Arthur Schopenhauer (1788-1860). Super-sintesi.
La filosofia della Volontà di Vivere (Wille zum Leben)
Filosofo tedesco (nato a Danzica), pressoché sconosciuto
fino agli anni successivi al fallimento della rivoluzione del
1948 in Germania.
Tra le opere principali ricordiamo nel 1818 “Il mondo
come volontà e rappresentazione” (è il suo capolavoro);
poi, nel 1851, Parerga e paralipomeni (=Aggiunte e cose
tralasciate).
E’ il filosofo del pessimismo cosmico, e molti hanno
avvicinato il suo pensiero alla poesia di Leopardi. Lo stesso
S. conosceva alcuni lavori di Leopardi e considerava se
stesso, Leopardi e Byron come i tre più grandi pessimisti
della storia.
S. afferma di essere stato influenzato da tre grandi
orientamenti filosofici precedenti:
a) la filosofia di Platone, che gli ha insegnato
l’inconsistenza del mondo sensibile (semplice insieme di
copie del mondo delle idee; realtà umbratile dotata di
scarso spessore ontologico –ricordate?);
b) la filosofia di Kant, la cui distinzione tra noumeno e
fenomeno viene recuperata da S.;
c) le filosofie religiose orientali: i Veda e le Upanishad
dell’induismo e il pensiero buddista.
Introduzione.
Per S. la vita è essenzialmente dolore, e ogni biografia è
storia di una ‘via crucis’. S. ritiene che l’unico modo per
salvarci dal dolore di vivere sia quello che conduce al
nirvana: a una condizione interiore di assoluta serenità e
imperturbabilità.
La filosofia di S. prende inizio dalla distinzione kantiana
tra fenomeno e noumeno. Ma S., pur recuperando questa
distinzione, finisce per snaturarne il senso originario. Per
Kant il mondo fenomenico (ciò che appare attraverso i
sensi) è l’unica realtà conoscibile, mentre invece il mondo
noumenico sfugge alla nostra conoscenza (è pensabile ma
non è conoscibile).
Al contrario, per S. il mondo fenomenico (che egli chiama
anche
‘mondo
della
rappresentazione:
rappresentazione=fenomeno) è ‘sogno’, ‘illusione’,
‘apparenza’, e non realtà in senso pieno. Invece il noumeno
è l’unica realtà ed è anche pienamente conoscibile.
Tra fenomeno e noumeno c’è, per S., lo stesso rapporto che
sussiste tra “corteccia e nòcciolo”. Il noumeno (l’infinito,
ciò che è al di là dei limiti spazio-temporali etc.) è quella
forza infinita che abita tutta intera all’interno di tutti i
fenomeni. Ci troviamo davanti ad una classica concezione
monistica della realtà: tutta la realtà si riduce ad un’unica
sostanza immanente, una ‘forza’ che S. chiama Volontà di
Vivere (d’ora in poi=VdV). Ognuno di noi è una fragile
corteccia che racchiude al suo interno lo stesso medesimo
nocciolo: la VdV (il Wille zum Leben). Ogni fenomeno è
manifestazione di questa forza, che S. definisce unica, cieca
e irrazionale; questa forza che pervade il mondo
dall’interno; che invade il mondo in ogni suo minimo
recesso. La Volontà di Vivere –presente in tutti- spinge ad
‘attaccarci’
alle
cose
(tema
buddista
dell’upadana=attaccamento alle cose), a lottare per esse e a
soffrire. La VdV causa la eris, cioè la lotta cosmica di cui
l’eros è soltanto una manifestazione. La VdV è la causa
unica del dolore che domina il mondo. Noi, esseri umani,
esseri animali, vegetali etc., siamo solo fenomeni, cioè
manifestazioni passeggere della VdV.
