Sul controllo sociale. Paper teorico Dottorato URBEUR Università di Milano- Bicocca Francesca Menichelli Matricola: 724449 [email protected] 1 1. INTRODUZIONE. ............................................................................................. 3 2. CONTROLLO SOCIALE E RIVOLUZIONE INDUSTRIALE..................... 4 DA MARX AI MARXISTI: DISCIPLINA, PENA E MERCATO DEL LAVORO. ....................... 4 MICHEL FOUCAULT: LA SOCIETÀ DISCIPLINARE........................................................ 7 3. CONTROLLO E DEMOCRAZIA.................................................................. 11 ÉMILE DURKHEIM: PENA E COESIONE SOCIALE. ...................................................... 11 TALCOTT PARSONS: ORDINE, NORME, CONSENSO. .................................................. 15 CHARLES WRIGHT MILLS: UN APPROCCIO CONFLITTUALE AL PROBLEMA DELL’INTEGRAZIONE. ............................................................................................ 17 4. GLI ANNI SETTANTA: LIBERTÀ ECONOMICA VS CONTROLLO SOCIALE. .............................................................................................................. 20 DAVID GARLAND: LA CULTURA DEL CONTROLLO. .................................................. 21 DAVID LYON: SORVEGLIANZA ELETTRONICA E POST-PANOTTISMO.......................... 25 5. CONCLUSIONI. .............................................................................................. 29 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ...................................................................... 31 2 1. Introduzione. Le pagine che seguono sono dedicate al tema del controllo sociale: oltre all’interesse personale di chi scrive, la scelta è stata dettata anche da considerazioni sulla centralità di tale argomento e la forza con cui questo è collegato ad altre questioni rilevanti all’interno della teoria. Il controllo sociale può essere visto come mezzo per la creazione dei soggetti: se con «controllo sociale» intendiamo tutti i processi messi in atto per stimolare nell’individuo conformità rispetto a norme e valori, è ovvio che questo ci dice qualcosa su ciò che è socialmente desiderabile, sui comportamenti e le pratiche che si vogliono incoraggiare o, invece, ostacolare, su quali caratteristiche deve avere il membro ideale della collettività. Aspirando a dirigere la condotta degli iindividui, il controllo sociale è altresì strettamente, e problematicamente, legato all’ordinamento democratico della società contemporanea: le spinte opposte tra tendenze coercitive e altre più libertarie trovano composizione instabile e precaria, e il difficile equiibrio fra controllo e diritti è sempre più spesso al centro del dibatitto politico. I vasti differenziali di potere esistenti nelle società contemporanee giocano anch’essi un ruolo; in questo senso, fertili campi di indagine sono offerti dallo studio delle relazioni intercorrenti fra controllori e controllati, e delle conseguenze ascrivibili all’applicazione di una determinata pratica o tecnologia di controllo in un dato contesto. Per quanto riguarda la struttura del lavoro qui presentato, si è scelto di tracciare un percorso che, partendo da autori classici, e in tal senso si discuteranno estratti dall’opera di Marx e Durkheim, arrivi fino alle elaborazioni più recenti relative al tema di interesse, individuabili nei contributi di autori come Garland e Lyon. L’ordine in cui verranno introdotti i vari autori non è rigorosamente cronologico: ai fini dell’esposizione, si è deciso di presentare insieme i contributi che, pur partendo da prospettive diverse, potevano essere ricondotti a un’affinità di contenuti, sacrificando la consequenzialità temporale a beneficio della chiarezza espositiva. 3 2. Controllo sociale e rivoluzione industriale. Nel corso del diciottesimo secolo si verifica un sensibile aumento demografico della popolazione europea, che passa da 95 a 166 milioni1. In Inghilterra, per una serie di condizioni specifiche che risultano essere particolarmente favorevoli all’incremento, il fenomeno ha particolare forza: l’insularità permette al paese di non patire troppo gravemente le conseguenze delle guerre che nel corso del secolo agitano l’Europa mentre la Rivoluzione Agricola, unita al movimento delle enclosures, assicura un aumento della produttività insieme a un minore impiego di forza lavoro. La popolazione, che con la dissoluzione del sistema feudale non è più legata alla terra e ha inoltre perso i diritti di sfruttamento relativi alle proprietà comuni, non riesce più a trovare lavoro nel bracciantato salariato ed è perciò costretta a spostarsi, prima verso le cottage industries e, in un secondo momento, verso le città industriali. Il massiccio inurbamento scatena problemi di ordine pubblico, con l’aumento dei reati contro la proprietà e quello generale dei crimini: con sempre maggiore forza è avvertita la necessità di trovare rapidamente un modo per nutrire, vestire, alloggiare e controllare queste masse di contadini poveri che si sono riversati nelle città. Gli imprenditori esprimono inoltre l’urgenza di addestrare questa gran quantità di persone, rapidamente e con profitto, alle regole del lavoro di fabbrica, affinché, da fonte di problema, si trasformino in occasione di guadagno. Come si vedrà ora, la transizione sarà, per quanti ne sono interessati, lungi dall’essere indolore. Da Marx ai marxisti: disciplina, pena e mercato del lavoro. ll processo dell’accumulazione originaria2 narrato da Marx nel primo libro de Il Capitale altro non è che il racconto di come i contadini, una volta cacciati dalle terre e privati di tutti i mezzi di sussistenza sui quali potevano fare affidamento nel quadro dell’economia feudale – l’uso di pascoli e terre comuni, i prodotti, destinati all’autoconsumo, dell’industria domestica rurale – si siano riversati in massa nelle città per trovare di che vivere, finendo per diventare un rifornimento, abbondante e a poco prezzo, di forza lavoro alle manifatture 1 2 Malanima, 2003, p. 6. Marx, 1867; trad. it. 1970. 4 e alle industrie e, insieme, un pressante problema di ordine sociale. Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra (…) fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano ritrovarsi con altrettanta rapidità nella disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze.3 Anche per quanti riescono a trovare un lavoro nelle prime fabbriche ci sono nuovi ostacoli da affrontare; questi contadini impoveriti non hanno mai lavorato altro che la terra e hanno una concezione del tempo profondamente diversa da quella che si riflette nella pratica del lavoro salariato: nasce quindi il problema, che per i capitalisti di allora è un’impellente necessità, di addestrare tali masse alla disciplina del lavoro di fabbrica così da trasformarle, in ogni modo e a qualunque costo, in forza lavoro produttiva. La forza d[ella] frusta, d[el] marchio a fuoco, d[elle] torture ha piegato la resistenza della popolazione rurale contro quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato.4 Mentre Marx si concentra sul ruolo della disciplina come dispositivo finalizzato all’addestramento al lavoro nelle nuove manifatture cittadine, Rusche e Kichheimer5 scelgono invece di analizzare il rapporto intercorrente fra economia e carcerazione. I due autori interpretano infati l’invenzione carceraria come un meccanismo per controllare la forza lavoro in eccesso che, a seguito dei processi sopra delineati, si riversa in massa nelle città, con la pena, più che mezzo per punire i colpevoli, indicata come strumento principe per esplicare questo controllo; secondo Rusche e Kirchheimer grazie all’istituzione penale viene a crearsi un mercato del lavoro coatto, nel quale i prigionierilavoratori sono usati per tenere sotto controllo quella parte di proletariato urbano libero che ha accettato di sottostare allo sfruttamento capitalistico. Punto di partenza è il riconoscimento di come l’unico aspetto comune a tutti i sistemi penali sia che, pur nella varietà dei sistemi giuridici e dei corpora legislativi, la pena deve avere caratteristiche tali da scoraggiare la commissione di un reato, ma, poiché la maggior parte dei crimini sono commessi da appartenenti a quelle classi su cui si scaricano con più 3 Ivi, pp. 192-93. Ivi, p. 196. 5 Rusche e Kirchheimer, 1939; trad. it. 1978. 4 5 forza le pressioni sociali e che incontrano più difficoltà nel soddisfacimento dei propri bisogni6, questa dovrà essere progettata in modo tale da non perdere il suo effetto deterrente nei confronti di quanti vivono già in condizioni molto difficili. Il principio della less eligibility, per cui gli standard della prigione devono essere sempre inferiori alle condizioni di vita della parte più povera del proletariato, può perciò ragionevolmente essere indicato dagli autori come la regola fondamentale della penalità: solo in questo modo infatti, sotto la minaccia di un peggioramento sostanziale nella qualità della propria esistenza, le masse saranno spinte a preferire un lavoro onesto, pur se faticoso e dalla magra retribuzione, alle opportunità criminose che si dovessero presentare loro. A un livello più generale, la stessa idea di instaurare una corrispondenza fra colpa e punizione rappresenta una prova della pervasività delle categorie concettuali proprie del capitalismo: [p]erché affior[i] l’idea della possibilità di espiare il delitto con un quantum di libertà astrattamente predeterminato [è] necessario che tutte le forme della ricchezza sociale [vengano] ridotte alla forma più semplice e astratta: al lavoro misurato dal tempo7. Le pratiche penali sono quindi interpretate come un meccanismo di dominio; nella lotta di classe la pena diventa un dispositivo funzionale alle esigenze della borghesia e la detenzione è un mezzo per controllare il costo del lavoro: si instaura una relazione proporzionale, e qui sta il cuore del contributo fornito dai due autori, fra l’offerta di manodopera in un dato momento e la severità del sistema penale. Nei periodi di crescita economica si userà il lavoro coatto dei detenuti per tenere sotto controllo i salari e addestrare al lavoro di fabbrica anche le forze ribelli, mentre nelle fasi di stagnazione il carcere verrà usato per rinchiudere poveri, vagabondi e disoccupati. Il valore sociale della vita umana viene ad essere fissato in relazione alle condizioni del mercato del lavoro: il lavoro carcerario è visto come un attacco sferrato contro il lavoro libero e il carcere diventa un’agenzia di socializzazione primaria [funzionale alla trasformazione del] le masse di ex contadini in proletariato, attraverso l’apprendimento coattivo della disciplina del salario8. Pur se quanto detto finora indubbiamente trova più di un’eco in quello che, secoli dopo, Foucault sosterrà nel suo Sorvegliare e punire9, tanto che, secondo Melossi10, il concetto di disciplina rappresenta il trait d’union fra la teoria marxiana della pena e le formulazioni 6 Rusche, 1933; trad. ing. 1978, p.62; mia traduzione. Pašukanis, 1927; trad. it. 1975, p. 189. 