciava dietro alla bandiera: «Verità, niente altro che verità!» Ma che cosa significava la verità in quel periodo? Nient’altro che la scoperta del popolo, del quarto Stato, da parte della letteratura. Al contrario di tutte le altre epoche letterarie nelle quali il popolo offre un personaggio comico (oppure, come in quel lavoro sentimentale del decennio dopo il 1880, Kalischer, in cui il tipo dell’artigiano viene eroicizzato all’acqua di rose, sul tema «carriera dell’uomo di valore»), oppure, come in Büchner, un unico personaggio tragico, per la prima volta nel naturalismo tedesco il proletariato appare sul teatro come classe (I tessitori, La famiglia Selicke, Hanna Jagert). Ma il naturalismo è tutt’altro che capace di esprimere i postulati delle masse. Il naturalismo si limita a constatare dati di fatto. Esso ristabilisce la congruenza fra la letteratura e le condizioni della società. Certamente il naturalismo non è rivoluzionario, non è «marxista» nel senso moderno. Come il suo grande pioniere Ibsen, non è mai uscito dai limiti del problema. Invece di una risposta esso ci dà scopi di disperazione. Per un momento, che fu un momento storico, esso fece del teatro una tribuna politica.4 Non è un caso che nel medesimo tempo in cui il proletariato si impossessa idealmente e organizzativamente del teatro, incominci la rivoluzione scenica anche dal punto di vista tecnico. Verso il 1880 si inizia l’applicazione della luce elettrica sul palcoscenico, verso la fine del secolo viene inventata la scena girevole. Così si lavora in tutti i sensi per creare in senso assoluto un nuovo concetto del teatro. Ma il punto culminante di questo movimento era già stato raggiunto col primo slancio. Quasi fatalmente lo sviluppo è connesso con la trasformazione del più grande fattore di potenza politica di quell’epoca: il socialismo. Rapido sviluppo dell’organizzazione, 3 In contrasto con gli organizzatori di questa società, gli operai berlinesi ne considerarono la fondazione come un elemento intimamente legato alla lotta di classe. Istintivamente essi videro nel nuovo teatro un baluardo culturale del loro movimento, senza trarne però le conseguenze pratiche. È bensì vero che Brahm scrisse: «L’idea di fondare una Libera Scena del Popolo è nata fra socialisti. La riunione in cui fu decisa la realizzazione di questo piano, era una riunione socialista... Questo determinò il carattere e il significato della nuova impresa». («Freie Bühne», 6 agosto 1890). Ma la direzione dell’associazione perdette ben presto terreno. Un aggravamento di questo contrasto tra l’origine e la pratica condusse finalmente alla separazione dell’ala destra che si ricostituì come «Neue Freie Volksbühne». Le due iniziative furono di nuovo fuse con un accordo nel 1913 e finalmente nel 1920 nella «Volksbühne». 4 Ecco la reazione della polizia: «Naturalmente un lavoro come questo non può non avere nelle attuali condizioni un’azione sobillatrice su una grande parte del pubblico di una grande città. Il pubblico non potrebbe non mettere in relazione colla nostra epoca le condizioni descritte nel dramma per giustificare la sollevazione degli operai, e trovarvi una forte analogia. L’ordinamento sociale e statale del 1844 sussiste ancora oggi; la propaganda socialista mira a consolidare la persuasione che il predominio deI cosiddetto “ordinamento sociale capitalistico” sia necessariamente collegato con lo sfruttamento delle classi operaie. La stampa socialista ha già riconosciuto la forza sobillatrice del dramma... ed è giustificato il timore che le classi sociali più basse della popolazione, sotto l’impressione dell’azione scenica, nella quale risuona l’eco dei luoghi comuni ripetuti giornalmente dai socialisti, possa essere trascinata a una insurrezione contro l’ordine stabilito». (Dalla risposta del 4 febbraio 1893 contro il ricorso per la proibizione dei Tessitori, del presidente di polizia von Richthofen). Ed ecco la reazione del proletariato: «... Durante il quarto atto (dei Tessitori) fra il pubblico c’era un fermento più violento ancora che sulla scena. Il pubblico non poteva più reprimere lo sdegno, la partecipazione accesa in lui dal poeta. Sembrava che stesse per scatenarsi un uragano che solo a stento poté essere trattenuto. A metà dell’atto si scatenò un urlo che interruppe per minuti interi la recitazione e fece tremare l’edificio, un urlo di sdegno per la miseria umana. (Da una critica dell’epoca). perfezionamento e affinamento delle forme, decadenza del contenuto spirituale che diventa arido schema. Le forze contrarie, ancora radicate nel mondo della borghesia, ma già tendenti a uscirne nelle loro intenzioni, si esaurivano prima ancora di aver potuto iniziare un attacco decisivo. Naturalmente neanche in quell’epoca, che Sternheim ha battezzato l’«epoca del velluto», il teatro ha mai rotto i suoi rapporti vitali con la società. Strindberg e Wedekind avevano messo all’ordine del giorno le questioni del sesso, del matrimonio, la revisione dei concetti morali. Nella loro opera, considerata dal punto di vista odierno, c’è già una dissoluzione, un disfacimento di forme della comunità umana che si rivelavano irrigidite, in un’epoca in cui sotto la pressione delle forze economiche incominciavano già a trasformarsi tutte le forme di umana comunione. Ma era un rovesciamento dei valori assolutamente limitato a un’unica classe. Era una questione che riguardava la buona società, e basta. L’operaio delle fabbriche, coi suoi sessanta centesimi di salario all’ora, preferiva andare nei piccoli cinema che si incominciavano ad aprire. Qui almeno vedeva di quando in quando un lembo della sua propria vita. Ma delle frasi di Wedekind: «La carne ha uno spirito proprio», e di Strindberg: «La povera umanità ci fa pena» non sapeva naturalmente cosa farsene, come degli aforismi biografici di Sternheim o delle architetture estatiche di Georg Kaiser. Le forze che promuovono lo sviluppo del teatro politico vengono da tutt’altre parti. Dall’«espressionismo di guerra» solo verso la fine del conflitto e anche in modo molto cauto. «La giovane Germania» [«Das junge Deutschland»], fondata da Heinz Herald (sotto il patronato di Reinhardt) mette per la prima volta in discussione la guerra, nel 1917, con due diversi lavori. La Battaglia navale [Seeschlacht] di Goering giunge al pubblico in una matinée del «Deutsches Theater». Poco dopo, sulla stessa scena, La stirpe [Das Geschlecht] di Unruh, una discussione sulle forze sociali dell’epoca della guerra, per quanto in forma vaga e confusa. Inutile mettere in evidenza che in nessuno di questi due lavori il problema trova una soluzione. L’unica via d’uscita è compiere il proprio dovere sino all’estremo («Sparare deve essere dunque la cosa che ci importa di più», Goering, Battaglia navale) oppure la completa distruzione di se stessi. Deboli tentativi di affrontare in un modo qualunque questo argomento gigantesco. Il teatro ufficiale, compresa la «Volksbühne», tace. Mentre fuori, nelle strade, il proletariato viene respinto con le mitragliatrici e i lanciafiamme, mentre le case tremano sotto il fracasso delle colonne dell’esercito e dei carri armati che marciano da Potsdam e da Jüterbog su Berlino, il sipario si alza davanti ai pochi spettatori di platea e alle gallerie vuote per narrarci il destino di Enrico IV o per mostrarci Come vi piace di Shakespeare (Reinhardt). Invece quei gruppi, che già durante la guerra avevano formato un’opposizione intellettuale e ora nella rivoluzione vedono giungere la loro ora, prendono l’iniziativa [...]. Al principio del 1919 viene fondata a Charlottenburg «La Tribuna» [«Die Tribüne»]. Karlheinz Martin mette in scena La trasformazione di Ernst Toller. Questo teatro perde tuttavia il suo significato ideologico e in breve tempo finisce fra le imprese affaristiche. Martin, interrotto la prima volta dalla malvagità dei tempi, tenta di ripetere altrove il suo esperimento. Nasce il primo Teatro Proletario e muore dopo una sola rappresentazione.5 Questo attacco, condotto fino quasi alla vittoria, verrà portato a 5 «Nella primavera 1919 fu fondato a Berlino il Teatro Proletario da Arthur Holitscher, Ludwig Rubiner, Rudolf Leonhard, Karlheinz Martin, Hermann Junker, Beierle, Alfons Goldschmidt, ed altri. Doveva essere il primo strumento del culto del proletariato in Germania, in forma collettiva. Alla prima rappresentazione del dramma Libertà di Krantz (che fu anche l’ultima) la Sala della Filarmonia era affollata. Gli organizzatori dovettero rinunciare a un palcoscenico regolare. E vi rinunciarono volentieri perché credevano di poter recitare ovunque e con minimi mezzi. Originariamente il lavoro era stato immaginato anonimo, senza neppure pubblicare i nomi degli attori, e anche i requisiti scenici dovevano essere i più semplici possibile, senza pompa, veramente proletari. La rappresentazione ebbe molto fondo da forze più vive e con idee più chiare sugli scopi politici che perseguono. Insieme con loro incomincia il lavoro di propaganda politica, che si presenta con una chiara parola d’ordine rivoluzionaria. Esso viene fondato nel marzo del 1919 da me stesso insieme col mio amico Hermann Schüller, e si chiama il Teatro Proletario. III. Il Teatro Proletario (1920-21) Compagni e compagne! Oggi vedrete Il mutilato [Der Krüppel]. La guerra dei capitalisti, con i quali i proletari collaboravano e collaborano ancora oggi sul terreno del lavoro, ha schiacciato milioni di individui, ha gettato altri milioni sul lastrico come mendicanti. Chi viene loro in aiuto? Forse i borghesi che nei loro diversi tipi, incoscienti, volgari, trasudanti di ipocrito spirito benefico, passano davanti al mutilato, tentano di stordire la propria coscienza ingiuriando «gli oziosi vagabondi» e protestando contro lo Stato che dovrebbe spazzare dalla strada un simile scandalo pubblico? Solo tu puoi comprendere il furore che ha nel cuore il mutilato! Anche tu sei un mutilato. Tu, operaio, che domani potresti essere buttato sulla strada con un calcio dal tuo padrone. Tu, disoccupato, che sei già stato cacciato dall’officina perché i guadagni erano diminuiti. Tu, operaio: solidarietà coi compagni disoccupati! Tu, disoccupato: organizzazione unitaria rivoluzionaria dei disoccupati! Eleggete i vostri Consigli politici dei disoccupati. Solo da voi vi potete salvare.6 Non c’è altra scelta: o socialismo, o morte nella barbarie. All’uscita [Vor dem Tore] — di un campo di concentramento di compagni arrestati nell’Ungheria reazionaria di Horty. Chi sa se il mercenario che è costretto a fare la sentinella, ha una coscienza proletaria, chi sa se la donna, la prigioniera politica, la compagna torturata, riuscirà a scuotere i suoi sentimenti e guadagnarlo alla causa della rivoluzione? E quando ucciderà l’ufficiale bianco, il comandante del campo, chi sa se voi, compagni, vi schiererete al suo fianco, perché sapete che anche l’azione rivoluzionaria che uccide è sacra, e solo quell’azione ci può salvare, di cui l’atto del soldato è solamente un simbolo? Il capitalismo mondiale si arma con tutte le sue forze, economiche e militari, per schiacciare la Russia. La Russia è la roccia ferma nei marosi delle rivoluzioni mondiali. Il Giorno della Russia [Russlands Tag], il giorno della decisione è venuto. O solidarietà attiva con la Russia sovietica nel corso dei prossimi successo, sebbene il lavoro finisse sentimentalmente, un po’ nel senso della rassegnazione tolstojana. Come questo lavoro, così tutta la tendenza del teatro era ancora proletaria solo a mezzo. Non era un vero teatro dell’epoca nel senso dei postulati del proletariato». (Alfons Goldschmidt). 6 Trattative per un teatro proletario. «Dall’ufficio di propaganda del Teatro Proletario, riceviamo il seguente comunicato: “Per la fondazione di un teatro proletario che deve svilupparsi in una scena di propaganda degli operai rivoluzionari di GrossBerlin, si è formato un comitato di operai rivoluzionari. Di questo fanno parte finora: la commissione culturale dell’USPD [Partito socialista indipendente] e del Kap [Partito operaio comunista], della Libera unione operaia, della Unione operaia universale, della Lega operaia podistica ‘Amici della natura’, della Lega internazionale dei danneggiati di guerra, del Consiglio dei disoccupati. Un rappresentante del KPD [Partito comunista] poté mettersi in contatto con noi solo in ritardo, ma parteciperà alla seconda seduta. La Centrale dei Consigli di fabbrica ci ha inviato la sua adesione. Il comitato invita tutte le organizzazioni, che accettano la dittatura del proletariato, a una seconda seduta in cui devono essere stabiliti il programma e i principi del nuovo teatro. La seduta avrà luogo martedì 7 settembre alle sei di sera nella Scuola per gli operai, Schicklerstrasse 5-6”». (Dai giornali). mesi, oppure il capitalismo mondiale, internazionale, riuscirà a distruggere la garante delle rivoluzioni mondiali. O socialismo, o morte nella barbarie. Questo appello, che fu diffuso come manifesto e insieme come programma, ci dice tutto sul carattere e le intenzioni del Teatro Proletario. Non si trattava di un teatro destinato a mettere in contatto i proletari con l’arte, ma di propaganda concreta; non di un teatro per il proletariato, ma di un teatro proletario semplicemente. In questo senso la nostra impresa si distingueva non solo dalla «Volksbühne», sul cui esempio voleva crearsi un’organizzazione di spettatori; ma si distingueva sostanzialmente anche dai teatri proletari di Martin e di Leonhard. Dal nostro programma fu bandita radicalmente la parola «arte», i lavori che volevamo rappresentare erano appelli con i quali volevamo intervenire negli avvenimenti attuali, «fare della politica». Il repertorio7 non fu praticamente realizzato. Ma ogni nuovo «pezzo» era un pezzo nel vero significato della parola, brani dell’epoca, squarci di una visione del mondo, ma non quella totalità, quell’insieme completo dalle radici sino all’ultima foglia, mai l’ardente attualità quotidiana che invece ci balzava incontro irresistibile da ogni riga di un giornale. Il teatro restava ancora sempre dietro al giornale, non era abbastanza attuale, non giungeva abbastanza attivamente all’immediatezza, era ancora sempre una forma artistica troppo rigida, preconcetta e limitata nei suoi effetti. Quello che sognavo era un contatto molto più intimo del teatro col giornalismo, con l’attualità quotidiana. Immaginandoci che fosse solo una questione di copioni, ci accingemmo a scriverne uno per conto nostro. Lo spunto ci fu dato dall’importanza che il problema russo doveva avere per l’atteggiamento degli indipendenti. Il dramma fu intitolato Giorno della Russia [Russlands Tag]e fu scritto collettivamente. Il Teatro Proletario dava le sue rappresentazioni in sale e locali popolari.8 Volevamo andare a cercare le masse nel loro stesso territorio. Chi ha mai avuto da fare con simili locali, con le loro piccole scene che meritano a malapena questo nome, chi conosce queste sale con il loro odore di birra stantia e di latrina, con le loro bandierine di carta rimaste dall’ultima festa da ballo, s’immaginerà facilmente contro quali difficoltà dovevamo lottare per mantenere vivo il concetto di teatro.9 7 Progetto di un repertorio per il Teatro Proletario: E. Sass, La moglie ritorna, All’uscita, drammi di un comunista ungherese scritti per il Teatro Proletario di Budapest durante la dittatura dei Consigli; L. Barta, La casa buia, rappresentato nel Teatro Proletario di Budapest; N. Garami, Verso la redenzione; Verhaeren, Le albe; Gasbarra, Notte di Valpurga prussiana; Rutra, L’azione; Leo Matthias, Gli scatenati; Paul Zech, La ruota; Karl Fischer, L’eredità; Yvan Goll, La morte di Lasalle, Thomas Münzer; Trautner, La prigionia; Toller, Uomo massa. 