MARCO FABIO QUINTILIANO
QUADRO STORICO INTRODUTTIVO
Marco Fabio Quintiliano nacque sotto l’impero di Tiberio. La sua fanciullezza e la fase
adolescenziale videro il susseguirsi al trono imperiale di Caligola e Claudio. Trascorse in Spagna gli
anni di governo di Nerone, per poi tornare a Roma, richiamato da Sulpicio Galba. Si affermò
definitivamente come rètore grazie a Vespasiano, che lo incaricò di organizzare una scuola di
retorica, per riformare un classe dirigente legata ai valori e ai costumi romani, messi in dubbio da
Nerone. Raggiunse il suo apice e morì sotto Domiziano.
VITA
Marco Fabio Quintiliano nacque a Calagurris Iulia Nasica (Spagna) all'incirca nel 35. Si trasferì in
tenera età a Roma dove poté seguire lezioni di Remmio Palemone, inoltre, potè conoscere e quindi
ascoltare il retore Afro, e, il ben più noto Seneca. Finiti gli studi ritornò in Spagna dove potè
restarvi fino al 68; in seguito a quella data venne ricondotto a Roma da Sulpicio Galba che in quel
medesimo anno divenne imperatore del Senato. Giunto a Roma nel 68 vi esercitò l'avvocatura e
soprattutto incominciò la sua attività di maestro di retorica con molto successo, tanto che nel 78
Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la prima cattedra statale in assoluto: l'imperatore gli
accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando un concreto riconoscimento all'importanza
dell'arte retorica nella formazione della gioventù e soprattutto mostrando (discorso, questo, valido
del resto per tutti i Flavi) d'aver ben compreso l'importanza della retorica come strumento per la
formazione del futuro "ceto dirigente" , in relazione alle problematiche dell'adesione delle coscienze
e della creazione del consenso. Nel 90, dopo vent'anni d'insegnamento, decise di abbandonare
l'incarico affidatogli e si dedicò alla stesura della sua opera più rappresentativa “Institutio Oratoria”;
sono invece andate perdute altre due sue opere: “Orazioni” e “De causis corruptae eloquentiae”
(trattato dove esponeva la sua posizione in merito alla decadenza dell’arte oratoria, dovuta, secondo
lui, all’abbandono dei modelli del passato). Ma se la vita pubblica di Quintiliano fu abbastanza
agiata, quella privata fu turbata da gravi sventure domestiche, infatti, la morte della moglie
giovanissima e di due figli che da lei aveva avuto, turbarono tantissimo la mente del famoso oratore,
tanto da trovarne un riscontro persino in alcuni brani dell’ “Institutio Oratoria”. Domiziano, infine,
lo incaricò nel 94 dell'educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli "ornamenta consolatoria",
ovvero il titolo di console nonostante egli non avesse mai rivestito nel corso della propria vita tale
professione. Quintiliano morì intorno al 96, all’età di circa 61 anni, fra i suoi numerosi allievi, ebbe
Plinio il Giovane e, forse, Tacito.
Remmio Palemone: grammatico latino del sec. I. Nativo di Vicenza, visse a Roma dove acquistò
fama come insegnante per la novità dei suoi metodi pedagogici (fu il primo, tra l'altro, a introdurre
Virgilio nelle scuole come libro di testo).
STILE
Durante il periodo di attività di Quintiliano, secondo opinione diffusa, le virtù e i vizi dello stile
erano gli stessi di quelli dell'autore. Il dibattito era tra lo stile arcaico/attico, moderno e ciceroniano.
Quintiliano fu il promotore di una reazione classicheggiante, vedendo nel corrotto e degenerato
linguaggio di Seneca il maggiore responsabile di questa corruzione dello stile contemporaneo.
Questa corruzione secondo Quintiliano era anche dovuta a una generale decadenza dei costumi e al
decadimento delle scuole: in teoria quindi i rimedi alla corruzione dell'eloquenza erano il
risanamento dei costumi e la rifondazione delle scuole secondo i modelli del passato.