8 Pavarini, 1978, p.342. 9 Foucault, 1975; trad. it. 2007. 10 Melossi, 1978, p. 13; 1998, p. xii-xiv. 7 6 dell’autore francese, questi supera decisamente la prospettiva marxista introducendo un radicale ripensamento sia dell’invenzione carceraria che della disciplina. Mentre il filone marxista collega la questione del disciplinamento ai mutamenti connessi alla nuova organizzazione in senso capitalistico del lavoro, fino ad affermare che di questa il primo sia il fondamento, Foucault rovescia la relazione, sostenendo che le discipline sono un’anatomia del potere11, una molteplicità di processi (…) di diversa origine12 invenzioni senza padri che hanno trovato nelle fabbriche un fertile campo di applicazione. Allo stesso modo l’autore rigetta una spiegazione dell’invezione carceraria che faccia esclusivo riferimento a fattori economici come la dinamica del mercato del lavoro: piuttosto, questa va vista come una nuova forma di punizione adottata da un potere che non vuole più distruggere i corpi dei soggetti ad esso sottoposti13, ma vede in questi il fondamento della sua forza e mira, quindi, a studiarli, plasmarli e organizzarne la condotta quotidiana secondo il suo volere. Gli imperativi economici della produttività, pur mantenendo una posizione di rilievo all’interno della ricostruzione foucaultiana, non sono quindi più ritenuti in grado di spiegare con esaustività il dispiegarsi di una nuova modalità di potere, che investe in ugual misura i corpi e le anime dei soggetti per arrivare alla creazione di individui adatti e autocontrollati. Michel Foucault: la società disciplinare. Nella congiuntura storica del XVIII secolo, dove all’aumento demografico si somma la crescita consistente dell’apparato produttivo e il suo deciso organizzarsi in senso capitalistico, la borghesia emergente è sempre più insofferente delle forme di illegalità tipiche dell’ancien régime, ora sempre più percepite come violazioni del diritto di proprietà, e deve trovare una risposta al problema sempre più pressante delle masse di poveri che si riversano nelle città, in modo da riuscire a socializzare questi individui alle nuove necessità del lavoro di manifattura, neutralizzando però, allo stesso tempo, gli effetti negativi di cui questi sono potenzialmente portatori in quanto moltitudine. 11 Foucault, 1975; trad. it. p. 235. Ivi, p. 150. 13 In Sorvegliare e punire si vedano le pagine dedicate ai supplizi nell’Ancien Régime. 12 7 Il potere disciplinare è quella specifica forma di potere che opera attraverso i corpi, contribuendo a creare quel soggetto che diventerà poi suo veicolo; la trasformazione degli individui in elementi produttivi per il nuovo contesto economico si concretizza in un corpo autocontrollato, che ha interiorizzato i comandi che gli vengono rivolti e che ad essi risponde spontaneamente. La disciplina fabbrica così corpi sottomessi ed esercitati, corpi «docili». La disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce queste stesse forze (in termini politici di obbedienza). (…) La coercizione disciplinare stabilisce nel corpo un legame di costrizione tra un’attitudine maggiorata ed una dominazione accresciuta.14 Questa arte del corpo umano che mira all’utilità e all’obbedienza scende fino al livello del singolo gesto per instaurare una sintassi obbligata di movimenti che porti a una migliore economia dei tempi e delle azioni, affinché, come in una danza, il corpo si muova armoniosamente al ritmo del ciclo produttivo. La comparsa di questa sensibilità nei confronti del dettaglio non risponde a un disegno politico esplicito, né può essere interpretata come un’innovazione consapevolmente introdotta nell’ambito delle manifatture per aumentare la produttività: le discipline non hanno padri, ma hanno fornito la tecnologia sulla quale costruire nuovi rapporti poteresapere: l’«invenzione» di questa nuova anatomia politica non deve certo essere intesa come un’improvvisa scoperta, ma come una molteplicità di processi spesso minori, di diversa origine (…) [che] entrano in convergenza e disegnano, poco a poco, lo schema di un metodo generale. (…) Piccole astuzie dotate di grande potere di diffusione, disposizioni sottili, d’apparenza innocente, ma profondamente insinuanti, dispositivi che obbediscono a inconfessabili economie o perseguono coercizioni senza grandezza (…).15 Il corpo che si offre a queste nuove forme di sapere va incontro a un addestramento minuziosissimo e a un controllo continuo che non lascia indietro neppure la più insignificante delle minuzie: il tempo viene diviso in segmenti e riaggregato in serie ripetibili che scandiscono con precisione l’attività del soggetto. Nulla viene lasciato nell’indeterminato. L’ampiezza dei passi mentre si marcia con i propri commilitoni, il numero di movimenti prescritti per ricaricare il proprio fucile, la distanza da tenere dal banco di lavoro, quali gesti compiere al rintocco della campana: tutto viene elencato, specificato, descritto con precisione per non lasciare spazio alcuno alla discrezione del 14 15 Foucault, 1975; trad. it. p. 150. Ivi, pp. 150-151. 8 singolo e far sì che il tempo sia totalmente e massimamente utile. Nel sistema disciplinare, ciò che è determinato corrisponde a ciò che va fatto e perciò tutto il resto, essendo indeterminato, è vietato16. Anche lo spazio diventa seriale. L’architettura e l’organizzazione interna degli spazi sono ora concepite nei termini di una sorveglianza continua: l’imperativo del rinchiudere e non far uscire, con i suoi muri spessi e le porte pesanti, lascia il posto alle trasparenze del vetro, le alternanze fra vuoto e pieno, fra apertura e chiusura, luce e ombra; la funzione degli edifici si riflette nella loro pianta, disegnata in modo tale da facilitare il raggiungimento degli scopi dell’organizzazione, siano questi l’istruzione degli allievi o la cura dei malati. L’obiettivo è riuscire ad abbracciare tutto con un solo sguardo: gli individui devono sempre essere visibili, conoscibili, rintracciabili, identificabili agli occhi di un potere che, come nel panopticon benthamiano17, vuole avere su quanti vi sono sottoposti effetti costanti e profondi, che si riflettano fin dentro le loro pratiche quotidiane. Nella sua meticolosità, questa strutturazione della condotta tende decisa verso l’induzione della conformità e, di riflesso, lo sradicamento di ogni forma di inosservanza; insieme all’addestramento dei corpi, l’altro grande strumento di potere diventa la normalizzazione. Meriti e demeriti dell’individuo sono sommati in una contabilità penale che ricompensi l’omogeneità, sanzioni gli allontanamenti dalla regola e permetta di distinguere il meritevole dall’indisciplinato, per poi comparare la prestazione di entrambi rispetto a un unico modello stabilito in precedenza. La normalizzazione disciplinare consiste nell’introdurre un modello ottimale costruito in funzione di un certo risultato in modo da rendere le persone, i loro gesti e atti conformi a tale modello: normale è chi è capace di conformarsi a questa norma, anormale chi non ci riesce.18 L’esame è la combinazione ritualizzata dei meccanismi di potere appena sopra descritti, la cerimonia durante la quale si valuta l’aderenza del soggetto agli standard e si descrive la sua prestazione. L’intero processo presuppone, da una parte, la costruzione di un sistema che permetta di comparare i risultati ottenuti dagli individui e, dall’altra, l’accumulazione di un sapere dettagliato sugli stessi, sapere che, opportunamente sistematizzato, fornirà la base per nuove discipline scientifiche: questo momento in cui le scienze dell’uomo sono 16 Foucault, 2004; trad. it. p. 46. Bentham, 1962. 18 Foucault, 2004. trad. it. pp. 50-51. 