8 Teatro Proletario. Nel mese di novembre erano in programma I nemici di Gor’kij. Furono nuovamente rappresentati il 12 dicembre alle tre del pomeriggio nella grande Sala della Filarmonia. Giorni di rappresentazioni: Neukölln : domenica, ore otto di sera, Sala Kliems. Nell’Est: sabato, 11 e 18, ore otto di sera, aula scolastica di Parkaue. Nel Nord: giovedì 9, ore otto di sera, Sala Pharus. Moabit: mercoledì 15, ore otto di sera, Casa Sociale di Moabit. Centro: domenica 12, ore tre pom., Filarmonia ; domenica 19, ore tre pom., Sala Beethoven; domenica 26, ore tre pom., Sala Beethoven. [Si tratta di sale da ballo, birrerie popolari, in strade della periferia o in vicoli del centro. Il nome pomposo è proporzionale alla miseria dell’ambiente]. Prezzi: 6 marchi per non appartenenti alle organizzazioni operaie; 3,50 marchi per appartenenti alle organizzazioni operaie. Ingresso libero ai soci del Teatro Proletario! Tessere di soci alla cassa del teatro. Nuove iscrizioni come soci nei posti di vendita dei biglietti e alla cassa del teatro. Ingresso per i disoccupati, 1 marco. 9 Dal seguente fatto si può desumere come si svolgevano le cose durante queste rappresentazioni. John Heartfield, che si era incaricato di preparare il fondale per Il mutilato, consegnò il suo lavoro come al solito troppo tardi e comparve all’entrata della sala con il fondale arrotolato sotto il braccio, proprio mentre eravamo a metà del primo atto. Ciò che avvenne poi sarebbe potuta sembrare una trovata della regia voluta da me, mentre, invece, era del tutto imprevista. Heartfield : «Ferma, Erwin, ferma! Sono qui!» Tutti si voltarono meravigliati verso quel piccolo uomo che, rosso in faccia, era piombato dentro. Non era possibile continuare a recitare, per cui mi alzai, lasciando da parte per un momento la mia parte di mutilato, e gli gridai: «Dove ti sei cacciato? Ti abbiamo aspettato quasi mezz’ora (mormorio di Non si potevano immaginare scenari più primitivi. Ma in corrispondenza con i nuovi compiti del teatro, ben presto si trasformò anche il significato di questi fondali semplici, dipinti frettolosamente. Nel Giorno della Russia un’enorme carta geografica rendeva evidente al primo sguardo il significato politico del luogo dell’azione. Non si trattava più di un semplice «scenario», ma era già raggiunta una prospettiva sociale, politico-geografica oppure economica. Faceva parte della interpretazione. Partecipava agli avvenimenti scenici, diveniva in certo modo un elemento drammatico. Con ciò interveniva nella rappresentazione anche un nuovo momento: quello pedagogico. Il teatro non doveva più agire sullo spettatore solo dal punto di vista sentimentale, non doveva più speculare sulla sua capacità emotiva: si rivolgeva invece intenzionalmente alla sua ragione. Non doveva più provocare slancio, entusiasmo, abbandono, ma comprensione, cognizione, idee. In origine avevamo avuto l’intenzione di andare avanti senza ricorrere ad attori borghesi. Fatta eccezione per alcuni attori professionisti che ci erano vicini politicamente, ho recitato principalmente con operai. Mi sembrava necessario lavorare insieme con uomini che, precisamente come me, vedevano nel movimento rivoluzionario la centrale, il motore della loro azione. Partendo dall’idea generale del Teatro Proletario davo valore decisivo alla formazione di una collettività che doveva essere insieme umana, artistica e politica. Svolgendo ulteriormente l’aspetto pratico del lavoro giunsi molto presto ad un’altra concezione: la prima cosa che si deve richiedere ad ogni attore è la caratterizzazione: saper rendere viva una figura attraverso le sue proprie leggi. Non è neanche detto che un proletario sia in grado di rappresentare sempre in modo credibile la figura di un proletario. Non appena però un dilettante deve impersonare una figura appartenente ad un ambiente a lui estraneo, cade immancabilmente nella caricatura, si arresta a delle esteriorità esagerate. I buoni sentimenti non sono garanzia perché venga raggiunto anche quell’effetto che, proprio politicamente, deve essere prodotto attraverso una certa figura. In questo senso, un attore che sviscera l’essenza della parte può raggiungere molto più sicuramente l’effetto che noi vogliamo ottenere, anche se egli stesso non possiede un certo «sentimento politico». Mi sembra più importante richiedere un’altra cosa: pretendere dall’attore, accanto a tutte le qualità tecniche, anche il dominio spirituale della sua parte. Non rappresentare il personaggio con tratti esteriori, ma partire dalla sua essenza, dal contenuto spirituale, politico e sociale. Avere coscienza della funzione che svolge all’interno del dramma. Solo partendo da questa concezione potrà nascere una vera oggettività anche in campo interpretativo; non nel senso della espressione di moda, bensì oggettivamente, per il fatto che essa è al servizio della cosa stessa. Tutti i collaboratori del Teatro Proletario si dedicarono alla causa con una dedizione e uno spirito di sacrificio illimitati. I loro motivi non erano né la prospettiva di un guadagno — dovevano tutti i momenti rinunciare al proprio stipendio — né approvazione del pubblico) e alla fine abbiamo incominciato senza il tuo fondale». Heartfield : «Non hai mandato la macchina! colpa tua! Sono corso per strada e nessun tram voleva caricarmi perché la quinta era troppo grande. Alla fine sono poi riuscito a prenderne uno e ho dovuto mettermi dietro, sulla piattaforma, da dove ci mancava poco che cadessi!» (crescente ilarità nel pubblico). Lo interruppi: «Sta’quieto, Johnny, adesso dobbiamo continuare». Heartfield (con grande eccitazione): «Prima deve essere appesa la quinta». E poiché non dava pace, mi girai verso il pubblico chiedendo che cosa si doveva fare: se dovevamo continuare a recitare o, prima, appendere il fondale. La stragrande maggioranza decise per la quinta. Facemmo dunque calare il sipario, appendemmo il fondale e tra la soddisfazione generale ricominciammo il dramma da capo. (Oggi definisco John Heartfield fondatore del «Teatro Epico»). l’ambizione personale — molto spesso i nomi degli interpreti e dei vari collaboratori non comparivano neanche sul programma; — ma rimanemmo ostinatamente nella lotta per il nostro teatro durante quasi un anno, basandoci sulle nostre sole forze. Mettemmo in scena sei diversi lavori10 fra cui alcune grandi opere che ci imposero lunghe settimane di prove faticose. Alcuni spettacoli avrebbero potuto affrontare benissimo il confronto con quelli dei teatri normali (I nemici di Gor’kij, I Canachi di Jung) e per lo meno ne raggiunsero il livello. Tuttavia per principio la critica borghese non fu ammessa alle rappresentazioni. Dal punto di vista economico il Teatro Proletario avrebbe dovuto basarsi su una organizzazione degli spettatori sul genere di quella della «Volksbühne». I membri raggiunsero anche la cifra di cinque o seimila, che erano reclutati principalmente nell’Unione Operaia [Allgemeine Arbeiter-Union], nel Kap [Partito operaio comunista] e fra i sindacalisti. L’atteggiamento del Partito comunista (KPD), o per lo meno quello dei suoi rappresentanti fu sin da principio così ostile che non poté non avere influenza sulla massa dei suoi aderenti. Invece di riconoscere che nel nostro teatro stava sorgendo qualche cosa che si staccava principalmente da tutta la produzione artistica precedente e che oltre a perseguire gli ovvi scopi propagandistici eliminava il concetto borghese dell’arte e per lo meno nei tratti fondamentali disegnava una nuova arte proletaria, i critici della «Rote Fahne» giudicarono il nostro lavoro con criteri propri dell’estetica borghese, chiedendoci qualcosa che si identificava completamente con i concetti della borghesia: Contro l’idea di un teatro proletario non c’è nulla da obiettare (sic!) e bisogna ammettere che il desiderio di una scena proletaria è legittimo... Il programma dice... che questa non vuole essere arte ma propaganda... che si vuole esprimere sulla scena l’idea proletaria e comunista, per agire propagandisticamente ed educativamente; che non si vuole ottenere un «godimento artistico». A questo proposito bisogna dire: allora non bisogna chiamarsi teatro, ma battezzare la propria creatura col suo vero nome: propaganda. Il nome di teatro obbliga all’arte, alla estrinsecazione artistica... L’arte è una cosa troppo sacra perché si possa abusare del suo nome a bassi scopi propagandistici!... Quello che occorre oggi (1920!) all’operaio è un’arte forte... quest’arte può essere anche di origine borghese, purché sia arte. («Rote Fahne», 17 ottobre 1920).11 Mentre da un lato si reclama «arte», magari borghese, dall’altro si pensa di identificare l’arte con l’insurrezione per le strade: A ciò si aggiunge il fatto che quest’epoca di acuta lotta di classe esclude una forma d’arte contemplativa e sensuale. In simili epoche l’arte non può esprimersi come verità in parole o in suoni, ma si realizza solo in atti. Si rende un servigio ai grandi che ci hanno preceduto, non già deformandoli, ma mettendo in evidenza ciò che vi è in essi di eterno. La nuova arte non nascerà nel Teatro Proletario, ma nei Consigli di fabbrica, nelle organizzazioni, sulle barricate... («Rote Fahne», 26 ottobre 1920). Si continuava così una linea che derivando dalle classiche definizioni borghesi aveva servito da guida per decenni alla «Volksbühne», e ancora oggi non è completamente scomparsa. In questa discussione si impernia la questione dell’eterno valore dell’arte, che non dovrebbe essere più sollevata da un marxista. Grazie ai lavori di Trockij, Bogdanov, Kercenčev, e, in Germania, di Diebold, Ihering, Kerr, Anna Siemsen, ecc., e anche in seguito al nostro lavoro pratico, è incominciata intanto una revisione dell’estetica borghese che fatalmente dovrà condurre alla enunciazione di un nuovo concetto dell’arte. Per quanto vivo fosse il sentimento della necessità e importanza della nostra impresa, il proletariato si mostrò troppo debole economicamente per sopportarne a lungo il peso. In quasi tutte le serate le sale erano affollate fino all’ultimo posto, eppure gli incassi 10 Jung, I Canachi e Per quanto ancora questa porca giustizia borghese?; K. A. Wittfogel, Il mutilato; Upton Sinclair, Il principe Hagen; Gor’kij, I nemici; Opera collettiva, Giorno della Russia. 