Laboratorio Montessori ISSN 1974-8787 Carlotta Ficorella L’influenza della morale kantiana sulla pedagogia di J. F. Herbart La Pedagogia come disciplina scientifica La seconda metà del XIX secolo vede l’affermarsi, grazie soprattutto alla corrente positivista, di un approccio rigorosamente scientifico allo studio di discipline che fino ad allora non avevano mai goduto di vere e proprie verifiche sperimentali, quali la psicologia e la pedagogia (in seguito avrebbero acquisito sempre più importanza anche altri domini ad esse connessi, come la psichiatria, la sociologia e l’antropologia). Il rapido sviluppo di una società ormai ampiamente industrializzata e tendenzialmente progressista influì in maniera particolare sul piano educativo: la pedagogia, che iniziava ad essere considerata una vera scienza, doveva fondarsi su un sistema preciso ed organizzato, e saper far uso di un metodo di indagine autenticamente scientifico, adeguato al suo oggetto di studio. La disamina circa il predominio, nella scuola secondaria, dello studio umanistico incentrato sulla letteratura e le lingue classiche trova la sua origine già nel Seicento, ma i primi tentativi di attacco alla tradizione si concretizzano solo dopo lo scoppio della Rivoluzione francese. Ma sono tentativi che non conducono ad esiti considerevoli e durante il periodo napoleonico, e la conseguente rivalutazione del classicismo, la scuola umanistico-letteraria si impose nuovamente. Nonostante questo, si andavano tuttavia sempre più delineando due correnti nettamente contrastanti, una tendenzialmente conservativa e contraria ad una radicale riforma scolastica, l’altra fortemente progressista e desiderosa di introdurre, accanto allo studio del greco e del latino, quello di materie più scientifiche come la matematica e le scienze naturali, ma anche le lingue moderne e le discipline più utili alla vita pratica, pensate per una classe lavoratrice sempre più diversificata. Questa visione innovativa della pedagogia trova la sua massima espressione nel pensiero di J. F. Herbart, il quale già nella prima metà del secolo aveva proposto una vera e propria scienza dell’educazione. L’idea di partenza della sua psicologia riprende una parte fondamentale del pensiero filosofico dell’empirista inglese J. Locke e sta nell’assumere che l’anima umana sia in origine una tabula rasa, priva di qualunque tipo di idee, concetti o rappresentazioni; questi non sono che prodotti dell’esperienza, che nel corso del tempo incidono su di essa, combinandosi tra loro. L’anima non possiede una tendenza innata a mutare da uno stato ad un altro, a meno che non intervengano degli elementi esterni, come le idee (che possono essere simili, complesse o contrarie). Il sistema pedagogico di Herbart, anch’esso in linea con la teoria dell’educazione che deriva da Locke e da altri empiristi, si divide in due sezioni, rispettivamente affidate alla psicologia (che fornisce i mezzi indispensabili per l’educazione) e all’etica (il fine dell’educazione); entrambi gli ambiti possono essere esplorati analiticamente, a partire dall’esperienza, e sinteticamente, tramite l’uso di principi filosofici. Herbart e la critica all’idealismo Durante la fase giovanile dei suoi studi a Jena, dove ebbe la possibilità di seguire le lezioni di Fichte, Herbart fu inizialmente un seguace del pensiero fichtiano. Ma dopo aver lasciato l’università, lo studio e le letture cui si dedicò contribuirono a discostarlo da quella filosofia e dall’idealismo in generale. Sviluppò invece un suo sistema filosofico volto a oppugnare proprio le tesi idealiste e che privilegia la dimensione “materiale” della realtà. Egli approvò dell’ontologia del filosofo antico Parmenide la teoria secondo cui l’oggetto del vero sapere è un essere ingenerato, indistruttibile, non passibile di mutamento, uno e indivisibile, cui si contrappone la serie dei fenomeni particolari, soggetti alla nascita e alla corruzione e che sono oggetti dell’esperienza. L’esperienza, per Herbart, non è l’unica realtà, anche perché essa comporta tutta una serie di contraddizioni, le quali rinviano ad un essere, possibile oggetto di conoscenza, che si troverebbe al di là della realtà empirica. Una prima contraddizione emerge se si esamina il rapporto tra la sostanza e le sue qualità: da un lato la “cosa” è una, in quanto identica a se stessa, dall’altra appare molteplice, se vista in relazione alle sue proprietà mutevoli. Una seconda contraddizione scaturisce non appena si ha a che fare col concetto di casualità: per Herbart è assurdo (come già lo era stato per i filosofi antichi, in particolare Aristotele) ritenere