17 9 divenute possibili, è quello in cui furono poste in opera una nuova tecnologia del potere e una diversa anatomia politica del corpo19. Grazie a queste nuove forme di sapere l’individuo diventa un soggetto descrivibile, calcolabile, controllabile e oggettivabile; in una parola, assoggettabile. La potenziale minaccia della massa si stempera nella tranquilla prevedibilità di corpi docili. Il quadro storico all’interno del quale Foucault conduce le sue riflessioni è, come abbiamo visto, quello dell’ascesa della borghesia a classe politicamente dominante, ascesa accompagnata dalla comparsa di un quadro giuridico formalmente egualitario e regimi parlamentari rappresentativi; un processo di lenta, ma progressiva, democratizzazione viene quindi ad affiancare l’estendersi e il consolidarsi del potere disciplinare, che mira, al contrario, all’assoggettamento delle masse per neutralizzarne il potenziale politico. Questa convivenza di forze tanto dissimili può essere spiegata se pensiamo ai procedimenti disciplinari come al versante oscuro20 della democrazia: alla luce dei regimi rappresentativi in via di consolidamento, che prevedono esplicitamente l’uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte alla legge, si contrappone il controdiritto21 delle discipline, con il loro sistema insieme concreto e impalpabile di dominio che mantiene le masse entro i binari di una vita ordinata e disciplinata. È anzi l’esistenza di tali forme di dominio a permettere, a un livello superiore, l’affermazione formale delle libertà. Per Foucault è proprio la generalizzazione della disciplina che, in ultima analisi, sostiene e rende possibile il diffondersi delle costituzioni democratiche e l’espansione delle libertà liberali. Senza questa solida infrastruttura di rapporti di potere (…) l’estensione della «libertà» non avrebbe mai potuto verificarsi22. Le conclusioni cui giunge Foucault presentano già quelli che, nel ventesimo secolo, diventeranno i problemi centrali delle società di massa a democrazia avanzata – la costruzione del consenso, la coesistenza fra uguaglianza formale e disuguaglianza sostanziale – e permettono di tracciare un percorso ideale che prosegue in direzione degli autori che verranno ora presentati. 19 Foucault, 1975; trad. it. p. 211. Ivi, p. 241. 21 Ivi, p. 242. 22 Garland, 1990; trad. it. p. 191. 20 10 3. Controllo e democrazia. Uno delle conseguenze del consolidamento del sistema di produzione capitalistico è la creazione di un mercato di massa per i prodotti che escono dalle fabbriche. Affinché il sistema possa reggersi, è necessario però che ci siano grandi quantità di persone in grado di acquistare questi beni; così, dopo aver subito la socializzazione forzata al lavoro di fabbrica, ecco che agli operai si chiede una nuova trasformazione: da lavoratori, che diventino consumatori. Parallelamente, grazie alle lotte portate avanti dai movimenti socialisti e sindacali, le richieste di maggiore inclusione e di più ampi diritti avanzate dalla classe operaia si tramutano progressivamente in realtà e le società di massa si orientano sempre più decisamente in senso democratico: è al crocevia di questi processi che i lavoratori sono integrati a pieno titolo nella società del consumo. In un quadro storico così profondamente mutato diventano centrali i problemi del consenso e della convivenza pacifica nel rispetto delle reciproche differenze e si fa strada una diversa idea del controllo sociale, ora inteso come capacità di infuenzare la costruzione di un comune orizzonte sociale di significato23. Ci si rende conto che un controllo sociale morbido, che guidi gli individui invece di violarne i diritti, è molto più efficace del divieto e della coercizione nel dirigere e orientare la società. Gli autori di seguito presentati hanno tutti, secondo prospettive e sensibilità diverse, messo al centro del proprio lavoro i problemi, in questa sede solo rapidamente delineati, dell’integrazione, dello stare insieme e dei fondamenti del potere in società secolarizzate e individualizzate ed è perciò sembrato giusto a chi scrive presentarli insieme. Émile Durkheim: pena e coesione sociale. Ne La divisione del lavoro sociale24 Émile Durkheim si interroga sulla natura dei fondamenti morali esistenti in una società ormai individualizzata e secolarizzata, nella quale i vincoli religiosi hanno progressivamente perso la loro forza; in una realtà sempre più caratterizzata dalla specializzazione in ogni area della vita sociale saranno, secondo 23 24 Melossi, 2002, p. 148. Durkheim, 1893; trad. it. 1999. 11 l’autore francese, i legami di solidarietà derivanti dalla divisione del lavoro a permettere il mantenimento della coesione sociale e a permettere l’esistenza stessa di quella che definiamo società. Mentre è certamente vero che le credenze morali tradizionali hanno perso la loro capacità di dar ragione all’individuo del mondo in cui vive, non per questo possiamo affermare che la società moderna tenda inevitabilmente alla disgregazione; piuttosto, nel passaggio da società elementari ad altre sempre più complesse, le forme della solidarietà cambiano, trovando non più nell’uniformità ma nell’espansione della divisione del lavoro il loro nuovo fondamento. Per provare la sua tesi, Durkheim deve prima verificare che nella società moderna la divisione del lavoro dia effettivamente origine alla solidarietà sociale per poi paragonare questo vincolo agli altri. Il tentativo di misurare i cambiamenti nella natura della solidarietà sociale25 che tale paragone comporta deve però scontrarsi con il carattere non misurabile di questa: per procedere a questa classificazione e a questo confronto occorre dunque sostituire al fatto interno che ci sfugge il fatto esterno che lo simbolizza, e studiare il primo attraverso il secondo26; sarà perciò necessario un indicatore, individuato nelle regole del diritto. Ecco così spiegata la grande parte che, all’interno de La divisione, occupa la disamina delle norme legali del diritto penale, prevalente nelle società più semplici, e civile, tipico delle società più complesse: attraverso lo studio dei rituali della penalità [Durkheim] sostiene di aver trovato la chiave per indagare la società nel suo complesso27, con la pena a rappresentare una manifestazione tangibile della coscienza collettiva28. Ne Le regole del metodo sociologico29 Durkheim dedica ampio spazio al tentativo di definire i criteri della patologia sociale attraverso l’introduzione di una distinzione scientifica fra fatti normali e patologici, indicando con i primi quei fatti che presentano le forme più generali30, ovvero osservabili nella maggior parte dei casi considerati e sempre con variazioni comprese entro limiti stretti. La normalità viene quindi a essere determinata considerando la prevalenza di un fatto sociale in una data società. Essendo rintracciabile 25 Giddens, 1971; trad. it. p. 135. Durkheim, 1893; trad. it. p. 86. 27 Garland, 1990; trad. it. p. 61. 28 L’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della stessa società forma un sistema determinato che ha una vita propria; possiamo chiamarlo coscienza collettiva o comune. Durkheim, 1893; trad. it. p. 101. 29 Durkheim, 1895; trad. it. 1979. 30 Ivi, p.65. 26 12 in tutte le società, il reato31, pur avendo un contenuto storicamente e spazialmente variabile, rientra perciò, secondo questa definizione fra i fatti sociali normali32, anzi far[ne] una malattia sociale significherebbe (…) cancellare ogni distinzione tra il fisiologico e il patologico33. Il reato è allora parte integrante di ogni società sana e non può esistere una società senza crimine. Infatti, pur ipotizzando che i sentimenti collettivi riuscissero ad acquistare nella coscienza di tutti la forza sufficiente per bloccare sul nascere l’apparizione di ogni impulso ad essi contrario, certo non per questo il crimine sparirebbe; piuttosto, tutto ciò che veniva prima percepito come mera indelicatezza e sanzionato di conseguenza, verrebbe poi percepito come un’offesa profondissima, e punito come un reato. [In] una società di santi (…) i reati propriamente detti saranno ignoti, ma le colpe che sembrano veniali al volgo faranno lo stesso scandalo che il delitto ordinario produce sulle coscienze ordinarie.34. L’adozione di questo punto di vista porta però con sé nuovi interrogativi: se il crimine è, per quanto l’affermazione possa suonare paradossale, un fattore della salute pubblica35 della società, qual è l’utilità che tale fenomeno riveste per il corpo sociale nella sua interezza? Rendendo possibile l’apertura di spazi per il cambiamento sociale il crimine può essere pensato come una palestra dell’innovazione36: se i sentimenti collettivi fossero infatti troppo forti, questo impedirebbe qualunque cambiamento, poiché nessuno oserebbe andare contro norme che hanno tutta la valenza del sacro: affinché ci sia innovazione è quindi necessario che le norme al cuore della coscienza collettiva siano sufficientemente elastiche da permettere l’introduzione di modifiche e aggiustamenti. Se c’è tale elasticità ecco però che si apre lo spazio anche per la commissione di reati: affinché la personalità dell’idealista che sogna di oltrepassare il proprio secolo possa manifestarsi, occorre che quella del criminale, che è al di sotto del suo tempo, sia possibile. L’una non può esistere senza l’altra.37 Ancora, il crimine può essere indicativo dei sentimenti collettivi che verranno, con il reato presente trasformato nella norma futura: la libera filosofia ha avuto 31 Il reato (…) consiste in un atto che offende certi sentimenti collettivi, dotati di particolare energia e nettezza. Durkheim, 1895; trad. it. p. 74. 32 Da cui anche una nuova immagine del criminale, ora agente regolare della vita sociale. 33 Durkheim, 1895; trad. it. p. 73. 34 Ivi, p. 75. 35 Ivi, p.73. 36 Melossi, 2002, p. 82. 37 Durkheim, 1895; trad. it. p. 76. 