11 Le parole in corsivo e le parentesi sono mie (E. P.), serali non coprivano neanche le spese (giacché i disoccupati, in base alla loro carta di legittimazione, avevano l’ingresso quasi gratuito). A ciò si aggiunga il grande ostacolo che il nostro lavoro trovava nelle vessazioni e nelle difficoltà sollevate continuamente dalla polizia. Non era possibile ottenere una concessione regolare dal presidente della polizia Richter. E non c’era da meravigliarsi perché il presidente era... un socialista! (Ed è abbastanza vergognoso che la «Rote Fahne» gli abbia offerto il pretesto per rifiutarci definitivamente il permesso di recitare). ORDINE DEL GIORNO In seguito alle rappresentazioni del Teatro Proletario di Per quanto ancora questa porca giustizia borghese? [Wie lange noch, du Hure bürgerliche Gerechtigkeit?], è stato votato un ordine del giorno che protesta nei termini più espliciti contro le misure prese dal presidente della polizia contro il Teatro Proletario. Gli spettatori di questo teatro sono sdegnati dal fatto che a qualsiasi teatro o cinematografo, come a ogni più miserabile scena di varietà, anche se vi vengono rappresentate le cose più ripugnanti per l’arte, viene concesso il permesso di esercizio, mentre si mira a sopprimere, col rifiuto di questo permesso, il Teatro Proletario, un’impresa di operai la quale lotta contro le dannose influenze che i film pornografici, le idiozie dei varietà e le scene antiartistiche esercitano sulla massa dei lavoratori. Gli spettatori richiamano l’attenzione del presidente di polizia sul fatto che egli non ha nessun diritto di accogliere o respingere rappresentazioni sceniche in base al loro contenuto, che non gli spetta di esprimere un giudizio sulla forma artistica, ma che gli organi della polizia si devono regolare sul parere della corporazione e dell’Associazione dei lavoratori dello spettacolo, le quali hanno entrambe espresso parere favorevole sulla concessione del permesso di esercizio. Richiamano altresì l’attenzione del signor Richter sul fatto che egli potrebbe sfogare meglio le sue smanie censorie sui cinematografi di Alexanderplatz, sui teatri di varietà del Nord di Berlino, sulle sale dove si balla a lumi spenti e sui locali notturni della Friedrichstrasse e dell’Ovest di Berlino, e dovrebbe chiudere imprese teatrali le quali sfruttano nel modo più scandaloso gli istinti sensuali del loro pubblico di pescecani, affamano gli attori e spingono le attrici alla prostituzione. Chiedono inoltre al signor Richter se sarebbe disposto a rifiutare anche una nuova concessione cooperativa nel caso che il Teatro Proletario ne chiedesse una in base alle nuove disposizioni di legge. Nell’aprile 1921 ebbe luogo l’ultima rappresentazione del Teatro Proletario. È indifferente oggi chiedersi se il risultato positivo di questo primo anno era grande o piccolo; una cosa era raggiunta: il Teatro si era ormai conquistato un primo posto fra i mezzi di propaganda del movimento proletario. Esso faceva ormai parte dei mezzi espressivi del movimento rivoluzionario, con lo stesso diritto della stampa e del parlamento.12 Ma con ciò il Teatro aveva contemporaneamente compiuto anche una metamorfosi delle sue funzioni come istituzione artistica. Ave va nuovamente raggiunto uno scopo che rientrava nel campo sociale. Dopo un lungo letargo che lo aveva isolato dalle energie vitali dell’epoca, era divenuto nuovamente un fattore dello sviluppo sociale. [...] VIII. Il dramma documentario La messa in scena in cui per la prima volta il documento politico forma l’unica base come testo e come scenario è Ad onta di tutto! [Trotz alledem!] («Grosses Schauspielhaus», 12 luglio I925). 12 «La novità fondamentale di questo teatro è il fatto che spettacolo e realtà si fondono insieme in modo strano e inusitato. Spesso non sai più se ti trovi in un teatro o in una riunione, ti sembra di dovere intervenire anche tu, di dover dare una mano agli altri, di dover interloquire, interrompere. Il confine fra spettacolo e realtà è cancellato... Il pubblico sente di avere gettato veramente uno sguardo nella vita reale, di non essere lo spettatore di un’opera di teatro, ma di un brano di vita reale... a tal punto che lo spettatore viene trascinato entro lo spettacolo e tutto quello che succede sulla scena lo riguarda personalmente». («Rote Fahne», 12 aprile 1921. Critica dei Canachi di Jung). Lo spettacolo ebbe origine da una mastodontica rivista storica che dovevo mettere in scena nella primavera di quest’anno per incarico del Cartello culturale degli operai, nelle montagne di Gosen, in occasione delle feste estive (Feste del solstizio). Questa rivista, per la quale detti l’incarico a Gasbarra di comporre il soggetto, doveva comprendere in una forma abbreviata i punti culminanti delle rivoluzioni nella storia umana, dalla ribellione di Spartaco fino alla rivoluzione russa, e nello stesso tempo dare con una serie di quadri didattici un’idea generale del materialismo storico. Avevamo immaginato questo spettacolo in misure gigantesche. Erano previsti duemila interpreti, venti grandi riflettori dovevano illuminare la vallata aperta in forma di arena, e per caratterizzare certi complessi erano stati immaginati grandi simboli in misura esagerata. (Così, per caratterizzare l’imperialismo inglese, era stata progettata la costruzione di una corazzata lunga venti metri). Io mi ero stabilito sul posto per poter controllare continuamente i lavori sul terreno. Lo scenario era pronto, la musica composta anche questa volta da E. Meisel, finita nelle linee fondamentali, quando il Cartello culturale, sotto la guida del compagno Niekisch (oggi, dopo molte trasformazioni, divenuto propugnatore del «socialismo» razziale), ebbe all’improvviso degli scrupoli politici. Mentre si trascinavano ancora le trattative, il KPD [Partito comunista] ci invitò a organizzare uno spettacolo nel «Grosses Schauspielhaus» in occasione del congresso del partito che doveva avere luogo a Berlino. Non avevano ancora un’idea sulla forma o sul contenuto dello spettacolo: se ne sarebbe discusso nei prossimi giorni alla Centrale. L’iniziativa era partita dal deputato comunista Ernst Torgler, un nostro vecchio amico e collaboratore dei tempi della Rivista Rossa. Discutemmo insieme con Gasbarra che cosa si poteva fare. Trasportare i preparativi fatti nelle montagne di Gosen nel «Grosses Schauspielhaus» era impossibile. D’altra parte le lunghe settimane di lavoro per la nostra nuova rivista ci avevano talmente abituato a pensare in grandi proporzioni storiche, che qualsiasi lavoro già pronto ci sembrava insufficiente. Gasbarra propose di prendere una parte del nostro soggetto, e precisamente l’epoca dallo scoppio della guerra sino all’assassinio di Liebknecht e di Rosa Luxemburg, e di farne una rivista a sé. Per affermare il principio che anche dopo la spaventosa sconfitta del 1919 la rivoluzione sociale continuava la sua marcia demmo come titolo alla rivista le parole di Liebknecht: «Ad onta di tutto». Nella seduta decisiva della Centrale, il nostro progetto provocò qualche scrupolo fra le autorità del partito, perché volevamo rappresentare teatralmente personaggi come Liebknecht e Rosa Luxemburg. A molti sembrava pericoloso anche fare apparire sul palcoscenico personaggi come Ebert, Noske, Scheidemann, Landsberg, ecc. Finalmente ci dettero l’approvazione, soprattutto perché non avevano niente di meglio da proporre, ma rimasero scettici, anche perché non ci restavano più di tre settimane per fare tutto il nostro lavoro. La messa in scena ebbe un carattere assolutamente collettivo: il lavoro dei singoli collaboratori, autore, regista, compositore, autore delle scene e attori, s’intrecciava continuamente. Le costruzioni sceniche e la musica nascevano insieme col soggetto, e questo a sua volta nasceva insieme con la regia. Molte scene venivano studiate contemporaneamente in vari punti del teatro, prima ancora che il testo definitivo fosse stato stabilito. Per la prima volta il film doveva essere collegato insieme con gli avvenimenti scenici. (La stessa intenzione che avevamo avuto a proposito di Bandiere ma che non era stata realizzata). Questa contaminazione di due forme d’arte apparentemente contrastanti fra loro ha occupato uno spazio eccessivo nelle discussioni dei miei critici e nel giudizio dell’opinione pubblica. Per conto mio non ritengo che sia una questione tanto importante. In parte condannato senza remissione, in parte portato ai sette cieli, questo punto non è stato quasi mai giudicato esattamente. L’impiego del film sta sulla stessa linea delle proiezioni fisse in Bandiere. (A prescindere dal fatto che già a Königsberg avevo concepito in grande linea una trasformazione della scena per mezzo del film, se anche in modo molto limitato ed esclusivamente decorativo). Non si trattava d’altro che di un ampliamento e di un raffinamento di un vecchio mezzo, ma lo scopo rimaneva immutato. Più tardi è stato spesso sostenuto che io avevo preso questa idea dai russi. In realtà allora le condizioni del teatro sovietico mi erano quasi sconosciute: le notizie sulle messe in scena, ecc. giungevano molto raramente fino a noi. Ma anche successivamente non ho mai avuto notizia che i russi abbiano mai impiegato il film in modo funzionale, come avevo fatto io. Del resto la questione della priorità non ha nessuna importanza, e la coincidenza dimostra unicamente che non si trattava di uno scherzo tecnico, ma di una forma tipica del nuovo teatro che stava sorgendo, e che era basata su una comune filosofia, quella del materialismo storico. Che cosa mi importava e che cosa m’importa, nell’ambito di tutta la mia attività? Non già la propaganda di una filosofia per mezzo di forme pubblicitarie standardizzate, clichés, carteggi, ecc.; ma la chiara dimostrazione che questa filosofia e tutto quanto se ne può dedurre è la sola che possa valere nella nostra epoca. Si può sostenere quello che si vuole; ma anche ripetendo mille volte quello che si è sostenuto non lo si fa diventare più vero e più effettivo per questo. La prova convincente può essere costruita solo per mezzo di una conquista piena e scientifica dell’argomento; e vi posso pervenire solamente se — per usare il gergo teatrale — mi riesce di superare il taglio personale di una scena, il carattere esclusivamente individuale e casuale dei personaggi e del loro destino. E più precisamente creando una connessione fra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella storia. Non è un caso se in ogni lavoro il protagonista diviene l’argomento stesso. Da esso deriva il determinismo, la legge scientifica della vita, unico mezzo perché il destino privato possa attingere un significato supremo. Per questo scopo mi occorrono mezzi che rivelino l’influenza reciproca fra i grandi sovrumani avvenimenti dell’umanità, e un individuo o una classe. Uno di questi mezzi era il film. Ma non era altro che un mezzo, che domani avrebbe potuto essere sostituito da uno migliore. Anche in Ad onta di tutto! il film era autentico documento. Fra il materiale dell’archivio di Stato che ci era stato messo a disposizione da alcuni amici, utilizzammo innanzitutto pellicole autentiche della guerra, della smobilitazione, una rivista di tutte le famiglie regnanti d’Europa, ecc. Le pellicole svelavano nel modo più brutale gli orrori della guerra. Assalti con lanciafiamme, mucchi di uomini ridotti a brandelli, città incendiate; non era ancora venuta la moda del film di guerra. Sulle masse proletarie queste immagini dovevano produrre un effetto più sconvolgente di cento discorsi. Distribuii il film nel corso di tutto lo spettacolo e, dove non bastava, ricorsi all’aiuto di proiezioni fisse. Come forma fondamentale del quadro scenico feci costruire un cosiddetto «praticabile», un’architettura a terrazze distribuita regolarmente, che da una parte era formata da una superficie obliqua, dall’altra da scale e da piattaforme e il tutto collocato sul palcoscenico girevole. Sui vari piani, nelle nicchie e nei passaggi feci costruire le singole scene. Con ciò fu principalmente raggiunta l’unità della costruzione scenica, uno sviluppo ininterrotto e senza pause dello spettacolo come un’unica irresistibile corrente. Questa volta, ancora più fortemente che in Bandiere, mi allontanavo dal carattere decorativo del quadro scenico. Dominava come principio l’assoluta funzionalità dell’impalcatura dello spettacolo. Non c’era più nulla che fosse lì solamente per essere visto, o per aiutare, sottolineare, esprimere la recitazione. L’indipendenza di questa impalcatura che, collocata sul suo piano girevole, costituisce un mondo a sé, abolisce quella boîte à surprise che è la scena borghese. Avrei potuto collocarla in un qualsiasi ambiente, anche fuori di un teatro. L’antico boccascena non era più che una molesta limitazione. L’intero spettacolo consisteva in un enorme montaggio di discorsi autentici, articoli, ritagli di giornali, appelli, manifestini, fotografie e film della guerra e della rivoluzione, di personaggi e di scene storiche. E tutto questo dentro il «Grosses Schauspielhaus» che una volta Reinhardt aveva costruito per trasferirvi il dramma borghese (classico). Evidentemente anche lui aveva la sensazione che bisognava avvicinarsi alle masse; ma egli lo faceva venendo dall’altra riva, e con merci straniere. Lisistrata e Amleto, non solo, ma anche Florian Geyer e La morte di Danton, restavano puri e semplici oggetti da museo che acquistando proporzioni colossali perdevano per di più ogni finezza. Così non si arrivava ad altro che a una inflazione della forma. La collaborazione delle masse distribuite nella sala fra il pubblico non derivava da un atteggiamento programmatico, e in conseguenza non aveva nessun’eco che superasse quella di una «trovata del regista». Anche l’espressionismo di Karlheinz Martin, messo a servizio del movimento politico, non ottenne gli scopi perseguiti, né nel dramma classico, né nei Distruttori di macchine [Maschinenstürmer] — solamente nei Tessitori. In questo spettacolo arena e platea si identificavano. Comunque per il nostro spettacolo ci fu un altro fatto d’importanza capitale: durante l’estate Beye organizzò la distribuzione dei biglietti fra i membri dei sindacati operai. Finalmente avevamo davanti a noi operai coscienti; la bufera si scatenò. Anch’io avevo sempre sentito il vuoto del teatro chiedendomi con che mezzi si sarebbe potuto dominare un reale teatro di masse. Ora finalmente queste masse mi erano state date: e ancora oggi considero questa come l’unica possibilità di avere un effettivo teatro di masse a Berlino. Per la prima volta potevamo sostenere il confronto con la realtà assoluta, la realtà vissuta in noi stessi. Essa aveva esattamente gli stessi momenti di tensione, di acme, gli stessi apici drammatici come il dramma creato dal poeta, e produceva la stessa impressione travolgente. Comunque, sempre dato che si fosse trattato di una realtà politica (nel senso fondamentale di polis: «questione di tutti»). Devo confessare che anch’io attendevo febbrilmente la sera della «prima». L’attesa era doppia: innanzitutto come sarebbe stata realizzata la connessione e la reciproca influenza dei vari elementi impiegati