La vita dei fenomeni, la nostra vita, è “come un sogno” (e
dunque non realtà piena ed effettiva) in due sensi:
a) nel senso che è fragile e inconsistente come i sogni:
siamo fatti di una essenza di ‘nebbia e rugiada’!;
b) nel senso che è assurda e insensata proprio come i
contenuti di un sogno.
Per questo S. cita la Tempesta di Shakespeare: “We are
such stuff as dreams are made of”.
La filosofia di S. risulta dunque essere monistica (tutto si
riduce alla VdV), panvolontaristica (tutto è volontà di
vivere) e dunque antihegeliana. S. rifiuta l’ottimismo
metafisico che deriva dal panlogismo hegeliano per il quale
tutto è razionale! Semmai, per S., tutto è ‘demoniaco’ e
irrazionale e assurdo e mostruoso, perché tutto è dominato
dal dolore assurdo causato dalla VdV). Il panvolontatismo
di Schopenhauer, dunque, è un pantragismo (tutto è
tragedia, dolore, sofferenza). Ci troviamo davanti a una
visione desacralizzante, anti-progressiva (non c’è alcun
progresso storico) e anti-finalistica (la vita non risponde ad
alcun Senso, ad alcuno Scopo supremo: tutto è assurdo!)
del mondo.
Per S. non esiste alcun progresso storico. La storia non è
che l’eterno ripetersi di un’unica vicenda: la vicenda del
dolore. Nihil sub sole novi: non c’è mai niente di nuovo
sotto il sole, dice S. citando la Bibbia. La realtà non è
guidata da alcun fine supremo posto da un qualche dio.
L’unico scopo della vita è la vita stessa, nella sua cieca e
rabbiosa volontà di perpetuarsi. E Dio non esiste, come
attestano i campi di battaglia e gli ospedali.
Analisi della condizione umana.
La VdV si manifesta come egoismo. E’ lei che spinge ogni
fenomeno a lottare e a soffrire. La vita è sofferenza. - Famosa è l’immagine schopenhaueriana della vita
dell’uomo come “un pendolo che oscilla tra il dolore e la
noia”.
S. analizza gli elementi costitutivi dell’esistenza umana: il
dolore, il piacere e la noia. Egli giunge ad affermare che il
dolore è il dato antropologico primario. Il piacere stesso
infatti altro non è che “mancanza di dolore”; dunque,
affinché ci sia piacere deve esserci già stato del dolore. C’è
una notevole affinità con il pensiero di Leopardi (pensate
alla Quiete dopo la tempesta): il “piacer figlio d’affanno
ch’è frutto del passato timor” (Leopardi) deriva sempre da
un bisogno, da una privazione, da una mancanza: dunque,
da una forma di dolore. Inoltre il piacere è sempre
passeggero, e non appena cessa sorgono altri tormenti. Può
anche accadere che i nostri maggiori bisogni siano
momentaneamente soddisfatti. Subentra allora la noia, che
l’uomo cerca comunque di fuggire.
S. dice che “la noia è la causa per cui esseri che si amano
così poco tra di loro pure si cercano a vicenda con tanta
premura. La noia è dunque la radice della socievolezza”.
S. era pessimista anche nei confronti dell’amore. Per la
maggior parte degli uomini l’amore è solo eros: amore di
possesso, desiderio di possedere l’altro, attività ‘predatoria’.
L’amore in fondo è solo una forma di Eris: è lotta. L’amore
è “due infelicità che si incontrano e una terza che si
prepara”. L’amore è un inganno della specie ai danni
dell’individuo. Per perpetuare la specie, l’individuo si
innamora, si accoppia, soffre e poi muore. Il simbolo
dell’amore/eros diventa la mantide religiosa che dopo
l’accoppiamento divora il partner.
Schopenhauer conclude affermando che “questo è il
peggiore dei mondi possibili” e che Dante “ha preso la
materia del suo Inferno” proprio da questo mondo!
La via della salvezza.
- Il rifiuto del suicidio.