13 come precursori gli eretici di ogni specie38 e la condanna a morte di Socrate per la sua indipendenza di pensiero è stata il preludio della nostra libertà. A questo punto, in accordo con quanto detto finora, anche la funzione della pena deve essere rivista poiché, se il reato non ha nulla di morboso, la pena non può avere come scopo la sua guarigione, e dobbiamo cercare altrove la sua funzione39. La commissione di un crimine dà inizio a quello che può essere visto come un circolo virtuoso40: il reato infrange le norme della convivenza, mostrandone l’incapacità di mantenere saldi i vincoli collettivi; proprio questa infrazione spinge però gli individui gli uni verso gli altri, dando il via a una reazione collettiva che ribadisce la forza e la vitalità dei legami offesi e che, di conseguenza, li rinsalda nelle coscienze individuali. Se non si sanzionasse l’offesa patita a causa del reato dai sentimenti collettivi, questi, alla lunga, perderebbero tutta la loro forza e la coesione sociale ne risulterebbe gravemente indebolita; la riprovazione della quale sono oggetto [gli atti criminosi] non è senza fondamento poiché, qualunque sia l’origine di tali sentimenti, (…) tutto ciò che contribuisce a privarli del loro vigore, indebolisce perciò anche la coesione sociale e compromette la società.41. La vera funzione della pena va quindi rintracciata nel mantenimento della coesione sociale; il fenomeno criminale circoscrive un’area morale nella quale la maggior parte della società si riconosce e può trovare il suo senso di identità in quanto gruppo: la devianza serve per indicare chiaramente a quanti ne fanno parte i confini morali42 di una società. La pena non serve – o non serve che secondariamente – a correggere il colpevole o a intimidire i suoi possibili imitatori; da questo duplice punto di vista è giustamente dubbia e, in ogni caso mediocre. La sua vera funzione è di mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità. (…) Occorre dunque che essa si affermi energicamente nel momento stesso in cui viene contraddetta, ed il solo mezzo che ha per affermarsi è di esprimere l’avversione unanime che il delitto continua ad ispirare, mediante un atto autentico che può consistere soltanto in un dolore inflitto all’agente. (…) Possiamo dire senza cadere nel paradosso che il castigo è destinato soprattutto ad agire sulle persone oneste; infatti, poiché serve a guarire le ferite inferte ai 38 Ivi, p. 77. Ivi,p. 78. 40 Garland, 1990; trad. it. p. 71. 41 Durkheim, 1893; trad. it. p. 125. 42 Erikson, 2004; trad. it. 2005. 39 14 sentimenti collettivi, può adempiere a questa funzione soltanto dove questi sentimenti esistono, e nella misura in cui sono vivi.43 Talcott Parsons: ordine, norme, consenso. La questione al centro de La struttura dell’azione sociale44 è quella che lo stesso Parsons definisce il problema hobbesiano dell’ordine: ovvero, come è possibile, per individui che vivono in società industriali e secolarizzate, stare insieme senza arrivare alla guerra degli uni contro gli altri? La soluzione avanzata da Thomas Hobbes45, primo autore a formulare il problema in questi termini, è la stipula del contratto sociale: spinti dall’istinto di autoconservazione, gli individui decidono di rinunciare a una parte della propria libertà in favore di un’autorità sovrana che, sotto minaccia della forza, è così in grado di garantire ordine e sicurezza. Parsons però critica fortemente questa posizione, poiché ritiene che non si possa arrivare a un ordine stabile attraverso il ricorso alla coercizione di massa, dato che questa non può essere generalizzata (…) [e pecca inoltre di circolarità, visto che] è necessaria una forma d’organizzazione per applicare la coercizione, che non può basarsi essa stessa sulla coercizione nel medesimo senso46. È attraverso una lettura fortemente interpretativa47 degli autori presentati nel testo, dove sopra a ogni cosa spicca per importanza la rilettura e la sistematizzazione del pensiero di Durkheim, che Parsons può arrivare alla sua personale risposta all’interrogativo di partenza. L’ordine sociale trova fondamento normativo in un unico sistema comune di fini ultimi48, ovvero una struttura normativa relativa al comportamento, generalmente accettata dai membri della comunità come fornita di autorità morale49, il che, da una parte, presuppone che le norme esercitino un potere sugli individui solo grazie alla loro autorità morale e non ci siano altri fattori che spingano strumentalmente alla conformità, e, 43 Durkheim, 1893; trad. it. p. 126. Parsons, 1937; trad. it. 1986. 45 Leviatano, 1651; trad. it. 2001. 46 Parsons, 1937; trad. it. p. 447. 47 A tal proposito si veda l’introduzione di Gianfranco Poggi all’edizione italiana de La struttura. 48 Parsons, 1937: trad. it. pp. 293-94. 49 Ivi, p. 422. 44 15 dall’altra, che queste stessi individui tendano a sviluppare e a mantenere nel tempo un attaccamento tutti allo stesso sistema di norme50. Nel quadro dell’opera parsonsiana si può quindi parlare di una concezione normativa del controllo: oltre a rivestire il ruolo di agenti di controllo del comportamento individuale, da cui deriva la considerazione delle azioni esclusivamente secondo il loro grado di conformità, si sostiene esplicitamente che le norme intervengono nella determinazione dei fini del singolo attraverso il processo dell’interazione sociale51 e che anzi è condizione essenziale della stabilità sociale come della felicità individuale che essi [i bisogni individuali] siano regolati da norme52. L’autorità morale che queste norme esprimono suscita rispetto negli individui, tanto che questi arrivano a sentire un’obbligazione morale verso l’obbedienza, come se l’adesione volontaria [fosse in realtà] un dovere53: incontrando di nuovo un concetto citato numerose volte nel corso di questo lavoro, Parsons può a questo punto sostenere che l’individuo concreto normale è una personalità moralmente disciplinata: questo significa soprattutto che gli elementi normativi sono diventati per lui «interni», «soggettivi». Egli, in un certo senso, si identifica con essi.54 Usando una terminologia freudiana, possiamo quindi dire che è attraverso l’introiezione della norma che si forma la personalità individuale: di conseguenza diventa necessario ridefinire il processo di socializzazione, ora concepito nei termini di una corretta interiorizzazione delle norme: il meccanismo del contratto sociale di Hobbes entra all’interno del singolo, mentre la devianza e il conflitto vengono ripensati come sintomo del fallimento, variamente grave, del processo di socializzazione55. Anche da questa pur sommaria trattazione dovrebbe risultare evidente come la scelta di fondare l’ordine sociale sull’interiorizzazione di un sistema condiviso di norme permetta a Parsons di portare alla luce solo gli elementi consensuali della cooperazione sociale: infatti 50 Per una trattazione più approfondita si veda Burger, 1977. Parsons, 1937; trad. it., p. 445. 52 Ivi, p. 427. 53 Ivi, p. 428. 54 Ivi, p. 430. 55 Coerentemente con quanto esposto finora, anche il concetto di controllo sociale subisce una riformulazione in senso restrittivo, arrivando a essere concepito esclusivamente nei termini di reazione passiva a fenomeni manifesti di devianza. 51 16 l’interiorizzazione permette di spiegare la cooperazione proprio tramite il consenso nel senso che [è questa a] crea[re] consenso intorno ai fini e ai mezzi dell’azione56. La scelta operata da Parsons ha sollevato molte critiche ed è stata da più parti tacciata di trascurare intenzionalmente la dimensione conflittuale della vita sociale; secondo la prospettiva propria delle teorie del conflitto questo, lungi dall’essere una malattia, è la modalità normale dell’interazione fra gli individui e la cooperazione, più che dalla condivisione di alcuni valori ultimi, dipende in misura maggiore dall’uso, reale o minacciato, della forza da parte di un gruppo su un altro, con il risultato che l’ordine sociale emerge dalla negoziazione fra poteri e esigenze diverse, tutti presenti nell’arena sociale. Fra gli esponenti più siginificativi di questo approccio va sicuramente citato Charles Wright Mills, il cui lavoro verrà ora presentato. Charles Wright Mills: un approccio conflittuale al problema dell’integrazione. L’approccio conflittuale di Charles Wright Mills al problema dell’ordine sociale si pone come critica serrata al lavoro di Talcott Parsons e, insieme, proposta di una soluzione alternativa a tale dilemma, grazie al recupero delle dimensioni del potere e del conflitto. L’accusa millsiana alla Grande Teorizzazione57 è quella di aver costruito un mondo di concetti e reciso qualunque legame con la realtà sociale e di contribuire, seppur indirettamente, al mantenimento dello status quo grazie a un linguaggio iperspecializzato, ubriaco di sintassi e cieco alla semantica58, che rende impossibile agli individui capire come si articola realmente la società. La preoccupazione per la coerenza interna della teoria spinge a lasciare in secondo piano tutta una serie di elementi, fra cui, sommamente, il potere, che sono al contrario fondamentali per arrivare ad una più profonda comprensione della società, il che porta Mills ad affermare che nella sua [di Parsons] curiosa «teoria generale» non v’è posto per le strutture del dominio59. 56 Ghisleni, 1998, p. 35. Nome dato all’approccio parsonsiano alla sociologia ne L’immaginazione sociologica (1959; trad. it. 1962) 58 Ivi, p. 43. 59 Ivi, p. 50. 