sulla scena; e in secondo luogo se il pubblico si sarebbe accorto di quello che avevamo avuto intenzione di fare. Durante la prova generale regnava ancora un caos completo. Duecento persone correvano e urlavano facendo la più terribile confusione. Meisel, che proprio allora avevamo convertito alla musica negra, eseguiva coi suoi venti suonatori un indescrivibile frastuono infernale; Gasbarra arrivava ogni momento portandomi il testo di una nuova scena, finché mi riuscì di farlo stare accanto agli apparecchi di proiezione; Heartfleld con la mascella contratta ricopriva in persona quinte e fondali con un inverosimile colore bruno; nessun intermezzo cinematografico attaccava al momento giusto; gli attori in genere non avevano un’idea di quello che dovevano fare; anch’io incominciavo ad affondare in mezzo alla massa del materiale che bisognava mettere ancora in ordine. Alcuni invitati, che avevano passato la serata in platea, alle tre di mattina se ne andarono a casa senza avere la più lontana idea di quello che era successo sul palcoscenico. Ma anche le poche scene che erano già a posto, non ci accontentavano affatto. Mancava qualche cosa: il pubblico. La sera della prima rappresentazione nel teatro c’erano non so quante migliaia di persone. Ogni posto disponibile era occupato, tutte le scale, i corridoi, i passaggi, pieni zeppi. L’entusiasmo di poter assistere a uno spettacolo animava sin da principio questa massa vitale, dall’inaudita recettibilità di fronte al teatro, che si può trovare solo nel proletariato. Ma ben presto questa intima recettibilità si trasformò in attività effettiva: la regia fu assunta dalla massa.13 Tutti coloro che riempivano il teatro, avevano in gran parte partecipato attivamente a questa epoca: quello che vedevano svolgersi davanti agli occhi era veramente il loro destino, la loro personale tragedia. Il teatro era diventato per loro autentica realtà, e ben presto non avevamo più un palcoscenico di fronte a una platea, ma un’unica immensa sala di riunione, un unico immenso campo di battaglia, un’unica immensa dimostrazione. Fu questa unità che quella sera ci dette la definitiva dimostrazione della forza propagandistica di cui dispone il teatro politico.14 L’effetto prodigioso ottenuto dall’impiego del film ci dimostrò che questo non solo era stato opportuno, al di sopra di ogni discussione teorica, quando si trattava di rendere evidenti i nessi politici e sociali, dunque in relazione col contenuto; ma era anche giusto in un senso superiore, e cioè anche in relazione con la forma. Si ripeteva l’esperienza già fatta con Bandiere. Il momento di sorpresa che risultava dal passaggio dal film alla scena recitata e viceversa, aveva già di per sé un grande effetto. Film e scena si intensificavano con un effetto reciproco e così in certi momenti venne raggiunto un «furioso» nell’azione, che non mi era quasi mai successo di vedere in un teatro. Quando per esempio al voto dei socialdemocratici in favore dei crediti di guerra (scena recitata) seguiva un film che mostrava un attacco alla baionetta e i primi caduti, non era solo reso evidente il carattere politico dell’avvenimento, ma veniva contemporaneamente raggiunta anche una grande emozione umana, e dunque una creazione artistica. Appariva evidente quello che avevamo sempre enunciato come principio: che la più forte azione di propaganda politica coincideva con la più forte creazione artistica.15 13 «Grosses Schauspielhaus»: «... Scena principale: una seduta plenaria del Reichstag durante la guerra... Il testo dal protocollo stenografico del Reichstag. Il caso aveva voluto che in quel giorno mi trovassi in licenza a Berlino e assistessi proprio a quella seduta parlamentare. Bethmann-Hollweg compare al suo posto in divisa di generale e ringrazia Iddio il quale ha benedetto anche quest’anno i nostri campi dandoci un copioso raccolto. Subito dopo la seduta i deputati fanno a pugni contendendosi un bollino della tessera del pane. Le migliaia di spettatori ridono, deridono, pestano i piedi e alzano i pugni minacciosi. Sotto la tribuna degli oratori si avanza nuovamente un soldato di sussistenza con la divisa logora e strepita contro l’oratore: è Karl Liebknecht. E poi ecco veramente lui sulla strada, dove distribuisce manifestini e tiene un discorso contro la guerra. Viene arrestato e mentre la folla lo lascia portare via senza reagire, dagli spettatori parte un urlo di dolore e di accusa contro se stessi». (Dalla «Frankfurter Zeitung» del 1° aprile 1928, Come incominciò). 14 «Rote Fahne» del 14 luglio 1925: «I singoli quadri erano grandiosi: specialmente quando si sentiva parlare in mezzo alla massa, quando gli operai-spettatori interrompevano e gridavano! Provino un poco ad imitarci, i direttori dei teatri borghesi, col loro personale mal pagato, logoro dalla fatica, tormentato». Altmeier nella «Frankfurter Zeitung»: «E questa fu la grande impressione della serata. Se anche si cancella tutto quello che è tendenzioso ed esagerato, non si può più avventurarsi per le strade di notte facendo finta di non comprendere. La morte di Wallenstein o Il principe di Homburg di Jessner, Reinhardt col suo Come vi piace e con la sua Bergner ci possono incantare, trasportare al settimo cielo; ma dopo queste rappresentazioni la città ci sembra sempre una foresta vergine, nella quale ci siamo sperduti... Dopo una simile rivista invece si ha l’impressione di uscire da un bagno fresco. Ci si sente pieni di forza! Si sarebbe potuto nuotare, remare in mezzo alla strada. La circolazione e la luce, il frastuono e la tecnica hanno finalmente un senso». 15 «Neue Berliner 12 Uhr»: «In occasione del congresso del Partito comunista, nel “Grosses Schauspielhaus” operai e attori, diretti da E. P., recitano collettivamente un brano di storia universale drammatizzato. Scene della guerra e della rivoluzione costrette insieme in una specie di urto violento, stridenti, sfigurate per la tendenziosità, ma lo stesso, almeno fin quando vengono rappresentati solo nudi e reali avvenimenti, di un altissimo e inatteso intimo effetto: il colore politico e la sua espressione fanatica e quasi religiosa, si fondono formando qualche cosa che nei momenti culminanti corrisponde misteriosamente agli stessi risultati palpabili della più alta arte drammatica». «Welt am Abend», 17 luglio 1925: «Tuttavia ci sembra che in fatto d’arte non interessi quello che si vuol fare, ma l’effetto che si raggiunge. E a questo proposito ci sarebbe da dire che questa rivista ha creato un contatto col pubblico e ha raggiunto un apice, che solo raramente si possono registrare a proposito delle più geniali creazioni drammatiche». Poiché anche la seconda serata aveva portato una tale affluenza di pubblico che centinaia di persone non poterono entrare nel teatro, insistetti perché lo spettacolo venisse ripetuto durante almeno quattordici giorni, non foss’altro che per coprire le spese. Anche Torgler intervenne energicamente a questo scopo. Erano state spese migliaia di marchi per la solita propaganda fatta coi manifesti, che ormai era diventata del tutto inutile. Ma gli organi competenti si spaventarono nuovamente del rischio, e così si ripeté per la millesima volta l’amara esperienza e ad onta di tutti i consensi, dell’enorme successo, del concorso di pubblico per cui ci avrebbe invidiato qualsiasi teatro borghese, anche questa tappa del teatro politico, almeno esteriormente, non condusse a nulla. [...] XV. Origine e costruzione del Teatro di Piscator Senza nessuna ambizione personale, già vari motivi mi avevano persuaso che prima o poi sarei stato costretto ad assumere la direzione di un teatro. Il mio sistema di voler dare sul teatro espressione alle mie idee, in un teatro regolare, urtava continuamente contro difficoltà pratiche; sicché non mi aveva mai lasciato l’idea di poter lavorare in un teatro proprio; anche nell’estate del 1926, quando ero andato con Toller a Bandol sulla riviera francese, per lavorare insieme con lui al suo nuovo dramma Quartiere di baracche [Scheunenviertel] e utilizzare la licenza della «Volksbühne» per qualche settimana di vacanza (oltre a Toller erano in nostra compagnia anche Erich Engel e Wilhelm Herzog, e inoltre Otto Katz, che allora era ancora capo della pubblicità del «Montag Morgen»), mentre si faceva il bagno, si andava a spasso o si lavorava, facevamo ogni sorta di piani, discutevamo la fondazione di un teatro e di una rivista che doveva raccogliere tutte le forze intellettuali di sinistra. Erano discorsi estivi e facendoli nessuno di noi credeva che meno di sei mesi dopo sarebbero divenuti realtà. Perché ognuno dei nostri dibattiti terminava con questa difficile domanda: e chi ci dà i soldi? La mia posizione alla «Volksbühne» era ogni giorno più equivoca. I masnadieri, che avevo preparato per il Teatro di Stato, non erano potuti andare in scena. In quelle giornate di luglio e di agosto del 1926, comunque, non sapevamo ancora lo straordinario sviluppo che avrebbe avuto per noi la stagione imminente e che essa sarebbe incominciata coi Masnadieri per terminare con le Tempeste su Gottland. E ora — nella primavera 1927 — eravamo arrivati improvvisamente in porto. Il difficile problema di trovare i fondi per l’impresa era stato risolto inaspettatamente. Io avevo sempre sostenuto il punto di vista che un teatro come quello che avevamo in progetto noi, avrebbe dovuto essere capace di mantenere se stesso, e che i cattivi affari delle scene berlinesi, che proprio in quell’anno minacciavano di sboccare in una crisi generale, dipendevano dalla mancanza di vitalità e di attualità, dalla anchilosi del repertorio. Il teatro era diventato poco interessante. Il film più miserabile conteneva ancora più attualità, più realtà eccitante dei nostri giorni, che la scena con i suoi pesanti macchinismi drammatici e tecnici. Non il teatro come istituzione era sorpassato, ma i drammi che rappresentava e le forme di cui si serviva. Un teatro che avesse affrontato i problemi della nostra epoca, che fosse venuto incontro ai bisogni del pubblico di rivivere la propria esistenza, senza false solennità, senza riguardi, doveva incontrare il massimo interesse generale, doveva essere contemporaneamente un buon affare. (E su questo punto l’esperienza mi ha anche dato ragione). Ma il teatro ha bisogno di un enorme capitale di investimento. Prima ancora che il sipario si alzi per la prima volta, affitto, illuminazione, riscaldamento, amministrazione, apparato tecnico, prove, stipendio degli attori, scenari, ecc. divorano patrimoni. L’esistenza di tutta l’impresa e centinaia di destini privati dipendono dal successo o dall’insuccesso della prima rappresentazione. Una frase della critica può essere decisiva. Io ho sempre sentito l’enorme illogicità di questo assurdo va banque dell’organizzazione dei teatri berlinesi. Nel mio teatro volevo esserne indipendente almeno entro certi limiti. Avrei sempre potuto trovare i 50 000 o i 60 000 marchi necessari per mettere in scena una prima rappresentazione: mi si era spesso dato occasione di farlo. Ma avevo sempre rifiutato. Una iniziativa come la mia, la cui importanza fondamentale per tutto lo sviluppo del teatro appariva sempre più evidente, non doveva dipendere dalle sorti casuali di un’unica serata. Una base finanziaria che mi assicurasse per lo meno un certo periodo di rappresentazioni, indipendentemente dal successo o dall’insuccesso, era il minimo che mettevo come condizione. Ma anche in questo caso avrei potuto ottenere al massimo un teatro con mezzi antiquati e insufficienti che mi avrebbe consentito di dare appena un pallido accenno di quelle che erano le mie intenzioni. Immaginavo un’attrezzatura teatrale, costruita in ogni particolare all’incirca come una macchina da scrivere, fornita di tutti i mezzi più moderni di illuminazione, con spostamenti e rivolgimenti in senso verticale e orizzontale, con un numero illimitato di cabine di proiezione, un impianto di altoparlanti, ecc. Perciò in realtà avrei avuto bisogno di far costruire un nuovo teatro, che avesse resa possibile tecnicamente l’esecuzione del nuovo principio drammaturgico. Ma una costruzione di questo genere, va da sé che sarebbe costata milioni. Dopo aver veduto la mia messa in scena dei Masnadieri al Teatro di Stato, la signora Tilla Durieux aveva espresso il desiderio di mettersi in contatto con me. Da questa presa di contatto era nato un nuovo interesse per l’insieme delle mie idee e successivamente il piano di un’intima collaborazione. La fondazione di un teatro personale si imponeva quasi come una condizione assoluta per il mio avvenire. A un rinnovo del contratto che mi legava alla «Volksbühne» non si poteva più pensare, e, dopo essermi esposto così decisamente con la lotta per il teatro politico e con la manifestazione al Palazzo del Senato, accettare qualche regia occasionale o contratti con scene borghesi sarebbe sembrato un ripiegamento. Un teatro personale poteva dunque apparire addirittura la premessa necessaria per la mia ulteriore attività. Per mezzo della signora Tilla Durieux sorse la possibilità di trovare la somma che sembrava necessaria per assicurare finanziariamente lo svolgimento di una stagione. Secondo i preventivi sarebbero dovuti bastare circa 400 000 marchi. Potrà sembrare presunzione se dico che questa soluzione non mi pareva affatto soddisfacente. A chiunque altro sarebbe sembrato un inaudito colpo di fortuna; io la consideravo invece come un forte rischio. Volli anche condurre le trattative finanziarie partendo da questo punto di vista. La prima stagione in un teatro berlinese fu concordata come un semplice provvisorio. A base del nostro accordo, fu messa la costruzione di un nuovo teatro che era stato progettato da Walter Gropius