che tale concetto si possa spiegare solo ammettendo l’esistenza di una catena infinita di cause. In Fichte l’Io è il principio primo e incondizionato dell’intero sapere umano, un’attività autocreatrice, libera e infinita. Ma sostenere una tale teoria, secondo Herbart, porta a cedere in una catena di contraddizioni e ragionamenti che danno origine a problemi insolubili. Occorre, invece, concentrarsi sull’analisi dell’esperienza, delle cose date, e in questo riconosce a Kant il merito di aver trattato il problema delle “condizioni di possibilità dell’esperienza”. Tuttavia Herbart lo critica per aver ammesso l’esistenza di diverse facoltà dell’anima (sensibilità, intelletto, immaginazione e ragione), ma soprattutto per aver attribuito il carattere della soggettività alle forme dell’esperienza. Al contrario, si deve riconoscere il carattere “dato” delle forme dell’esperienza, ciò che viene percepito dall’individuo. Infatti, pur ammettendo che lo spazio, il tempo e le categorie siano condizioni dell’esperienza che trovano la loro origine nell’animo umano, non si può dire altrettanto di ciò che costituisce i caratteri specifici delle singole cose; caratteri, secondo Herbart, già inclusi nel dato e indipendenti dal soggetto percipiente. La conoscenza, dunque, è garantita da ciò che si dà, ciò che si manifesta nell’esperienza. La morale e l’educazione in Kant La riflessione kantiana sull’educazione parte dall’idea che essa sia un’esigenza insopprimibile dell’uomo, un percorso che lo porta al raggiungimento della sua umanità e che ne accresce le potenzialità e le conoscenze. L’animalità istintiva, che secondo Kant è innata in ogni uomo, deve essere dapprima sottomessa alla disciplina e in seguito alla ragione; l’istruzione ha il compito di stimolare il pensiero. La sua pedagogia era strutturata in tre momenti: un’introduzione ai problemi generali della pedagogia, l’educazione fisica o naturale, rivolta in particolar modo alla dimensione fisica del giovane, l’educazione pratica o morale, volta alla moralità e allo sviluppo delle attività intellettuali. L’educazione deve essere fondata su un giusto equilibrio tra la libertà, che non può rimanere quella incontrollata della sfera istintuale, e l’autorità, che si incarna nella figura dell’educatore. Questi impartisce la disciplina al giovane, che col tempo sarà in grado di sviluppare un’autonoma disciplina morale interiore. Il tipo di rapporto che si stabilisce tra le due può portare a due tipi di sottomissione: una negativa, che si ha quando l’individuo obbedisce in modo puramente meccanico ed è incapace di riflettere e giudicare autonomamente; una positiva, se al contrario si ha a che fare con un individuo dotato di un’indipendente facoltà di giudizio. L’educazione, secondo Kant, deve essere affidata a persone esperte ed illuminate, che hanno a cuore il progresso e il benessere futuro della civiltà umana e che sono in grado di elaborare in modo libero e creativo dei metodi educativi adeguati. L’ingerenza dello Stato e dei genitori potrebbe, infatti, rivelarsi dannosa, perché incentrata sul successo e l’arricchimento fini e se stessi dell’individuo. Tuttavia, mentre la scuola pubblica impartisce l’istruzione vera e propria, la famiglia detiene il compito della formazione morale e della disciplina, anche se a volte l’insegnamento in ambito privato presenta un limite, ovvero quello di essere affidato a persone che non hanno ricevuto una buona educazione, rischiando così di rendere vano il lavoro del precettore. L’educazione deve essere svolta alternando le attività ricreative a quelle obbligatorie, in modo da disporre l’allievo al lavoro e non indurlo all’ozio. L’aspetto più importante del percorso formativo è lo sviluppo della ragione (intesa come la capacità di saper cogliere i principi), che nel fanciullo non è ancora speculativa, bensì concreta e focalizzata sulle cause di ciò che lo circonda; per questo, in una prima fase, il miglior metodo di insegnamento è il “fare”. La disciplina, che limita la libertà, spinge l’allievo a seguire le proprie massime morali. La formazione della moralità include l’uso di castighi, sia fisici che morali, che però devono essere proporzionati alla colpa e inflitti in modo che il fanciullo comprenda il loro fine correttivo; ma non deve ammettere premi, perché spingono ad obbedire non per dovere, bensì per puro interesse personale. La pedagogia kantiana esprime l’ideale di una condotta estremamente rigorosa, plasmata sul senso dl dovere, che non lascia troppo spazio alla creatività. Una coscienza morale conforme alla ragione deve fare propri l’amore per il