57 17 Attraverso il costante riferimento a una struttura normativa comune, Parsons nei fatti legittima le istituzioni esistenti e non vede quanto il riferimento a una sfera morale, più che essere il riflesso dello scheletro etico della società, sia strumentalmente usato dai detentori del potere per giustificare la loro posizione privilegiata, anche per mezzo del ricorso a simboli morali e leggi riconosciute e rispettate da tutti. È la considerazione di questi elementi che, al contrario, permette a Mills di rifiutare con decisione la possibilità di uno schema esplicativo universale e a vedere piuttosto l’integrazione come frutto di un mix, storicamente variabile, di consenso e coercizione60, tanto da fargli affermare che oggi non è lecito sostenere che la soluzione ultima [al problema dell’ordine] è che gli uomini siano governati con il loro consenso61quanto per mezzo della manipolazione di questo. Nella visione millsiana attori in competizione fra loro sono impegnati in un continuo processo di negoziazione relativo alla definizione di valori che, lungi dall’essere l’elemento che tiene insieme tutta la struttura sociale, sono quindi frutto della composizione di interessi diversi; i differenziali di potere sui quali possono fare affidamento i diversi gruppi giocano, in questo caso, un ruolo fondamentale. Adottando questo punto di partenza, la concezione parsonsiana dell’attore come personalità moralmente disciplinata62 è messa da parte, a favore di un soggetto libero di scegliere a quali valori aderire e che, di volta in volta, attinge a vocabolari motivazionali diversi per giustificare la sua condotta di fronte agli altri. L’interesse di Wright Mills per questo tema è già rintracciabile in una delle sue prime pubblicazioni63. Le motivazioni sono intese dall’autore come giustificazioni socialmente accettate, relative ai programmi di condotta degli individui, emergenti nell’interazione e organizzate in vocabolari motivazionali: l’idea al centro della trattazione è che i motivi sostenuti socialmente possono funzionare sia da ostacolo che facilitare la condotta individuale, orientarla o invece impedirla. Nel corso dell’interazione, le persone tendono in genere a orientarsi in accordo alle aspettative che gli altri nutrono nei loro confronti, ed è proprio a partire da questo reciproco gioco di aspettative che si viene a definire un campo di possibilità che limita il ventaglio delle azioni possibili. L’individuo scopre, ed impara a 60 Nel rifiuto millsiano di una teoria generale dell’integrazione sociale e nella parallela rilevanza che viene ad assumere la conoscenza storica è forte l’influenza del pensiero weberiano, conosciuto grazie alla vicinanza con Hans Gerth. 61 Ivi, p. 50. 62 Parsons, 1937; trad. it., p. 430. 63 Mills, 1940. 18 usare, i motivi socialmente accettabili nel corso del processo di socializzazione: nell’interazione con la madre, non solo il bambino impara cosa fare e cosa non fare, ma gli vengono fornite motivazioni standard che promuovono le azioni prescritte e dissuadono dal compiere quelle vietate; insieme alle regole e alle norme di condotta relative alle varie situazioni, noi apprendiamo i vocabolari delle motivazioni a queste appropriate64. Oltre che per l’acquisizione di tali vocabolari, la sfera dell’interazione gioca altresì un ruolo fondamentale nella definizione dell’orizzonte comune di senso al cui interno si riconoscono la maggior parte dei membri della società. Wright Mills è però ben consapevole che questa non è organizzata secondo forme democratiche, e che lo scontro fra interessi in competizione, variamente rappresentati nella sfera pubblica, non è una lotta fra pari: l’ordine sociale non è più il riflesso di una coscienza condivisa da tutti i membri della società, ma frutto della supremazia di un gruppo di potere su un altro, che non può contare sulle stesse risorse. C’è qui un profondo allontanamento dalla teoria democratica classica, che immagina un’opinione pubblica che si crea attraverso la libera argomentazione razionale e la discussione pubblica fra ugualii65, con la capacità di dibattere come unica caratteristica in grado di generare differenziali di status fra i partecipanti. Con l’apparizione dei mezzi di comunicazione di massa la sfera dell’informazione subisce una riorganizzazione profonda che crea una frattura via via sempre più larga fra produttori e destinatari della comunicazione: la struttura proprietaria dei media e la grande vicinanza con il potere economico rendono probabile che alcuni interessi vengano difesi a discapito di altri, che ad alcune notizie venga dedicato uno spazio maggiore che ad altre e che la rappresentazione della «realtà» aderisca a principi che non sono quelli dell’informazione libera e imparziale. Concretamente, il diritto di parola è distribuito secondo linee che contraddicono il principio dell’uguaglianza formale dei cittadini: nella struttura discorsiva delle società democratiche (…) il diritto di parola, astrattamente concesso a tutti, è di fatto esercitato solo da pochi ed efficacemente sfruttato – in modo cioè da poter raggiungere molti – da pochissimi. Il diritto effettuale di parola è distribuito in modi che ricordano assai di più la distribuzione ineguale del potere economico che non la distribuzione formale dei diritti giuridici e politici66. Aver sottolineato gli intrecci fra potere economico e mezzi di informazione e fra questi e il potere politico non vuole assolutamente arrivare a sostenere 64 Ivi, p. 909, mia traduzione. Ad esempio si veda Habermas, 1962; trad. it. 2005. 66 Melossi, 2002, p. 179. 65 19 che si sia creata un’architettura che decide quali siano le posizioni legittime e quali no: piuttosto, l’intero processo va pensato nei termini della definizione, per quanto conflittuale e aperta a contestazioni, di un quadro di riferimento condiviso, di un linguaggio comune adottato da individui che seguono linee politiche diverse; se accadesse il contrario, questo contraddirebbe quella che è la stessa base della legittimazione della costituzione di tale senso comune, che si basa appunto su premesse democratiche.67 È anzi parere di chi scrive che l’intera impostazione millsiana, se confrontata con le posizioni di Parsons prima presentate, fornisca all’analisi strumenti più precisi e affilati per rendere conto della realtà concreta dei fenomeni sociali, concepibili più come una composizione storicamente variabile, che lo scienziato sociale può cercare di determinare con quanta più precisione possibile, di forze in contrasto fra loro che come forme organizzate secondo i principi della geometria frattale. 4. Gli anni Settanta: libertà economica vs controllo sociale. Negli anni Settanta il periodo di crescita sperimentato dai paesi occidentali nel corso di decenni precedenti subisce un brusco arresto. La crisi energetica del 1973, innescata dall’interruzione delle esportazioni di petrolio da parte dei paesi dell’OPEC, accelera il calo della produzione industriale e dà una spinta decisiva a un processo di profonda ristrutturazione economica, nel corso del quale la classe operaia perde la sua centralità e il mercato del lavoro inizia a strutturarsi in senso duale: da una parte, lavoratori tutelati e qualificati, dall’altra, posti poco remunerativi e privi di forme di protezione. Di fronte a una situazione di tale gravità, le politiche keynesiane che fino a questo momento hanno orientato le decisioni macroeconomiche dei governi non riescono a fornire risposte soddisfacenti, mentre le forze più conservatrici non si lasciano sfuggire l’opportunità che questa crisi rappresenta per loro e con la loro politica di intercettazione del malcontento popolare sono in grado di guadagnare ampi consensi elettorali e delineare l’agenda politica del periodo. Questa rivoluzione conservatrice è stata combattuta su due fronti, l’economia e la cultura politica, con conseguenze che sperimentiamo ancora oggi: da una parte, l’osservanza dei comandamenti del credo neo-liberista ha portato a tagli discriminati 67 Ivi, p. 179. 20 alla spesa pubblica, all’alleggerimento del prelievo fiscale nei confronti della parte più ricca della popolazione e, in generale, alla promozione a valore assoluto della libertà del mercato; di conseguenza c’è stato un inasprimento delle disuguaglianze e il consolidamento di una disoccupazione strutturale. Dal punto di vista culturale il cambiamento è stato invece caratterizzato da una lettura reazionaria della modernità che ha rilanciato i temi dell’ordine, della tradizione e dell’autorità, condannando allo stesso tempo tutte le conquiste della modernità – emancipazione femminile, libertà sessuale – tacciate di immoralità. Peculiarmente, l’appello per il ritorno ai “valori di un tempo” non si è scontrato con le istanze liberiste avanzate in campo economico perché il problema del comportamento immorale è stato esclusivamente associato ai settori più marginali della società, il che, di nuovo, ha portato all’aumento della frammentazione e delle tensioni sociali. I costi sociali di questo nuovo clima culturale e politico sono stati un senso di insicurezza generalizzato e una nuova ossessione per il controllo: il conflitto sociale si è riacutizzato e i problemi che si dichiarava di voler risolvere si sono aggravati. In questa visione reazionaria, il problema di fondo dell’ordine sociale [è stato interpretato secondo] una visione hobbesiana, che propone quale soluzione una versione aggiornata dello Stato Leviatano sulla base della disciplina.68 David Garland: la cultura del controllo. Nei cambiamenti sopra descritti, David Garland vede i segnali di una crisi del mito della sovranità statuale. È sua opinione che oggi tale narrazione si sia notevolmente ridimensionata, lasciando di conseguenza lo stato intrappolato in una situazione che ha del paradossale. Nonostante la sua potenza e radicamento le permettano ancora di resistere a critiche razionali e tentativi di riforma amministrativa, è ormai chiaro al governo che il mantenimento dell’esclusiva nella lotta alla criminalità e nella protezione dei cittadini non è più una via praticabile; d’altra parte però, la classe politica è ben consapevole che un arretramento su questo fronte avrebbe, per chi dovesse farsene apertamente promotore, costi politici disastrosi. Di fronte a tale dilemma, le risposte avanzate sono ambigue e schizofreniche, altalenanti fra logiche, imperativi e persino obiettivi opposti, 68 Garland, 2001; trad. it. 2007, p. 195. 