e da me e che avrebbe dovuto essere eseguito dal Bauhaus. Erano già in corso, infatti, delle trattative per l’acquisto di un terreno nelle vicinanze dell’Hallesches Tor. L’architettura del teatro è in stretta dipendenza con la forma d’arte drammatica che vi viene rappresentata; anzi architettura e drammaturgia si determinano a vicenda. L’arte drammatica e l’arte architettonica insieme però risalgono con le loro radici alla forma sociale della loro epoca. La forma teatrale che domina ancora nella nostra epoca è quella superatissima dell’epoca dell’assolutismo: il teatro di corte. La suddivisione in platea, palchi e gallerie riflette gli strati sociali del feudalismo. Questa forma doveva necessariamente venire in contrasto con gli scopi del teatro, nel momento in cui l’arte drammatica da un lato e dall’altro i rapporti sociali subivano un mutamento. Quando mi accinsi insieme con Walter Gropius a disegnare una forma di teatro adeguata alle nuove condizioni, questo non avvenne semplicemente dal punto di vista di un ampliamento o di un completamento tecnico, ma in quella forma si espressero anche determinati rapporti sociali e drammatici. Meglio di quanto non possa fare io, ha riferito personalmente il professor Gropius sul senso e la portata di questo progetto, che purtroppo è rimasto semplicemente tale. Della moderna architettura teatrale, in vista della costruzione del nuovo Teatro di Piscator a Berlino. La penetrazione dei nuovi concetti costruttivi nel mondo spaziale del teatro è riscontrabile fino ad oggi in minima misura. I più importanti direttori scenici dell’ultima generazione hanno ricercato nuovi mezzi tecnici e spaziali per far entrare più che nel passato lo spettatore nell’ambito dell’azione scenica, ma nessuna costruzione teatrale si è staccata fondamentalmente dall’antico principio del palcoscenico, poiché per gli architetti della nostra epoca l’interesse decorativo ha avuto sempre un valore maggiore della funzione spaziale. Il palcoscenico tripartito di Van de Velde nel teatro del «Werkbund» (Colonia 1914), la cui idea è stata ulteriormente sviluppata da Perret nel teatro dell’Esposizione d’Arti decorative (Parigi 1925) e la ricostruzione del «Grosses Schauspielhaus» di Poelzig, a Berlino, con l’aggiunta di un proscenio che penetra profondamente in platea, sono fino ad ora i soli tentativi eseguiti praticamente per sciogliere il problema anchilosato dell’architettura teatrale e metterlo su un piano fondamentalmente diverso. Nella storia dell’architettura teatrale si possono distinguere tre forme spaziali fondamentali per gli avvenimenti scenici: l’arena circolare, il circo, sul cui piano rappresentativo collocato nel centro si svolge l’avvenimento scenico in plastica piena, visibile da ogni parte; l’anfiteatro dei greci e del romani, arena circolare divisa a metà, con un piano rappresentativo semicircolare, un proscenio sul quale la scena si sviluppa con rilievo davanti a uno sfondo stabile, che non è però separato dagli spettatori con un velario; il palcoscenico, o la «scatola magica», che col sipario e la fossa dell’orchestra si afferma come un «mondo dell’apparenza» e separa con ciò lo spettatore dal mondo reale, mentre il «quadro scenico» appare come una proiezione di due dimensioni sul piano del sipario aperto. Oggi noi conosciamo quasi esclusivamente solo quest’ultima forma teatrale, il palcoscenico, che ha il grande difetto di non attirare attivamente lo spettatore sulla scena dalla quale rimane separato, mentre invece il superamento di questo difetto comporterebbe una maggiore forza illusiva, un ringiovanimento del teatro. Quando Erwin Piscator mi affidò il progetto del suo nuovo teatro, con l’ardita naturalezza e l’intransigenza del suo temperamento, avanzò una quantità di richieste che potevano apparire utopistiche ma che miravano tutte a creare uno strumento teatrale di alto sviluppo tecnico e facilmente variabile, che potesse soddisfare le esigenze mutevoli di diversi registi e che offrisse al massimo grado la possibilità di far partecipare attivamente gli spettatori agli avvenimenti scenici, per renderli più efficaci. Questo problema dello spazio scenico aveva occupato già da lungo tempo me e i miei amici del Bauhaus. Il gradito incarico di Piscator e l’insistenza con cui egli ripeteva le sue richieste ci hanno portati finalmente alla soluzione che oggi sta per essere realizzata. Il mio «teatro totale» (presentato all’Ufficio patenti del Reich) permette al regista, per mezzo di opportuni allestimenti tecnici, di recitare nella medesima rappresentazione sia sul palcoscenico, sia sul proscenio, sia sull’arena, ed eventualmente su due o su tre di queste scene contemporaneamente. La sala ovale posa su dodici sottili colonne. Dietro ai tre intervalli fra queste colonne a una estremità dell’ellisse, è disposto il palcoscenico tripartito, il quale penetra come una tenaglia nelle prime file della platea. Si può recitare sulla scena centrale o su una di quelle laterali, o su tutt’e tre contemporaneamente. Un doppio sistema di tapis roulants su cui posano, con carrelli, le scene mobili permette un cambio molto rapido e molto frequente delle scene, evitando tutti gli svantaggi del palcoscenico girevole. Dietro alle colonne, in prolungamento delle due scene laterali, corre tutto intorno alla sala e alle poltrone disposte anfiteatralmente un largo corridoio sul quale possono essere trasportati i carrelli delle scene mobili, sicché alcuni avvenimenti scenici si possono svolgere in qualunque punto di fianco o alle spalle della massa degli spettatori. Una parte circolare della platea, davanti al palcoscenico, può venire abbassata al piano sottostante, liberata dalle poltrone, e quindi rialzata in modo da essere utilizzata come un proscenio, chiuso come dentro una tenaglia fra le prime file degli spettatori. Da questo punto l’attore può penetrare fra la massa degli spettatori e quindi ritornare sul palcoscenico servendosi dei vari passaggi in mezzo alle poltrone o intorno ad esse. Nella platea, oltre alla piccola piattaforma circolare, si trova anche una grande piattaforma circolare, che include la prima e che è del pari adiacente al palcoscenico. Si può ottenere una completa trasformazione di tutto il teatro facendo girare intorno al proprio centro per centottanta gradi la grande piattaforma circolare della platea. Allora la piccola piattaforma circolare, inclusa in essa, viene a trovarsi esattamente nel centro della sala, in mezzo alle file concentriche degli spettatori, come nell’arena circolare! Questa trasformazione può essere fatta meccanicamente anche durante la rappresentazione. L’attore può penetrare nell’arena circolare o attraverso scale che vi conducono dal basso, o per mezzo del corridoio circolare che in questa posizione della piattaforma grande riconduce al palcoscenico, oppure per mezzo di scale e di armature che si possono far scendere dal soffitto e che costituiscono dunque anche un piano di rappresentazione verticale al di sopra dell’arena. Questi mezzi meccanici per la trasformazione dei vari piani di rappresentazione sono efficacemente completati dagli apparecchi di proiezione luminosa. Nelle sue messe in scena Piscator si è sempre genialmente servito del film, per rinvigorire l’illusione della rappresentazione scenica. Ho dedicato perciò un particolare interesse alla sua richiesta di disporre in ogni punto della sala schermi e apparecchi da proiezione, poiché io stesso considero la proiezione luminosa come il mezzo più pratico e più efficace dell’arte scenica moderna. Nello spazio neutro della scena oscurata si può costruire, con la luce e servendosi di visioni astratte od oggettive — con proiezioni fisse o cinematografiche —, un’illusione scenica che rende in gran parte superfluo il reale arredamento teatrale e le solite scene. Nel mio «teatro totale» ho previsto non solo la possibilità di una proiezione cinematografica sull’intero orizzonte dei tre palcoscenici per mezzo di un sistema mobile di apparecchi da proiezione, ma si può ricoprire di film proiettati anche tutta la sala, le pareti come il soffitto (sistema presentato all’Ufficio patenti del Reich). Fra le dodici colonne che sopportano la sala vengono disposti a questo scopo schermi sulle cui superfici trasparenti dodici apparecchi possono proiettare contemporaneamente i loro film dall’esterno, sicché gli spettatori per esempio si trovano in mezzo alle onde del mare o a masse di popolo che da ogni parte si precipitano verso di loro. Contemporaneamente un secondo complesso di apparecchi, disposti su una torre che viene calata dal soffitto nell’interno della sala, può proiettare i suoi film sugli stessi schermi. In questa torre è disposto anche l’apparecchio per le nuvole, ecc., il quale può proiettare, sul soffitto a volta della sala, nuvole, costellazioni o immagini astratte. Dunque, invece del solito piano di proiezione (cinematografo) abbiamo uno spazio di proiezione. La sala reale, neutralizzata dall’assenza di luce, diviene, grazie alle proiezioni luminose, lo spazio dell’illusione, il teatro degli avvenimenti scenici. Lo scopo di questo teatro non è dunque quello di ammassare materialmente gli impianti tecnici e i trucchi più raffinati; questi semplicemente mirano a ottenere che lo spettatore sia trascinato nel centro degli avvenimenti scenici, faccia parte spazialmente del luogo dell’azione e non vi possa più sfuggire rimanendo al di qua del sipario. Del resto all’architetto di un teatro spetta il compito di rendere lo strumento scenico così impersonale, maneggevole e variabile da abolire tutte le limitazioni all’invenzione di qualsiasi regista e di permettere il libero sviluppo delle più varie concezioni artistiche. Esso è la grande macchina spaziale con cui il maestro di scena può dar forma alla sua opera personale secondo le proprie forze creative. In primo luogo però si trattava di trovare un teatro nel quale poter lavorare durante la prossima stagione. La scelta non era facile. Infatti nei circoli proletari ci fu rimproverato più tardi di avere scelto il teatro di Nollendorfplatz, nel cuore dei quartieri occidentali ed eleganti di Berlino, invece di stabilirci in un quartiere operaio. Bastò questa scelta perché gli eterni bene informati annunciassero un mutamento nella direttiva politica della nuova impresa. Eppure la nostra scelta era stata determinata solo da considerazioni pratiche. Di tutti i teatri disponibili in quel momento il più adatto era quello di Nollendorfplatz. Perché degli altri edifici che si potevano prendere in considerazione, uno era troppo piccolo e aveva una apparecchiatura scenica completamente scassata, che avrebbe richiesto enormi spese di riparazione; un altro teatro era situato ancora più lontano nell’Ovest. Invece il Nollendorf era almeno in parte in condizioni utilizzabili e abbastanza centrale anche per gli spettatori proletari. I mezzi a disposizione del Teatro di Piscator. Non solo le singole rappresentazioni, ma il teatro nel suo insieme era un esperimento, un’esplorazione di territori sconosciuti: era un esperimento per quanto si riferiva al pubblico, al dramma, alla regia, ai mezzi tecnici. E infine anche — e da questo dipendeva l’esistenza stessa della nostra impresa — era un esperimento finanziario. Si può dire che mai ancora, ad onta di tutti i calcoli e di tutte le riflessioni, un’impresa si era lanciata così ciecamente nel buio. Cosa ci prometteva quello che è il nerbo vitale di ogni teatro, la produzione drammatica? Drammi che esprimessero chiaramente le nostre idee e nello stesso tempo avessero valore artistico, non solo non esistevano ma non si poteva neanche sperare che fossero scritti nel prossimo avvenire. Sapevamo che la produzione drammatica corrispondente agli ideali del nostro teatro era solo agli inizi, che per svilupparsi aveva bisogno di un lungo processo il quale non si poteva compiere indipendentemente dell’evoluzione politica ed economica. Tutta la mia attività alla «Volksbühne» non era stata altro che un tentativo di trasformare, spingere avanti e approfondire la produzione drammatica dal punto di vista sociale e rivoluzionario. Forse tutto il mio modo di fare il teatro è stato determinato unicamente da questa mancanza di una produzione drammatica. Certamente la mia regia non sarebbe mai stata tanto invadente, se avessi trovato pronta una produzione drammatica adeguata. (Tutto il dibattito sui reciproci diritti dell’autore e del regista si riduce secondo me a questo semplice problema: quale dei due dispone di maggiore chiarezza, di più profonda convinzione, di maggiore efficacia? Secondo me l’energia artistica ha l’obbligo di mirare alla perfezione dell’opera, e non può rinunciarvi per nessun motivo). La battaglia incominciava dunque per noi con un grave deficit su quelli che sono i punti decisivi del teatro: l’arte architettonica e l’arte drammatica. Ma come tante altre volte, proprio queste due mancanze ci condussero a risultati positivi. Nacque una nuova drammaturgia, una drammaturgia politico-sociale. Non era una ricetta quella che avevamo trovato, ma in sostanza nient’altro che un nuovo punto di vista per considerare e rielaborare i soggetti drammatici che ci venivano offerti, compiuti solo a metà o del tutto incompiuti; e dalla mancanza di una architettura rivoluzionaria nacque la nuova forma scenica. Anche questi risultati ebbero solamente valori transitori, furono misure di ripiego, ma nella loro sostanza positivi e tali da determinare uno sviluppo ulteriore. Linee fondamentali per una drammaturgia sociologica. 