I tratti della politica oggi La politica a tratti in forma di raccolta e conclusioni con pretesa-tentativo di coglierne le direzioni in corso. 1. metodo, autorità e potere, società e politica, i movimenti. Schema 1. Un bilancio di metodo intorno a schemi, modelli, teorie per il tema politico: la loro natura, la loro funzione, la loro contingenza. (le mappe) 2. Evoluzione storica dei modelli di potere politico e del concetto ideale di politica e di potere, fino alla sensibilità contemporanea. (i tratti) 3. Democrazia sociale: le strade di presenza e di risveglio alla ricerca di una sfera pubblica (a. La tentazione comunità; b. La volontà politica del sociale; c. L’inquietudine in movimento.) 1. Un bilancio di metodo intorno a schemi, modelli, teorie per il tema politico: la loro natura, la loro funzione, la loro contingenza. (le mappe) Come introduzione problematica: modelli al bivio. Tra associamento e costitutività. Dallo studio di Searle R. John, 2010 Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana, Raffaello Cortina editore, Milano 2010 (Making the Social World: The Structure of Human Civilization) (Prefazione all’edizione italiana, Le due costitutività in John R. Searle, Paolo Di Lucia, XII-XIII) «Al principio dell’analisi di Searle vi è dunque la “realtà sociale”. Per “ realtà sociale” si intende spesso, da Georg Simmel in poi, quel processo continuo inarrestabile e inafferrabile che con un neologismo potrebbe chiamarsi “associamento” (Vergesellschaftung), ossia “il fatto che gli uomini si lancino occhiate, che si dimostrino gelosi l’uno dell’altro, che pranzino insieme, che si trovino simpatici o antipatici, che per gratitudine reciproca siano spinti a frequentarsi e a scambiarsi dei favori, che l'uno domandi all'altro dove stia una strada o che tra loro sussista una forma di attrazione”. Al contrario, per Searle, il concetto chiave nella caratterizzazione della realtà sociale è il concetto di costitutività. Questa costitutività si declina nell’ontologia di Searle in due forme: costitutività di regole e costitutività di atti. COSTITUTIVITÀ DI REGOLE. Che cosa fa sì che un pezzo di carta, che dal punto di vista chimico consiste di fibre di cellulosa colorate, sia una banconota? È evidente che per rispondere a questa domanda la chimica e la fisica sarebbero insufficienti: se provassimo a produrre qualcosa che assomigli esattamente a quel pezzo di carta, e lo duplicassimo fino all’ultima molecola, esso non sarebbe una banconota: al massimo, staremmo facendo una contraffazione. A far sì che un pezzo di carta (X) abbia il valore di (counts as) banconota (Y) sono regole costitutive: in primo luogo, regole costitutive sull’avere valore di banconota; in secondo luogo, regole costitutive sulla validità delle banconote. COSTITUTIVITÀ DI ATTI. Che cosa fa sì che esistano entità come le corporation, i presidenti della Repubblica, le università, i club, i cocktail party, le partite di football, le proprietà immobiliari? A far esistere entità sociali istituzionali (o come anche Searle le chiama, “ funzioni di status” [status functions]) come queste, secondo Searle, è il linguaggio nella forma di quell’atto linguistico che egli chiama declaration. […] la costitutività della declaration è distinta dalla costitutività delle regole costitutive, ma non è a queste irrelata. Infatti, una declaration esiste e opera solo perché conforme alle regole costitutive su di essa. La prima costitutività è pertanto condizionata dalla seconda. Non è dunque la magia della parola, ma la speciale normatività di queste regole costitutive (che hanno la forma “X ha valore di Y in C” [X counts as Yin C]) a rendere fabbricabile il mondo delle entità istituzionali.» 1 1.1. La natura costituente delle teorie politiche (si tratta di modelli) e i tratti impliciti della necessità, della contingenza e della libertà. 1.1.1. Un dato emerge dalle posizioni e teorie politiche richiamate, in un ampio arco storico, da Platone ad Habermas, e riguarda la natura del pensiero politico: non è un pensiero descrittivo ma costruttivo; o per lo meno si muove in un continuo rimando tra i fatti sociali e la programmazione che ne permette la valorizzazione e il coordinamento. Alle teorie politiche definite con la prassi della costruzione di modelli si applica l’affermazione di Alain Badiou: «Tutte le conoscenze vive sono composte da problemi che sono stati o che devono essere costruiti o ricostruiti, e non da descrizioni ripetitive.» (Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano Salani Editore, Milano 2012, 14) La complessità di una simile costruzione e la varietà dei modelli dipende dal fatto che la politica, come sottolineava già Aristotele, investe ogni aspetto della convivenza umana. 1.1.2. Alle spalle di questo fervore costituente vi è anche una consapevolezza di metodo sulla natura e sulla funzione delle teorie politiche: si tratta di schemi, mappe strumenti. Convinzione che John Rawls fa risalire al concetto di democrazia liberale e che esprime con questi termini: «Una concezione politica è, nel migliore dei casi, solo uno schema di base che ci guida nel deliberare e riflettere e ci aiuta a raggiungere un accordo politico almeno sugli elementi costituzionali essenziali e sui problemi fondamentali della giustizia. Se ci ha chiarito le idee e ha reso più coerenti le nostre convinzioni meditate, se ha ridotto le distanze fra le cose di cui sono convinti, in coscienza, coloro che accettano le idee basilari di un regime costituzionale, ha svolto il suo compito politico pratico.» (Rawls John 1993 Liberalesimo politico, ed. di Comunità, Torino 1999, 140) Sulla stessa linea Manuel Castells: «Gli strumenti teorici che ho proposto qui sono semplicemente tali, degli strumenti, la cui utilità o inutilità potrà essere valutata soltanto utilizzandoli per esaminare le pratiche dei movimenti sociali in rete presi in esame…» (Castells Manuel 2012 Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, EGEA, Università Bocconi editore, Milano, XXX) Una simile concezione performativa dei modelli è alla radice della loro reale o storica combinabilità. Il postulato può essere: vista la complessità, viste le insanabili contraddizioni, vista l’incomponibilità e i pari diritti di movimenti rispettosi di regole della convivenza ma idealmente non conciliabili, allora, a loro rispetto come risorsa e opportunità, è necessario il “combinato” politico (e non l’ideale utopistico, soprattutto e quando è di carattere ideologico). La situazione di metodo si configura come scelta all’interno di una triangolazione: 1. Teorie politiche, 2. Realtà e dinamiche sociali, 3. Scelte politiche e amministrative istituzionali. Sulla diversa possibile combinazione dei modelli ideali a livello storico, concreto, applicativo osserva, per un caso esemplificativo, U. Beck «Le trasformazioni della statualità qui presentate costituiscono tipi ideali che — anche quando vengono chiaramente distinti gli uni dagli altri e sembrano escludersi a vicenda — in realtà possono benissimo combinarsi tra loro come elementi di un meccano statuale. In questo modo possono prendere forma degli «Stati assemblati», nei quali alcune componenti dello Stato neoliberale si combinano con altre componenti dello Stato etnico.» (Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza Roma-Bari 2010 p. 339) 1.1.2.1. Si tratta di mappe. I modelli e le teorie politiche sono come mappe, confortano e orientano in forza della loro tranquillante irrealtà. Wislawa Szymborska «MAPPA Piatta come il tavolo Su cui è posata. Sopra di lei niente si muove Né muta posto. Sopra di lei il mio respiro umano Non crea vortici d'aria Né sfuma affatto i suoi nitidi colori. Perfino i mari sono sempre amichevolmente turchini 2 Sui suoi bordi sdruciti. Qui tutto è piccolo, accessibile, vicino. Con la punta dell’unghia posso schiacciare vulcani, accarezzare i poli senza spessi guanti, con una sola occhiata posso abbracciare ogni deserto assieme a un fiume proprio qui accanto. Le foreste sono indicate da pochi alberelli In mezzo a cui è impossibile perdersi. A est e a ovest Sopra e sotto l’equatore Si sgrana il silenzio, E dentro ogni seme nero Gente che vive. Niente fosse comuni e macerie improvvise in questo quadro. I confini tra i paesi sono appena visibili, come se esitassero: - essere o non essere? Amo le mappe perché mentono Perché non ammettono le verità aggressive Perché con magnanimo e bonario humour Mi dispiegano sul tavolo un mondo Non di questo mondo.» 1.2. Libertà, necessità, contingenza 1.2.1. La libertà. Del resto, sia per mettere preliminarmente (o a conclusione) le mani avanti, sia per difendere la libertà di pensiero e di proposta come un diritto fondamentale della società umana, è bene abbandonare l’attesa di risposte assolute considerate definitivamente giuste. Osserva Isaiah Berlin: «Quando è posta di fronte a questi dilemmi radicali, la nostra ragione non è in condizione di dare una risposta “giusta”. La sola idea che ci sia una risposta giusta per le situazioni di conflitto radicale riposa su un fraintendimento della natura "tragica" della condizione umana.» (Berlin Isaiah 1958 Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano 2000, postfazione di Mario Ricciardi La filosofia delle libertà p.103) 1.2.3.1. Insomma: i modelli politici richiamati, sono modelli ideali. «… dobbiamo essere sospettosi quando gli esperti affermano di aver trovato tipi ideali in situazioni reali.» (Appadurai Arjun 1996 Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Raffaello Cortina editore, Milano 2012 (Modernity at Large: Cultural dimension of Globalization),32) Se abbiamo assolutamente bisogno di modelli per leggere la realtà non siamo autorizzati a scambiarli per la realtà; se vediamo nella realtà i nostri modelli reali è perché abbiamo chiuso gli occhi, abbiamo trascurato molte cose del reale. 1.2.1.2. valga come motto per i modelli: «Quelli che abbiamo eletto non hanno potere. E quelli che hanno potere non li abbiamo eletti.» (Cartello di un manifestante) (Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza Roma-Bari 2010: in esergo alla prefazione) 1.2.2. La necessità (la componente etica). La consapevolezza della natura precaria e di schema dei modelli non autorizza la gioconda inconsapevolezza per ciò che accade sotto i nostri occhi. Il presente ci è storicamente e inconsapevolmente invisibile; se ne dà infatti per scontato il corso, vista 3 la sua acquisita e condivisa “normalità”, legata al fatto del suo accadere e alle nostre abitudini; pur parlandone quotidianamente e pubblicamente in ripetuti, frequentati e urlati talk show, non se ne tematizzano le forme e non si riflette sulle direzioni e sui possibili sbocchi del suo andare, poiché è l’abitudine e forse la rassegnazione a guidarci. «Trascurare il campo del pensiero politico perché la sua materia instabile, dai contorni imprecisi, non si lascia afferrare con i concetti fissi, i modelli astratti e gli eleganti strumenti adatti alla logica e all’analisi linguistica — pretendere un’unità metodologica in filosofia ed eliminare tutto ciò che il metodo non può adeguatamente dominare — questo significa semplicemente acconsentire a rimanere alla mercé di credenze politiche primitive e acritiche. Soltanto un materialismo storico molto volgare nega il potere delle idee e afferma che gli ideali sono i semplici interessi materiali camuffati. Può darsi che senza la pressione delle forze sociali le idee politiche nascano morte: quello che è certo comunque è che queste forze restano cieche e senza una direzione se non si rivestono di idee.» (Berlin Isaiah 1958 Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano 2000, 9) 1.2.2.1. «Chi, diciamo, dal secolo XXII guarderà indietro al medioevo industriale del presente, al passaggio nel secolo XXI, sorriderà forse e si chiederà: allora c’erano continuamente istanze politiche. Si proponeva, si discuteva, ci si armonizzava, ci si coalizzava e si collaborava. Per di più si trattava di tutto. Tutto veniva ancora una volta illuminato e rivoltato nei grandi media. Tutto tranne i cambiamenti dai quali emergevano i lineamenti della nuova epoca. Questi si compivano «normalmente» quasi senza essere notati dalla politica, tuttavia in eguale misura radicali e profondi. Ma come era possibile che allora tutto il mondo fissasse le arene della politica parlamento e governo — in attesa dei grandi cambiamenti, mentre i cambiamenti, per così dire in incognito, si insinuavano con i passi discreti della familiarità attraverso le scappatoie spalancate della normalità e mettevano sottosopra le strutture della convivenza? […] Non c’è quindi da meravigliarsi se, concentrandosi sul «politicamente fattibile» — il cambio di posto [l’esempio richiama l’ipotesi di una discussione sul treno per il cambio di posto in carrozza] — si perdano di vista la direzione del treno e la sua velocità.» (Beck 1990, 187) Si discute e si litiga sui posti da occupare in carrozza e non ci si pone il problema di dove vada il treno, a quale velocità se e dove si debba fermare… (Beck Urlich, Beck-Gernsheim Elisabeth 1990 Il normale caos dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino 1996, 2008, 187) 1.2.2.2. Sembra sia in scena una posizione di rinuncia a comprendere, una tendenza ad abdicare. Già nel 1993, il sociologo Alain Caillé osservava: «Questo libro nasce da un’inquietudine divenuta a poco a poco certezza: contrariamente alle apparenze, coloro che sanno, potrebbero o dovrebbero sapere, gli specialisti delle scienze sociali, della storia e della filosofia politica — in poche parole, i chierici — hanno massicciamente rinunciato a pensare il loro tempo e tanto più ad agirvi, svolgendo la loro funzione di esploratori e di agitatori della coscienza collettiva a cui spetta il compito di rivelare il possibile e l’auspicabile. Ma il nostro obiettivo non è registrare questa specie di abdicazione, che daremo per acquisita; i capitoli del libro si interrogheranno invece su alcune ragioni squisitamente intellettuali della rinuncia. Cercheremo di dimostrare che, al di là della buona o della cattiva volontà degli individui, sono i modi di concettualizzazione dominanti nelle scienze sociali a portarle progressivamente a disinteressarsi e a ritirarsi da quasi tutti i dibattiti importanti del loro tempo. La tendenza all’abdicazione è insita nel loro stesso progetto di costituirsi come scienze sul modello delle scienze della natura. È la preoccupazione, apparentemente lodevole, dell’obiettività e della positività ad incitarle a distogliere lo sguardo da tutto ciò che non si presta facilmente alla costruzione di modelli riduzionisti. Nate dal desiderio di superare definitivamente i conflitti tra gli uomini, le scienze sociali sono riluttanti ad ammettere che la rivalità e la lotta sopravvivono nel cuore stesso della razionalità e che ogni pacificazione è precaria; fanno anche fatica ad ammettere che la democrazia non si nutre in prima istanza del consenso, poiché ha come condizione sine qua non il riconoscimento del fatto che la divisione tra gli uomini si può controllare ma non abolire. Se diventano politicamente insignificanti, è proprio perché dimenticano che l’essenza della società è politica.» (Caillé Alain 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 3-4) 4 1.2.3. In conclusione: il metodo e i suoi caratteri hanno radice nella cosa. La natura strumentale ed euristica dei modelli e delle teorie esprimono la contingenza della politica (la contingenza delle sue forme, più volte posta in risalto anche nelle forme della “morte della politica”, Hegel, Marx). Se risulta evidente che senza modelli e realizzazioni la politica non accade storicamente è altrettanto evidente che le situazioni politiche reali appartengono al campo del possibile, anzi del probabile e non del necessario, come accade a tutto ciò che esiste sì ma non necessariamente e nemmeno “per lo più”. È altrettanto vero che la messa in discussione e la fine di un modello politico non è la morte della politica. Nella concretezza e per estremi, ad esempio: l’utilizzo della politica per fini privati personali o per interessi corporativi e non nella direzione del bene comune ha anche l’effetto di porre all’evidenza collettiva il dato della contingenza della politica e delle forme cui si può aprire. Un simile modo d’uso del politico genera una situazione ambivalente, dagli effetti antitetici: 1. alimenta il disinteresse e la fuga qualunquistica dal politico; 2. sollecita iniziative in proprio nel sociale caratterizzate da un ampio, vario e concreto potenziale innovativo. 1.2.3.1. La contingenza della politica e il suo fondamento nella libertà. «Da una parte, non c’è dubbio che il ruolo maggiore che le scienze sociali si sono assegnate storicamente è quello della critica dell’ordine costituito, della denuncia dei privilegi abusivi e delle dominazioni illegittime. O, per dirla in termini più generali, conformi alla nozione di politico presentata nelle pagine precedenti, esse hanno contribuito a rivelare la parte di contingenza su cui si dispiega l’invenzione delle regole della vita in comune. Della scoperta di questo principio di indeterminazione, esse hanno fatto la garanzia della libertà per gli uomini di inventare collettivamente le loro istituzioni. […] Il fatto è che l’invenzione politica è sempre «in situazione». Niente permette di attestare la sua giustezza, salvo il rispetto che essa manifesta per i vincoli inerenti alla logica degli ordini sistemici dell’azione, e la sua certezza che le nuove storie che essa si propone di raccontare, assegnando a ciascuno il suo posto, hanno la possibilità di essere intese soltanto se si inscrivono nella continuità delle mille e una storia che si raccontano gli individui, le famiglie, i gruppi e le classi dalla notte dei tempi, e nella continuità delle grandi storie che finora hanno dato a tutti il sentimento vago ma sicuro di far parte di uno stesso soggetto collettivo. O ancora, le scienze sociali sono capaci di una certa giustezza solo finché perseguono la giustizia: con questo termine bisogna intendere non uno stato ideale e atemporale d’armonia tra gli interessi lessicalmente classificati degli individui (J. Rawls), o tra le pretese pragmatiche alla verità (J. Habermas), ma uno stato d’equilibrio e di tensione, precario e prezioso, tra la necessità di lasciare che si esprima tutto ciò che divide gli uomini, dando una possibilità al conflitto e alla rivalità, e la necessità contraria di evitare che vada in frantumi lo spazio comune del conflitto e che esso ridiventi guerra di tutti contro tutti. Una caratterizzazione non più giuridica o filosofica, ma propriamente politica della giustizia, direbbe probabilmente quanto segue: è giusto ciò che va nel senso dell’affermazione del maggior grado possibile di diversità e di pluralismo, compatibili con il mantenimento di un’unita sociale sufficiente ad evitare la guerra. Corollario: è giusto tutto ciò che contribuisce alla manifestazione della dimensione contingente su cui si dispiegano le società umane particolari, purché sia accordato un simmetrico riconoscimento a tutto ciò che in esse testimonia di una doppia necessità relativa: 1) quella di mantenere in vita la stessa possibilità di manifestare la contingenza; 2) quella di fare spazio alle esigenze funzionali e sistemiche degli ordini.» (Caillé 1993 Il tramonto del politico, 283-284) Che molti problemi restino aperti nella costruzione di un modello politico può essere un buon segno: che resta salvaguardata la possibilità e con essa la libertà e la democrazia, «che non abbiamo fatto troppa violenza alla realtà per farla entrare ad ogni costo nelle caselle di uno schema prestabilito.» (Caillé 1993 Il tramonto del politico, 291) ma forse è anche irrinunciabile coscienza della debolezza di tutte le nostre analisi, testi e proposte. 