prossimo e il bene universale, che sono i principi su cui bisogna modella re le massime del proprio agire. La capacità di imporsi una legge morale è il fine più alto e si raggiunge con l’educazione pratica, che si occupa dell’agire umano e della moralità. La moralità riguarda il carattere, che si forma con l’esercizio continuo del dovere verso se stessi e verso glia altri, il quale col tempo impara a dominare le passioni; di conseguenza, il concetto di morale è congiunto al concetto di obbedienza, ossia quella legge morale che ordina di agire in modo universale e disinteressato. Insegnamento ed educazione Prima di Herbart, gli educatori solitamente distinguevano il concetto di educazione da quello istruzione: i due ambiti erano considerati indipendenti l’uno dall’altro e i loro problemi analizzati e risolti separatamente. Anche Herbart distingue i due concetti, ma il suo studio lo conduce ad una conclusione del tutto nuova: l’istruzione, infatti, che apre le porte al mondo esterno, impartisce competenze specifiche e sviluppa le abilità personali, deve essere subordinata all’educazione, il cui compito è quello di guidare lo sviluppo del carattere dell’allievo in vista di un miglioramento continuo nel corso della sua vita. Egli constatò che le punizioni, o ancor più la mortificazione del fanciullo, non sono efficienti strumenti di educazione. Un buon apprendimento può essere garantito, al contrario, da un corretto metodo di insegnamento. Convinto, quindi, che l’insegnamento rivesta un ruolo fondamentale nell’educazione, Herbart elaborò la teoria dell’istruzione educativa, che tratterà in Pedagogia generale dedotta dal fine dell’educazione (1806). Importanti conseguenze ebbe, a questo proposito, l’esperienza acquisita come tutore in Svizzera, nel Canton Berna, presso la famiglia del governatore provinciale; esperienza che lo portò a considerare quale scopo dell’insegnamento non il semplice nozionismo, bensì un fine etico più alto, ma soprattutto lo obbligò a trovare un approccio all’educazione, che non fosse meramente teoretico, attraverso dei tentativi concreti che dimostrassero come fosse possibile educare insegnando. L’istruzione educativa che Herbart impartì ai suoi alunni mirava principalmente all’esercizio della loro facoltà di ragionamento e si articolava in due filoni distinti, ma complementari: uno esteticoletterario, l’altro matematico-scientifico. L’apprendimento delle lingue, della storia e della letteratura classica andava di pari passo con quello delle scienze matematiche e delle nuove scienze sperimentali, perché, mentre queste ultime predispongono l’allievo ad una comprensione teoretica del mondo e ad uno sforzo mentale per raggiungere la concentrazione, le arti, la storia e la letteratura hanno il compito di formare il suo giudizio estetico. L’educazione morale, secondo Herbart, è composta da quattro fasi progressive, che accompagnano il fanciullo nella sua formazione e si realizzano rispettivamente nella facoltà di giudizio, nel “calore” (inteso come l’attitudine ad essere cordiale nei confronti degli altri), nella capacità di decidere e deliberare, e nell’autodisciplina. Una volta acquisite tali facoltà, l’individuo è capace di compiere un’azione etica. Il conflitto tra la richiesta di un’educazione specializzata in poche determinate discipline e quella per un’educazione più generale, viene risolto da Herbart con l’idea secondo cui: “Ogni uomo deve possedere un amore per tutte le attività, ma deve essere virtuoso in una”. Il fine ultimo dell’insegnamento riguarda lo sviluppo del carattere del fanciullo e una sua corretta comprensione del mondo e dell’uomo. Da questo punto di vista, le conoscenze e le competenze acquisite durante il corso degli studi da sole non sono sufficienti, perché devono accompagnarsi ad un requisito fondamentale, ossia un carattere forte, modellatosi su delle solide leggi morali. L’insegnamento appare, quindi, come il solo mezzo capace di rafforzare in maniera stabile e duratura il carattere e di influenzarne positivamente il processo di sviluppo, a patto che non invada e sopprima la personalità e le inclinazioni naturali dell’allievo. L’interesse Il punto focale del pensiero pedagogico di Herbart è l’interesse. L’interesse viene concepito, al pari del desiderio (anche se il desiderio è molto più intenso), come una forma di attività mentale che crea un primo legame tra un soggetto e l’oggetto della sua attenzione, e ne determina la formazione di un punto di vista personale circa le proprietà di un tale oggetto. I sentimenti, i desideri e le volizioni sono concetti definiti in termini di interazioni