1. La funzione dell’uomo. Fondamentale per quello che ho chiamato il «nuovo punto di vista», è la posizione dell’uomo, la sua funzione nel teatro rivoluzionario; l’uomo, le sue emozioni, i suoi molteplici nessi e legami, sia privati, sia sociali, oppure la sua posizione di fronte alle potenze sovrannaturali (Iddio, destino, fato, o in qualsiasi altra forma questa potenza sia stata comunque raffigurata nel corso dell’evoluzione storica): concetti tanto cari al cuore di tutti gli autori drammatici di tutti i secoli! Ma solamente alla «Volksbühne», cioè ai suoi esponenti spirituali, era riservato di rappresentare la natura umana per così dire chimicamente pura e di collocarla come l’«oggetto in sé» della sostanza stessa dell’arte drammatica e del teatro assoluto. La prima tesi dell’«arte per il popolo», attraverso le elucubrazioni sulla «grandezza umana», era stata trasformata esattamente nel suo opposto: la «sovranità dell’arte». Una lunga via che attraversa tutti gli stadi dell’individualismo borghese con le diffuse espansioni sulle private doglie dell’anima — ma quale ironia che fosse stata proprio la «Volksbühne» a seguire quest’evoluzione sino a perdersi nel vicolo cieco dal quale non c’era più nessuna possibilità di ritornare nel campo sociale. Questo complesso di problemi, che è intimamente connesso con quello della interpretazione, doveva essere affrontato completamente ex novo da una drammaturgia che partisse dalle mutate funzioni del teatro. Per comprenderle ci dobbiamo rifare continuamente alle origini di tutto il movimento. Perché qui non si tratta di un mutamento arbitrario, ma di un mutamento che sin dagli inizi era stato provocato dalla situazione oggettiva. Questa situazione si chiamava: guerra e rivoluzione. Guerra e rivoluzione avevano trasformato l’uomo, la sua struttura spirituale e la sua posizione di fronte all’universo. Completarono l’opera che cinquant’anni prima era stata iniziata dal capitalismo industriale. L’individualismo borghese era stato definitivamente seppellito dalla guerra sotto un diluvio d’acciaio e valanghe di fuoco. L’uomo come individuo singolo, indipendente o apparentemente indipendente dai legami sociali, che gira egocentricamente intorno al concetto del proprio io, è in realtà sepolto sotto la lastra di marmo del Milite Ignoto. Oppure, secondo la formula di Remarque: «La generazione del 1914 è morta in guerra, anche se è scampata dalle granate». Quello che ne ritornò non aveva più nulla di comune con i concetti di uomo, umanità, grandezza umana che come oggetti di lusso avevano simboleggiato nei salotti buoni del mondo di prima della guerra l’eternità di un ordine stabilito da Dio. Ben lungi dal rappresentare quel tipo che il socialismo non considera già una propria premessa, come erroneamente ancor oggi si crede, ma si pone invece come una meta, e cioè l’uomo che è innanzitutto un compagno, che sente, pensa e agisce collettivamente, le colonne dell’esercito tedesco che nel 1918 ripassarono il Reno — guidandosi da sé, compirono la ritirata con disciplina autonoma e senza ordini brutali, e ricalcarono il suolo tedesco con la ferma volontà di stabilire un ordine migliore e più giusto, se fosse stato necessario anche con l’arma alla mano — queste colonne rappresentavano tuttavia già un’anticipazione di questo tipo. Fuse nei forni della grande industria, temprate nell’officina della guerra, nel 1918 e nel 1919 le masse si presentarono minacciose ed esigenti davanti alle porte dello Stato, non più una mandra, una banda di gente raccolta a caso, ma un nuovo organismo vivente, con una nuova vita autonoma, che non era più la somma di tanti individui, ma un io nuovo e potente, spinto e determinato dalle leggi non ancora scritte della sua classe. C’è ancora qualcuno che di fronte a questo enorme sovvertimento, dal quale nessuno è in grado di estraniarsi, c’è ancora qualcuno che possa sostenere seriamente che l’immagine dell’uomo, delle sue emozioni, dei suoi rapporti, sia qualcosa di eterno, di assoluto, che il tempo non può toccare? O finalmente si vorrà ammettere che il lamento del Tasso di Goethe urta senza suscitare echi contro le torri di cemento armato e le pareti di acciaio del nostro secolo, e che anche la nevrastenia di Amleto non può contare più sulla compassione di una generazione di lanciatori di granate e di conquistatori di record? Si riconoscerà finalmente che l’«eroe interessante» è interessante solo per l’epoca che vede in lui incarnato il proprio destino, e che i valori e le gioie che ieri sembravano così elevate, oggi sembrano inezie ridicole allo sguardo lucido di gente che vive nella lotta? Quest’epoca, che forse per le sue contingenze sociali ed economiche ha spogliato l’individuo della sua «umanità» senza dargli ancora l’umanità superiore di una nuova società, ha alzato sui piedestalli un nuovo eroe: se stessa. Non più l’individuo col suo destino personale e privato, ma l’epoca stessa, la sorte delle masse è il fattore eroico della nuova arte drammatica. Forse che in questo modo l’individuo può perdere gli attributi della sua personalità, odia, ama, soffre meno dell’eroe delle generazioni precedenti? Naturalmente no, ma tutti i complessi sentimentali sono stati spostati verso un’altra visuale. Non più lui solo, separato da tutti, un mondo per sé stante, vive il proprio destino; ma è inseparabilmente congiunto con i grandi fattori politici ed economici della sua epoca, oppure, secondo un aforisma di Brecht: «Ogni coolie cinese è costretto a fare un po’di politica mondiale per guadagnarsi la cena». In tutti i suoi caratteri intimi ed esteriori egli dipende dalla. sua epoca, qualunque possa essere la sua situazione personale. L’uomo sulla scena ha per noi l’importanza di una funzione sociale. Al centro del nostro interesse non stanno i rapporti dell’uomo con se stesso, non i suoi rapporti con Dio, ma i suoi rapporti con la società. Quando egli si presenta, si presenta insieme con lui anche la sua classe o il suo ceto. Quando entra in un conflitto, morale, spirituale o istintivo, entra in conflitto con la sua società. L’antichità considerava come essenziale la sua posizione di fronte al destino; il Medioevo, la sua posizione di fronte a Dio; il razionalismo, la sua posizione di fronte alla natura; il romanticismo, la sua posizione di fronte alle forze del sentimento; e dunque un’epoca, nella quale sono all’ordine del giorno i rapporti interni della collettività, la revisione di tutti i valori umani, il sovvertimento di tutti i rapporti sociali, non può vedere l’uomo altro che nella sua posizione di fronte alla società e di fronte ai problemi sociali della sua epoca, cioè l’uomo come entità politica. Se anche questa eccessiva importanza dell’elemento politico — che non avviene per colpa nostra ma per la disarmonia delle attuali condizioni sociali che rendono politica ogni manifestazione della vita — può condurre in un certo senso a una distorsione dell’immagine dell’uomo ideale, questa immagine avrà per lo meno il vantaggio di corrispondere alla realtà. Ma per noi, marxisti rivoluzionari, il nostro compito non si può esaurire in una riproduzione senza critica della realtà, non possiamo considerare il teatro semplicemente come uno «specchio dell’epoca». Non è questo il suo compito, come non è suo compito superare questa condizione solamente con mezzi teatrali, eliminare la disarmonia con un velo pietoso, rappresentare l’uomo con grandezza sublime, in un’epoca la quale in realtà lo deforma socialmente — in una parola, non è suo compito agire idealisticamente. Il compito del teatro rivoluzionario consiste invece nel prendere la realtà come punto di partenza, e intensificare la frattura sociale facendone un elemento di accusa, di rivoluzione e di nuovo ordine. 2. L’importanza della tecnica. Da quanto precede risulta evidente che la tecnica non è mai stata per me scopo a se stessa. Tutti i mezzi di cui mi ero servito fino allora e di cui ero sul punto di servirmi, non dovevano significare un arricchimento tecnico dell’apparato scenico, ma la sublimazione del fatto scenico in valore storico. Questa sublimazione, che è indivisibilmente connessa con l’applicazione della dialettica marxista al teatro, non era stata ancora affrontata dagli autori. I miei mezzi tecnici si erano sviluppati per bilanciare il deficit della produzione drammatica. Molto spesso si è tentato di confutare questo punto con l’obiezione che ogni vera arte supera il fatto privato e lo trasferisce nella zona del tipo, della storia. Ma i nostri oppositori non vedono proprio questo: e cioè che il tipo non costituisce un valore eterno, ma che ogni arte, nel migliore dei casi, trasferisce i fatti materiali nella cornice storica della propria epoca. L’epoca del classicismo vedeva il proprio «piano eterno» nella grande personalità, un’epoca di estetismo lo vedrà nella tendenza verso il bello. Un’epoca morale, verso i valori etici. Un’epoca idealistica, verso i valori spirituali. Tutti questi valori furono considerati nella loro epoca come eterni, e l’«arte» era tutto ciò che riusciva a formulare universalmente questi valori. Ma alla nostra generazione simili formulazioni appaiono logorate, superate, morte. Che cosa sono le forze del destino nella nostra epoca? Che cosa ha considerato la nostra generazione come il proprio destino, al quale si piega, se deve morire, e che deve superare se vuole vivere? L’economia e la politica, e come risultato di queste due forze, la società, l’elemento sociale. Questi tre fattori costituiscono il nostro destino. E solo in quanto noi li riconosciamo, sia accettandoli, sia lottando contro di essi, possiamo mettere la nostra vita in contatto col contenuto storico del secolo ventesimo. Se dunque considero come problema centrale di ogni azione scenica la trasposizione dei fatti privati in una cornice storica, questo può significare una cosa sola, e cioè la loro trasposizione nella cornice politica, economica, sociale. Solo così possiamo mettere il teatro in connessione con la nostra vita. Chi chiede altro all’arte della nostra epoca, mira con ciò coscientemente o incoscientemente a distogliere e assopire le nostre energie. Non possiamo permettere che penetrino sulla scena impulsi esteriormente ideali, etici o morali, se viceversa sappiamo che le loro molle effettive sono politiche, economiche e sociali. Chi non vuole o non può riconoscerlo, non vede la realtà. E ugualmente il teatro non può attribuire impulsi diversi alla vita esteriore, se vuole essere effettivamente il teatro rappresentativo e attuale della nostra generazione. Non è un semplice caso se nella stessa epoca, le cui innovazioni tecniche superano senza misura ogni altra operosità, incomincia anche una trasformazione tecnica del palcoscenico. E ugualmente non è un caso se questa trasformazione tecnica è stata promossa proprio da coloro che sono in lotta con l’attuale ordinamento sociale. Le rivoluzioni spirituali e sociali sono sempre state intimamente connesse con i sovvertimenti tecnici. E anche un mutamento funzionale della scena non era immaginabile senza una trasformazione tecnica dell’apparato scenico. Mi sembra anzi che noi in realtà non abbiamo fatto altro che riprendere il tempo perduto e fare quello che avrebbe dovuto essere stato fatto già molto prima. Fatta eccezione della scena girevole e della luce elettrica, introdotte al principio del ventesimo secolo, il palcoscenico si trovava nelle stesse condizioni in cui l’aveva lasciato Shakespeare: un’apertura quadrata, attraverso la quale lo spettatore poteva gettare uno «sguardo proibito» in un altro mondo. Questa mancanza di comunicazione diretta, questo muro di vetro fra il palcoscenico e la sala degli spettatori, ha dato la sua impronta a tre secoli di arte drammatica internazionale. Era l’arte drammatica dell’approssimazione. Il teatro è vissuto, durante tre secoli, della finzione che nel teatro non esistessero spettatori. Persino le opere che per la loro epoca sono state rivoluzionarie, si sono sottomesse a quest’ipotesi. Si sono dovute piegare! Perché? Perché il teatro, come istituzione, come apparato, come edificio non si è mai trovato prima dell’anno 1917 in possesso della classe oppressa e perché questa non era mai stata in grado di liberare il teatro non solo spiritualmente, ma neanche strutturalmente. Quest’opera è stata iniziata e con la massima energia dai registi della Russia rivoluzionaria. Necessariamente anch’io nella conquista del teatro ho dovuto procedere per le stesse vie che, per motivi materiali, non hanno potuto portare a un cambiamento dell’architettura teatrale, ma ci hanno dato per lo meno una radicale trasformazione dell’apparato scenico, che nell’insieme ha significato quasi l’abolizione del vecchio palcoscenico. Dal Teatro Proletario fino a Tempeste su Gottland, si sviluppano sempre più questi miei tentativi alimentati dalle fonti più diverse, per abolire la forma teatrale borghese e mettere al suo posto una forma che introduca lo spettatore nel teatro, non più come un concetto fittizio, ma come una forza vitale. A questa tendenza, che naturalmente ha un’origine politica, si subordinano tutti i mezzi tecnici. E se ancora oggi questi mezzi danno l’impressione di essere impuri, costretti, esagerati, la causa è da attribuirsi esclusivamente al contrasto che esiste fra questi mezzi e un teatro che non li aveva preveduti. Il teatro di Piscator. Già il teatro di Bülowplatz, che insieme coi Teatri di Stato disponeva degli apparecchi scenici più moderni di Berlino, aveva a malapena corrisposto alle esigenze poste dal nuovo principio drammatico col suo ampliamento del soggetto nello spazio e nel tempo. Già là avevo fatto costruire sostanziali perfezionamenti degli apparecchi; così erano state create cabine da proiezione, e anche tre apparecchi che per mezzo di una distanza focale eccezionale potevano coprire con proiezioni luminose il gigantesco orizzonte e la cupola del