1.2.3.2. Il tema della contingenza della politica, se si vuole, e per sola analogia, può essere illustrato con riferimento a quanto accade in due ambiti del campo religioso: in quello dottrinale nel rapporto tra la fede e la teologia e in quello istituzionale nel rapporto tra la tesi (e l’attesa) di una patria celeste e la sua immagine terrena, la Chiesa. 5 1.2.3.2.1. Non bisogna confondere la fede con la teologia ( o “per una teologia del probabile); la prima genera la seconda poiché si rivolge al pensare e al dire dell’uomo nelle coordinate del suo mondo particolare, ma la teologia non svela la fede né può mai sostituirla. Si è spesso trasformata la teologia in fede creando dogmi … in tal caso l’uomo, nel proprio dire, ha pensato di fare rivelazione o di portarla a definitiva chiarezza appropriandosi del tempo apocalittico che appartiene al divino come atto finale del compimento di un piano salvifico. Perciò la messa in discussione di una teologia non è il dubbio sulla fede. Semmai la fede è sminuita o messa in ombra, quando non distrutta, da una teologia che interpretandola (e non sempre con le migliori intenzioni, cioè non mossa da speranza e carità, ma sganciata dalle altre due “virtù teologali”) intende sostituirsi ad essa o vincolarla definitivamente al proprio senso. «La connessione tra la dottrina e una certa teologia si era fatta, nei secoli, talmente salda che il disinnesto non gli par più possibile. Di fronte alla crisi teologica, egli sente minacciata la stessa fede; e, per difendere la fede, si sente costretto a difendere la teologia che, per tanto tempo, ha fatto, con la fede, un tessuto unico ed apparentemente inestricabile.» (Zarri Adriana 1967 Teologia del probabile. Riflessioni sul postconcilio, Borla, Torino 18) 1.2.3.2.2. Non bisogna confondere la “patria celeste” (e la salvezza) con la Chiesa. «Se pensavamo che il concilio potesse risolvere tutto, la cronaca quotidiana ha fatto giustizia di questa nostra illusione. La Chiesa non risolve mai tutto, ma appena, di tanto in tanto, qualche cosa. E, tra ciò che ha risolto ultimamente, è proprio questo problema della precarietà del suo cammino. Si è resa conto che i suoi approdi sono sempre provvisori: anche quelli assoluti della fede: esatti, ma piccoli spiragli su verità che ci saranno rivelate totalmente solo oltre i limiti del tempo; tanto più, poi, quelli della teologia, che spesso hanno un puro valore strumentale, peribile e ricambiabile. I suoi approdi non sono per fermarci, nella contemplazione soddisfatta, ma per riprendere il cammino, in una contemplazione ancora più assetata. Il postconcilio, quindi, non è una stasi, ma un rinnovato dinamismo.» Zarri Adriana 1967 Teologia del probabile. Riflessioni sul postconcilio, Borla, Torino 17) 1.2.3.3. La contingenza e le radici di metodo. Nelle vicende storico-sociali (a differenza degli eventi fisici, o meglio gli eventi che una fisica razionale matematica è in grado di descrivere e quindi prevedere a partire da leggi e come loro espressione fattuale) la previsionalità (e quindi il legame o di connessione logica o di relazione causale, di causa ed effetto) è resa difficile dalla natura particolare dei processi i quali fanno capo non ad una sequenza di tipo causale e lineare (come decisione – azione) ma ad una sequenza di tipo storico. È quanto annota Wittgenstein riflettendo sul ruolo della relazione causale nella spiegazione (comprensione) dei fatti, sulla impossibilità di una sua fondazione empirica, sulla sua relazione con la forma logica del mondo e sulla grammatica mentale che la sorregge strutturata causalmente. «Una tale situazione, commenta qui Wittgenstein, porta a ritenere che il modello della spiegazione causale degli eventi non sia l'unico modello; a tale modello può ben affiancarsi il modello di una spiegazione storica: «Se dico: la storia non può essere la causa dello sviluppo, questo non significa che io non possa prevedere lo sviluppo a partire dalla storia, perché questo è proprio ciò che faccio; ma significa che noi non chiamiamo questa una ‘connessione causale’, che qui non si tratta di prevedere l’effetto da una causa.» (Wittgenstein, 1935/40, Causa ed effetto: consapevolezza intuitiva p. 12; così annota Alberto Voltolini introducendo il testo di Wittgenstein Ludwig , 1935/40 (1976, 1989) Causa ed effetto. Lezioni sulla libertà del volere, Einaudi, Torino 2006, p. XX.) 1.3. politica, modelli, realtà (come un laboratorio) Il campo di riflessione e delibera è determinato da una specie di triangolazione tra politica (scelta, decisione, gestione, amministrazione), modelli (mappe e teorie), realtà (o realtà sociale, società… nello specifico). La natura imprescindibile dei tre punti di riferimento o poli si può porre in risalto applicando il metodo negativo, provando cioè a togliere uno dei tre elementi e immaginare cosa succede al solo binomio intercorrente tra gli altri due (politica e modelli senza società; politica e società senza modelli; società e modelli senza politica; società e politica senza modelli …) 6 2. Evoluzione storica dei modelli di potere politico e del concetto ideale di politica e di potere, fino alla sensibilità contemporanea. (i tratti) 2.1. Il mutamento storico del concetto di politica (potere politico): le sue costanti, i tratti attuali. Nel lungo cammino storico relativo alla cultura e all’azione politica sembrano emergere e imporsi, pur in diverse forme, alcuni elementi costanti di definizione: laicità, pluriverso, socialità. 2.1.1. La Laicità della politica. È il principale fattore evolutivo e costituente. Garanzia di autonomia dello Stato e, al suo interno, di rispetto, promozione e non interferenza della politica in ambiti che una democrazia fondata sui diritti della persona riserva ad ogni individuo. È l’irrinunciabile rivoluzione attuata nell’età moderna: la esprime con chiarezza Grozio quando afferma la validità del fondamento naturale del potere politico a prescindere da qualsiasi ipotesi di carattere religioso: etsi deus non daretur. Laicità dello Stato, nello Stato. Non si tratta di negare l’esistenza di Dio, né di affermarla; nel campo della definizione dello Stato come questione civile essa non è in questione. Solo così si ottengono due imprescindibili risultati. Il primo: la piena autonomia dell’ordine politico in quanto fondato su proprie basi certe e indubitabili; autonomia che ne caratterizza la solidità e la tenuta. Il secondo: la non interferenza dello Stato nelle vicende di cultura religiosa che, in quanto rientrano nel campo delle libertà civili riconosciute e legalmente rette da norme, restano di competenza individuale. 2.1.1.1. Al valore della laicità, inteso in senso religioso e ideologico, si rapporta la nascita e la lunga evoluzione storica della dimensione culturale politica. «I grandi momenti della genesi delle scienze sociali possono essere descritti grossomodo come segue. Le scienze sociali e umane, nel senso più ampio del termine, appaiono sostituendosi al pensiero mitico o religioso nel momento in cui si cerca un’origine non più divina ma propriamente umana, un fondamento immanente dell’ordine sociale. In questo senso, la filosofia politica di Socrate, Platone e Aristotele rappresenta allo stesso tempo l’atto di nascita delle scienze sociali. Circa mille anni di cattolicesimo lasciano il problema in sospeso. Ma esso si riaffaccia, in termini chiaramente soggettivisti, con Hobbes, Locke ed i teorici del diritto naturale. Non è che si sia smesso d’esser credenti; piuttosto, si vuole pensare e inventare delle istituzioni efficaci «anche se Dio non esistesse» (Grozio). Ciò che cercano i teorici del diritto naturale, fino a Rousseau, è il fondamento politico dell’ordine sociale. Le scienze sociali, nel senso stretto e moderno del termine, nascono a partire dalla fine del XVIII secolo dal riconoscimento del fatto che la società non si riduce al politico. E che la «società civile», come si incomincia allora a dire, non è sovrapponibile alla società politica. L’economia politica si costruisce a partire dal postulato che l’essenza della società civile è il bisogno, e che il suo regolatore non è lo Stato ma il mercato. La sociologia, dal canto suo fa una scommessa inversa e complementare: che la socialità non si riduce né alla socialità politica né alla socialità del bisogno.» (Caillé Alain 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 67-68) 2.1.1.2. Laicità e performatività (versione operativa contemporanea del concetto di laicità; laicità nei confronti di ideologie). La laicità della politica, intesa come autonomia, assenza di rimandi fondativi a entità (metafisiche o teologiche) esterne e a ideologie come visioni globali della realtà, della storia e del suo sviluppo, trova la propria formulazione nelle teorie che ne illustrano il suo costituirsi attraverso la natura performativa degli enunciati. Spunti per la teoria. [1.] La distinzione tra enunciati constativi (rappresentativi) e enunciati performativi è presentata da Austin in particolare nell’opera: Austin John Langshaw1962, 1975, How to Do Things with Words (Austin John Langshaw, 1962, 1975, Come fare cose con le parole. Le «William James Lectures» tenute alla Harvard University nel 1955, Marietti, Genova 1987) «Per troppo tempo i filosofi hanno assunto che il compito di una «asserzione» possa essere solo quello di «descrivere» un certo stato di cose, o di «esporre un qualche fatto», cosa che deve fare in modo vero o falso. Gli studiosi di grammatica, in realtà, hanno regolarmente fatto notare che non 7 tutte le frasi sono (usate per fare) asserzioni: ci sono, tradizionalmente, oltre alle asserzioni (degli studiosi di grammatica), anche domande ed esclamazioni, e frasi che esprimono ordini o desideri o concessioni. […] Si possono trovare enunciati che soddisfino queste condizioni, e tuttavia tali che A. non «descrivono» o «riportano» o constatano assolutamente niente, non sono «veri o falsi»; e B. l’atto di enunciare la frase costituisce l’esecuzione, o è parte dell’esecuzione, di una azione che peraltro non verrebbe normalmente descritta come, o come «soltanto» dire qualcosa. Esempi: (E. a) «Sì (prendo questa donna come mia legittima sposa)» pronunciato nel corso di una cerimonia nuziale . (E. h) «Battezzo questa nave Queen Elizaheth» — pronunciato quando si rompe la bottiglia contro la prua. (E. e) «Lascio il mio orologio in eredità a mio fratello» — quando ricorre in un testamento. (E. d) «Scommetto mezzo scellino che domani pioverà». In questi esempi risulta chiaro che enunciare la frase (ovviamente in circostanze appropriate) non è descrivere il mio fare ciò che si direbbe io stia facendo mentre la enuncio o asserire che lo sto facendo: è farlo. […] Come dobbiamo chiamare una frase o un enunciato di questo tipo ? Propongo di chiamarlo una frase performativa o un enunciato performativo, o, in breve, «un performativo». Il termine «performativo» verrà usato in una varietà di modi e costruzioni affini, quasi come il termine «imperativo» . Il nome deriva, ovviamente, da perform [eseguire], il verbo usuale con il sostantivo «azione»: esso indica che il proferimento dell’enunciato costituisce l’esecuzione di una azione — non viene normalmente concepito come semplicemente dire qualcosa.» Austin J.L. 1962, 1975,p.7, 9-11). [2.] Gli enunciati performativi hanno efficacia costitutiva in contesto. Negli esempi forniti Austin affianca l’enunciato al contesto; messa in contesto o in status di cui han bisogno gli enunciati performativi per risultare performativi, cioè per realizzare ciò che indicano: non sono performativi in sé, ma con riferimento al contesto e allo status in cui vengono o possono essere espressi. «Lo svolgimento di una funzione richiede che lo status della persona o dell'oggetto sia riconosciuto collettivamente ed è solo in virtù di tale status che la persona o l’oggetto può svolgere la funzione in questione. Gli esempi sono ovunque: una proprietà privata, il presidente degli Stati Uniti, una banconota da venti dollari e un professore universitario sono tutte persone e oggetti capaci di svolgere certe funzioni in virtù del fatto che a essi è stato riconosciuto collettivamente uno status che li abilita a svolgere funzioni che non avrebbero potuto svolgere senza il riconoscimento collettivo di quello status. […] Una partita di football, il mercato azionario, un cocktail party, la proprietà privata e l’aggiornamento di una seduta sono tutti esempi di funzioni di status che sono posti in essere da regole costitutive.» (Searle 2010, 6-7, 10) [sempre per esempio: es. non può partecipare a un party se non sei stato invitato; non puoi giocare questa partita di football se non fai parte delle squadra…] [3.] Il campo del vivere sociale, il mondo delle relazioni costanti che lo sorreggono e intessono, e, in particolare, il mondo degli atti, delle costituzioni e delle istituzioni fanno capo ad atti performativi e alla loro produzione in efficacia per il contesto di emissione e la situazione di status in cui vengono prodotti. Si apre qui lo studio della funzione di performatività degli enunciati e degli atti nel campo sociale e giuridico (ma anche morale, religioso, consuetudinario; «per Searle, il concetto chiave nella caratterizzazione della realtà sociale è il concetto di costitutività. Questa costitutività si declina nell’ontologia di Searle in due forme: costitutività di regole e costitutività di atti.» (Searle 2010, prefazione Paolo Di Lucia, XI). Enunciati performativi e status. Ad esempio, la mia affermazione “dichiaro nulla la sentenza…” è del tutto inefficace, per nulla performativa, se non sono nello status sociale riconosciuto di poterla emettere; l’enunciato “prendo te in moglie…” è del tutto giuridicamente inefficace se viene espresso in privato, senza testimoni e fuori dalle clausole di rito previste, la stessa frase espressa tra persone dello stesso sesso è nulla se non viene riconosciuto come giuridicamente esistente il matrimonio gay ecc.; spesso si dice: non sei abilitato, 8 non sei nelle condizioni di emettere sentenze, celebrare matrimoni, riti, sacramenti, dire la tua e decidere negli affari di famiglia se non vi appartieni ecc. [4.] Tutto ciò mette in evidenza i livelli diversi di performatività: quello degli atti/enunciati performativi, quello dello status che rende validi gli enunciati performativi, quello della costituzione delle istituzioni che legittimano uno status capace di emettere enunciati performativi. Istituzioni e status definiti come contesto necessario di performatività, infatti, dipendono anch’essi, per esistere, da enunciati performativi convenuti, accettati, di carattere sociale… (esempio, non posso celebrare sacramenti se non appartengo allo status sacerdotale, o se sono sospeso a divinis; ma l’appartenenza allo status sacerdotale è a sua volta frutto di un atto performativo, l’ordinazione, i riti, i simboli, le parole che la caratterizzano; e ancora, la stessa istituzione, Chiesa, che ordina e definisce uno status e i suoi appartenenti è a sua volta costituita da atti performativi…); se non si vuole andare all’infinito occorre avviare una analisi delle strutture sociali come tessuto di insediamento di enunciati performativi e della loro validità. [5.] La domanda è come sta in piedi, si costituisce, si definisce, è garantito e produce con fiducia e sicurezza un sistema fondato su enunciati performativi senza che possa contare su di un principio esterno ad esso che possa dirsi indipendente da enunciati performativi per esistere? È la distinzione tra una politica sociale di carattere teologico/ religioso o metafisico (giusnaturalistico) e una politica sociale di carattere performativo, segnata dalla laicità. In apparenza si è posti qui di fronte ad una alternativa di forte valenza ideologica. Una fondazione della politica in un principio trascendente, esterno ad essa (in senso ontologico o teologico) è una fondazione a cui si riconosce la capacità di dare stabilità e certezza alla realtà politica e alle sue istituzioni, ma alla quale si addebita il difetto di non garantire e non rispettare l’autonomia del fatto politico; non ha fondamento proprio, è fondato in altro da sé. Una fondazione della politica in forza di atti performativi la cui validità rimanda ad altri atti performativi in un rinvio senza arresto o in una situazione di circolarità, pur garantendo alla politica la propria autonomia fondativa, la propria natura laica, sembra consegnarla ad un procedimento precario, mai definitivo, fonte di pericolosa instabilità. Ma si tratta di un bivio fittizio, inesistente. Anche nel caso di una fondazione del politico esterna ad esso, questa fondazione rimanda inesorabilmente ad atti performativi. Enunciati come quelli che affermano l’esistenza di diritti naturali non sono in grado di mostrare la prova reale di quanto affermano; il loro valore è solo di natura performativa e sulla base della condivisione sociale dell’affermazione. Enunciati che affermano che ogni autorità deriva da Dio (magari che questo monarca è tale per diritto divino) non possono esibire la prova della propria validità se non nelle stesse forme di un diritto positivo cha ha nella logica della performatività il proprio valore. C’è sempre il legittimo dubbio che una uscita da sistemi fondati in forza della performatività si fondi a sua volta su enunciati performativi (in altri termini, e ancora come esempio, colui che dice “Ho visto Dio”, “Ho ricevuto da Dio” non ci presenta un fondamento trascendente ma una sua affermazione; nasconde sotto un enunciato di carattere rappresentativo, che sembra cioè rappresentare come stanno le cose del mondo, un enunciato di carattere performativo: fa esistere nella sua narrazione, e solo in essa, ciò che dichiara di aver visto come fondamento e legittimazione trascendente; essa diventa efficace se resa oggetto di sociale condivisione, con strategie di convincimento tutte da studiare sociologicamente nella loro logica e eticamente e politicamente nel loro valore). [6.] Occorre dunque formalizzare una filosofia sociale che studi la logica della performatività nella costituzione delle istituzioni sociali di un sistema storico determinato o di un sistema sociale in generale o addirittura della stessa civiltà umana, come da sottotitolo dell’opera di Searle: La struttura della civiltà umana. Cioè, è dall’analisi degli enunciati performativi e della performatività che si riesce a cogliere e definire la struttura della civiltà umana. Con riferimento a riflessioni contemporanee, la struttura della civiltà umana, e ogni società in essa, prende forma e si costituisce (probabilmente) in forza di due processi base: il mondo-della-vita e i processi comunicativi che su di esso si fondano (Husserl, Habermas), atti/enunciati performativi (Austin, Searle).] 