Per S. il dolore di vivere non può essere fuggito con il
suicidio. L’unica causa del dolore universale è la VdV. Il
nostro compito è di negare in noi la VdV per giungere ad
una condizione di assoluta serenità interiore. Ma il suicidio
non è la negazione della VdV; piuttosto, ne è la
affermazione! Infatti il suicida, nell’atto di sopprimere il
suo corpo afferma di voler vivere (anche se non più nel
modo particolare in cui sta vivendo): il suicida afferma la
sua ‘fame di vita’ con il suo gesto estremo. Qui non si
tratta di suicidarsi, ma di raggiungere la condizione di
totale distacco dalle cose del mondo, una condizione di
‘nullificazione’ del senso del possesso che è un nonsentire-più-niente: il nirvana di cui parlano i buddisti.
Anche Leopardi, sia pur per altre ragioni, nega il suicidio.
- La conoscenza del dolore e le tre fasi del processo
soteriologico.
La conoscenza della realtà aumenta la sofferenza. Più
pensi, più sei consapevole del fatto che la realtà è dolore.
In questo modo soffri di più. Non pensare è soffrire di
meno. Come è scritto nella Bibbia, “Qui auget scientiam
auget et dolorem”: chi aumenta il sapere aumenta il dolore!
Tuttavia, per S. pensare è fondamentale. Solo chi conosce
la realtà può giungere alla fine a liberarsi del dolore di
vivere. In generale quanto più chiara e precisa diventa la
conoscenza della realtà, tanto più ci si avvicina al punto
d’arrivo del percorso salvifico, cioè al nirvana.
Questo percorso salvifico deve condurre alla negazione
della VdV, cioè alla NOLUNTAS (= negazione della
‘voluntas’).
Sono tre le fasi in cui si articola questo processo che
conduce al nirvana.
1) la via estetica (o via dell’arte);
2) la via etica;
3) la via ascetica.
1) L’esperienza artistica costituisce un “quietivo della
VdV”. Attraverso l’arte l’individuo si acquieta per un
breve periodo e abbandona gli affanni e le preoccupazioni
del quotidiano. Per un breve attimo l’artista si stacca dalla
tirannìa della VdV. L’artista diventa “occhio puro del
mondo”, cioè guarda con occhi disinteressati la realtà
circostante ed esprime questa sua contemplazione del
mondo nelle sue opere d’arte.
L’artista contempla il mondo nella sua purezza ideale e
universale; il che significa che l’artista contempla i
fenomeni, ma
attraverso le situazioni fenomeniche
particolari che ‘narra’, egli mira a cogliere e comunicare
un’idea generale e pura. Così, contemplando il mondo
umano, l’artista racconta una vicenda particolare, ma
attraverso di essa egli individua aspetti esistenziali che
riguardano tutti gli uomini. Ad esempio, Dante, quando ci
conduce nella prigione del conte Ugolino della
Gherardesca e ci racconta la sua vicenda, in realtà esprime
una verità esistenziale comune a tutti gli uomini: le
difficoltà di rapporto tra padri e figli; il carattere
‘cannibalesco’ di questi rapporti.
Purtroppo la quiete offerta dall’arte è sempre breve.
Quando cessa l’atività artistica si ritorna nel dolore del
quotidiano.
2) L’etica di S. è centrata attorno alla dottrina dell’uomo
buono. L’uomo buono, etico, morale, ha una conoscenza
della realtà di livello piuttosto alto. Egli sa che tutti i
viventi sono affratellati dal dolore. Questa conoscenza
della realtà genera nell’uomo buono il sentimento della
compassione nei confronti di tutti. Tale sentimento è
nobile e raro. La compassione è un ‘con-patire’, un patire
con l’altro; è sentire le sofferenze altrui come proprie.
Dalla compassione deriva il principio fondamentale del
comportamento morale: “omnes, quantum potes, iuva”:
“aiuta tutti per quanto ti è possibile”. Solo l’uomo buono è
capace di amore puro e disinteressato, cioè di agape.