palcoscenico. Ancora più sfavorevole era lo stato di cose nel teatro di Nollendorfplatz, quando ne prendemmo possesso. Più piccolo di dimensioni, se anche migliore per acustica, ma senza una cupola-orizzonte fissa e senza il retropalcoscenico indispensabile per i nostri lavori tecnici. Con i lavori fatti molte cose furono portate a un livello relativamente soddisfacente. Così, dopo la costruzione di una nuova cabina, fu possibile lavorare contemporaneamente dietro la scena con quattro apparecchi da proiezione. Ma solo in pieno lavoro, solo ad ogni nuova messa in scena, ci rendemmo conto di tutto quello che ci mancava e degli ostacoli prodotti dall’architettura dell’edificio. In seguito a difficoltà tecniche... (Del capo macchinista Richter). Su questo tema si è già molto discusso; per tutti i casi possibili e impossibili la causa è stata attribuita alle difficoltà tecniche: ma quali erano in realtà queste difficoltà? Non è una cosa nuova che con le nostre messe in scena noi ci rivolgiamo in un’altra direzione e seguiamo strade diverse da quelle seguite finora dal teatro. Si comprende perciò che questa nuova arte della regia è connessa anche con una tecnica scenica completamente diversa. Il nostro principio è quello di utilizzare per la scena tutte le possibili conquiste tecniche, anche quelle più lontane dal teatro, e di non dare più un quadro scenico decorativo, ma una scena costruttiva. Costruzione funzionale. Queste costruzioni funzionali sono state in realtà da prima solo costruzioni sperimentali. Siccome il materiale era composto principalmente di ferro, legno e stoffa, è una cosa palmare che l’esecuzione delle costruzioni necessarie costituiva un lavoro del tutto estraneo ai vecchi sistemi. Per esempio: nella nostra messa in scena di Oplà, noi viviamo! la costruzione scenica consiste di una impalcatura di ferro: tubi da gas di tre pollici, larghezza undici metri, altezza otto metri, profondità tre metri. Peso circa quattro tonnellate. Che non sia possibile smontare o addirittura trasformare una simile costruzione in pochi minuti, è comprensibile; è possibile tuttavia muovere questa costruzione sopra rotaie e collocarla sulla scena girevole. Già durante le prove del secondo dramma messo in scena (Rasputin), che ugualmente si svolgeva dentro un’armatura di ferro, ma in forma di emisfero, e che doveva essere ricostruita ogni giorno per la prova, ci trovammo di fronte a difficoltà che al profano sembravano insuperabili. Dopo abili manovre ed esercitazioni col personale incaricato del montaggio e dello smontaggio, ci fu possibile trasportare avanti e indietro fra palcoscenico e retropalcoscenico, con una certa facilità, i due quarti di sfera che erano larghi quindici metri, alti sette metri e cinquanta, profondi sei metri, e pesavano circa mille chili ciascuno. Dopo la rappresentazione, per avere pronta sul palcoscenico durante la prova del giorno successivo la vasta costruzione, era necessario il seguente lavoro: Appena terminata la rappresentazione, sedici uomini dovevano lavorare durante tre ore per trasportare sul retropalcoscenico l’impalcatura di Oplà, noi viviamo! e portare invece sulla scena la costruzione di ferro in forma di emisfero. La mattina seguente la stessa squadra lavorava per costruire l’emisfero con le sue piattaforme ecc., pronto per la prova. La prova doveva terminare alle quattro del pomeriggio ed erano necessari ventiquattro uomini per compiere il lavoro inverso, sgombrare il palcoscenico e preparare la rappresentazione serale. Questa manovra fu eseguita giornalmente durante tre settimane. I lavori necessari alla cupola potevano essere compiuti solamente di notte, sulla scena stessa. Non era mai possibile avere l’emisfero pronto per la prova, e non si poté mai fare una prova completa col film, l’illuminazione e tutte le trasformazioni sceniche finché l’impalcatura per Oplà, noi viviamo! rimase sul palcoscenico. La questione dello spazio rappresentava una parte molto importante e spesso ci trovavamo di fronte a difficoltà quasi insormontabili. Eppure erano esperimenti che una volta incominciati dovevano essere portati anche in fondo. Venne quindi la terza messa in scena: Le avventure del prode soldato Schwejk. Con una grande novità: due nastri continui (tapis roulants) sui quali pezzi di scena entrano ed escono dal palcoscenico e rappresentano una parte importante nel gioco scenico degli interpreti. Ognuno dei due nastri era largo due metri e settanta, lungo diciassette metri, alto quaranta centimetri. Peso circa cinquemila chili, con un apparecchio che serviva a trasportarli, e forniti di rulli di guida. Questi due nastri venivano montati nel magazzino retrostante, e per tutte le prove collocati sulla scena per essere poi di nuovo trasportati nel magazzino. Bisogna immaginarsi il palcoscenico occupato fino all’ultimo centimetro per la rappresentazione del Rasputin col suo emisfero; per giunta ora anche i due nastri continui dello Schwejk, con una superficie di cinque metri per diciassette. Ricominciarono da capo le manovre fatte durante le prove del Rasputin; solo che ora non era più possibile lavorare a ore e fu necessario organizzare tre squadre di operai impiegate ininterrottamente. Dopo la rappresentazione del Rasputin l’emisfero veniva smontato per tre quarti, i nastri sollevati sul palcoscenico con paranchi, girati con la scena girevole, messi a posto, e innestati ai motori in maniera da poter incominciare la prova la mattina seguente. Il pomeriggio poi tutto il personale disponibile doveva trovarsi a posto per sgomberare il palcoscenico e preparare la rappresentazione serale. Solo il trasporto del primo nastro portava via due ore di tempo con un impiego di sedici uomini; in seguito però questo tempo poté essere ridotto a quarantacinque minuti. Come si vede da queste spiegazioni, si trattava veramente di difficoltà tecniche contro le quali bisognava lottare, e che costavano innanzitutto un’enorme quantità di denaro. Secondo calcoli esatti furono spesi 6491 marchi solo per il montaggio e lo smontaggio della cupola del Rasputin per le prove durante le rappresentazioni di Oplà, noi viviamo! Per le prove dello Schwejk si ripeté la stessa situazione. Montare e smontare la sfera del Rasputin, con le annesse operazioni per la prova dello Schwejk, costò 4464 marchi; in questa cifra non sono comprese le paghe per il lavoro durante la rappresentazione e la costruzione delle scene, né la spesa per le prove notturne e per le prove delle scene e dell’illuminazione. Si vede da queste cifre le somme pazzesche che si perdono semplicemente per mancanza di spazio, per insufficienza dei locali di preparazione e di montaggio delle scene o perché magazzini e sale di lavoro sono disposti irrazionalmente. Come si possono eliminare queste difficoltà? Visto che la questione dello spazio rappresenta una delle parti più importanti nelle nostre messe in scena, bisogna dire apertamente che con i locali che abbiamo ora a disposizione, ossia palcoscenico, magazzini, officine, sale di montaggio, ecc. è impossibile stabilire un ritmo di lavoro corrispondente alle nostre necessità e che funzioni senza inconvenienti. Non abbiamo tanto bisogno di un palcoscenico con tutti i possibili e impossibili impianti tecnici; il nostro ideale sarebbe piuttosto una grande sala di montaggio, con molti ponti mobili, ascensori, gru, elevatori e motori, grandi magazzini laterali, un grande retropalcoscenico, scene trasportabili su rotaie, e poter collocare in breve tempo sulla scena col semplice movimento di una leva migliaia di chili senza spreco di energia umana e senza preoccuparsi delle prove o di altri lavori. Quanto tempo prezioso, quanto denaro, quanta energia umana e quanto logorante lavoro notturno si sarebbe risparmiato se, per esempio, tutta l’armatura di ferro di Oplà, noi viviamo! si fosse potuta trasportare con un motore elettrico in pochi minuti in un magazzino laterale, oppure se la sfera del Rasputin insieme con la scena girevole si fosse potuta spingere sopra dei rulli dal retropalcoscenico sulla scena, e che meraviglia sarebbe stata se in un altro magazzino laterale si fossero potuti montare i nastri per lo Schwejk e trasportarli sulla scena al momento voluto. Ci sarebbe servito un unico comodo ascensore della portata di qualche tonnellata, e invece per il trasporto di pesi che superavano i quindici quintali bisognava servirsi di una scala piccola e stretta. Vi dovrebbe essere un elevatore di notevoli proporzioni per tutte le scene sopraelevate. Ai locali del montaggio dovrebbero essere adiacenti officine nelle quali fosse veramente possibile lavorare, e fornite di tutti i macchinari immaginabili; perché proprio la meccanizzazione del palcoscenico presenta problemi così svariati che solo le migliori macchine possono fornire i mezzi indispensabili per risolverli. A che cosa può servire un’officina di falegname se non vi si possono costruire oggetti che abbiano più di due metri di ampiezza, o un’officina di fabbroferraio nella quale non si possono maneggiare travi di metallo di più di quattro metri di lunghezza? Questi sono errori imperdonabili che non si devono ripetere nel caso di una ricostruzione del teatro, o della costruzione di un teatro nuovo. Invece di una platea lussuosa e meravigliosa, con ferro, vetro, marmi e ogni sorta di cose preziose, è meglio costruire officine e un palcoscenico che siano in grado di rispondere alle esigenze di un’arte scenica moderna! Solo così si potrà risparmiare molto denaro e molto tempo prezioso e soprattutto non vi saranno più difficoltà tecniche. Ma anche la sala ci presentava problemi che non erano meno importanti dal punto di vista sia ideologico che materiale. Per la messa in scena non è senza significato il modo con cui sono disposti gli spettatori, se il pubblico viene diviso in tanti settori dalle gallerie e dai palchetti, oppure se la disposizione della sala trasforma il pubblico in un’unità. Avevamo fatto questa esperienza nel «Grosses Schauspielhaus». Bisognava superare ed eliminare la tipica architettura di teatro di corte dell’edificio di Nollendorfplatz. Il problema materiale della sala era ancora più grave: i millecento posti a sedere dovevano coprire le spese che avevamo calcolato fra i 3000 e 3500 marchi per sera. (Calcolo che si dimostrò troppo basso, date le condizioni del palcoscenico e la mancanza di spazio, come lo dimostra l’articolo del nostro capomacchinista). Ma non si può contare su un teatro perpetuamente esaurito. Inoltre le Sezioni staccate ci portavano via ogni sera dai duecento ai trecento posti. Così nacquero quei «prezzi da pescecane del teatro comunista», per cui si scalmanarono certi giornali. Ma la nostra politica dei prezzi era determinata unicamente dalla capacità del nostro teatro. L’ufficio drammaturgico e la drammaturgia collettiva. Per il grande significato che la drammaturgia aveva per il nostro teatro, la scelta del drammaturgo era determinante. Dopo un attento esame e dopo molti scambi personali di idee, mi decisi per Wilhelm Herzog, che una volta aveva curato la pubblicazione del Forum, e per il quale si fece garante anche il direttore amministrativo Otto Katz. Da noi, il compito del drammaturgo non consisteva solo, come negli altri teatri, nella composizione del programma, in proposte di incarichi, nella ricerca di lavori teatrali e nel taglio di passi superflui. Ciò che io dovevo pretendere da un drammaturgo, a causa della nostra particolare situazione, era una vera collaborazione creativa con me o con l’autore del momento. Il nostro drammaturgo doveva essere in grado non solo di elaborare l’opera in questione in base al nostro atteggiamento politico, ma anche di sceneggiarla e di partecipare alla realizzazione del testo in stretta connessione con le intenzioni della mia regia. Nonostante mi fosse ben chiaro il passato letterario e politico di Herzog — apparteneva a quella generazione di letterati borghesi, la cui fronda si esprimeva contro l’ordine esistente, nella proclamazione di un puro intellettualismo — mi sedusse il suo piano di scrivere una rivista politica, con la quale volevo persino inaugurare il teatro. Come dico in un altro punto, non se ne fece nulla. Ma non si fece nulla neanche di Herzog come drammaturgo. Ancor prima dell’inaugurazione del teatro egli si mostrò così inadeguato che chiamai Gasbarra il mio vecchio collaboratore e compagno di lotta al tempo della Rote Revue. Alcuni mesi più tardi, quando il lavoro si estese troppo, si aggiunse ancora Leo Lania. Ma il solo allestimento di un ufficio drammaturgico non mi bastava. Corrisponde alla mia filosofia dell’esistenza l’eseguire tutti i lavori insieme ad altre persone. Mi sono sempre sforzato di dare una forma organica a questa filosofia. La collettività ha naturalmente il suo fondamento nell’essenza del teatro stesso. Nessun’altra forma artistica, ad eccezione dell’architettura e della musica sinfonica dipende come il teatro dall’esistenza di una collettività concorde. Già alla «Volksbühne» si erano sviluppati germi di un futuro collettivo che sarebbero potuti diventare il punto di cristallizzazione di una corporazione indipendente piuttosto numerosa, che immaginavo come l’organo di una drammaturgia collettiva. Scrissi queste cose sul «Berliner Börsen-Courier». Lavoro collettivo produttivo. Una frase che si usa di continuo senza esaminarne l’intima giustificazione, dice: quanto maggiore è il grado d’indipendenza raggiunto, tanto più si dipende da energie delle quali non c’era bisogno di tenere conto finché si era in una posizione subordinata: invece di servire a un solo padrone, bisogna invece piegarsi di fronte a un anonimo complesso di forze. Secondo la generale persuasione, un simile sviluppo sarebbe inevitabile