9 2.1.2. Il Pluriverso (non universo) della politica: una dimensione antropologica, sociale, istituzionale. Per qualsiasi tema si tocchi nel campo politico, è necessario tener sempre presente la triplice dimensione (concettuale e storica) della politica. Pur con diversa prevalenza di una componente nei confronti dell’altra in relazione a particolari ruoli e aspetti del vivere sociale, la pluralità delle dimensioni è sempre in atto. È una triplice dimensione che sembra richiamare sia la recente (Popper, Habermas) teoria analitica dei “tre mondi”: persona, cultura, società, sia l’apporto delle tre classiche partizioni della storia: antica, moderna, contemporanea. 1. Dimensione antropologica (persona): il primo riferimento va alla concezione classica che definisce e presenta l’uomo come animale politico; 2. Fatto istituzionale (cultura): la concezione politica moderna si concentra sul tema dello Stato e dell’esercizio della sovranità; 3. Iniziativa sociale (società): la concezione contemporanea, per il peso che attribuisce alla democrazia, tende sempre più a caratterizzarsi per la varietà dei centri nei quali la società matura la propria iniziativa politica costituente; «poiché la democrazia appare come la presa di coscienza della natura politica della società, diventando come il politico progressivamente e parzialmente cosciente di se stessa» (Caillé 1993 Il tramonto del politico, 282); «…l’essenza della società è politica.» (Caillé 1993 Il tramonto del politico. 4 e 32, 140, 159); «… la riflessione sulla costituzione delle società, sull’organizzazione che presiede alla relazione tra i sistemi – gli ordini – e i loro contesti, tra le funzioni e le persone, fa emergere la necessità di pensare una dimensione originale del politico ma che non si riduca allo Stato, alla sistematicità delle relazioni tra funzioni di comando e di obbedienza, e neanche alla regolarità del conflitto tra gli interessi costituiti. Questa dimensione primaria del politico non appartiene, in realtà, all’ordine del sistema ma a quello della contestualità, non all’ordine delle relazioni tra funzioni ma a quello dei rapporti tra soggetti.» (Caillé 1993 Il tramonto del politico. 269-270) 2.1.3. La Socialità della politica. Bisogna allora servirsi di una distinzione preliminare e fondamentale tra il politico, che va inteso come momento costitutivo del rapporto sociale, e la politica, cioè il sistema di potere costituito. Distinzione che permette l’emergere di più soggetti storici. Accanto all’aspetto centrale, già menzionato, che la democrazia, in particolare, si presenta come «la presa di coscienza della natura politica della società», e che, in questo contesto, le scienze sociali possono riprendere «la loro funzione essenziale: quella di costituire il momento riflessivo della “invenzione democratica”» e contribuire a porre in risalto «l’essenza politica di ogni società» (Alfredo Salsano in Presentazione a Caillé 1993 Il tramonto del politico, XIII; e dal testo di Caillé, 32, 283); in un arco lunghissimo di tempo: da Platone, nel dialogo Politico, alla ricerca dell’essenza e della dialettica della politica, fino al… risveglio del sociale nelle forme dei movimenti attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, è il dato che maggiormente, nei tempi presenti, si impone all’attenzione politica. Se le tre dimensioni del politico (antropologica, istituzionale, sociale) restano imprescindibili, l’urgenza di far fronte ad una crisi economica e sociale a livelli plurimi, imputata alle scelte (o non scelte) operate dalla politica istituzionalizzata, è all’origine del risvegli di un nuovo soggetto e di una nuova sensibilità politica sociale. (Il tema verrà ripreso. Di seguito, come anticipazione, una ipotesi di realizzazione costituita in forma di romanzo) 2.1.3.1. José Saramago, Saggio sulla lucidità (Einaudi, Torino, 2004). Una imprevedibile forte astensione dal voto rende nulle le elezioni nella capitale; la convocazione elettorale riparatrice successiva vede un’altissima affluenza al voto, ma, senza che emergessero segnali premonitori o indizi di accordi, le elezioni sono ancora nulle perché registrano l’83% di schede bianche. Dopo molte analisi e tormentate ipotesi, per rappresaglia tutte le Istituzioni dello Stato lasciano la capitale e viene dichiarato lo stato di assedio, immaginando che la capitale piombi in una situazione incontrollata di disordini e violenze e possa, di conseguenza, ravvedersi. «Ora siete una città senza legge. Non avrete un governo a imporvi ciò che dovete e ciò che non dovete fare, come dovete e come non dovete comportarvi, le strade saranno vostre, vi appartengono, usatele come vi aggrada, nessuna autorità vi si presenterà a sbarrarvi il passo e a darvi il buon consiglio, ma pure, badate bene a ciò che vi dico, nessuna autorità verrà a proteggervi da ladri, stupratori e assassini, sarà questa la vostra libertà, godetevela.» (Saramago, 82-83) La società, invece, in assenza dello Stato, 10 si risveglia al senso della comunità, della partecipazione e della responsabilità. Saramago sembra raccontare la teoria di Hobbes al contrario. La delega della forza che gli uomini, per uscire dallo stato di natura, hanno sottoscritto in favore dello Stato per scopi di sicurezza e di pace, realizzata nel patto di società descritto da Hobbes, oltre a basarsi sul presupposto di una natura umana in sé malvagia, sembra avere l’effetto di togliere ai cittadini l’attenzione personale e la dedizione civile ai temi della convivenza, dell’armonia e della reciproca solidarietà, come se tali aspetti venissero delegati allo Stato e i cittadini rassegnati al ruolo di fedeli sudditi, privi di iniziativa. La scheda bianca, nel romanzo di Saramago, è come un ritirare la delega, anche per la mala gestione politica, e fa emergere la volontà di assumersi in proprio il progetto politico di società. 2.2. Il concetto di potere: il mutamento del concetto di politica rimanda ad un più radicale e originario modo di intendere il concetto di potere, le sue forme essenziali. Il suo esame preliminare e ideale ha l’effetto (o almeno l’obiettivo) di restituirci lo sguardo critico e la capacità di giudizio e di azione nei confronti della varietà dei modelli storici politici. Hillman James, nell’opera del 1995, Forme del potere. Capire il potere per usarlo in maniera intelligente (Garzanti, Milano 1996) analizza da più prospettive la natura del potere ricercandone e illustrandone le forme storiche e quelle che possono essere considerati i suoi tratti o le sue manifestazioni essenziali. I caratteri individuati formano lo sviluppo dell’analisi e compongono una ipotesi di definizione e di lettura dello Stato secondo modalità che ne definiscono la natura, la funzione e l’evoluzione: Il controllo. L’ufficio. Il prestigio. L’esibizionismo. L’ambizione. La reputazione. L’ascendente. La resistenza. La leadership. La concentrazione. L’autorità. La persuasione. Il carisma. L’entusiasmo. La decisione. L’intimorire. La tirannia. Il veto. Il purismo. Il potere sottile. Dai vari titoli dei paragrafi si ricava la natura complessa del potere; i tratti che lo caratterizzano sono da intendere sia in contemporanea che in senso evolutivo. Ciò che è innovativo nell’analisi, e che risulta necessario per una analisi ragionata, è la ridefinizione dei termini presi come indicatori della natura del potere; di loro si mette in luce l’irrisolta e irrisolvibile plurivocità con il conseguente, spesso difficilmente avvertito, scivolare dello Stato e della società da una situazione politica ad un’altra. Obiettivo comune degli elementi presi in considerazione e della loro definizione aperta o plurima è quello di sottrarre il concetto di potere alla sua riduzione al solo o prevalente concetto di forza, dominio, prevaricazione, supremazia, violenza… Il potere è dunque un intreccio di più dinamiche (un vero e proprio pantheon) ciascuna caratterizzata da una varietà interna e determinante secondo un peso non definito ma mutevole nella realizzazione e esercizio del modello politico o della politica in generale. Mai tuttavia quelle componenti (anche una sola di loro) possono essere assenti, al di là della diversa prevalenza che una (o più; la prevalenza totale di una di esse è comunque definizione di tirannia nella sua base psichica antropologica) di esse ha sulle altre. Infatti, mentre è difficile dire se l’elenco degli elementi individuati e posti in intreccio è completo, ciò che sembra certo è che l’assenza di una sola delle componenti elencate determina la debolezza, pone in crisi e avvia lo sgretolamento della forma del potere in atto o al momento dominante. Viceversa, quell’elenco, considerato in intreccio e nella sua irrisolta pluralità (pluralità doppia: delle singole componenti, di ogni componente nella sua accezione e nel suo conseguente sviluppo), permette di considerare il potere nella sua complessità e ricchezza. Di particolare efficacia risultano le note riguardanti tre aspetti o nature, per la loro capacità di definire la logica del potere (cultura), la sua funzione sociale (società) e antropologica (persona), e per mettere in evidenza la necessità dell’intreccio che deve verificarsi tra le componenti essenziali del potere. Pur di diverso segno, le componenti richiamate a definirsi e porsi in connessione sono: l’autorità, la tirannia, il potere sottile. Intrecciate si traducono in una ideale definizione del potere, presupposto alla definizione e osservazione critica dei modelli politici. 2.2.1. Potere è autorità, intesa come autonomia e indipendenza… autorevolezza. «L’autorità non può essere influenzata dalla persuasione non cerca di opprimere, e perfino quando è subordinata manifesta la sua intrinseca autonomia. Autonomia che non è tanto un segno di distacco, 11 di indifferenza, quanto una radicale indipendenza da ogni altro genere di potere. La radicale indipendenza delle corti di giustizia, scritta nella Costituzione separa il giudizio dagli altri generi di potere. Il giudizio deve essere disinteressato. Forse è proprio in questa indipendenza dalle consuete manifestazioni di potere che consiste l’autorevolezza dell’autorità. L’uso improprio del termine «autorità» per indicare organismo di governo, o il parlare di «autoritarismo» invece di dispotismo oppure, di fronte a un’ostinata ribelle incapacità di assumere la direzione, fare diagnosi di «problemi di autorità» svilisce l’idea di autorità e la confonde con altri stili di potere. […] Il potenziale della tirannia è sempre lì, nel momento in cui eserciti la tua autorità. Dice Shakespeare: «Il nascondimento, il disinteresse, l’indipendenza, sembrano essere corollari indispensabili dell’autorità». […] In un dramma che tratta della perdita del potere da parte di un re, Shakespeare, in pochi versi, dice molto sull’autorità. Quando Kent si mette al servizio del sovrano, Lear lo interroga a proposito del suo compito: «Che cosa vorresti?». «Un servizio». «Chi vorresti servire?». «Voi». «Mi conosci, tu, giovanotto?». «No, signore; ma nel vostro contegno avete ciò che volentieri chiamerei padrone». «E cos’è questa cosa?». «L’autorità». E questo, dopo che il re era già stato deposto dal potere del governo. Chiaramente, l’autorità di Lear è innata, e anche quando il dramma procede e lui diventa sempre più indifeso e folle, il potere dell’autorità non lo abbandona mai. Naturalmente questo deriva in parte da quello che si è stati nel passato. Dopo tutto Lear era il re, così come Edipo, alla fine della vita, cieco, vecchio, povero e morente, era ancora quello che un tempo fu Edipo il Tiranno. Il passato è ancora lì nel presente.» (Hillman 1995 p.128-129) L’immagine-concetto emblematica della autorità (e del potere), come paradosso e come definizione autentica, è fornita da una figura mitica tragica antica: è il potere come autorità (autorevolezza) che risiede nell’Edipo cieco e esule. Intesa in tal senso è aperta la ricerca della sede dell’autorità e magari la scoperta che essa solo raramente, o in parte ridotta, ha luogo nelle pubbliche istituzioni, come del resto la tragedia antica greca ripetutamente ricorda e rappresenta. 2.2.2. Potere è tirannia, ma contemporaneamente è le strategie per la sua cura o contenimento. Il riferimento analogico è celeste: la tirannia del e nel divino è corretta e gestita attraverso la creazione del politeismo; un pantheon di poteri (nel monoteismo attraverso i concetti della misericordia e della salvezza?). La situazione politeistica richiamata ha la propria sede attuativa nell’individuo e nella società. «Un’altra cura è il ricorso rituale a un pantheon di poteri. Era questo il metodo politeistico che governava il mondo antico e molte culture, al di là del monoteismo che adora un unico essere supremo — la tirannia esercitata in cielo. La storia e l’antropologia dimostrano chiaramente che la cura politeistica non garantisce la libertà dalla tirannia politica, e tuttavia, per ragioni psicologiche, vale la pena di esaminarla attentamente. Il pantheon era strutturato in modo che Zeus/Juppiter, per esempio, era semplicemente il primus inter pares. Non poteva sconfinare nei domini degli altri Olimpici. Questa restrizione va oltre il concetto di sovranità limitata, perché l’assolutismo non può essere contenuto semplicemente condividendo il potere con un’oligarchia: le giunte sono oligarchie. Né può essere limitato per legge: la tirannia inizia sovvertendo la legge o piegandola al proprio uso. L’idea di un pantheon, che corrisponde alla struttura interna della psiche, può costituire invece un freno proprio là dove nasce la tirannia, e cioè nella fantasia della mente che vede se stessa come un governatore assoluto e solitario. Il vocabolario — per inciso — attribuisce al termine «assoluto» il significato di «senza condizioni, limitazioni o obblighi; indipendente, disimpegnato». È sciolto da relazioni — libero da ceppi, agisce a ruota libera. Ciò in cui la mente tirannica ha fede è il suo stesso potere, che è anche quello che «crea la propria mente». L’idea del pantheon, invece, rifiuta di lasciare che la mente creda in se stessa in modo così assoluto. Essa dice che la mente, come ogni altra cosa al mondo, è composita e soggetta a molti poteri, ciascuno con miti differenti che richiedono osservanza continua. Un essere umano è immaginato non tanto come un agente centrale, nel quale, per definizione, la tirannia è sempre una possibilità, quanto come un campo in continuo mutamento, dove l’attrito fra le varie figure richiede dei rituali e un atteggiamento riflessivo e interrogativo. 12 È per questo che in altre culture si consultano sempre le stelle, le nubi, gli uccelli, i visceri di animali, i prodigi e i segni premonitori, proprio come noi teniamo d’occhio le previsioni economiche prima di fare una mossa importante. Quello che un tempo erano, e altrove sono tutt’ora, gli indovini e i veggenti, qui sono gli esperti di statistica, gli attuari, gli econometristi, gli esperti di previsioni economiche. Magia delle mode. La differenza fra i due rituali sta nel focus dei due modi di procedere. Il nostro, attraverso la raccolta dei dati, cerca di contribuire al potere che ha la mente di governare la confusione delle circostanze e di mettere ordine fra di esse. Il loro cercare di differenziare e di dar potere agli altri, in modo che le cose rientrino in un ordine cosmico. È per questo che la fede è centrale per il nostro approccio, mentre per il loro è centrale il sacrificio. Invece di essere fatto a immagine di un unico Dio onnipotente, come nella nostra cultura, l’essere umano, in queste culture, riflette voci contrastanti ed è immaginato sempre in un fascio di relazioni. Quindi devo domandarmi sempre: «Chi è che comanda adesso?». Quale principio, quale mito, quale potere ha usurpato il trono e sta immaginando la mia mente? I rituali di un atteggiamento riflessivo e interrogativo danno potere agli altri, come nell’interpretazione dei sogni. Non guardo soltanto quello che l’«Io» fa o non fa, ma guardo anche quello che fanno gli altri, e chi essi sono, e perché sono lì nel «mio» sogno. In un modello politeistico della psiche, la prima domanda riguarda gli altri, come avveniva in Grecia quando si consultava un oracolo. I Greci non chiedevano: «Cos’è che non va in me?», oppure «Cosa dovrei fare adesso?», ma: «A quale Divinità dovrei rivolgermi in questa situazione?». Chi ha il potere adesso? Questa semplice domanda, «Chi?», annuncia che non sono il solo a comandare e che il mio potenziale tirannico è stato messo in discussione.» (Hillman 1995 p. 148-149) 2.2.3. Il potere sottile: da una sorta di composizione ideale tra autorità e politeismo emerge la natura sottile del potere, il suo realizzarsi nel mondo infinito del prendersi cura e delle sue variabili forme: accudire, trasmettere, conservare, proteggere, riparare, nutrire, permettere, incoraggiare … La sua arte specifica consiste nel togliersi per far emergere; la rinuncia a pretese di show totalitari per promuovere e valorizzare la vasta possibilità del prendere interesse e azione presente in forma sopita nel mondo soffocato nostro, quello della facoltà individuali di ciascuno e quello del mondo sociale sempre più disomogeneo. Proprio la disomogeneità è il rischio e la fortuna, la paura e il fascino della situazione contemporanea; essa richiede, sostiene e alimenta un “potere sottile” per trasformarsi in centro propulsore di una contemporanea civiltà delle relazioni. «La leadership, l’autorità, l’ambizione, che si muovono soltanto secondo la loro visione, corrono un altro rischio — il rischio di offendere poteri che non vedono.» Una lunga riflessione di James Hillman. «La manutenzione, come incremento dell’energia, costituisce un altro esempio del prendersi cura come potere. Inoltre, avrete sicuramente notato quante attività elencate sotto la voce manutenzione — insegnare, prendersi cura, accudire, pulire, riparare — sono state per così lungo tempo associate alle donne o assegnate loro come lavori femminili. […] Prendersi cura della continuità, sostenere gli ideali e i valori, nutrire ogni cosa di cui si è responsabili affinché possa fiorire, talvolta a costo di sminuire noi stessi, non significa idealizzare la maternità, ma riconoscere un modello archetipico di potere che raramente trova la strada dei testi di management, tutti focalizzati sulle abilità dell’assertività, sul fronteggiare l’insubordinazione, sulla proiezione d’immagine. Il prendersi cura ha vari corollari: conservare, condividere, permettere. Corollari che conferiscono potere agli altri, invece di delegare. Corollari che smentiscono l’idea di materia inferiore, passiva, che abbiamo esaminato in precedenza e che pervade i nostri atteggiamenti iperenergetici di produttività e di prestazione. A differenza della tradizionale concezione passiva secondo cui la materia deve essere mossa esercitando una forza superiore (e questo in pratica significa la forza di qualcuno che è superiore nella catena del comando), la visione del mondo basata sul prendersi cura sostiene che esiste un potenziale innato in ciascuna persona, in ciascun compito, in ciascuna creatura, animata e inanimata. Questo potenziale non è inerte ma, come direbbero i marxisti, è in catene. L’anima in catene, imprigionata, appartiene al repertorio delle immagini filosofiche occidentali che risalgono molto indietro nel tempo. Prima della scienza moderna, la filosofia della natura sosteneva 13 che imprigionate dentro tutte le cose ci sono scintille di fuoco, o anima. Queste scintille potevano essere liberate con varie arti, in particolare con l’alchimia. L’idea di un’immagine vivente imprigionata dentro un blocco di materiale inerte permea le arti fin da Pigmalione, che scolpì una statua che aveva in sé la vita; fin da Michelangelo, che non imponeva semplicemente la sua immagine al marmo, ma che con lo scalpello liberava l’immagine che vi era già implicita. L’alchimista concepiva la propria arte come un operare con le forze naturali in modo da liberare i potenziali innati, bloccati e in attesa di esprimersi. Il simbolo di questa trasformazione dalla muta e depressa inattività alla massima realizzazione del potenziale, era l’oro. Tutte queste cose, se ce ne prendiamo cura in modo appropriato, potrebbero diventare oro. Questa analogia con l’alchimia possiamo utilizzarla anche oggi nel pensare all’applicazione del potere come un abile incoraggiamento e liberare i poteri innati negli altri, portandoli al massimo con la discrezione, e non con la direzione. Parallele alla filosofia naturale dell’alchimia, che hanno anche fortemente influenzato, sono le idee del misticismo giudaico. Mi riferisco all’idea cabalistica del tsim tsum, il rifugiarsi, il ritirarsi. L’argomentazione della Cabala segue questa linea di ragionamento: poiché Dio è ovunque, «l’esistenza dell’universo è resa possibile dal ritirarsi di Dio». (Gershom Scholem. Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Melangolo, Genova 1986). Per creare, per produrre, bisogna fare spazio alle cose di questo mondo. Dio, così onnipresente, così onnipotente, fa restare fuori tutti gli altri generi di esistenza. Quindi egli deve tirarsi indietro perché la creazione possa venire all’essere. Soltanto ritirandosi, Dio consente il mondo. Il principio che governa, al vertice, non deve essere onnipresente e onnisciente. La produttività si realizza perché Dio si leva di mezzo. Non sa; diventa un Dio che non sa; governa con benigna trascuratezza. Si mette in esilio. Non è certo il manager che sta sempre a imparare e ad accrescere le proprie abilità. Siamo ben lontani dalla subordinazione. Possiamo immaginare che il tsim tsum avvenga al livello umano quotidiano, dove il ritirarsi potrà essere sentito non poi così «divino». Potrà capitare semplicemente come sentimento di incapacità, di impotenza e di esilio. Il senso di aver perso i contatti, di avere perso completamente il controllo. Se invece collochiamo questi momenti contro lo sfondo del tsim tsum, o creatività attraverso il ritirarsi, queste esperienze depotenzianti potranno essere immaginate non tanto come debolezza, quanto come momenti che richiedono una forza epica, proprio come un Dio che riduce il proprio dominio attraverso un intelligente autocontenimento. Ad essere abbandonata è l’intera fantasia di gestire tutto lo show; abbandonati sono i piani di centralizzazione efficiente e di controllo supervisore. Invece, si abbandonano le redini, i resoconti, la responsabilità, in modo da consentire ai potenziali di un’organizzazione di emergere dai loro nascondigli. È abbastanza evidente il paragone con le arti. Infatti quello che l’attore cerca di raggiungere sul palcoscenico è di «levarsi di mezzo», in modo che il personaggio che sta rappresentando possa venire completamente fuori. Allo stesso modo anche lo scrittore e il pittore: devono levarsi di mezzo dal fluire dell’opera sulla carta o sulla tela. I parallelismi con l’organizzazione della personalità individuale non occorre nemmeno menzionarli. Dobbiamo «levarci di mezzo» in modo che le nostre famiglie possano respirare, in modo che i nostri sogni possano restare vicini durante il giorno. Fin dove si può andare nel «non sapere», nella semplice ammissione di ignoranza? Tutto questo può sembrare come una rinuncia a tutti i nostri poteri. I biografi dei grandi parlano talvolta di «collasso creativo» per indicare questi periodi di tsim tsum in una vita umana. Queste sottili idee di potere, o idee di potere sottile, su cui poggiano il femminismo, le arti e il misticismo, non esauriscono ancora la portata del nostro tema. Esistono infatti dei poteri che vanno al di là di qualunque formulazione. Li raggiungiamo con i gesti e con i riti. Sembrano remoti rispetto al business, al governo, e perfino rispetto alla psicologia. Alcuni succedono nella mente, come i sogni che ci impongono realtà che non vorremmo riconoscere; come le intuizioni che scuotono la nostra vita indirizzandola su nuove strade. Altri poteri giungono attraverso gli occhi, come l’improvviso colpo di fulmine in una storia d’amore. Altri ancora li propiziamo con la preghiera o con le candele, e con le piccole pietre su altari privati, in casa, dopo una strana coincidenza o una cattiva giornata. Ci sono poi i poteri animistici che abitano l’ambiente che ci 14 circonda, e che questo scorcio del XX secolo sta riscoprendo in due modi: il primo è l’ecologia, il secondo è la tossicologia. Il primo dice che l’attività umana dipende dal potere della biosfera, al quale l’esistenza umana è subordinata. Il secondo dice che poteri insospettati risiedono nel suolo e nell’acqua, nel cibo e nell’aria, nel mobilio e nelle pareti, e nei macchinari ad alta tecnologia con i quali lavoriamo. Questi possono causare malattia e morte. Idee di potere fondate sull’agire umano si arrendono di fronte a questo ritorno dell’animismo. Sono i poteri là fuori, nei luoghi, nelle cose e nelle menti, che adesso hanno bisogno di attenzione e chiedono un’immaginazione del potere più raffinata. La leadership, l’autorità, l’ambizione, che si muovono soltanto secondo la loro visione, corrono un altro rischio — il rischio di offendere poteri che non vedono. «Perché è implicato qualcosa di più che noi soltanto», come dice Malidoma Some. Tutti coloro che hanno potere dovrebbero tenere un piede in ciascun mondo, rispondendo a ciascuno secondo le sue richieste. L’istinto da cui dipende la leadership è molto vicino all’intuizione, quel fiuto per ciò che è nell’aria. Una persona che ha potere si rivolge alle sottili forze che sono nell’aria — che a loro volta si rivolgono a lui — e agisce come un mediatore collettivo degli spiriti molesti, che lo fanno sentire disturbato e vulnerabile. Questa apertura, questa capacità di essere influenzato, ma anche di resistere, pone al servizio comunitario della crescita e del mantenimento di un’organizzazione coloro che detengono il potere. I poteri sottili che riconosciamo ci stabiliscono al tempo stesso come avanguardia e come confluenza di varie forze. Siamo come il seme individuale di uno spirito comune, che dà voce a una volontà più differenziata e comprensiva. Tipi sottili di potere si sono manifestati nel corso di tutto questo libro, e tuttavia il potere delle definizioni convenzionali continua a subordinare il nostro pensiero a concetti vecchi e familiari quali «il potere è fondamentalmente una forza subordinante», «l’agire richiede esercizio», «per avere potere bisogna prima esercitare la volontà». Noi invece abbiamo suggerito […] che il potere non è nelle mani di agenti umani, non comporta necessariamente il dominio dell’Altro, e certamente non esclude emanazioni di potere derivanti dalle semplici attività della vita quotidiana. Un buon servizio, strutture ben mantenute, gli uffici che ricopriamo, il linguaggio con cui ci vengono scritte le relazioni e quello che noi usiamo nelle riunioni — anche queste cose sono forme di potere, che esercitano un effetto e che portano le nostre azioni in determinate direzioni. Il potere emana da idee come l’efficienza e la crescita, che possono conferire autorità a programmi del purismo e del timore. Ormai abbiamo visto il potere sottile delle idee che possono controllare, influenzare o tiranneggiare il nostro modo di pensare e di sentire quello che facciamo. Siamo arrivati, insomma, a riconoscere le sfumature di potere che sono insite nelle idee di potere.» (Hillman 1995 p. 158-162) 3. Democrazia sociale: le strade di presenza e di risveglio alla ricerca di una sfera pubblica (a. La tentazione comunità; b. La volontà politica del sociale; c. L’inquietudine in movimento.) «Signor ministro, da qui a qualche ora, quando arriverà la notte, dovrò dire che è notte, sarebbe stupido o cieco se affermassi che è giorno, E questo che c’entra con la storia dello sciopero, Che noi lo vogliamo o no, signor ministro, è notte, notte fonda, avvertiamo che sta succedendo qualcosa che va ben oltre la nostra comprensione, che eccede la nostra povera esperienza, ma stiamo agendo come se si trattasse della stessa zuppa, fatta con gli ingredienti di sempre sul solito fornello, e invece non è cosi…» (Saramago José 2004 Saggio sulla lucidità, Einaudi, Torino 2004, 91) «…non c’è quasi nessuna speranza di veder nascere un dibattito democratico se si confina la democrazia alla democrazia rappresentativa. Pretendere di abolire o di fare a meno del sistema rappresentativo aprirebbe la porta a tutte le pulsioni totalitarie. Ma accordare il monopolio della parola pubblica e politica a dei rappresentanti, o a dei rappresentanti di rappresentanti di rappresentanti, significa far pesare sulle democrazie moderne una cappa di piombo. Non sarà dunque rimandabile a lungo la questione della ricostituzione di spazi di democrazia diretta che siano 15 conciliabili con l’essenza della democrazia rappresentativa pur restando abbastanza vivaci e conflittuali, sì da non essere confusi con i programmi televisivi animati da gentili assistenti sociali o da impiegati del comune disponibili fino al sacrificio.» (Caillé Alain 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 292) [e il riferimento è vasto; per gli autori richiamati si possono ricordare in particolare Urlich Beck, Bruno Latour, Jürgen Habermas]. Il problema in termini di sociologia politica. «La deliberazione pubblica, tra società civile e stato. Secondo una visione consolidata (anche nella letteratura deliberativa), il ruolo della società civile nel promuovere la partecipazione democratica comprende due dimensioni interrelate: a un lavoro di auto-organizzazione — attraverso la partecipazione nelle strutture associative e nelle reti dei movimenti sociali — rivolto alla creazione e al rafforzamento di luoghi e contesti in cui poter articolare ed esprimere collettivamente interessi, bisogni e rivendicazioni, si associa un impegno critico di trasformazione culturale nella società volto alla ridefinizione di norme, valori e identità e alla democratizzazione di relazioni sociali segnate da pregiudizio, dominio, sfruttamento o esclusione. Questi indirizzi possono poi convergere in una politica dell’influenza da parte degli attori della società civile sulle istituzioni dello stato democratico, che si avvale di numerosi canali non istituzionali tra cui gli scioperi, le manifestazioni, i boicottaggi, l’advocacy, la disobbedienza civile. La società civile si caratterizza quindi per la capacità di rendere possibili, favorire e far interagire i termini di una diffusa e pluralistica partecipazione civica e quelli di una deliberazione libera, aperta e includente indirizzata alla formazione della pubblica opinione. Non è un caso, allora, se proprio nella sfera pubblica in molti abbiano riconosciuto il luogo specifico al cui interno gli ideali deliberativi possono trovare una realizzazione pratica (Dryzek 2000; Fraser 1992; Benhabib 1996). Tuttavia, se si esclude il meccanismo di trasmissione rappresentato dal voto elettorale e dalla rappresentanza istituzionale, il modello deliberativo dell’influenza esterna e indiretta esercitata dalla società civile sulle istituzioni statali non è in grado di specificare compiutamente né dal punto di vista normativo né da quello descrittivo quali siano le condizioni di un’effettiva ricezione dell’opinione pubblica e come possa essere immaginata una corrispondente — e soprattutto legittima — formazione della volontà politica. Si pongono così due problemi strettamente collegati: da una parte, il fatto che la società civile sia in grado di produrre una forte e incisiva pressione sullo stato non può al contempo testimoniare la validità stessa delle rivendicazioni che vengono avanzate; dall’altra, il potenziale deliberativo e partecipativo della società civile trascende e non risulta pertanto interamente canalizzabile nei processi istituzionali e nelle forme tradizionali di produzione della volontà politica democratica.» (Duccio Zola, Le prospettiva della democrazia deliberativa in Zola Duccio (a cura di) 2008 Dopo la politica. Democrazia, società civile e partiti, edizioni dell’asino, Roma, p. 83-85) «…ciò che resta sotto la pelle dello stato, sono tracce di speranza per continuare a cercare» (Bonomi Aldo 2010 Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, Feltrinelli, Milano, p.13) Il rapporto tra autorità sociale e potere politico esaminato da tre punti di vista: 1. Descrizione sociologica del formarsi di comunità di pensiero, di attese e di giudizio; 2. La società radice della autorità distinte e in relazione con il potere politico per questioni di legittimazione; 3. La natura e le prospettive dei movimenti sociali in rete “nella speranza di identificare i nuovi modelli di trasformazione sociale della nostra epoca”. 3.1. Le tre comunità: del rancore, della cura, dell’operosità. La tentazione Comunità. Quando la società cede il posto alla (alle) Comunità. Comunità come condivisione collettiva di situazioni e di attese. Il riferimento per le categorie utilizzate (Comunità, Società) rimanda alla distinzione ormai classica del sociologo Ferdinand Tönnies (1855-1936) tra Società (Gesellschaft, dimensione antropologica di appartenenza dalla quale non è possibile prescindere senza rischio per la propria umanità e persona) e Comunità (Gemeinschaft, appartenenza per vincoli parentali, etnici, di professione, di ideologia e fede; legami di fedeltà e obblighi da cui, seppur talora con difficoltà, ci si 16 può liberare). Il riferimento più specifico è allo studio di Bonomi Aldo 2010 Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, Feltrinelli, Milano (già utilizzato nei quadri preliminari). Si tratta di una diagnosi sociologica delle potenzialità politiche del sociale; la base può essere il presupposto di Alain Caillé contenuto nell’invito rivolto alle sociologie a svolgere: «la loro funzione di esploratori e di agitatori della coscienza collettiva a cui spetta il compito di rivelare il possibile e l’auspicabile.» Il rischio altrimenti è la loro irrilevanza; infatti «Se diventano politicamente insignificanti, è proprio perché dimenticano che l’essenza della società è politica.» (Caillé Alain 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 3-4) Sulla stessa linea si pongono le considerazioni di bilancio di Aldo Bonomi: «Per parte mia, non ho fatto altro che sviluppare un metodo di osservazione dei fenomeni sociali che fa propria una caratteristica della nostra epoca, quella di mettere al lavoro il proprio “sentire”, con tutti i rischi del caso. Ma anche con tutte le opportunità di esplorare il presente nel farsi delle cose. Il “sentire” rimanda inoltre a un metodo empatico che sta alla base della comprensione dei fenomeni sociali, che ruotano intorno alla dimensione della comunità e del legame sociale.» (Bonomi 2010, 184) 3.1.01. La prima analisi prende in esame il territorio interessato dalle opposte tendenze di flussi, sempre più aperti e variati (economici, finanziari, demografici, culturali…), e del rinserramento, sempre più soggetto a sentimenti di chiusura e intolleranza (identitaria, tradizionalista, nazionalista, razzista, religiosa…). In questo doppia dimensione di flussi e di rinserramento si costituiscono nel sociale diverse e mobili comunità, unite da analogia di situazioni economiche e culturali, da stati condivisi di attese e progetti, da emozioni pervasive di paura e di preoccupazione. Si tratta di soggetti collettivi non formali che prendono consistenza spesso al di là e in distanza dalla politica delle istituzioni; queste sembrano agire di riflesso e in ritardo, più vittime sottoposte al ricatto del consenso elettorale che soggetti autonomi attivi di governo, proposta e responsabilità. La politica (di governo e di partito) sembra qui agire a rimorchio anche e proprio quando fa leva strumentalmente su paure collettive e immediate incrementandole allo scopo di ottenere seguito e consensi. «Pensare il territorio non basta, essendo questo spazio del vivere e del produrre esposto, attraversato, sussunto e sorvolato nella dinamica del conflitto tra flussi e luoghi. Che scava nel profondo dei soggetti sociali, della moltitudine, dei comportamenti collettivi, lasciando dissolvenza e tracce di comunità: le tre comunità del rancore, della cura e dell’operosità.» (Bonomi 2010 Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, 141) Più che di comunità della presenza, paiono comunità dell’assenza, o “comunità fantasmagoriche”; proprio perché assediate o prodotte dalla dinamica di flussi e luoghi, elementi tra loro divergenti e opposti, quelle comunità e i loro soggetti sono consegnate ai fantasmi delle loro immaginazioni ed emozioni più che a consolidate tracce mnestiche di una tradizione vissuta, ricevuta e conservata; diventano comunità segnata dalla fragilità, dal timore o dalle attese che non si intravedono in un futuro immediato. «Quando dico che la comunità è “fantasmagorica”, alludo al fatto che oggi i temi dell’identità, della fiducia e della relazione hanno a che fare con una memoria collettiva colonizzata da un immaginario collettivo ipertrofico che scaturisce anch’esso dalla dialettica tra flussi e luoghi. Se un tempo la memoria collettiva offriva materiale utile a strutturare il pensiero e l’azione delle persone in un quadro di aspettative tutto sommato stabili e localizzate, oggi è l’immaginario a costituire il serbatoio psichico che prelude all’azione. In questo senso l’immaginario diventa questione politica. Nella misura in cui produce affetti, passioni, interessi, aspirazioni e scelte, esso rientra nella sfera regolativa della politica.» (Bonomi 2010, 148) Dunque il termine comunità più che rimandare qui a raggruppamenti sociali visibili e definiti da una formalizzazione esplicita del proprio essere comunità secondo un progetto e secondo obiettivi, indica una forma di attenzione e impegno e una sensibilità di partecipazione, disponibilità e attesa che interessa con modalità e intensità diverse tutti i soggetti individuali e le associazioni o i raggruppamenti collettivi più o meno durevoli che prendono forma, parola e azione nel sociale e in cui i soggetti si riconoscono. Individui e gruppi che dunque attraversano fasi in cui alternandosi 17 compaiono cura, rancore, operosità accentuandosi e imponendosi secondo la percezione e il bisogno, seguendo spesso più l’emozione che la ragione. «Ognuno di noi è un impasto di paura e speranza, voglia di cambiare e voglia che tutto resti com’è, bisogno e rifiuto della comunità. Quel che cambia, che ci scompone e ricompone, sono le proporzioni fra gli ingredienti. E le ideologie che discendono da tali proporzioni e ne fanno sintesi.» (Bonomi 2010, 126) 3.1.1. La comunità di cura e la fenomenologia della cura: definizione e destino attuale. 