tra rappresentazioni, sensazioni e idee dell’anima. Quando una rappresentazione raggiunge un certo grado di chiarezza, normalmente segue l’azione, se essa risulta possibile. La pecularità del desiderio consiste in uno stato di tensione, che persiste quando un’azione non è immediatamente possibile. La volizione è il meccanismo psicologico che si origina dal desiderio e si concretizza nell’azione quando ce n’è opportunità. Se emerge il desiderio, l’interesse può intensificarsi, ma, al contrario di esso, non si focalizza solo su un oggetto particolare alla volta: piuttosto si identifica, secondo la definizione che ne dà Herbart, proprio per la sua versatilità. L’interesse si produce quando un soggetto si trova a che fare con molti oggetti diversi, ma si concentra e ne esamina in profondità solo alcune proprietà, ricollegando in futuro i suoi ricordi circa tali oggetto proprio a queste proprietà. Se l’interesse non ponesse attenzione agli aspetti peculiari, rimarrebbe superficiale e non si potrebbe neanche definirlo vero interesse. Acquisire interesse è possibile esercitando la mente umana nell’ambito della conoscenza (che forma l’interesse empirico, speculativo ed estetico) e in quello delle relazioni inter-umane (che sviluppa l’interesse sociale, religioso ed individuale). Il ruolo dell’interesse e la sua versatilità sono centrali per la teoria dell’istruzione educativa delineata da Herbart, perché muove la volontà dell’alunno, estende costantemente le sue conoscenze, lo incoraggia nelle sue iniziative e a partecipare alla vita dei suoi simili (proprio per questo, il peggior peccato che può essere commesso dall’insegnamento è la noia). L’apprendimento di materie letterarie ha lo scopo, all’inizio, di stimolare l’interesse nei confronti degli altri e a questo proposito si rivelò molto utile la poesia: dato il buon interesse mostrato dagli alunni verso le lingue classiche, nel periodo in cui lavorò come precettore, Herbart iniziò lo studio delle discipline letterarie con la lettura dell’Odissea; l’insegnamento di una lingua classica scritta in forma poetica era un mezzo per introdurre i suoi giovani allievi al mondo delle relazioni umane, mentre il suo studio dettagliato e sistematico passava in secondo piano ed era affidato a un secondo momento. L’interesse si dice oggettivo quando è propriamente conoscitivo (Herbart ne distingue tre tipi: empirico, teoretico ed estetico) o soggettivo, se si identifica con lo stato d’animo del soggetto, ossia quando questi si relaziona con l’oggetto in base alla sua personalità (in questo caso si suddivide in simpatetico, sociale e religioso). In entrambi i casi l’interesse produce delle riflessioni più o meno complesse sull’oggetto, che aiutano ad approfondirlo e a ordinare le nuove conoscenze affiorate. L’utilità dell’interesse sta, infatti, nel guidare l’allievo nell’analisi del suo oggetto di studio e aiutarlo a risolvere eventuali problemi ad esso connessi, organizzare le nuove idee in un sistema e giustificare le proprie conclusioni tramite delle verifiche. Il compito dell’educatore e il fine dell’educazione L’educatore riveste un ruolo fondamentale, in particolar modo per l’apprendimento della morale. Herbart distingue tre fasi che si susseguono nel corso degli studi e formula per la prima un piano di governo, che vede la piena dipendenza e obbedienza dell’obbedienza dello studente nei confronti dell’autorità dell’insegnante, e un piano di istruzione per la seconda, per il momento in cui lo studente comincia a comporre le idee e un proprio giudizio morale; la terza fase è quella dell’autogoverno, che esprime la sintesi tra volontà e giudizio, e rappresenta il fine ultimo dell’educazione. Per raggiungere tale fine, e poiché la moralità trova la sua legittima origine nell’istruzione, è necessario l’intervento di una morale esterna (l’educatore) che guidi quella dell’allievo nel corso della sua formazione. Herbart precisa, tuttavia, dei limiti che il dominio dell’educatore non può valicare: esso, infatti, non deve essere un rigido strumento di controllo che inibisca le capacità dell’alunno e scoraggi le sue proposte e la sua intraprendenza. La trasmissione delle conoscenze deve fondarsi sulla disciplina e sull’autodisciplina, ma un carattere forte e un interesse versatile si originano solo grazie a profonde motivazioni interiori. L’autorità dell’insegnante consiste in una superiorità intellettuale e morale, e, più che sovrastare la personalità dell’alunno, deve piuttosto instaurare un dialogo per meglio fungere da guida ed esempio, e aiutarlo a raggiungere una maturità morale e l’autogoverno.