21 poiché il dissidio fra la logica istituzionale incentrata sulla relazione costo-efficacia e la dimostrazione di sovranità da parte dello Stato (…) è, in definitiva, inconciliabile69. In un’ottica di lungo termine, gli amministratori che non operano sotto la pressione dell’opinione pubblica o dei media e che, soprattutto, non devono sottostare ai ritmi delle competizioni elettorali, si sono mossi verso l’introduzione di nuove pratiche e discorsi per governare il crimine. In un quadro generale di tagli alla spesa pubblica la necessità di razionalizzare le spese ha posto al centro del processo decisionale l’analisi del rapporto costo/benefici delle politiche proposte in un tentativo di conciliare la realtà dei fatti – aumento dei tassi di criminalità, diminuzione delle risorse disponibili – con le immutate richieste dei cittadini: al ragionamento sociale si è sostituita la rendicontazione economica70. Ai fini del lavoro qui presentato, la novità più interessante sono quelle che Garland ha chiamato nuove criminologie della vita quotidiana71, approcci teorici affini72 che partono dal presupposto comune che alti tassi di criminalità siano un aspetto normale della società e che il criminale sia un calcolatore razionale che attraverso la sua condotta cerca di massimizzare il proprio utile. Invece di analizzare le motivazioni di chi delinque, si presta attenzione alla varie fasi del processo di vittimizzazione, come le caratteristiche delle potenziali vittime e la disponibilità di beni; ponendo l’accento sul rapporto fra benessere economico e opportunità per i criminali, queste teorie possono spiegare la correlazione positiva rilevata da numerosi studi fra questi due fenomeni, semplicemente perché maggiori opportunità metteranno i criminali di fronte a maggiori opportunità di compiere azioni illegali. L’obiettivo finale è ridurre le situazioni criminogenetiche, modificando la condotta delle potenziali vittime e radicando sempre più il controllo nella rete delle interazioni quotidiane: la responsabilizzazione del soggetto73 diventa la panacea per tutti i mali. Concretamente, questa alienazione di responsabilità statuali porta alla creazione di partnership fra pubblico e privato – inteso qui sia come associazioni di cittadini che 69 Ivi, p. 310. Lo stile di ragionamento economico (…) possiede una coerenza culturale che deriva dal successo di un modello applicato universalmente. Garland, 2001; trad. it. p. 308. 71 Garland, 1996 e 2001. 72 I riferimenti teorici di queste elaborazioni sono molteplici: da alcune versioni della teoria della scelta razionale alla teoria del crimine come opportunità, fino ad arrivare alla prevenzione situazionale. Per riferimenti più precisi, si veda Garland, 2001; trad. it. p. 373 nota 64. 73 O’Malley, 1996. 70 22 imprese commerciali – per il controllo della criminalità, la protezione e la sicurezza: polizia comunitaria, programmi di Neighbourhood Watch, o per il rilancio economico di aree economicamente depresse. Questa prospettiva si presenta neutrale e apolitica, con una visione amorale e tecnologica dell’ordine sociale, che non è più fatto dipendere dalla condivisione di valori comuni, ma dalla presenza di dispositivi intelligenti che minimizzino le opportunità di disordine e devianza74, anche attraverso politiche volte a promuovere l’esclusione sociale e la segregazione residenziale di categorie specifiche di cittadini. Un’eco concreta di tale sentire si rinviene facilmente nelle politiche della tolleranza zero, dove livelli elevati di repressione e l’uso indiscriminato del proprio potere da parte delle forze dell’ordine si affiancano alla violazione delle libertà civili dei poveri o degli appartenenti a minoranze. Questo modo di ragionare ha facilitato l’introduzione e la legittimazione di politiche più severe, conferendo loro una vernice di rispettabilità. La politica penale(…) ha riscoperto la disciplina del mercato e la purezza dei disincentivi coercitivi75. Le nuove abitudini e i piccoli aggiustamenti suggeriti dalla prevenzione situazionale non hanno però le caratteristiche per fare presa sull’opinione pubblica, che, di fronte a cambiamenti che avanzano tanto silenziosamente76, potrebbe pensare di essere stata abbandonata a se stessa; ecco allora la volontà, da parte dei politici, di riaffermare con forza il mito dello stato sovrano che tutti protegge e inflessibile punisce i colpevoli. La riaffermazione simbolica della sovranità statuale sulla criminalità passa quindi per il ritorno a misure di giustizia espressiva: attraverso il ricorso a strumenti apertamente punitivi si ristabilisce il controllo con un tale sfoggio di forza che l’idea che lo stato non sia più in grado di assicurare protezione venga rigettata in tutta la sua assurdità, come se la disponibilità a punire duramente i condannati potesse magicamente compensare l’incapacità manifesta di garantire sicurezza all’intera popolazione.77 L’applicazione di misure severe come strumento per gratificare e rassicurare un pubblico spaventato. Il ritmo convulso delle competizioni elettorali, insieme alla necessità per politici di ogni colore di mostrarsi sempre più duri e intransigenti nella speranza di guadagnare un 74 Garland, 2001; trad. it. p. 300. Ivi, p. 232. 76 Non posso non tornare alla mente le piccole astuzie e le disposizioni sottili di cui parla Foucault. Foucalt, 1975; trad. it. p. 151. 77 Garland, 1996, p. 460, mia traduzione. 75 23 numero maggiore di voti, non permette però un’analisi dei costi, sia economici che sociali, che questi provvedimenti sono passibili di suscitare. Oltre alla loro dubbia efficacia, queste misure, approvate spesso sull’onda del forte shock causato da un crimine particolarmente violento, aumentano il dissidio fra i politici che orientano le loro scelte in base agli umori dei propri elettori e il corpo di funzionari incaricati di rendere viva la lettera delle leggi approvate, che spesso reputano questi provvedimenti draconiani di legge e ordine nulla più di uno spreco inutile di risorse già scarse in partenza. Garland definisce gli approcci teorici che condividono questa agenda neoconservatrice criminologie dell’altro, per la comune visone del criminale come un individuo amorale e pericoloso, che va neutralizzato per il bene degli altri. Il fatto che anche questi individui siano titolari di diritti che sono frequentemente violati da questo tipo di giustizia non sembra essere degno di nota, sia perché spesso questi appartengono a categorie svantaggiate e prive di qualsiasi potere politico che, in ogni caso, hanno difficoltà a farsi ascoltare, sia perché da più parti si ritiene che la relazione fra colpevoli e vittime sia un gioco a somma zero, dove ogni attenzione dedicata ai primi toglie tempo e risorse da spendere in favore delle seconde. Nella prospettiva anti-moderna [qui adottata], l’ordine sociale necessita del consenso, ma si tratta di un consenso meccanico e premoderno, basato, cioè, sulla condivisione di un insieme di valori, e non sul pluralismo e la tolleranza delle diversità78. Entrambi gli approcci sopra presentati prevedono un aumento dei poteri della polizia, sia in ambito preventivo che coercitivo, e sia l’apoliticità del primo che il conservatorismo del secondo ben si sposano con gli imperativi delle politiche neoliberiste che tendono all’esclusione dei soggetti marginali nell’esclusivo interesse di quanti sono integrati. Da una parte, le misure di giustizia espressiva hanno colpito con particolare zelo gli appartenenti a minoranze etniche e i poveri. Secondo i dati relativi al 200779, negli Stati Uniti ci sono 2.4 milioni di detenuti: per quanto riguarda gli uomini, nella fascia compresa fra i 25 e i 29 anni, il segmento a più alto rischio di incarcerazione, l’1% dei bianchi e il 7% dei neri sono rinchiusi in carcere: un dato che nelle zone centrali delle metropoli [può] giungere facilmente a circa la metà dei residenti neri con tali caratteristiche demografiche80 78 Garland, 2001; trad. it. p. 302. U.S. Department of Justice, 2008. 80 Melossi, 2002, p. 217. 79 24 e che spinge Melossi a parlare di grande internamento. Altri autori81 hanno mostrato come l’elevata percentuale di detenuti collocabili al fondo della scala sociale statunitense, soprattutto disoccupati e afroamericani, sia sostanzialmente arrivata a drogare i tassi di disoccupazione registrati in quel paese fra gli anni Ottanta e Novanta, attraverso la sottrazione di uomini abili e in età da lavoro dal conteggio della forza lavoro totale. Dall’altra, la logica manageriale delle privatizzazioni, dei tagli alla spesa pubblica e dell’incoraggiamento alla competizione sul libero mercato ha fatto sì che lo stato smettesse di garantire sicurezza a tutti i suoi cittadini, trasformandola in tal modo in una merce reperibile sul mercato, distribuita secondo le sue leggi e non in accordo con il bisogno; la conseguenza facilmente prevedibile è stata l’instaurarsi di forti disparità nella fornitura e nella distribuzione di sicurezza, dove gli individui che patiscono di più a causa del crimine sono anche quelli con minori risorse da spendere per la protezione della propria persona e dei propri beni. Questa disparità fra ricchi e poveri – che si sovrappone alla divisione che si va sviluppando fra detentori di proprietà e quanti sono invece ritenuti una minaccia per la proprietà altrui – tende a spingerci verso una società fortificata e segregata e la dismissione di ogni ideale civico residuo.82 David Lyon: sorveglianza elettronica e post-panottismo. La rivoluzione informatica ha fatto sì che il computer si diffondesse a macchia d’olio fino a diventare oggetto comune nella maggior parte delle abitazioni e ha reso disponibile a un costo economicamente sostenibile la tecnologia necessaria per immagazzinare e scambiare i dati raccolti in database diversi. Una delle conseguenze della creazione, consolidamento ed espansione di questa architettura di reti è stata quella di fornire l’infrastruttura tecnologica che ha reso possibile la sorveglianza elettronica su larga scala. Se considerate indipendentemente dalle forme che possono assumere, si osserva che le pratiche di sorveglianza non sono un fenomeno recente, quanto piuttosto intimamente legato al processo di consolidamento dello stato-nazione: si pensi, ad esempio, alla necessità di raccogliere dati sulla popolazione per organizzare un sistema efficiente di 81 82 Western e Beckett, 1999. Garland, 1996, p. 463; mia traduzione. 