3.1.1.1. Una breve definizione di richiamo: «In breve, con l’espressione comunità di cura alludo soprattutto a coloro che sono chiamati, nella vita sociale e professionale, all’impegno di provvedere a qualcuno o a qualcosa. Non mi riferisco solo a quelle agenzie preposte alla presa in carico degli ultimi e all’intervento sul disagio sociale: imprese sociali, volontariato laico e religioso. Mi riferisco alle tante professioni, pubbliche e non, che incorporano nel loro codice “deontologico” la produzione e la manutenzione della società (medici, insegnanti, avvocati ecc.). (Bonomi 2010, 58) 3.1.1.2. Il destino della comunità di cura. Nata, come prima fase pubblica e sociale, nelle istituzioni caritative a carattere religiose; vive una seconda fase politica, nel corso del Novecento, con l’affermarsi dello “Stato sociale”. Oggi «questa seconda fase si estingue, finisce con il finire del welfare, con l’estinguersi del Novecento. […] Lo stato che ci accompagna dalla culla alla tomba è finito. […] La comunità di cura, in quanto aspirazione collettiva, entra in questa fase contemporanea in forte tensione, pur essendo chiamata a un compito fondamentale per la tenuta della coesione sociale. In questa fase di individualismo dispiegato anche la cura ha sempre più a che fare con la scelta, e ancor prima con la sensibilità dei singoli, più che con la dimensione dei valori e degli ideali collettivi. (Bonomi 2010, 151) 3.1.2. La comunità del rancore, la sua fenomenologia e la sua base storica. 3.1.2.1. Il contesto storico politico: «Anche il rancore ha un radicamento sociale, oltre che territoriale. È cresciuto nel passaggio epocale del capitalismo fattosi globalizzazione, nell’incontroscontro tra i flussi scardinatori della globalizzazione e una società centrata sulla protezione assicurata dal doppio recinto della comunità locale (in basso) e dello stato-nazione (in alto)…» (Bonomi 2010, 59) 3.1.2.2. La Fenomenologia del rancore «Così come la ricerca del legame con l’altro (“Io sono come te”), anche il rancore (“Io non sono come te”) è un ingrediente emotivo primario della comunità. Entrambe queste emozioni, in un’epoca in cui sembrano entrare in crisi non solo le strutture sociali di mediazione degli interessi, ma anche quelle di generazione e scambio delle passioni e delle emozioni, tendono a trasformarsi in sentimenti durevoli e dominanti rispetto a quei dispositivi di solidarietà meccanica ereditati dal Novecento. Alla base della ricerca di legame sociale vi è un sentimento diffuso di solitudine, di abbandono, mentre il rancore aleggia nella società come un risentimento sordo alla continua ricerca di un soggetto contro cui scagliarsi, come un demone tentatore che non ha pace sino a quando non trova un pertugio per insinuarsi nell’anima dell’uomo.» (Bonomi 2010, 155-156) 3.1.2.3. Il possibile politico si annida nella ambiguità del rancore e del risentimento: «Il risentimento è un’energia distruttiva che nella storia ha rivelato spesso tutta la sua portata esplosiva, soprattutto quando alimentato da un’ideologia, ma simultaneamente è anche un’energia creativa.» L’uso politico del risentimento di Stefano Tomelleri in Doni Martino, Migliorati Lorenzo (a cura di) 2010 La forza sociale della memoria. Esperienza, cultura, conflitti, Carocci, Roma p. 65 3.1.3. La comunità dell’operosità. 3.1.3.1. Il contesto storico economico politico: La neoborghesia dei flussi «Questa borghesia dei flussi rappresenta …, a mio avviso, un tassello molto importante della nuova composizione sociale, proprio perché portatrice di un potenziale “connettivo” e di visione (tra flussi e luoghi) di cui il paese ha forte necessità. La crisi, da questo punto di vista, ha avuto un effetto positivo nella misura in cui il pezzo di classe dirigente più cosmopolita di cui disponiamo abbia compreso che non solo non basta il mercato, ma non bastano nemmeno il mercato più le regole a ottenere “per risulta” anche la solidarietà sociale.» (Bonomi 2010, 179-180) 18 3.1.3.2. Soggetti per una operosità in relazione. «Mercato, regole e solidarietà possono inoltre diventare campo di azione comune nella misura in cui vengano assunti diffusamente anche da altri segmenti di quella composizione sociale nata dentro il passaggio di paradigma. Uno di questi è il terziario avanzato metropolitano, che abbiamo visto svolgere quella funzione di commutazione di linguaggi globale-locale che oggi connota una specifica funzione metropolitana. Un universo in divenire in cui, al momento, non è per nulla definito se prevarranno logiche relazionali, corporative e di intermediazione politica, piuttosto che logiche selettive per merito e competenze, ovvero pratiche di azione collettiva che si snodino da un comune riconoscimento di interessi e bisogni. […] Un altro pezzo importante di questa composizione sociale sono i migranti, spesso sottoproletariato etnico dei flussi, venuti nel nostro paese per cogliere opportunità di mercato in un quadro di regole mutevoli e notevoli, dentro un contesto nel quale essi sono soggetti di cura, ma non soggetti di diritti. Un terzo segmento di soggetti emersi nella transizione è rappresentato dal cuore del sistema manifatturiero nostrano: le medie imprese leader del “Made in Italy”. Questa genia di imprenditori si è sviluppata nei territori del capitalismo molecolare, là dove essa si è consolidata contribuendo a produrre e mettendo a valore il bene della coesione sociale. Si tratta quindi di soggetti che possono quantomeno contare su una memoria familiare che ricorda loro le origini comunitarie dell’impresa, nonché l’esercizio della responsabilità connessa al molo svolto in sede locale. In questo contesto il passaggio critico è spesso rappresentato dalla successione imprenditoriale, in cui le generazioni entranti hanno il compito di “ricordare il futuro” (cioè che l’impresa è un progetto di vita) e, al contempo, di posizionare l’impresa all’interno dei circuiti globali, due tendenze che non vanno automaticamente a braccetto.» (Bonomi 2010, 180-181) 3.1.4. le alleanze possibili tra le comunità a impedirne una deriva improntata alla chiusura e allo scontro (rinserramento e risentimento). 3.1.4.1. Alleanze dello scontro, alleanze delle relazioni tra le comunità (tra le dimensioni comunitarie individuali e sociali): «Nei processi di ristrutturazione del rapporto tra potere politico, economia e società, che abbiamo tratteggiato, le figure sociali cui alludo con la suggestione delle tre comunità si sono posizionate secondo uno schema che vede, oggi nel nostro paese, l’egemonia della strana alleanza rancore e operosità, in una prospettiva che combina protoliberismo e comunitarismo in materia sociale, e neocolbertismo in politica economica. A questa egemonia credo occorra replicare attraverso un proposta contro-egemonica, ancora però tutta da costruire basata su forme di “comunitarismo maturo e libertario”, che può vedere operare, su scala locale e territoriale, un’alleanza tra comunità di cura e comunità operosa. Credo, infatti, che tra i compiti della politica vi sia l’esigenza di non cadere in una contrapposizione frontale tra ideologia della cura e ideologia del rancore, che per alcuni aspetti sta divenendo anche contrapposizione territoriale, tra grandi poli urbani e territori produttivi diffusi e decentrati, ma non certo periferici. Anche perché l’egemonia, a maggior ragione nella crisi, è della seconda. È un’egemonia dell’individualismo proprietario che mina con determinazione tutti i patti sociali ereditati dal Novecento, tranne quelli di prossimità di sangue e suolo, che rischia di contribuire a radicalizzare un pensiero della cura che si sente sempre più socialmente esautorato. Un pensiero che rischia, tra l’altro, di scivolare nelle braccia degli imprenditori (anti)politici della legalità demiurgica, unici depositari dei buoni valori, appunto, della società civile. E certo non lo aiuta l’idea di libertà affermatasi in questi anni, per cui si è liberi quanto meno si dipende dagli altri e quanto più ci si emancipa dai legami. Quel tipo di libertà che lo psicoanalista argentino Benasayag definisce “libertà dell’isolamento”, ricordandoci che già Aristotele sosteneva che uomo libero è colui che ha molti legami e obblighi verso gli altri. Costruire società significa oggi attrezzarla di un tessuto intermedio di attori capaci o intenzionati sia a interconnettere flussi e luoghi, sia a instaurare più alta coesione sociale e più qualificati livelli di convivenza. È per questa via che potrà prendere compiutezza anche lo stesso concetto di comunità. Posto che questa non allude da tempo ai circuiti di corto raggio nei quali prima aveva senso (il quartiere, il vicinato, la parrocchia...), la comunità diventa inevitabilmente una entità “artificiale”, da costruire. E qui si situa necessariamente lo spazio di una politica che abbia al centro la nozione di comunità. La 19 politica dovrebbe dunque perseguire strategicamente lo sviluppo di coalizioni tra “comunità di cura” e “comunità operosa”, non già per attaccare frontalmente le comunità del rancore, ma per rimuovere progressivamente l’humus di cui questa si nutre.» (Bonomi 2010, 62) 3.1.4.2. Le potenzialità dei soggetti sociali nel mutamento del sistema economico (mutamento di paradigma) fattosi ora globale e caratterizzato anche da contaminazione di crisi. «Il cambio di paradigma ha generato una popolazione di soggetti sociali che ha nel legame con la dimensione dei flussi il proprio carattere specifico. Questi soggetti faticano, al momento, a esprimere capacità di leadership al di là dei confini del proprio specifico settore (professionale, produttivo ecc.). E quando lo fanno, sono rari i casi in cui essi non percorrano sentieri già tracciati, siano essi quelli del capitalismo di relazione, o quelli radicalmente mercatisti. Entrambi questi sentieri hanno fallito nell’interpretare la leadership proprio perché hanno escluso, o sottovalutato, la dimensione della cura, della responsabilità che compete al ruolo, sulla quale si è sempre costruita l’autorevolezza della classe dirigente. Cosa unisce il destino della comunità della cura e quello della neoborghesia di territorio oggi presa al collo dal manicheismo locale-buono globale-cattivo? Le unisce l’attitudine a pensare la propria identità in termini di relazione connessa alla loro attività, nel primo caso per passione, nel secondo per interesse. Ma le unisce anche un deficit di autorappresentazione che le pone facilmente nella posizione del capro espiatorio. […] Sarebbe forse il caso che i primi, la comunità di cura, assumessero maggiormente la logica degli interessi che la portano a oscillare tra liberismo comunitario e comunitarismo libertario. E che i secondi, la neoborghesia di territorio, assumessero quella della passione applicata alla leadership, appannata dal loro essere attori di scambio e relazione nel ghetto inattuale delle economie delle nazioni o teorici del mercato dei flussi e delle regole, bollati come mercatisti. Per intenderci, il “partito” della cura dovrebbe, a mio parere, assumere la sfida di estendere la propria attitudine alla relazione con quei pochi soggetti economici (imprese, banche, associazioni di rappresentanza delle imprese ecc.) che riconoscono nel legame sociale un elemento non accessorio della competitività, per estendere la capacità di conflitto nei confronti di quei tanti che non riconoscono il valore di legame, spogliandosi da qualche pregiudizio di troppo sulla natura prettamente egoistica della loro azione e rivalutando il potenziale inclusivo di un soggetto come l’impresa.» (Bonomi 2010, 183) Il gioco è nelle mani dell’operosità: del progettare e dell’agire. Si tratta di vedere se l’operosità si debba consegnare al rancore (ipotesi uno) alimentarlo e alimentarsene, consegnandosi a un rinserramento di esclusione e di caccia al diverso, fino a cacciarlo definitivamente, autodistruggendosi, «Esposta al rischio di farsi comunità maledetta» (Bonomi 2010, 184); o consegnarsi alla cura (ipotesi due), sostenendola non in termini di volontariato caritativo (progetto morale debole nella sua tenuta affidata a un continuo dover essere e a una dipendenza da lasciti più o meno generosi, più o meni dis/interessati o ipocriti), ma in termini di progettazione produttiva delle risorse materiali, umane; un progettare che pensa il territorio in quanto luogo di flussi e dell’abitare, e lo abita come un compito non come un diritto di possesso indiscriminato; lo abita come sede che ha un suo (in se stessa, come soggetto naturale, quindi un suo insopprimibile) diritto al futuro e non può venire consegnato a una distruzione risultato di un uso senza criteri e senza regole. […] Cura, operosità e rancore sono quindi tre categorie del sentire applicate alla categoria sociologica della moltitudine, nel tentativo di offrire qualche suggestione e contributo utile a dipanare una matassa sociale resa apparentemente indistinta dalla centrifuga della modernità. […] Mutano e si dissolvono appartenenze di classe e di ceto, un tessuto consolidato e forme della composizione sociale dei lavori e delle professioni che ho cercato di ricollocare, partendo dai loro comportamenti collettivi, ai tre percorsi carsici del rancore, della cura, dell’operosità. In tutto questo discorso emerge la vera comunità assente: la comunità politica. Ed è proprio questa mancanza di comunità politica adeguata ai tempi a far pendere l’inerzia dell’operosità verso il polo del rancore. Esposta al rischio di farsi comunità maledetta. Affido quindi queste pagine alla comunità politica che verrà, sempre che verrà.» (Bonomi 2010, 184) 20 3.2. Autorità sociale e potere politico: un problema di legittimazione. Dicotomie e compenetrazioni. Il riferimento è allo studio di Pombeni Paolo 2010 La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa contemporanea, il Mulino Bologna. «…il problema della legittimazione come saldatura fra la dimensione di autorità che deriva dalla sfera sociale (dove, in definitiva, si verificano le esperienze che trasformano le individualità nell’adesione a una autorità che conferisce senso e significato a quanto si va a fare) e la dimensione del potere che deriva dalla sfera politica (dove si regolano le convivenze di questi sensi e significati attraverso momenti unificanti che consentono di creare reciproche «obbligazioni politiche» e «solidarietà» istituzionali).» (Pombeni 2010, 555-556) 3.2.1. Postulato reggente (antico, moderno e contemporaneo… pur con molti allontanamenti): «l’autorità ha sede nel sociale» 3.2.1.1. il concetto di autorità (con forti analogie con le tesi espressa da James Hillman; valga dunque la distinzione tra autorità e potere: distinzione come significato, distinzione come sede; distinzione che pone il problema della loro relazione [dicotomie e compenetrazioni]) Per autorità, auctoritas (augere), si intende «un qualcosa che conferisce un livello più alto e più universale (mi permetterei di dire un qualcosa che carica di significato) a una esperienza di relazioni, regolandola nel momento stesso in cui le conferisce un senso. [e comprende quindi, in senso ampio, anche] … forme di conferimento di significato, come per esempio l’arte e la scienza» (Pombeni 2010, 546). «…il problema non è il «dominio», ma la «autorità», che implica una accettazione del rapporto di obbedienza come momento di crescita per chi vi si sottopone, anziché del rapporto di subordinazione che è una mera questione di forza.» (Pombeni 2010, 642-643) 3.2.1.2. l’autorità ha sede nel sociale. Così intesa l’autorità, «Allora non è accettabile la ricorrente, implicita, disinvolta, sbrigativa…riduzione dell’autorità all’ambito del politico; anzi l’autorità del politico, meglio, il potere, sorge e si legittima in quanto fa riferimento (in modalità definite e definibili storicamente, culturalmente e giuridicamente, cioè “nella categoria della legittimità”) alla più vasta sfera dell’autorità collocata nella “società civile”. Non ha senso « … la riduzione del potere/autorità a un solo centro, almeno per la sfera del pubblico (ma avrebbe al tempo stesso limitato anche il «privato» all’«interiore»). Questa riduzione era semplicemente impossibile nelle società complesse dove l’autorità è un sistema diffuso, e dunque se ne deve parlare sempre al plurale, con l’ovvia conseguenza che il potere politico fatica a trasformarsi in autorità, se non, riuscendo a inserirsi in un sistema di relazioni fra autorità diverse che si prestano reciproco riconoscimento e che più o meno accettano di interagire in via pacifica o almeno di conflitto regolato, e se non trasformando la sua origine formale (vera o presunta che sia) in un fatto significativo per rapporto alla sfera dell’autorità.» (Pombeni 2010, 551) 3.2.1.3. il potere conferito allo stato e il concetto di potere legittimo, le condizioni di legittimità. «In sostanza dunque nelle società contemporanee il rapporto tra autorità sociale e potere politico, che io vedo racchiuso nella categoria della legittimità, è l’ineludibile chiave di volta per la lettura delle «costituzioni» moderne. Il sistema delle relazioni politiche è regolato dalla loro capacità di porre in rapporto e di coordinare le varie autorità che sono presenti nello spazio che esso copre, mantenendo però un’istanza che chiamerò di «decisione penultima», che è conferita a quel centro che per convenzione chiamiamo lo «stato moderno». Ovviamente parlo, un po’ disinvoltamente, di «decisione penultima», poiché la decisione ultima non può che appartenere per postulato alla persona, che è il solo soggetto veramente originario della communitas politica.» (Pombeni 2010, 553-554) 3.2.1.4. dicotomie e compenetrazioni tra sociale e politico (tra autorità sociale e potere politico) in tre tipologie politiche storiche e ideali (idealtipi) «Mi pare che si possano individuare tre idealtipi di rapporto tra potere politico e autorità sociale: a) l’idealtipo del sistema dei notabili (forte nelle società ottocentesche, ma non limitato a loro); b) l’idealtipo che definirei «ecclesiale», che presento non tanto come trasposizione a livello politicosociale delle fedeltà istituzionali legate a sistemi religiosi, quanto come l’organizzazione 21 dell’autorità politica legata a una istituzione per la salvezza; c) l’idealtipo burocratico-distributivo dove il potere discende dalla capacità di creare equilibrio (o riequilibrio) nella sfera sociale con la distribuzione delle risorse prodotte dalla sfera politica.» (Pombeni 2010, 556) [a] «Nel sistema dei notabili … si crea una domanda di corsie preferenziali per essere presi in considerazione, con l’intervento di un «mediatore» che le attivi.» (Pombeni 2010, 556-557) [b] «…basterebbe rileggere con attenzione Max Weber per capire che il modello ecclesiale dell’autorità è una componente strutturale delle società umane. […] È la «comunità di destini» che si tramuta in «comunità di salvezza», quella che presiede alle ragioni di aggregazione e ciò tanto nel senso che chi si inserisce in questa comunità marcia verso il regno futuro, quanto nel senso che chi partecipa a quella comunità è già ipso facto inserito in una sorta di prova generale di quello che sarà il mondo futuro, al punto che il suo destino personale riceve comunque un significato, anzi, in alcune declinazioni addirittura un «riscatto», anche se egli non giungerà personalmente a entrare in quella «terra promessa». […] Ogni sistema politico tende infatti a presentarsi come un comunità di destini e quindi come una comunità di salvezza non fosse altro nel senso minimo che ritiene