L’agape non è eros! Non è amore di possesso ma amore
come ‘offerta di sé agli altri’.
Per Kant il principio che ispira il comportamento morale
deriva dalla ragione; per S. questo principio deriva da un
sentimento: la compassione. L’etica di Schopenhauer è
dunque una forma di sentimentalismo etico, ben diversa
dall’etica di Kant.
-L’uomo buono sa che tutti siamo fratelli nel dolore, e
vuole vivere rinunciando completamente all’egoismo,
aiutando gli altri. Qui emerge l’insufficienza della bontà:
l’uomo buono vuole ancora vivere, e questa sua VdV con
gli altri lo espone inevitabilmente alla sofferenza, che
deriva dalla consapevolezza di non poter aiutare tutti, e
quindi di essere limitato. La bontà dunque non basta a
evitare il dolore, anzi!
3) La via ascetica. L’asceta, il santo, è colui che ha
raggiunto la conoscenza suprema: ha capito che l’unica
causa del dolore è la Volontà di Vivere. Così l’asceta
rinuncia alla voluntas, la rovescia in noluntas. La
volontà di vivere si rovescia in volontà di quiete. L’asceta
giunge alla noluntas o ‘nirvana’, cioè a un “oceano di
quiete e di silenzio”. Egli perviene a una condizione di
totale imperturbabilità: nulla può più sconvolgerlo perché
nulla lo coinvolge più; perché è nel mondo ma non è più
del mondo.
Per giungere a tale condizione bisogna praticare una serie
di comportamenti che mirano a indebolire la VdV.
Bisogna:
- praticare la castità perfetta;
- praticare la povertà volontaria
- praticare la rassegnazione: disporsi a morire in modo
pacato;
- allontanarsi dai propri cari.
Così si raggiungerà la noluntas/nirvana.
“Per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa,
questo mondo così reale con tutti i suoi soli e le sue vie
lattee, questo, propriamente questo, è il niente”.
La liberazione è alla fine raggiunta.
Naturalmente si tratta di una liberazione dal dolore di
vivere che non implica impegno politico: è una liberazione
meta-storica (che si attua al di là dell’impegno nella storia
e nella politica, chiudendosi nell’isolamento interiore
personale).
Per questo i marxisti come Lukacs hanno sempre
osteggiato la filosofia di Schopenhauer: essa è “apologia
indiretta del capitalismo” (Lukacs) perché rifiuta
l’impegno rivoluzionario e attribuisce a una generica e
metafisica ‘volontà di vivere’ la causa del dolore,
dimenticandosi che il dolore della modernità è innanzitutto
il frutto del sistema economico capitalistico, fondato sullo
sfruttamento dell’uomo. Insomma, secondo Lukacs, lo
schopenhauerismo perviene allo stesso risultato
giustificazionista dell’hegelismo: se si sostiene che tutto va
e andrà sempre male, che tutto è sofferenza e non c’è
progresso storico, si finisce per rinunciare all’idea della
lotta per cambiare la realtà e migliorarla; indirettamente si
finisce per spronare gli uomini ad accettare passivamente
la realtà esistente. Proprio come coloro (gli hegeliani) che
insegnano che tutto è già razionale e positivo!
Ultimo punto: Max Scheler, nel novecento, ha chiamato
Schopenhauer “disertore dell’Europa”: la filosofia di S., il
suo orientalismo, i suoi costanti richiami a induismo e
buddismo, rappresentano uno dei primi momenti storici di
abbandono della cultura europea, tutta centrata –nell’ottica
illuministica- sull’idea del possibile progresso storico
dell’umanità, della possibile affermazione dei valori
liberali e democratici della ragione. La filosofia
irrazionalistica
di
Schopenhauer
è
‘rifiuto
dell’Occidente’, ed è politicamente pericolosa perché
conservatrice.