25 prelievo fiscale o all’apparizione sulla scena dei grandi eserciti di massa, rinfoltiti grazie all’affermarsi dell’obbligo di leva. L’elemento di novità dato dall’incontro con le nuove tecnologie digitali è, piuttosto, quello di una pervasività quasi virulenta, che ha sottratto la sorveglianza dalle prerogative esclusive del potere centrale per applicarla proficuamente alle esigenze dei campi più disparati e al servizio degli attori più diversi. In campo assicurativo tecniche di sorveglianza e di stima del rischio sono largamente usate per calcolare i premi da corrispondere in caso di sinistro e per decidere se accettare o meno un nuovo cliente; nel marketing, sono ormai comuni strumenti come i programmi di fedeltà dei supermercati per raccogliere dati sulle abitudini di consumo e segmentare di conseguenza l’offerta di beni, escludendo dal mercato quanti abbiano un potere d’acquisto ritenuto troppo basso, e vaste risorse sono impiegate nella raccolta e nell’analisi di informazioni in preparazione del lancio di un nuovo prodotto. Quello che è importante riconoscere è la natura intrinsecamente ambigua della sorveglianza: per quanti echi di Grande Fratello tale parola ci faccia risuonare nella testa, questa è anche fonte di efficienza, sicurezza e servizi; se si pensa ad esempio ai sistemi di welfare, la raccolta di informazioni sui cittadini è necessaria per garantire il riconoscimento dei diritti – e dei servizi e delle prestazioni ad essi associati – di cui questi sono titolari. Il rischio sempre presente è quello di cadere vittime del determinismo tecnologico, mentre non andrebbe mai dimenticato che nessuna tecnologia è di per sé buona o cattiva e che gli stessi strumenti possono essere usati per scopi altamente repressivi e, allo stesso tempo, impiegati per fini di contro-sorveglianza o resistenza83, come mostra il caso del rapporto fra governo cinese e web. Piuttosto, il ricorso quasi fideistico a soluzioni tecnologiche dovrebbe quantomeno far riflettere sull’eventualità che queste siano impiegate quando i legami morali si sono allentati e lo stato-nazione vede ridotto il suo ruolo nel garantire ordine e protezione ai cittadini84; quello che è certo è che quando la distanza fra ricchi e poveri aumenta, ogni gruppo arriva a vedere l’altro come una minaccia alla propria sicurezza (…) e, all’aumentare della disuguaglianza, aumenta anche il sostegno garantito dai primi a misure draconiane per combattere la criminalità e l’insicurezza e all’allargamento della definizione di “crimine”85. Certamente, una delle forme che questa reazione può assumere è un rafforzamento della sorveglianza negli spazi 83 Lyon, 2004, p. 143; mia traduzione. Ivi, p. 136. 85 Lyon, 2007, p. 49; mia traduzione. 84 26 pubblici e a dello stigma posto su soggetti marginali, ma questo è un problema, ben più ampio, di cultura politica, di valori e di tenuta democratica della società. Scendendo nel dettaglio, si vede come la valutazione degli effetti dei sistemi di videosorveglianza sia, nei fatti, una questione particolarmente spinosa; se alla deterrenza rispetto alla criminalità e ai comportamenti «incivili» va aggiunta la (con)temporanea rassicurazione di quanti si trovano a vivere lo spazio ora sorvegliato, non vanno però trascurate alcune criticità che rendono meno immediata la formulazione di un giudizio informato. È innanzitutto vitale riuscire a distinguere l’effetto deterrente, con conseguente calo dei crimini86 che le telecamere possono esercitare, da quello di displacement: se, infatti, il crimine non viene eliminato, ma semplicemente si sposta in aree adiacenti non sottoposte a sorveglianza elettronica, la giustificazione principale per l’adozione – spesso onerosa per il bilancio pubblico – di tale tecnologia viene a cadere. Una possibile soluzione è quella, suggerita da Nobili87, di integrare l’impianto per la videosorveglianza con altri strumenti di controllo, con l’obiettivo di arrivare alla creazione di un sistema integrato che riesca a coprire aree più estese della città. Un aumento delle pattuglie circolanti e il potenziamento dell’illuminazione pubblica possono essere strumenti efficaci in un’ottica di prevenzione, così come i programmi sulla scia dei Neighbourhood Watch statunitensi. Alle considerazioni relative alla funzionalità e all’efficacia di questi sistemi vanno inoltre affiancate altre considerazioni di carattere più generale, non interessate ad aspetti «interni» alla tecnologia in esame, quanto all’impatto di questa sulla realtà sociale resa oggetto di sorveglianza. Per quanto le telecamere a circuito chiuso possano apparire, grazie alla trasparenza priva di pregiudizi della lente, un mezzo asettico e impersonale per il controllo delle aree urbane, lo stesso non si può dire per gli operatori che occupano la cabina di controllo. Un punto estremamente problematico va sicuramente individuato nella definizione di «sospetto»: la discrezionalità degli addetti nello scegliere su cosa puntare l’obiettivo è assoluta, e c’è il rischio reale che all’identificazione dei soggetti da controllare più attentamente non concorra solo una valutazione imparziale della situazione, quanto tutta una serie di pregiudizi e assunti non provati di cui gli operatori sono portatori, e che, è 86 L’effetto è più marcato per i crimini contro la proprietà che per altri tipi di reato. A tal proposito si veda Nobili, 2008, p. 207. 87 Ivi, p. 208. 27 ragionevole supporre, informano la pratica quotidiana nelle cabine di controllo. Il rischio reale è l’ulteriore stigmatizzazione di soggetti che, per età, appartenenza etnica o di classe, sono già marginali. Il social sorting di cui parla Lyon88 o il categorical suspicion di G.T. Marx89 fanno riferimento allo stesso fenomeno: l’appartenenza a una determinata categoria è di per sé sufficiente a rendere una persona sospetta e a limitare perciò le sue scelte e le sue opportunità di vita. Autori come Coleman90 hanno inoltre collegato l’adozione su scala sempre più vasta dei sistemi di videosorveglianza, soprattutto nell’ambito di programmi per il recupero e il rilancio commerciale di aree urbane in crisi, a programmi di pulizia delle strade, per cui lo spazio urbano è riprogettato nel nome della sicurezza e del controllo e alcune categorie di soggetti sono escluse, o fortemente scoraggiate, dal fruire liberamente la città. Le stesse logiche trovano espressione concreta, in cemento e mattoni, nello sviluppo di aree residenziali blindate (gated communities) o destinate ai settori più marginali della popolazione e di aree funzionali separate (parchi tecnologici, zone commerciali, campus extraurbani), così come la tendenza a una sempre più decisa privatizzazione degli spazi pubblici. Da un punto di vista più strettamente teorico, Lyon sottolinea infine l’esigenza di giungere a un quadro interpretativo nuovo e superare l’impostazione foucaultiana del panottismo, che, concentrata sull’analisi delle dinamiche oggettivanti di potere-sapere, non tiene conto né dei problemi sollevati dalla diffusione della sorveglianza digitale né, tantomeno, delle sottili interazioni che legano insieme i sorveglianti e i sorvegliati: una volta riconosciuto che il panottismo potrebbe non essere più il paradigma adatto per cogliere la complessità delle pratiche contemporanee di sorveglianza91, sarà forse dall’incontro di prospettive diverse che si riusciranno a spiegare e a superare molte delle omissioni del modello panottico. Le tendenze già ora ben definite ci consigliano di non pensare alla sorveglianza in termini monolitici, quanto come un assemblaggio92 di pratiche diverse attuate da una varietà di attori per scopi differenti, che vanno studiate nei loro effetti, intenzionali o meno, sulla vita delle persone verso cui sono dirette e, soprattutto, negli specifici contesti di uso. 88 Lyon, 2003. Marx, 1988. 90 Coleman, 2004. 91 Haggerty, 2006, p. 38; mia traduzione. 92 Haggerty e Ericson, 2000. 89 28 5. Conclusioni. È indubbio che le tendenze più recenti nel campo del controllo abbiano esacerbato le divisioni sociali preesistenti e favorito la classificazione della popolazione in desiderabili e indesiderabili; il progetto di solidarietà che ha caratterizzato i decenni centrali del XX secolo è stato abbandonato e i sistemi di welfare, da meccanismi forieri di inclusione, hanno iniziato a essere visti come apparati burocratici costosi e inefficienti, le cui prestazioni creano dipendendenza in chi le riceve limitando così in modo sostanziale la spinta individuale ad uscire dal bisogno. L’idea del povero immeritevole e del criminale intimamente malvagio è ricomparsa: le spiegazioni che chiamano in causa fattori sociali per spiegare la marginalità e la devianza hanno ceduto il posto a interpetazioni morali, che imputano il fallimento di alcune persone a caratteristiche individuali per non dover riconoscere – e, di conseguenza, sottoporre a critica e modificare – che la produzione di esclusione e povertà è insita nell’attuale organizzazione della sfera economica e che l’individualismo derivante dalla cultura del mercato sostiene la libertà di alcuni a partire dall’esclusione e dal controllo serrato di altri93. Al loro peggio, le nuove politiche del controllo si riducono a una brutale guerra contro i poveri.94 Per quanto sia importante guadagnare una visione d’insieme che permetta di individuare le tendenze generali che attraversano oggi il campo del controllo, è però altrettanto necessario e auspicabile arrivare a una visione dinamica ed empiricamente formata dei processi qui in analisi. Come Gary Marx ci ricorda, le visioni unilaterali lasciano fuori intere sfere di azione e non ci permettono di dare conto in maniera precisa dell’articolazione della realtà sociale: per quanto sia difficile rendere conto di pratiche e forme di controllo spesso indirette, sottili, invisibili, circondate da un alone di buone intenzioni95 e che esprimono fedelmente lo spirito del tempo, questo non significa certo che tale compito sia impossibile. L’ingegno umano offre agli individui gli strumenti per resistere e rispondere creativamente96 e l’alto grado di generalità dei processi sociali deve sempre accompagnarsi all’attenta considerazione delle dinamiche concrete che si instaurano fra gli attori nel tempo e nello spazio. 