di essere l’unica alternativa valida al disordine politico e dell’anarchia sociale, l’incubo che sta sempre dietro la porta di ogni convivenza civile. Così ogni comunità politica deve convincere i propri membri che essa è già, in nuce e magari contro tutte le evidenze dell’esperienza, un sistema di ordine che ha potenzialmente espunto ogni forma di ingiustizia e garantito le condizioni per la coesione sociale. Agendo in questo modo essa deve fondare la sua autorità e il suo potere sulla gestione della fase di transizione, o di passaggio, fra i disordini più o meno ampi che ancora esistono e l’ordine perfetto che dovrebbe instaurarsi nel momento finale. […] Privando infatti la sfera del pubblico della dimensione «religiosa» (cioè escludendo che il perseguimento del fine di un buon funzionamento del sistema avesse un riflesso sostanziale sulla «salvezza» dei singoli o dei gruppi) la gestione dell’obbligazione politica diventa assai più difficile. Il soggetto tende infatti a dare o una prestazione minima, rapportandosi solo alla possibilità di sanzione che il sistema può avere nei suoi confronti, o una prestazione rispondente a quello che la sua religione personale gli suggerisce come contenuto della funzione che è chiamato a espletare (e in epoca di forti compresenze di religioni diverse nelle loro radici culturali e storiche il problema diviene assai complesso).» (Pombeni 2010, 559-561) (Decisivo poi il ruolo della sacralità della patria, nell’ostensione dei suoi simboli in riti, nella retorica dei sermoni, insomma il ruolo della religione civile patriottica nei periodi di unificazione di risorgimento, nei regimi totalitari nella guerra contro il nemico reale o artefatto). [c] «… idealtipo burocratico-distributivo … Occorre che lo stato passi dalla fase di esattore della ricchezza civile per finanziare alcune sue limitate attività alla fase di creatore di flussi di ricchezza in dipendenza del governo dei trasferimenti di surplus legati all’attività economica o alla dinamica dei servizi, perché si possa parlare di un potere a base burocratico-distributiva… […] Il meccanismo di innesco della dinamica distributiva può essere di vari tipi e rimanda a differenti soggetti. Cercando raggruppare queste dinamiche, diremmo che si possono avere [1] una dinamica politica, [2] una dinamica legata alla funzionalità sociale e [3] una dinamica sindacale.» (Pombeni 2010, 563, 566) 3.2.1.5. il senso (la forza e il fine) della politica sta nella saldatura tra autorità che deriva dalla sfera sociale e la dimensione del potere che deriva dalla sfera politica. «Come si è visto la dinamica della relazione fra autorità sociale e potere politico è continua e mette in gioco un problema fondamentale nella organizzazione dello spazio pubblico nelle società contemporanee. Contro tutte le teorie che vorrebbero ridurre la relazione politica a una convergenza sulla condivisione di certe «regole del gioco», fosse pure il gioco democratico-costituzionale, il potere politico per esercitare il «comando» ha bisogno di appoggiarsi su una forma di «autorità» che non è in grado di darsi da sé, almeno non come autorità legittima, e che pertanto deve desumere, per quanto eventualmente in forma mediata, dalla struttura sociale su cui si appoggia. Naturalmente qui stiamo parlando di comando in senso proprio, non di atti amministrativi o di ordinaria gestione (che peraltro sono in definitiva meno di quelli che pensiamo).» (Pombeni 2010, 570) 22 Si può dunque pensare che chi vince o chi ha il potere in politica secondo le regole del gioco e in senso istituzionale giuridico burocratico, non abbia tuttavia autorità, autorevolezza, con riferimento alla società civile, non possa cioè poggiarsi su forma di autorità e di valori che trovino riscontro nel sociale in termini tali da dare legittimità al potere politico. In questo riferimento del potere politico alla autorità che ha sede nel sociale sta il senso perenne, proprio perché fondativo, originario (perciò mai superato o mai assente) del contratto sociale; un contratto che in quanto sociale e solo in quanto sociale fonda e legittima il potere politico, ne definisce la ragion d’essere e i compiti. Dunque dicotomia e convergenza o compenetrazione tra società e istituzioni affinché la politica possa essere considerata e giudicata come «una faccenda legata alla capacità di produrre senso per le singole vite individuali e per la loro integrazione in una comunità di destini. Difficile immaginare che ciò possa avvenire mantenendo autorità sociale e potere politico su due piani paralleli che non si incontrano mai.» (Pombeni 2010, 571) 3.2.1.6. compenetrazioni tra sociale e politico di carattere pragmatico e fortemente operative: istituzione di processi partecipativi deliberativi nell’ottica di costruzione di una “democrazia partecipativa deliberativa. Il modello può far riferimento alla legge francese del 2004 relativa al “débat public” che impone un coinvolgimento in forma di dibattito pubblico intorno a progetti di intervento territoriale di forte impatto ambientale e finanziario (e fa riferimento ad esperienze di fatto attuate anche nella realtà italiana a livello di amministrazioni locali). Si tratta di riunioni nella forma di “open space” e che si avvalgono del coordinamento di esperti nel campo delle dinamiche di gruppo e di competenti tecnici dei settori in questione. Sono a tema specifico, particolare e mirato; coinvolgono tutti coloro che si ritengono interessati e non sono riservati a gruppi di carattere professionale, corporativo o a istituzioni; la partecipazione fa emergere il conflitto ma la gestione del confronto e la prassi dell’ascolto tende a trasformare il conflitto in risorsa; determina la più ampia convergenza intorno ai risultati per il processo di condivisione produttiva che li genera; la società complessa è quella che maggiormente richiede una simile forma di coinvolgimento e ne valorizza la produttività in quanto proprio la complessità fornisce punti di vista plurimi che permettono una deliberazione partecipata in grado di migliorare le proposte; prende forma con concretezza il tema della natura comune di beni per lo più ambientali e nella loro protezione e salvaguardia si costituisce una democrazia partecipativa in termini di etica civile. 3.3. Osservazione sulla natura e le prospettive dei movimenti sociali in rete “nella speranza di identificare i nuovi modelli di trasformazione sociale della nostra epoca”. Il concetto che regge può così essere individuato: la democrazia è un cammino di potenziale trasferimento del potere nel sociale; i modi di questa traslazione e i rischi di questa traslazione per la stessa democrazia (le derive e le confusioni “populiste”, sede di recenti incontri tragici di masse e totalitarismo) all’interno di una irrisolta dialettica politica: quella antica dominante/dominato, quella contemporanea rappresentante/rappresentato. Emerge qui il tema della relazione tra popolo e democrazia con l’ipotesi di una doppia deriva (fino alla negazione) della relazione: una democrazia senza popolo, un popolo senza democrazia. Il riferimento è allo studio di Castells Manuel 2012 Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, EGEA, Università Bocconi editore, Milano. «Lungo il corso della storia, i movimenti sociali sono stati, e continuano a essere, le leve portanti di trasformazioni sociali in senso ampio. Generalmente tali movimenti emergono da una crisi delle condizioni generali che rende la vita quotidiana insopportabile per la maggior parte delle persone e sono dovuti alla profonda sfiducia nelle istituzioni politiche che governano la società. La combinazione tra il degrado delle condizioni materiali di vita e la crisi di legittimità dei governanti nella gestione della res publica induce la gente a prendere in mano la situazione, impegnandosi in azioni collettive al di fuori dei canali istituzionali convenzionali a difesa delle proprie richieste, ed eventualmente per cambiare sia i governanti sia le norme che condizionano la loro vita. Si tratta tuttavia di un comportamento rischioso, poiché il mantenimento dell’ordine sociale e la stabilità 23 delle istituzioni politiche esprimono relazioni di potere che vengono imposte, se necessario, tramite l’intimidazione e, come ultima risorsa, il ricorso alla violenza.» (Castells 2012, 181) 3.3.1. Fatti recenti: dal 2010. «Come molti altri in ogni parte del mondo, ero rimasto prima colpito e poi trascinato dalle rivolte scoppiate in Tunisia nel dicembre 2010, subito diffusesi in modo virale nell’intero mondo arabo. Negli anni precedenti avevo seguito l’emergere dei movimenti sociali alimentati dall’uso di Internet e delle reti di comunicazione wireless, a Madrid nel 2004, in Iran e in Islanda nel 2009, e in diversi altri paesi. Per gran parte dell’ultimo decennio mi ero dedicato allo studio della trasformazione delle relazioni di potere nell’interazione con la trasformazione delle modalità di comunicazione, e avevo ravvisato la nascita di un nuovo modello alla base di quei movimenti sociali, forse le nuove forme del cambiamento sociale nel XXI secolo. Un fenomeno che echeggiava la mia esperienza personale all’interno del movimento del maggio 1968 a Parigi. Provai la medesima sensazione euforica di allora: all’improvviso tutto sembrava possibile; il mondo non era necessariamente condannato al cinismo politico e all’imposizione burocratica di una vita assurda. I sintomi di una nuova era rivoluzionaria, un’epoca di rivolte tese a esplorare il senso della vita anziché a colpire lo stato, andavano materializzandosi un po’ ovunque, dall’Islanda alla Tunisia, da WikiLeaks ad Anonymous, e poco dopo da Atene a Madrid a New York. La crisi del capitalismo economico globale non portava obbligatoriamente a un vicolo cieco — poteva perfino indicare un nuovo inizio basato su modelli inattesi.» (Castells 2012, IX-X) «Che cosa hanno in comune Tunisia e Islanda? Assolutamente nulla. Eppure, le sollevazioni che hanno trasformato le istituzioni della politica in entrambi i paesi nel 2009-2011 sono diventate il punto di riferimento per i movimenti sociali che hanno scosso l’ordine costituito nel mondo arabo e sfidato i governi in Europa e negli Stati Uniti. Nella prima manifestazione di massa in Piazza Tahrir, al Cairo, il 25 gennaio 2011, migliaia di dimostranti scandirono: «La Tunisia è la soluzione», modificando non a caso lo slogan «L’Islam è la soluzione», che aveva dominato le mobilitazioni sociali in tutto il mondo arabo negli ultimi anni. I manifestanti si riferivano al rovesciamento della dittatura di Ben Ali (il despota aveva lasciato il paese il 14 gennaio) dopo settimane di proteste popolari che avevano sconfitto la repressione sanguinosa del regime. Quando, nel maggio 2011, gli indignados spagnoli cominciarono ad accamparsi nelle principali piazze delle città in tutto il paese, il loro motto fu «L’Islanda è la soluzione». E quando i newyorkesi occuparono gli spazi pubblici intorno a Wall Street il 17 settembre 2011, chiamarono il loro primo accampamento Tahrir Square, così come fecero gli occupanti di Plaza Catalunya a Barcellona. Quale potrebbe essere il filo comune che ha unito nelle menti di tante persone le loro esperienze di rivolta nonostante i contesti culturali, economici e istituzionali profondamente diversi? In poche parole, la loro sensazione di condividere un potere e una responsabilità nuovi.» (Castells 2012, 1) Una tesi più generale, a sottolineare l’incidenza di tali dinamiche sociali: «… essendo le società contraddittorie e conflittuali per natura, ovunque c’è potere c’è anche contropotere, che concepisco come la capacità degli attori sociali di sfidare il potere radicato nelle istituzioni allo scopo di reclamare la rappresentanza dei propri valori e interessi. Tutti i sistemi istituzionali rispecchiano le relazioni di potere, come anche i limiti a tali relazioni così come sono stati negoziati in un infinito processo storico di conflitti e contrattazioni. La configurazione concreta dello stato e delle altre istituzioni che regolano la vita delle persone dipende da questa costante interazione tra potere e contropotere.» (Castells 2012, XVIII- XIX) 3.3.1.1. Sulla stessa linea, in riferimento agli eventi del 2011: «Già nei luoghi originali, nelle grandi manifestazioni della rivolta storica, si produce quella che potremmo definire una delocalizzazione soggettiva del luogo. Ciò che viene affermato nel quadro di un luogo nuovo riafferma sempre il proprio valore trascendente e universalizzante rispetto al luogo stesso. «Piazza Tahrir» è quel luogo cui si presta attenzione da parte di tutta la Terra. Alcuni indignados spagnoli hanno riassunto benissimo questa estensione delocalizzante del luogo: “Noi siamo qui, ma in ogni caso è una questione mondiale, e quindi siamo dappertutto”». (Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano Salani Editore Milano 2012, 99) 24 3.3.1.2. Ancora sulla stessa linea le tesi di Joseph E. Stiglitz: «Vi sono momenti, nella storia, in cui sembra che tutti i cittadini del mondo insorgano per dire che c’è qualcosa di sbagliato, per chiedere un cambiamento. È accaduto con i tumulti del 1848 e del 1968, quando la sollevazione segnò l’inizio di una nuova èra. E il 2011 potrebbe rivelarsi un altro di tali momenti. Una rivolta giovanile iniziata in Tunisia, un piccolo paese sulla costa del Nord Africa, si è estesa al vicino Egitto e poi ad altri paesi del Medio Oriente. In alcuni casi è sembrato che la scintilla della protesta, almeno temporaneamente, si estinguesse. In altri, piccoli focolai hanno fatto precipitare veri e propri cataclismi all’interno delle rispettive società, abbattendo dittatori di lunga data come Hosnī Mubārak in Egitto e Mu’ammar Gheddafi in Libia. Nel giro di breve tempo i popoli di Spagna e Grecia, Regno Unito e Stati Uniti, come quelli di altri paesi del mondo, hanno avuto anch’essi i loro motivi per scendere nelle strade. Nel 2011 ho accettato con piacere inviti in Egitto, Spagna e Tunisia e ho incontrato manifestanti nel Parque del Buen Retiro di Madrid, nel Zuccotti Park di New York e nella città del Cairo, dove ho parlato con i giovani, uomini e donne, che erano stati in piazza Tahrir. Discutendo con loro, mi rendevo conto che alcune rimostranze specifiche variavano da paese a paese, e in particolare che le rimostranze politiche in Medio Oriente erano assai diverse da quelle dell’Occidente, ma che alcuni temi erano comuni. Condivisa era l’idea che per molti versi il sistema economico e politico avesse fallito e fosse fondamentalmente iniquo. I manifestanti avevano ragione nel sostenere che c’era qualcosa di sbagliato. Il divario tra ciò che i nostri sistemi economici e politici dovrebbero fare — e che ci avevano fatto credere facessero — e ciò che effettivamente fanno è diventato troppo ampio per poterlo ignorare. I governi del mondo non stavano affrontando problemi economici cruciali come la persistente disoccupazione e, mentre i valori universali dell’equità venivano sacrificati all’avidità di pochi, nonostante la retorica del contrario, il senso di ingiustizia si è trasformato nella sensazione di essere stati traditi.» (Stiglitz E. Joseph 2012 Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013, IX-X) Le indicazioni si estendono a molte altre e ricorrenti forme (azioni che, per la loro ricorrenza tendono a diventare un must): flash mob (improvvise mobilitazioni pubbliche nella forma di vere e proprie irruzioni), escrache (“sputtanamento”, piccolo gruppi di cittadini svergognano in piazza deputati che si oppongono a modifiche della legge su sfratti, banche e ipoteche…), baccano a suon di pentole percosse, ritorno politico di vuvuzelas… 3.3.2. I movimenti e la rete (Internet e web). (Internet, acronimo di Inter[national] net[work], network o rete, nato nel 1969, macrocircuito telematico formato da reti di computer interconnessi distribuiti in tutto il mondo; il world wide web [letteralmente rete (web) dell’intero mondo, in sigla www, W3 o web] dal 1989 utilizza Internet per ricerca accesso e trasmissione di dati, documenti, posta elettronica [e-mail]… appunto via Internet; wireless, senza fili, denomina le apparecchiature in grado di comunicare tra loro senza una rete di cavi, ma via satellite, GSM [il sistema digitale di telefonia cellulare senza fili – Global Sistem for Mobile Communication], raggi IR (infrarossi) o onde radio; wi-fi, abbreviazione di Wireless Fidelity è famiglia di standard per le telecomunicazioni senza fili, il wi-fi permette l’accesso a reti locali o a Internet). «Mettersi in rete, creare significato, contestare il potere. Nessuno se l’aspettava. In un mondo offuscato dalla crisi economica, dal cinismo politico, dal vuoto culturale e dallo sconforto individuale, qualcosa stava prendendo corpo. All’improvviso i dittatori potevano essere spodestati con le nude mani del popolo, anche se queste mani erano insanguinate dal sacrificio dei caduti. I maghi della finanza passavano da oggetto dell’invidia generale a bersaglio del disprezzo universale. I politici venivano smascherati come corrotti e bugiardi. I governi messi sotto accusa. I media sospettati. Scomparsa ogni fiducia. E la fiducia è quel che tiene insieme la società, il mercato, le istituzioni. Senza fiducia, tutto si ferma. Senza fiducia, il contratto sociale cessa di esistere e il popolo sparisce, trasformandosi in singoli individui sulla difensiva in lotta per la sopravvivenza. Eppure, ai margini di un mondo giunto ai limiti della capacità di una vita collettiva per gli esseri umani e della condivisione di tale vita con la natura, alcuni individui si erano ritrovati ancora una volta insieme alla ricerca di nuove forme per tornare a essere noi, il popolo. All’inizio erano appena 25 un pugno, poi furono raggiunti da altre centinaia, e poi da migliaia di persone in rete, poi ancora sostenuti da milioni di individui con le loro voci e con la spinta interiore verso la speranza, per quanto confusa essa fosse, superando ideologie e clamore per congiungersi con le preoccupazioni reali di persone reali in quell’esperienza umana reale che veniva reclamata a gran voce.» (Castells 2012, XV) «Questi movimenti si sono diffusi per contagio in un mondo collegato in rete, centrato su Internet senza fili, e contrassegnato dalla diffusione rapida, virale di immagini e idee. Sono scoppiati a sud e a nord, in Tunisia e in Islanda, e da qui la scintilla ha acceso fuochi in una varietà di scenari sociali devastati dall’avidità e dalla manipolazione in tutti gli angoli del pianeta. Non era solo la povertà o la crisi economica, oppure l’assenza di democrazia, a provocare questa ribellione multiforme. Ovviamente tutti questi profondi segni di una società ingiusta e di una politica antidemocratica erano ben presenti nelle proteste. Ma è stata soprattutto l’umiliazione provocata dal cinismo e dall’arroganza di chi era al potere, che fosse finanziario, politico o culturale, ad aver messo insieme quanti volevano trasformare la paura in indignazione, e l’indignazione in speranza per un’umanità migliore. Un’umanità che andava ricostruita da zero, rifuggendo dalle molteplici trappole ideologiche e istituzionali che più e più volte avevano portato a vicoli senza uscita, aprendo piuttosto nuovi sentieri condivisi. La scintilla è stata la ricerca della dignità nel bel mezzo della sofferenza per l’umiliazione — temi ricorrenti nella gran parte dei movimenti. […] Negli Stati Uniti, il movimento Occupy Wall Street, spontaneo al pari di tutti gli altri e al pari di tutti gli altri collegato nel cyberspazio e nello spazio urbano, è assurto a evento dell’anno e si è imposto in gran parte del paese, al punto che la rivista Time ha nominato «il manifestante» come persona dell’anno. E il motto del 99 per cento, il cui benessere è stato sacrificato a favore di quell’1 per cento della popolazione che controlla il 23 per cento della ricchezza dell’intero paese, è divenuto uno dei temi dominanti della vita politica americana. Il 15 ottobre 2011, il network mondiale dei movimenti Occupy, riuniti sotto lo slogan «Uniti per il cambiamento globale», ha mobilitato centinaia di migliaia di persone in 951 città di 82 paesi, reclamando giustizia sociale e democrazia reale. In tutti questi casi, i movimenti hanno ignorato i partiti politici, non si sono fidati dei media, non hanno riconosciuto alcuna leadership e hanno rifiutato ogni organizzazione formale, affidandosi a Internet e alle assemblee locali per le discussioni collettive e per il processo decisionale.» (Castells 2012, XVI-XVII) « L’autonomia della comunicazione è l’essenza dei movimenti sociali perché è quel che consente loro di prendere forma e di relazionarsi alla società al di là del controllo esercitato sulla comunicazione da chi detiene il potere.» (Castells 2012,XXV) 3.3.3. I movimenti sociali in rete: un modello emergente? I tratti comuni in un’area diffusa. «… una serie di caratteristiche comuni. [1] Operano in rete sotto una molteplicità di forme. L’uso di Internet e delle reti di comunicazione mobile è essenziale, ma questo formato è multimodale. … Pur se in genere i movimenti sono radicati nello spazio urbano tramite occupazioni e manifestazioni di piazza, la loro continua esistenza si manifesta nello spazio libero di Internet. Essendo una rete di reti, possono permettersi di non avere un centro identificabile e assicurare al contempo le funzioni di coordinamento e il processo deliberativo grazie all’interazione fra una molteplicità di nodi. Ecco perché non necessitano di una leadership formale, di un centro di comando o di controllo, né di un’organizzazione verticale per distribuire informazioni o istruzioni. Questa struttura decentrata massimizza la possibilità di partecipazione, trattandosi di reti aperte senza confini definiti, in continua riconfigurazione a seconda del livello di coinvolgimento della popolazione. Ciò riduce inoltre la vulnerabilità del movimento rispetto a possibili repressioni, poiché sono ben pochi i bersagli specifici da colpire, con l’eccezione dei luoghi fisici occupati, e la rete può ricompattarsi in ogni momento, fintanto che c’è un numero sufficiente di partecipanti, liberamente uniti da obiettivi comuni e valori condivisi. [2] Pur se nati inizialmente sui social network di Internet, questi movimenti diventano tali occupando gli spazi urbani … dall’interazione tra lo spazio dei flussi via Internet e reti di comunicazione wireless, e lo spazio dei luoghi occupati e degli edifici simbolici che sono bersaglio delle azioni di protesta un terzo spazio che definisco lo spazio dell’autonomia. Nel senso che l’autonomia può essere garantita soltanto dalla capacità di organizzarsi nello spazio libero delle reti di comunicazione, ma al contempo può essere esercitata come forza trasformatrice 26 solo sfidando l’ordine istituzionale disciplinato reclamando lo spazio urbano per i cittadini. Lo spazio dell’autonomia è la nuova forma spaziale dei movimenti sociali in rete. [3] I movimenti sono al contempo locali e globali. [4] Come molti altri movimenti sociali nella storia, hanno generato una propria forma temporale: un tempo tenza tempo, una forma temporale trans-storica… [5] Riguardo alla loro genesi, questi movimenti rivelano origini in gran parte spontanee e generalmente dovute a una scintilla di indignazione… [6] I movimenti sono virali, seguendo la logica delle reti su Internet. [7] La transizione dall’indignazione alla speranza viene raggiunta tramite la deliberazione nello spazio dell’autonomia. Normalmente il processo decisionale avviene nelle assemblee e nei comitati da queste designati. Si tratta anzi per lo più di movimenti senza leader. Non certo per la mancanza di possibili leader, bensì per via della profonda, spontanea sfiducia della maggioranza dei partecipanti verso ogni forma di delega del potere. [8] Le reti orizzontali e multimodali, sia su Internet sia negli spazi urbani, creano unità… [9] L’orizzontalità delle reti dà sostegno alla cooperazione e alla solidarietà, rendendo inutile il bisogno di leadership formali. Pertanto, quel che appare una forma inefficace per il processo deliberativo e decisionale, è di fatto il pilastro necessario per generare fiducia, senza la quale è impossibile intraprendere alcuna attività comune nel contesto di una cultura politica caratterizzata dalla competizione e dal cinismo. [10] Questi movimenti praticano al meglio l’autoriflessione. [11] Come principio abbracciano la non-violenza… [12] Raramente si tratta di movimenti programmatici, eccetto quando si concentrano su un’unica questione specifica: basta con la dittatura. [13] Si tratta dunque di movimenti sociali mirati a trasformare i valori della società, ma possono anche diventare movimenti di pubblica opinione con risultati a livello elettorale. [14] Tuttavia, hanno un carattere decisamente politico in senso stretto, in particolare quando propongono e praticano la democrazia diretta e deliberativa basata sulla democrazia in rete.» (Castells 2012, 184-190) [ e cfr. Ceri Paolo (a cura di) 2033 La democrazia dei movimenti. Come decidono i noglobal, Rubettino, Soveria Mannelli (Catanzaro)] 3.3.4. Incidenza del mezzo sulla natura del movimento (o dove, spesso, il “medium è il messaggio” come negli annunci pubblicitari per i nuovi media informatizzati [o come il principe interpreta il messaggio della principessa nella pubblicità “Regina”]). La (presunta) assoluta libertà del mezzo di comunicazione contribuisce alla libertà dell’espressione, alla varietà delle iniziative, al fiorire delle proposte. «Tutto è partito dai social network su Internet, trattandosi di spazi di autonomia ampiamente fuori del controllo di quei governi e corporation che nel corso della storia avevano sempre monopolizzato i canali di comunicazione per affermare il proprio potere. Condividendo problemi e speranze nello spazio pubblico e libero di Internet; attivando connessioni reciproche, elaborando progetti da molteplici fonti diverse, singoli individui hanno dato vita a una varietà di network, prescindendo dalle opinioni personali o dai vincoli con qualsivoglia organizzazione. Si sono ritrovati insieme su un terreno comune. E questo loro ritrovarsi insieme li ha aiutati a superare la paura, quest’emozione paralizzante su cui fanno affidamento i poteri costituiti per prosperare e riprodursi, promuovendo intimidazione o sconforto, e quando necessario tramite la violenza pura, in modo aperto oppure imposta a livello istituzionale. Protette dal cyberspazio, persone di ogni età e condizione sociale sono poi andate a occupare gli spazi urbani, dandosi appuntamenti al buio tra loro e con il destino che si apprestavano a plasmare, mentre reclamavano il diritto a fare la storia — la propria storia — dando corpo a quell’autocoscienza che ha sempre caratterizzato i grandi movimenti sociali.» (Castells 2012, XV-XVI) «La continua trasformazione delle tecnologie di comunicazione nell’era digitale estende la portata dei media a tutti gli ambiti della vita sociale in un network che è al contempo globale e locale, generico e personalizzato, secondo uno schema in continuo mutamento. Il processo della costruzione di significato è caratterizzato da una vasta gamma di diversità. Esiste, tuttavia, una caratteristica comune a tutti i processi di costruzione simbolica: questi dipendono ampiamente dai messaggi e dai contesti creati, formattati e diffusi tramite le reti di comunicazione multimediali. Pur se ogni individuo costruisce un suo significato interpretando a modo proprio il materiale così comunicato, questo processo mentale viene condizionato dall’ambiente comunicativo. Pertanto la trasformazione di tale ambiente influisce in 27 modo diretto sulle forme di costruzione del significato, e quindi sulla produzione delle relazioni di potere. In questi ultimi anni il maggior cambiamento nel mondo della comunicazione è stato la nascita di quel che ho definito autocomunicazione di massa — l’uso di Internet e delle reti senza fili come piattaforme di comunicazione digitale. Si tratta di comunicazione di massa perché elabora i messaggi da molti verso molti, con il potenziale di raggiungere una molteplicità di destinatari e di collegarsi a un’infinità di reti che trasmettono informazioni digitalizzate tanto nel quartiere come intorno al mondo. È autocomunicazione perché la produzione del messaggio è decisa in autonomia dal mittente, la designazione del destinatario è autodiretta e il recupero dei messaggi dalle reti di comunicazione è deciso in proprio. L’autocomunicazione di massa si basa su reti orizzontali di comunicazione interattiva che, per la gran parte, sono difficili da controllare da parte delle autorità o delle corporation. Inoltre, la comunicazione digitale è multimodale e consente riferimenti costanti a un ipertesto d’informazione globale i cui componenti possono essere rimescolati dagli attori coinvolti in base a specifici progetti di comunicazione. L’autocomunicazione di massa fornisce la piattaforma tecnologica necessaria alla costruzione dell’autonomia dell’attore sociale, che si tratti di un singolo o di un collettivo, vis-à-vis con le istituzioni della società. Questa la ragione per cui i governi hanno paura di Internet, e perché le corporation vi hanno una relazione di amore-odio e cercano di trarne dei profitti pur limitandone il potenziale per la libertà (per esempio, controllando le reti di file sharing o il mondo open source).» (Castells 2012, XIX-XX) «E dunque, in che modo le reti del potere vanno relazionandosi tra loro pur preservando una propria sfera d’azione? La mia opinione è che ciò avvenga tramite un meccanismo fondamentale di creazione del potere nella società in rete: il passaggio del potere.» (Castells 2012, XXII) «Sono le caratteristiche dei processi di comunicazione usati dagli individui coinvolti nel movimento sociale a determinare le caratteristiche organizzative del movimento sociale stesso: più la comunicazione è interattiva e autoconfigurabile, minore è il livello gerarchico e maggiore la partecipazione. Ecco perché i movimenti sociali in rete dell’era digitale rappresentano un nuovo tipo di movimenti sociali.» (Castells 2012, XXVIII) In conclusione: «Né Internet, né alcun’altra tecnologia, può essere di per sé fonte di contrasto sociale. I movimenti sociali sorgono dalle contraddizioni e dai conflitti di specifiche società, per esprimere la ribellione e la progettualità delle persone derivanti dalla loro esperienza multidimensionale. Al contempo è tuttavia essenziale sottolineare il ruolo primario svolto dalla comunicazione nella formazione e nella pratica dei movimenti sociali, oggi e nel corso della storia. Il punto è che i cittadini possono sfidare i governanti soltanto collegandosi tra loro, condividendo l’indignazione, sentendosi uniti, e costruendo progetti alternativi per se stessi e per la società nel suo insieme. La loro capacità di tenersi in collegamento dipende dalle reti di comunicazione interattiva. E nella nostra società la forma primaria di comunicazione su larga scala e orizzontale è basata su Internet e sulle reti wireless. È inoltre tramite queste reti di comunicazione digitale che i movimenti prosperano e agiscono, pur se certamente in interazione con la comunicazione faccia a faccia e con l’occupazione di spazi urbani. Le reti di comunicazione digitale restano però una componente indispensabile nella pratica e nell’organizzazione di questi movimenti. Nella nostra epoca, i movimenti sociali in rete sono ampiamente centrati su Internet, come elemento necessario pur se non sufficiente della loro azione collettiva. Le reti sociali digitali basate su Internet e sulle piattaforme wireless sono strumenti decisivi per la mobilitazione, l’organizzazione, il coordinamento, il processo deliberativo e decisionale. Eppure il ruolo di Internet va oltre quello puramente strumentale: crea le condizioni per una forma di pratica condivisa che consente a un movimento senza leader di sopravvivere, decidere, coordinarsi ed espandersi. […] Esiste inoltre un legame sostanziale e più profondo tra Internet e i movimenti sociali in rete: condividono una cultura specifica, la cultura dell’autonomia, la matrice culturale fondamentale delle società contemporanee. […] Io sostengo che Internet fornisce la piattaforma di comunicazione organizzativa adatta a tradurre la cultura della libertà nella pratica dell’autonomia. Ciò perché la tecnologia di Internet incarna la cultura della libertà, come dimostrano le fasi storiche del suo sviluppo.» (Castells 2012, 191-192, 193) 28 3.3.4.1. La trasformazione sociologica e antropologica in atto: le sovrapposizioni tra reale e virtuale. «Esiste uno stretto legame tra le reti virtuali e le reti della vita reale. Il mondo reale della nostra epoca è qualcosa di ibrido, non un mondo virtuale o segregato, intenzionato a separare l’interazione online da quella offline (Welman e Rainie 2012). Ed è in questo mondo che i movimenti sociali in i rete sono nati come transizione naturale per molti, così da condividere socialità e indignazione, speranze e difficoltà. Sono state perciò la cultura della libertà, a livello sociale, e la cultura dell’individuazione e dell’autonomia, a livello degli attori sociali, a spingere contemporaneamente le reti su Internet e i movimenti sociali in rete. Esiste infatti un effetto sinergico tra questi due sviluppi.» (Castells 2012, 194) 3.3.5. Sullo sdoppiamento estremo dei movimenti contemporanei: il massimo del virtuale, il massimo del reale; cioè il web e la piazza; il nuovo virtuale della rete internet e il vecchio reale delle piazze, barricate e scontri fisici. «I social network digitali offrono la possibilità, per lo più senza restrizioni, di deliberare e coordinare l’azione. Questa tuttavia è soltanto una delle componenti dei processi di comunicazione tramite cui i movimenti sociali si relazionano alla società nel suo complesso. Occorre anche dar vita a uno spazio pubblico creando comunità libere all’interno delle aree urbane. Poiché lo spazio pubblico istituzionale, lo spazio designato per le deliberazioni a livello costituzionale, è occupato dagli interessi delle élite dominanti e dei loro network, i movimenti sociali devono ritagliarsi un nuovo spazio pubblico che non sia limitato a Internet, ma si renda visibile nei luoghi della vita sociale. Ecco perché si occupano aree urbane ed edifici simbolici. Gli spazi occupati hanno svolto un ruolo cruciale nella storia della trasformazione sociale, come anche nella pratica contemporanea, per le seguenti tre ragioni principali. Creano comunità, e questa si fonda sullo stare insieme, che a sua volta è un meccanismo psicologico primario per superare la paura. … Gli spazi occupati non sono privi di significato: in genere acquisiscono la forza simbolica di invadere gli spazi del potere governativo o delle istituzioni economiche. […] Nella nostra società, lo spazio pubblico dei movimenti sociali viene costruito come uno spazio ibrido tra i social network di Internet e lo spazio urbano occupato: integrare tra loro il cyberspazio e lo spazio urbano in un’interazione continua finisce per costituire, in senso tecnologico e culturale, comunità istantanee di pratica trasformativa.» (Castells 2012, XXIII-XXIV) «Le reti orizzontali e multimodali, sia su Internet sia negli spazi urbani, creano unità — punto chiave per il movimento, perché è tramite la compartecipazione che si supera la paura e si scopre la speranza.» (Castells 2012, 187) 3.3.6. L’inganno plurimo della democrazia diretta o del rifiuto di ogni mediazione e di ogni rappresentatività e, di contro, per una ripresa della politica come professione (agire con competenze in risposta ad una chiamata civile) o del rapporto tra il mal di scarpe e il calzolaio. 3.3.6.1. Occorre richiamare la teorie di Weber sulla politica come professione (La politica come professione); l’espressione oggi spesso usata come denuncia di una politica fine a se stessa e monopolio riservato a pochi per Weber indica invece la politica come compito etico e competenza di carattere scientifico, assunzione di responsabilità e di impegno, quasi missione, nei confronti del sociale e del massimo bene comune. 