anche nel teatro, e così il regista deciso ad andare per la propria strada, che forse non è quella più gradita per il direttore o l’amministratore del teatro, deve sentirsi dire di continuo che, se un giorno dovesse agire avendo una posizione di piena responsabilità, dovrebbe riconoscere che le sue proposte sono irrealizzabili, e che i compromessi che derivano da riguardi verso il pubblico, da riguardi verso le questioni amministrative, sono questioni di vita o di morte. Devo riconoscere che questo modo di ragionare, oggi che sono un direttore indipendente, mi sembra ancora più incomprensibile di prima. Al contrario: ogni giorno riconosco di nuovo le grandi possibilità che mi sono offerte da questa indipendenza — non nel senso di sentirmi arbitrariamente liberato da tutte le influenze, le idee e le esigenze altrui, ma posso organizzare il teatro con idee ben chiare, in modo da sfruttarne tutte le forze più meritevoli, sia dal punto di vista pratico che da quello ideale. La drammaturgia collettiva, la penetrazione in tutto l’apparato scenico dei principi della nostra filosofia, tutto ciò crea una comunione che rende possibile il controllo autonomo più sicuro e più lucido, esclude le coincidenze casuali, e trasforma il direttore in un membro dell’insieme come lo sono il regista e l’attore, l’autore e il drammaturgo. Un teatro giovane che deve conquistarsi il suo posto, un apparato scenico che deve incominciare a funzionare armonicamente, richiede naturalmente le forze di tutti i collaboratori in misura molto maggiore di uno che ha potuto sviluppare la propria organizzazione in modo adeguato e durante un congruo spazio di tempo. Tuttavia questo principio di lavoro collettivo dimostra sin da ora i suoi grandi pregi, non fosse altro per alleggerire il compito morale e fisico del regista e del direttore. Come in una macchina ben costruita le ruote si ingranano una nell’altra, così in un teatro che si basi sui nostri principi si sviluppa anche una specie di regia collettiva: lo stile della messa in scena si realizza in modo sempre più naturale e semplice, il direttore cinematografico, il drammaturgo, l’architetto delle scene, sanno sino dal principio quali sono le ultime intenzioni della regia e le possono dunque aiutare molto più facilmente e in misura molto maggiore di quanto fosse possibile prima in un teatro. Al regista-direttore spetta perciò innanzitutto il compito di organizzare bene l’apparato materiale, e assegnare il posto giusto ai suoi collaboratori. Contro il principio direttoriale che vige negli altri teatri, e che abolisce la libertà tanto del dittatore come dei suoi sottoposti, il principio di una comunità democratica messa al servizio di un’idea dimostra sempre più la sua produttività, la sua importanza umana ed artistica. Il lavoro del collettivo non corrispose purtroppo alle mie aspettative e alle esigenze del nostro teatro. Già la sua creazione era gravata da malintesi e da cose sgradevoli. A parte le due persone sopracitate, noi avevamo avuto un abboccamento con Balász, Johannes R. Becher, Brecht, Döblin, Herzog, Lania, Walter Mehring, Mühsam, Toller e Tucholsky. Gasbarra, sventatamente in una notizia di stampa relativa a ciò si era definito «direzione». Con questo aveva inteso naturalmente la direzione organizzativa, però fu necessaria tutta la diplomazia di Otto Katz per calmare gli animi indignati. Soprattutto Herzog era irritato e dichiarò furibondo che non lavorava sotto la direzione di un altro. Brecht che già allora era un ospite fisso in Nollendorfplatz e che osservava attentamente tutti i nostri preparativi, camminava impettito su e giù dietro al palcoscenico gridando ripetutamente: «Il mio nome è un marchio e chi usa questo marchio deve pagare!» Non mi ricordo se dopo la riunione di fondazione — nella quale Erich Mühsam, il vecchio anarchico e compagno letterario di lotta di Wedekind, diede lettura di uno statuto, da lui composto, che andava fin nei minimi particolari — ebbe luogo una normale sessione di lavoro. Per contro, dai singoli membri del collettivo, nel corso della stagione, pervenirono delle indicazioni preziose e molti di loro parteciparono al nostro lavoro disinteressatamente e con spirito di sacrificio. Fu un esperimento che necessariamente appartenne ai primo anno di vita del Teatro di Piscator e che spero di ripetere con più successo. Alcuni autori, tuttavia, approfittarono in certo qual modo privatamente degli stimoli e delle proposte del collettivo, afferrando, inseguendo e variando autonomamente di propria iniziativa, temi e problemi che in realtà erano posti al collettivo. Erich Mühsam scrisse ad esempio in base a tali sollecitazioni il suo Judas (Giuda), Walter Mehring il Kaufmann von Berlin (Commerciante di Berlino) (con cui più tardi doveva essere inaugurato in Nollendorfplatz il secondo Teatro di Piscator), Lania il suo lavoro Konjunktur (Congiuntura); Döblin scrisse un dramma sui matrimoni moderni e sulle loro difficoltà che egli come medico naturalmente conosceva esattamente. Lo Studio. Molto più soddisfacente fu il lavoro dello Studio — un altro collettivo nel nostro teatro —, soprattutto perché venne eseguito da forze giovani pronte all’entusiasmo. Il progetto di uno Studio annesso al Teatro di Piscator nacque dalla convinzione che lo stile di un nuovo teatro può essere solo il risultato di un determinato processo evolutivo nel quale siano inclusi tanto l’autore come l’attore, il macchinista come il musicista. Questa intima connessione, la compenetrazione organica di tutte le parti del teatro, può essere preparata teoricamente, ma realizzata solo con un lavoro pratico. Il funzionamento normale del teatro, gli obblighi cui deve adempiere una volta inserito nella corrente dell’attività sociale, lasciano poco tempo libero per discutere, per fare esperimenti. Quindi lo Studio assume le funzioni di un laboratorio, nel quale i membri del teatro e tutte le forze in esso impegnate possono esperimentarsi praticamente, imparano a dominare la scena da tutti i punti di vista, aiutandosi e completandosi reciprocamente. Compito dello Studio non dev’essere dunque la semplice realizzazione di un qualsiasi dramma, ma invece il controllo continuo dei principi di un nostro teatro nella soluzione di problemi concreti. Nello Studio gli attori abbandonano la forma vaga di un semplice rapporto contrattuale, formano una collettività alla quale appartengono con uguali diritti e doveri anche l’autore, il musicista, il regista, il regista cinematografico; e questo gruppo sceglie il lavoro che vuole rappresentare, stabilisce in discussioni cameratesche la tendenza della messa in scena, sceglie il relativo regista, stabilisce come devono essere distribuite le parti e si accinge finalmente al lavoro, il cui risultato finale — l’esecuzione completa in ogni sua parte — non è più importante del lavoro preparatorio durato intere settimane, durante il quale, attraverso discussioni teoriche e in base a esperimenti con il materiale offerto dal dramma, dagli attori e dall’apparato tecnico, può costituirsi una volontà ben determinata e unitaria. Nello Studio l’autore raggiunge un’intima comunione con la scena, vede i punti deboli e i pregi del suo dramma, confrontandolo con la realtà della rappresentazione. Il regista può rendersi conto della misura in cui le sue intenzioni possono essere tradotte scenicamente; l’attore viene liberato, trascinato nell’esperimento. Mentre nel funzionamento di un teatro normale la messa in scena di un dramma viene stabilita essenzialmente dalla data alla quale deve essere terminata, mentre dunque bisogna per così dire lavorare «in pulito» sin dal primo momento, nello Studio invece il dramma può essere sottoposto quasi senza limitazione di tempo a un processo di revisione e di nuovi orientamenti. I drammi destinati alla rappresentazione nello Studio, vengono perciò scelti secondo determinati punti di vista. In parte si tratta di opere il cui contenuto drammatico deve essere ancora messo alla prova. Può darsi che il dramma o la commedia appaia un’opera sostanziale sia per il problema che tratta, sia per la struttura, sia per il dialogo; tuttavia non ha ancora la maturità e la completezza che permetterebbero d’includerlo in un repertorio normale. In un caso simile lo Studio offre all’autore l’occasione di esperimentare sin dal fondo la sua opera e di rielaborarla conseguentemente. Se in questo caso il centro di gravità è nell’esperimento letterario, in un altro caso si tratterà di dare il modo a un autore legato spiritualmente al nostro teatro e alla nostra filosofia di raggiungere un’intima lucidità e un’intelligenza dei propri mezzi, di mostrargli, sviscerando un lavoro fondamentalmente sbagliato, la via che egli deve percorrere in armonia con la sua vocazione e che forse in quell’opera determinata non aveva saputo trovare. In questo caso dunque lo Studio deve fecondare e guidare sulla giusta via il lavoro di un poeta, mentre in un altro caso ancora verrà scelta un’opera che offra indiscutibilmente particolari possibilità per esperimentare giovani attori o un nuovo stile di recitazione. Perciò anche l’indipendenza dello Studio è una premessa essenziale perché possa agire liberamente. Non lavora sotto la guida diretta della direzione del teatro, ma solo in collaborazione spirituale con essa. Deve rendersi conto di essere una palestra, un’arena per lavori preparatori. A questo compito devono servire anche corsi tenuti per i membri dello Studio, conferenze che trattino tutti i problemi essenziali, politici e spirituali dell’epoca, ma contemporaneamente anche comprendere una scuola di lingua, studio di parti, lezioni di ginnastica ecc. Il piano didattico viene determinato di volta in volta dal lavoro drammatico di cui si prepara la messa in scena. Protocollo della fondazione dello Studio. Seduta del 16 ottobre 1927. La riunione in cui erano presenti i soci regolarmente assunti, è stata aperta da Piscator con alcune dichiarazioni sugli scopi e i compiti dello Studio. I soci, dalla forma vaga in cui sono legati al teatro dai contratti in corso, devono passare a un legame spirituale che serva senza riserve al teatro e all’idea del teatro. Poiché questo legame spirituale non può essere raggiunto da un giorno all’altro, è necessaria una certa preparazione. Questa preparazione per tutti è lo Studio. Scopo dello Studio è dunque creare un teatro perfetto che dia espressione alla nostra filosofia come un duttile strumento. Poiché questa filosofia è attiva, gli attori del nostro teatro devono essere educati a divenire uomini attivi. Oltre a ciò lo Studio ha ancora una quantità di altri compiti: 1) l’educazione e il perfezionamento dell’organismo teatrale, 2) l’educazione e il perfezionamento dei singoli, 3) l’esperimento drammaturgico, 4) l’esperimento letterario, 5) l’esperimento politico, 6) la propaganda politica. Per giungere al più presto a un lavoro pratico, la direzione propone di formare tre gruppi. Questa divisione non deve significare una classificazione dei singoli membri, ma rendere possibile una divisione del lavoro. Cambiamenti nella formazione di questi gruppi possono avvenire in qualunque momento. Il giudizio dei lavori compiuti dalle classi viene dato dalla collettività. Come primo lavoro pratico viene proposto per la 1a classe la preparazione della messa in scena di Canzoni ai piedi della forca di Sinclair, e di Nostalgia di Jung. La 2a classe elaborerà la favola; la 3a classe si occuperà in collaborazione con Piscator della preparazione della manifestazione per l’amnistia e di una manifestazione per Max Hölz. Secondo compito dello Studio è quello di organizzare la ginnastica e la scuola di lingua in modo che tutti i membri vi possano prendere parte giornalmente. Per mettere i membri a contatto con le idee politiche e con il materiale letterario del nostro teatro, verranno organizzate conferenze letterarie e politiche. A queste devono essere invitati anche i soci della drammaturgia collettiva e i simpatizzanti. In tutte le classi, ma specialmente nella 3a deve essere introdotto lo studio di parti secondo un nuovo metodo sperimentale. Lo Studio si creerà coi propri mezzi e prendendo contatti con gli editori una biblioteca in cui dev’essere rappresentato specialmente materiale per i lavori di repertorio. Le singole classi si eleggeranno una direzione composta di tre membri, e per i singoli lavori commissioni particolari alle quali appartengono un regista, un attore, un drammaturgo ecc. I gruppi cureranno i reciproci contatti scambiandosi singoli membri. La 3a classe dev’essere uno studio didattico organizzato in teatro per la formazione di giovani attori. Verrà quindi suddiviso in scuola e produzione. Per la scuola la direzione propone le seguenti materie d’insegnamento; studio di parti e di scene, elementi di stile, lingue straniere, storia della drammaturgia e del teatro, architettura scenica, storia del costume, film e inoltre la ginnastica e la scuola di lingua che sono obbligatorie. Anche qui il piano li studio viene organizzato secondo il lavoro teatrale che viene messo in scena. Le rappresentazioni vengono preparate in ogni parte dai membri stessi dello studio didattico, anche i lavori tecnici. Gli insegnanti della 3a classe saranno forniti dal teatro. I membri della 3a classe sono invitati a preparare subito un orario di lavoro settimanale e a richiedere dalla direzione gli insegnanti per le singole materie. Possibilmente nella 3a classe saranno accettati scolari che per le loro idee artistiche e politiche siano spiritualmente vicini al nostro teatro. Le tre classi e il gruppo registi e drammaturghi eleggerà una comune direzione dello Studio che inizierà immediatamente la distribuzione del lavoro pratico.