93 Garland, 2001: trad. it. 2007, p. 319. Hirst, 2000, p. 281. 95 Marx, G.T. 1988, pp. 231-233. 96 Marx, G.T., 2003 e 2009. 94 29 Come si è già brevemente accennato nelle pagine precedenti, molti dei processi qui esposti hanno trovato un fertile terreno di applicazione nelle città contemporanee ed è speranza di chi scrive poter continuare l’analisi delle questioni finora trattate in un’indagine emprica dei contesti urbani. Dalla modifica dell’arredo urbano in accordo ai principi della prevenzione situazionale97, alla segregazione abitativa delle gated communities98e dei settori marginali della popolazione urbana contestualmente rinchiusi nei ghetti o espulsi verso le perfierie, molte delle tendenze oggi osservabili in ambito urbano possono essere lette come un tentativo di ridurre la differenza, così da limitare ogni possibilità di incontro fra persone appartenenti a classi o gruppi etnici diversi, e trasformare lo spazio pubblico in semplice area di transito99. Sotto la pressione di cittadini preoccupati e compagnie private, le autorità locali installano impianti di videosorveglianza e altri sistemi per il controllo del territorio, ripensano la pianificazione degli spazi in favore della creazione di aree funzionali separate – parchi tecnologici, zone commerciali, campus extraurbani – e di spazi pubblici privatizzati. Anche in questo caso, rimane forte l’esigenza di integrare con dati empirici riferiti agli specifici contesti locali quelle che sono linee di sviluppo generali: come si relazionano gli operatori nei confronti delle tecnologie di sorveglianza? Da quali gruppi è più probabile che questi lavoratori provengano e quali sono le culture professionali di cui questi sono portatori? Quali sono le interazioni rilevabili fra sorvegliati e sorveglianti, e qual è l’impatto di questi impianti sulla vita delle persone e sullo spazio costruito? Quali sono i costi economici e sociali dell’ossessione per la sicurezza e il controllo e le conseguenze per la tenuta democratica della società? Le voci che piangono la morte degli spazi pubblici sono giustificate o sono piuttosto l’esternazione di romantici nostalgici? In estrema sintesi, l’aria della città rende ancora liberi? 97 Davis, 1991; trad. it. 1999, pp. 205-206; Raco, 2003. Amendola, 1997. 99 Sennett, 1974; trad. it.2006. 98 30 Riferimenti Bibliografici Amendola, G. (1997), La città postmoderna: magie e paure della metropoli contemporanea, Roma-Bari, Laterza. Bentham, J. (1962), The Works of Jeremy Bentham, New York, Russell & Russell; trad. it. Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Venezia, Marsilio, 2002. Burger, T. (1977), Talcott Parsons, the Problem of Order in Society, and the Program of an Analytical Sociology, American Journal of Sociology, 83(2): 320-339. Coleman, R. (2004), Reclaiming the Streets: Surveillance, Social Control and the City, Cullompton: Willan. Davis, M. (1990), City of Quartz: Excavating the Future of Los Angeles, New York, Verso; trad. it. Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, Roma, manifestolibri, 1999. Durkheim, E. (1893), De la division du travail social, Parigi, Alcan; trad. it. La divisione del lavoro sociale, Torino, Edizioni di Comunità, 1999. (1895), Les règles de la méthode sociologique, Parigi, Alcan; trad. it. Le regole del metodo sociologico, Milano, Edizioni di Comunità, 1979. Erkson, K. (2004), Wayward Puritans: a study in the sociology of deviance, Boston, Allyn and Bacon; trad. it. Streghe, eretici e criminali. Devianza e controllo sociale nel XVII secolo, Roma. Carocci, 2005. Foucault, M. (1975), Surveiller et punir. Naissance de la prison, Parigi, Gallimard; trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2007. 31 (2004), Sécurité, Territoire, Population. Cours au Collège de France 1977-1978, Parigi, Seuil/Gallimard; trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005. Garland, D. (1990), Punishment and Modern Society, Oxford, OUP; trad. it. Pena e società moderna, Milano, Il Saggiatore, 1999. (1996), The Limits of the Sovereign State, The British Journal of Criminology, 36(4): 445-471. (2001), The Culture of Control, Oxford, OUP; trad. it. La cultura del controllo, Milano, Il Saggiatore, 2007. Ghisleni, M. (1998), Teoria sociale e modernità, Roma, Carocci. Giddens, A. (1971), Capitalism and Modern Social Theory, Cambridge, CUP; trad. it. Capitalismo e teoria sociale, Milano, Il Saggiatore, 2006. Habermas, J. (1962), Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft, Frankfurt, Luchterhand; trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 2005. Haggerty, K.D. (2006), Tear down the walls: on demolishing the panopticon, in D. Lyon (a cura di), Theorizing Surveillance: the Panopticon and Beyond, Cullompton, Willan, pp. 2345. e Ericson, R.V. (2000), The surveillant assemblage, British Journal of Sociology, 51(4): 605-622. Hirst, P. (2000), Statism, Pluralism and Social Control, The British Journal of Criminology, 40(2): 279-295. Hobbes, T. (1651), Leviathan; trad. it. Leviatano, Milano, Bompiani, 2001. Lyon, D. (a cura di) (2003), Surveillance as Social Sorting: Privacy, Risk and Digital Discrimination, Londra: Routledge. 32 (2004), Globalizing Surveillance: Comparative and Sociological Perspectives, International Sociology, 19(2): 135-149. (2007), Surveillance Studies: An Overview, Cambridge, Polity. Malanima, P. (2003), Uomini, risorse, tecniche nell’economia europea dal X al XIX secolo, Milano, Mondadori. Marx, G.T. (1988), Undercover. Police Surveillance in America, Berkeley e Los Angeles, University of California Press. (2003), A Tack in the Shoe: Neutralizing and Resisting the New Surveillance, Journal of Social Issues, 59(2): 369-390. (2009), A Tack in the Shoe and Taking off the Shoe: Neutralization and Counterneutralization Dynamics, Surveillance & Society, 6(3): 294-306. Marx, K. (1867), Das Kapital. Band I; trad. it. Il Capitale. Primo libro, terzo volume, Roma, Editori Riuniti, 1970. Melossi, D. (1978), Mercato del lavoro, disciplina, controllo sociale: una discussione del testo di Rusche e Kirchheimer, in Rusche, G. e O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, pp. 7-34. (1998), Introduction, in D. Melossi (a cura di), The Sociology of Punishment. Socio- Structural Perspectives, Aldershot, Ashgate, pp. xi-xxx. (2002), Stato, controllo sociale, devianza. Teorie criminologiche e società tra Europa e Stati Uniti, Milano, Mondadori. Nobili, G.G. (2008), Videosorveglianza, in G. Amendola (a cura di), Città, Criminalità, Paure. Sessanta parole chiave per capire e affrontare l’insicurezza urbana, Napoli, Liguori. O’Malley, P. (1996), Post-Keynesian Policing, Economy and Society, 25(2): 137-155. Pavarini, M. (1978), «Concentrazione» e «diffusione del penitenziario». Le tesi di Rusche e Kirchheimer e la nuova strategia del controllo sociale in Italia, in Rusche, G. e O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, pp. 341-365. 33 Parsons, T. (1937), The Structure of Social Action, New York, McGraw-Hill; trad. it. La struttura dell’azione sociale, Bologna, Il Mulino,1986. Pašukanis, E. (1927), Obscaja teorija prava i marksizm, Mosca, Izdatel’stvo Kommunisticeskoj Akademii; trad. it. La teoria generale del diritto e il marxismo, Bari, De Donato, 1975. Raco, M. (2003), Remaking Place and Securitising Space: Urban Regeneration and the Strategies, Tactics and Practices of Policing in the UK, Urban Studies, 40(9): 1869-1887. Rose, N. (2000), Government and Control, The British Journal of Criminology, 40(2): 321339. Ross, E. A. (2009, 1° ed. 1901), Social Control: A Survey of the Foundations of Order, Edison, NJ, Transactions. Rusche, G. (1933), Arbeitsmarkt und Strafvollzug, Zeitschrift für Sozialforschung, 2: 63-78; trad. ing. (1978), Labor Market and Penal Sanction: Thoughts on the Sociology of Criminal Justice, Crime and Social Justice, 10: 2-8. e Kirchheimer, O. (1939), Punishment and Social Structure, New York, Columbia University Press; trad. it. Pena e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 1978. Sennett, R. (1974), The Fall of Public Man, New York, Knopf; trad. it. Il declino dell’uomo pubblico, Milano, Mondadori, 2006. United States Department of Justice, Bureau of Justice Statistics (2008), Bullettin. Prisoners in 2007. Accessibile da: http://www.ojp.usdoj.gov/bjs/pub/pdf/p07.pdf Western, B. e Beckett, K. (1999), How Unregulated Is the U.S. Labor Market? The Penal System as a Labor Market Institution, American Journal of Sociology, 104(4): 1030-1060. 34 Wright Mills, Ch. (1940), Situated Actions and Vocabularies of Motive, American Sociological Review, 5(6): 904-913. (1956), The Power Elite, New York, OUP; trad. it. La élite del potere, Milano, Feltrinelli, 1966. (1959), The Sociological Immagination, New York, OUP; trad. it. L’immaginazione sociologica, Milano, Il Saggiatore, 1962. 35