3.3.6.2. Weber sostiene anche il diritto di tutti, quindi universale e non riservato, alla politica, intesa come sensibilità per il bene comune, con un eloquente esempio: «non occorre certamente essere calzolaio per sapere se la scarpa fatta dal calzolaio fa male al piede.» (Weber Max 1922 Economia e società. Vol. IV Sociologia politica, Edizioni di Comunità, Milano 1981, 550) I movimenti degli indignados e delle femen il loro rapido esplodere, proliferare e organizzarsi nelle sedi più distanti e lontane geograficamente, culturalmente e ideologicamente (Tunisi, Atene, Madrid, New York, Mosca …) attestano ancora oggi la constatazione di Weber. Il prendere consistenza in tempi molto rapidi di movimenti di indignazione e protesta capaci di catalizzare nel giro di due mesi un elettorato che si attesta intorno al 30% (Italia) ne è ulteriore conferma, soprattutto se si pensa ai tempi lunghi dell’emergere dei tradizionali partiti politici, della durata, nella migliore delle ipotesi, di alcuni anni. 29 3.3.6.3. L’indignazione è un sentire politico ma, se è un elemento necessario per agire, non è forse sufficiente per ricoprire ruoli pubblici capaci di andare oltre la protesta. Sentire il mal di scarpe non rende calzolai e senza calzolai è difficile che quella nostra sofferenza possa trovare un rimedio (a meno di camminare scalzi, o sognare un mitico ritorno alla natura, sicuri però di non dover poi sentire il bisogno di podologi, dermatologi, ortopedisti, radiologi, fisioterapisti, venditori di ungenti e di tisane…). È lo stesso Weber a segnalarlo con estrema lucidità; quella frase sul mal di scarpe, messa in contesto, suona diversa: «Certamente, la mancanza della qualificazione tecnica (che nemmeno il monarca possiede) non è di per sé un argomento contro la scelta democratica dei capi: non occorre certamente essere calzolaio per sapere se la scarpa fatta dal calzolaio fa male al piede. Ma nell’elezione popolare dei funzionari specializzati non soltanto il pericolo dell'ottundimento, ma anche quello dell’inganno sulla persona del vero colpevole della cattiva amministrazione è troppo grande, al contrario che nel sistema parlamentare, nel quale l’elettore si sofferma sui capi del partito responsabile dell’assegnazione degli uffici. E per la formazione di tutte le leggi tecnicamente complicate proprio la votazione popolare può troppo facilmente porre il risultato in mano a interessati astuti ma nascosti.» (Weber Max 1922 Economia e società. Vol. IV Sociologia politica, Edizioni di Comunità, Milano 1981, 550-551) Lo stesso Castells delinea le tappe di un percorso che partendo dall’emotività giunge all’azione politica efficace e condivisa: il cammino è reso possibile da un processo di comunicazione e confronto sociale. «A livello individuale, i movimenti sociali sono movimenti emotivi. La ribellione non parte con un programma o una strategia politica. Questi possono comparire più avanti, quando va emergendo una leadership, dall’interno o dall’esterno del movimento, per favorire piattaforme politiche, ideologiche e individuali che possono aderire o meno alle origini e alle motivazioni di quanti fanno parte del movimento. Ma il big bang di un movimento sociale riguarda la trasformazione dell’emozione in azione. Secondo la teoria dell’intelligenza affettiva, le emozioni più rilevanti per la mobilitazione sociale e per la condotta politica sono la paura (affezione negativa) e l’entusiasmo (affezione positiva). Le affezioni positive e negative sono legate a due sistemi motivazionali fondamentali dell’evoluzione umana: l’avvicinamento (o approccio) e l’evitamento. Il primo è legato a un comportamento verso un obiettivo preciso, che spinge l’individuo verso una ricompensa. I singoli trasudano entusiasmo quando devono raggiungere mete che li interessano da vicino. Ecco perché l’entusiasmo è direttamente congiunto con un’altra emozione positiva: la speranza. Quest’ultima proietta il comportamento verso il futuro. Dato che una caratteristica portante della mente umana è la capacità di immaginare il futuro, la speranza è un ingrediente fondamentale per dare sostegno a un’azione mirata a un obiettivo specifico. Tuttavia, per consentire all’entusiasmo di emergere e alla speranza di manifestarsi, le persone devono superare l’emozione negativa risultante dal sistema motivazionale di evitamento: l’ansia. L’ansia è la reazione a una minaccia esterna su cui la persona minacciata non ha alcun controllo. Così l’ansia sfocia nella paura, con un effetto paralizzante sull’azione. Nei comportamenti socio-politici il superamento dell’ansia è spesso dovuto a un’altra emozione negativa: la rabbia. La quale aumenta con la percezione di un’azione ingiusta e con l’identificazione del responsabile di tale azione. Le ricerche neurologiche rivelano che la rabbia è associata a comportanti rischiosi. Una volta che l’individuo abbia superato la paura, sono le emozioni positive a prendere il sopravvento, con l’entusiasmo che spinge all’azione e la speranza che anticipa la ricompensa per l’azione rischiosa. Tuttavia, perché un movimento sociale prenda forma, la spinta emotiva dei singoli deve legarsi a quella di altri individui. Ciò richiede un processo di comunicazione, con due requisiti di base per operare: la consonanza cognitiva tra mittenti e destinatari dei messaggi e un efficace canale di comunicazione. Il processo di comunicazione viene determinato da esperienze simili a quelle che hanno motivato l’impulso emotivo iniziale. In termini pratici, se parecchi individui si sentono umiliati, sfruttati, ignorati o incompresi, essi sono pronti a trasformare la rabbia in azione, non appena superata la paura iniziale.» (Castells 2012, XXVI-XXVIII) E conclude: «In sintesi, le reti del contropotere potranno prevalere su quelle XXIX del potere integrate nel tessuto sociale soltanto se sapranno riprogrammare la politica, l’economia, la cultura o qualsiasi dimensione intendano trasformare, 30 introducendo nei programmi delle istituzioni, come anche nella propria vita, un’altra serie di istruzioni, compresa, in qualche versione utopica, la regola di non avere regole.» (Castells 2012, XXIX-XXX) 3.3.7. Contributo intorno al tema indignazione e competenza… quali ruoli imprescindibili; e analisi dei segni della comparsa del populismo nelle forme dell’antipolitica alimentata dall’indignazione e dall’autopromozione all’onnicompetenza (all’onnipotenza). «Prima è esplosa la rivolta delle masse descritta da Ortega y Gasset; quindi, è stata la volta della ribellione delle élites preconizzata da Christopher Lasch. Mentre, da qualche tempo a questa parte, a soffiare forte è il vento dell’indignazione contro le «caste»; e, visto che una ciliegia tira l’altra, l’antipolitica estende i suoi strali anche a intellettuali, professionisti, giornalisti, e chi più ne ha più ne metta, tutti, in egual misura, accusati di elitismo. Il «potere al popolo» — sino al rigetto del concetto stesso della rappresentanza — non è soltanto un grande ideale, ma anche, assai più prosaicamente, la sedicente fonte di legittimità del populismo, prodotto ritornato alla grande sul mercato della politica nell’ultimo trentennio. Nella nostra Società delle reti, la formula magica del power to the people si incarna nella «disintermediazione». Ma se questa fosse, alla fin fine, nient’altro che un mito (certo, suggestivo)? La cyberdemocrazia (idea recente) e la liberaldemocrazia (regime politico di assai più lunga data) non sono precisamente la stessa cosa, e la seconda prevede, inevitabilmente, che esistano dei gruppi sociali maggiormente specializzati e competenti, in determinati settori, degli altri. Cosa che non significa, naturalmente, che essi siano di per se stessi migliori degli altri, ma, per l’appunto, che non si dovrebbe, semplicisticamente, disconoscere l’importanza delle specializzazioni e dell’acquisizione, fatta con fatica, delle competenze. Ecco, allora, perché il discorso sulla intermediazione rischia di tradursi in una retorica interessata (o in uno psicanalitico «delirio di onnipotenza») per cui tutti possono, indistintamente e «magicamente», fare tutto al meglio (magari rimpiazzando anni di studi e sacrificio con qualche ora di navigazione in Rete...). Analogamente, dietro lo slogan dell’«essere leader di se stesso» (sempre, poi, che non ci si allinei a qualche capo carismatico), potrebbe anche nascondersi la mera esaltazione di un’aurea mediocritas che, in tutta evidenza, non è affatto così d’oro — quando non il «narcisismo di massa» già intuito da Lasch. E, invece, a ben pensarci, proprio di «avanguardie» (come si sarebbe detto nel secolo breve) una società avanzata ha bisogno. Purché, naturalmente, competenti, meritocratiche e aperte, e dunque ben diverse dalle impermeabili oligarchie fondate sul privilegio. E consapevoli del fatto che problemi complessi richiedono soluzioni altrettanto complesse, e non facili scorciatoie.» (Massimiliano Panarari, L’ultimo flagello dell’antipolitica: tutti fanno tutto pur sapendo poco, la Repubblica, il Venerdì 29.03.2013) 3.3.7.1. Per fissare meglio l’obiettivo dell’analisi storica sociale e politica, diventa utile la distinzione tra indignazione e sdegno. « Si è soliti definire questo comportamento come «indignazione», ma forse il termine è improprio perché nella storia l’indignazione ha generato, oltre al ripudio dei comportamenti incivili e dei loro autori, sia mobilitazione collettiva, sia attenzione per le vittime, sia impegno per il cambiamento. Invece in Italia si manifestano più spesso altri sentimenti: disprezzo degli altri e orgoglio di sé, cioè sdegno. L’indignato critica e si mobilita, lo sdegnato disprezza e si rinchiude in sé stesso. L’indignato si rivolge contro chi ha compiuto l’abuso; lo sdegnato gli gira le spalle. I confini sono certamente sottili e i due sentimenti possono convivere. Ma non bisogna confonderli. L’indignazione è un sentimento prevalentemente positivo perché è proiettato verso il cambiamento. Al contrario lo sdegno porta all’insulto, al turpiloquio, a un senso di assoluta superiorità nei confronti degli «altri», considerati incapaci e inferiori. L’indignato è contrario a una determinata politica, favorevole a una politica diversa; egli porta con sé una componente razionale perché riconosce la complessità dei problemi. Invece lo sdegnato si rivolge contro la politica, perché ritiene che i problemi siano semplici ma resi complessi dalla corruzione e dall’incapacità dei politici. Non mancano forze politiche, uomini di cultura, mezzi di comunicazione che, per superficialità, o per collocarsi nello spirito del tempo, fanno adulazione dello sdegno non distinguendolo dall’indignazione. […] Le rancorose rivolte dello sdegno non risolvono la questione; promuovono un azzeramento senza riflessione, un apparente nuovo inizio 31 che separa solo formalmente il vecchio dal nuovo e invece costituisce un varco sotterraneo attraverso il quale le cattive pratiche passano da una fase all’altra della storia del Paese, a volte più inquinate e più inquinanti.» (Violante Luciano 2013 Politica e menzogna, Einaudi, Torino, 153-154, 155) 3.3.7.2. Sullo sfondo un rapporto con lo Stato fuori da ogni legame di sentire civile: «… è “lo Stato”, e tanto basta, ormai, a sollevare un odio indiscriminato. Stato strozzino, Stato assassino, Stato inetto, partiti farabutti, politici schifosi, questo è l‘umore della crisi, travolge ogni analisi, ogni discussione. Si tratta dello stesso Stato al quale, per generazioni, milioni di italiani hanno chiesto assunzioni, favori, esenzioni, protezione, assistenzialismo, e una lasca applicazione delle leggi, perché abusivismo ed evasione sono stati la generosa mancia che uno Stato piacione ha elargito a piene mani per decenni in cambio di voti. Quello Stato blandito come un padrino e questo, coperto di sputi, sono il rovescio della stessa medaglia: una comunità nazionale incapace, se non in cerchie ristrette e vanamente virtuose, di avere con il potere un rapporto adulto. Se siamo un popolo che, allo Stato, o bacia la mano o gliela morde, è perché siamo tragicamente incapaci di guardarci dentro, farci un esame di coscienza, prenderci le nostre responsabilità individuali e collettive. Lo Stato ci faceva comodo prima, come tetta da spremere, ci fa comodo oggi, come tiranno da impiccare.» (Michele Serra, la Repubblica 7.4.2013) 3.3.7.3. Il ruolo della sensibilità dei movimenti sullo sfondo di un paradosso tragicamente ipocrita: il marpionismo di un’antipolitica come strada per la conquista della politica come potere riservato. «Adulti e giovani sono sempre più distanti dalla politica. Per essere più precisi: dalla politica dei politici di professione (perché, in effetti, la politica in senso più ampio — attraverso i movimenti, le associazioni, le organizzazioni non governative, le radio e le televisioni locali, i circoli, i centri sociali, i comitati civici... — non è meno partecipata di cinquanta o di cento anni fa). La disaffezione nei confronti dei luoghi "istituzionali" dell’attività politica (dai consigli comunali, provinciali e regionali al parlamento nazionale) ha molte cause: tra queste, l'interessata propaganda di alcuni ambienti del Paese che, denigrando la politica, raggiungono l’obiettivo di scoraggiare i concittadini dal praticarla per. .. poterla praticare da soli. Indisturbati. Il ventennio a cavallo del XX e del XXI secolo in Italia ha presentato, fra tanti altri, il paradosso di un ceto politico che è arrivato al potere, e vi si è installato fermamente, in nome dell’antipolitica: il paradosso di partiti e partitini che hanno costruito la loro fortuna (non solo politica!) grazie alla feroce polemica antipartitica. Probabilmente si tratta adesso di sostituire l'aut aut (o partiti o altre aggregazioni sociali) con l'et et (sia i partiti, possibilmente risanati della mancanza di democrazia interna, sia altre forme di associazionismo civile) in modo da bilanciare l'attenzione ai temi generali della politica con l'impegno settoriale, ma più concreto, su alcune problematiche specifiche (ambiente, pace, antimafia. . .) e nelle diverse aree geografiche locali.» (Cavadi Augusto, Poma Elisabetta 2011 La bellezza della politica. Attraverso, e oltre, le ideologie del Novecento, ed. Di Girolamo, Trapani, 7) 3.3.8. Movimenti e Istituzioni. Movimenti e strutture organizzate come i partiti (i vecchi partiti). 3.3.8.1. La dichiarata inconciliabilità e le sue ragioni. Visti i tratti che contraddistinguono i movimenti “di indignazione” (richiamati in 3.3.3.) Castells afferma: «Di conseguenza, è impossibile essere cooptati dai partiti politici (a cui nessuno dà più fiducia), anche se questi possono trarre vantaggio dalle diverse prospettive imposte dal movimento nei riguardi della pubblica opinione.» (Castells 2012, 189-190) «Questi movimenti sociali in rete sono forme nuove di movimenti democratici — movimenti impegnati a ricostruire la sfera pubblica nello spazio dell’autonomia realizzato intorno all’interazione tra ambiti locali e reti su Internet, a sperimentare con processi decisionali basati sulle assemblee e a rivalutare la fiducia come pilastro dell’interazione umana. Riconoscono i principi che hanno portato alla rivoluzione della libertà dell’Illuminismo, pur tenendo a mente il continuo tradimento di quegli stessi principi, a partire dall’iniziale negazione della piena cittadinanza per le donne, le minoranze e le persone colonizzate. Questi movimenti sottolineano la contraddizione esistente tra la democrazia dei cittadini e una città in vendita al miglior offerente. Affermano il proprio diritto a ricominciare tutto daccapo. Per ripartire da un nuovo inizio, dopo aver raggiunto la soglia dell’autodistruzione voluta dalle 32 istituzioni odierne. O almeno, in questo credono gli attori di questi movimenti…» (Castells 2012, 207) 3.3.8.2. L’urgenza di una connessione, ma quale? « Movimenti sociali in rete e politica riformista: un amore impossibile? Sembra esserci consenso sul fatto che, alla fin fine, i sogni di trasformazione sociale dovranno essere diluiti e canalizzati attraverso le istituzioni politiche… Ciò pone un dilemma importante, sia pratico sia analitico, quando si tratta di valutare la produttività politica di un movimento che per lo più non ha fiducia nelle attuali istituzioni politiche e rifiuta di credere, nella fattibilità della sua partecipazione nei canali predeterminati della rappresentanza politica. … nella maggioranza dei movimenti qui analizzati, e in analoghi movimenti di altre parti del mondo, il passaggio critico dalla speranza all’implementazione del cambiamento dipende dalla permeabilità delle istituzioni politiche alle richieste del movimento, nonché dalla volontà di quest’ultimo di impegnarsi in un processo di trattative. […]In altri termini, il peso dei movimenti sociali sulla politica e sulle policy dipende in larga misura dal loro potenziale contributo ai programmi già stabiliti dagli attori politici. Ciò è in netto contrasto con la maggior critica avanzata dai movimenti sociali in rete che ho analizzato, focalizzata sull’assenza di rappresentatività da parte della classe politica, visto che le elezioni sono condizionate dal potere del denaro e dei media, e vincolate da norme elettorali faziose progettate dalla classe politica a proprio vantaggio. Eppure la tipica risposta ai movimenti di protesta da parte dell’élite politica è il richiamo alla volontà popolare espressa nelle ultime elezioni, e all’opportunità o meno di cambiare politica in previsione dei risultati delle prossime elezioni. È precisamente questo che viene messo sotto accusa dalla maggioranza dei movimenti, in accordo con un’ampia proporzione di cittadini di ogni parte del mondo … I movimenti non si oppongono al principio della democrazia rappresentativa, ma denunciano la pratica di tale democrazia così come viene applicata oggi, e non ne riconoscono la legittimità. In base a queste condizioni, esistono scarse possibilità per un’interazione diretta e positiva tra i movimenti e la classe politica verso una riforma politica, ovvero una riforma delle istituzioni della governance capace di ampliare i canali della partecipazione politica e di limitare il peso delle lobby e dei gruppi di pressione sul sistema politico, essendo queste le obiezioni fondamentali mosse da gran parte dei movimenti sociali. Il maggior elemento d’influenza positiva del movimento sulla politica potrebbe rivelarsi indirettamente tramite l’assunzione, da parte di alcuni partiti o leader politici, di temi e richieste specifiche, soprattutto quando questi ultimi divengono popolari in ampi settori della cittadinanza. […] Esistono tuttavia legami profondi tra i movimenti sociali e la riforma politica in grado di attivare una trasformazione sociale: qualcosa che avviene nella testa delle persone. Il vero obiettivo di questi movimenti è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica in generale, di responsabilizzare i cittadini tramite la partecipazione nel movimento e in un ampio processo deliberativo rispetto alla propria vita e al proprio paese, e di affidarsi alla loro capacità di prendere decisioni in piena autonomia nei confronti della classe politica. L’influenza del movimento sulla popolazione penetra tramite le modalità più insospettabili. Se il peso culturale e sociale del movimento dovesse estendersi, particolarmente tra le generazioni più giovani e più attive, i politici attenti ne prenderanno in considerazione valori e timori, nella speranza di ricavarne qualche guadagno politico. Lo faranno comunque all’interno dei limiti del loro patto con chi li finanzia. Ma più il movimento sarà capace di trasmettere il suo messaggio sulle reti di comunicazione, più i cittadini ne saranno sensibilizzati e più la sfera pubblica della comunicazione diverrà territorio di contesa, e minore sarà la capacità dei politici di integrare richieste e reclami con semplici ritocchi di facciata. La battaglia finale per il cambiamento sociale verrà decisa nella testa delle persone, e in questo senso i movimenti sociali hanno compiuto ottimi progressi a livello internazionale. […] Non pare tuttavia impossibile che possa sbocciare l’amore tra l’attivismo sociale e il riformismo politico: è soltanto nascosto dalla percezione pubblica mentre le riflessioni dei cittadini oscillano tra desiderio e rassegnazione.» (Castells 2012, 195-199) 3.3.8.3. «oltre l’indignazione, la speranza: vita e morte dei movimenti sociali in rete . 33 Questa non è una crisi, è che non ti amo più. (Striscione nella Plaza del Sol occupata, Madrid, maggio 2011) I movimenti sociali in rete, le cui esperienze abbiamo condiviso in questo volume, continueranno a lottare, discutere ed evolvere, per poi man mano dissiparsi nell’attuale forma, come accaduto a tutti i movimenti sociali nel corso della storia. Anche nell’improbabile caso che possano trasformarsi in un attore politico, in un partito o in una qualche agenzia di tipo nuovo, proprio per questo cesseranno di esistere. Perché l’unica questione rilevante per stabilire il significato di un movimento sociale sta nella produttività sociale e storica della sua pratica e nell’effetto sui suoi partecipanti in quanto individui e sulla società che ha cercato di trasformare. […] In ultima analisi, l’eredità di un movimento sociale riguarda il cambiamento culturale che è riuscito a produrre tramite le sue attività. Quando arriviamo a considerare in maniera diversa certe dimensioni primarie della nostra vita personale e sociale, a un certo punto le istituzioni dovranno cedere. Niente è immutabile, nonostante il cambiamento storico non segua un percorso predeterminato perché il supposto senso della storia a volte non ha alcun senso. Sotto quest’aspetto, quale potrebbe essere l’eventuale eredità dei movimenti sociali in rete tutt’ora in divenire? La democrazia — una democrazia di tipo nuovo. Una vecchia aspirazione dell’umanità, mai soddisfatta.» (Castells 2012, 205-206) 34