Lo stile di Quintiliano è molto ordinato, perchè scrivere ordinatamente significava anche pensare
ordinatamente, e questo era uno degli aspetti fondamentali dei suoi insegnamenti; è quindi ovvio
che per Quintiliano il recupero di Cicerone è indispensabile, in quanto punto di incontro tra ordine e
disciplina di stile, richiesti, tra l’altro, anche dalla restaurazione flaviana.
L’intento di Quintiliano di evitare una trasmissione di nozioni disadorna e arida e di conferire alla
sua esposizione “una certa eleganza” che la renda piacevole ed attraente, si traduce in un uso
relativamente abbondante di figure retoriche (specialmente similitudini e metafore) che risente
indubbiamente delle preferenze dei suoi contemporanei per un modo di esprimersi ornato e poetico.
Pur potendosi infatti definire il suo stile ciceroniano, esso presenta però anche caratteristiche
diverse, dovute non solo all’evoluzione della lingua, ma anche al fatto che Quintiliano non può non
tenere conto dei gusti dei giovani che vuole formare ed educare.
Egli ha il pregio di impostare quasi sempre i problemi con esemplare chiarezza e concretezza e di
svolgere la sua trattazione in tono amabilmente discorsivo.
Stupisce l’assoluta mancanza di prospettiva storica, che lo induce a riproporre modelli di eloquenza
legati alle condizioni storico-politiche dell’età repubblicana come se fossero ancora attuali sotto il
principato, quando l’oratoria è stata privata quasi completamente della sua fondamentale funzione
politica.
Stile arcaico/attico: secondo Quintiliano, eccessivamente semplice, spoglio e disadorno.
Stile moderno: fiorito e concettoso, caratterizzato dall’abbondanza di sententiae. Il difetto
principale imputato da Quintiliano a questo stile, che egli definisce “vitiosum et corruptum dicendi
genus”, è la mancanza del senso della misura nell’uso dei procedimenti dell’ornatus, dovuta alla
ricerca sfrenata del consenso da parte del pubblico.
Stile ciceroniano: uno stile capace di esercitare un forte impatto emotivo sugli ascoltatori. A questa
intenzione va ricondotta la sua "magniloquenza" e l’"amplificatio" (la "dilatazione" di un concetto,
al fine di farlo apparire più grandioso, maestoso, o spaventoso). E’ presente una sapiente
costruzione del periodo prosastico. Viene eliminata la paratassi, tipica della prosa arcaica, a favore
della ipotassi. I periodi sono ampi e armoniosi, basati sull’equilibrio e sulla rispondenza delle parti.
Differenze tra stile quintilianeo e ciceroniano: le differenze rispetto al modello ciceroniano si
notano nella sintassi meno ampia e distesa, più mossa e variata, e nella ricerca di una maggiore
concentrazione del pensiero, di una maggiore rapidità e incisività. Quintiliano riteneva Cicerone un
modello insuperato, ma non insuperabile.
PENSIERO E MORALITÀ
L’obiettivo primario di Quintiliano, nonché fulcro della sua letteratura, è l’educazione del cittadino,
con l’intento principale di formare un uomo saggio e probo. Allora formare l’oratore non
significava semplicemente creare una figura destinata alla professione forense, ma procedere,
attraverso l’educazione linguistica e retorica alla formazione culturale e morale completa di un
perfetto intellettuale, collaboratore del principe, come, ad esempio, Plinio il Giovane.
Quintiliano dava molta importanza alle primissime fasi dell’insegnamento. Per questo motivo è
considerato ancora oggi un “pedagogista ante litteram”. Era contro le punizioni corporali che fino
agli inizi del ventesimo secolo erano ancora in voga nelle scuole italiane.
L’insegnamento si basava sull’imitazione dei grandi autori del passato, soprattutto di coloro
rilevanti da un punto di vista scolastico e moralistico.
L'oratore perfetto doveva avere, secondo il nostro autore, una conoscenza a dir poco
"enciclopedica" (filosofia, scienza, diritto, storia), ma doveva essere, oltre che un "tuttologo", anche
un uomo onesto, "optima sentiens optimeque dicens" [XII, 1, 25], o, come disse già Catone: "vir
bonus dicendi peritus".
Punti chiave della riflessione Quintilianea:
 Concezione della retorica ereditata da Cicerone
Quintiliano si pone sulla linea di Cicerone per ciò che riguarda la concezione della retorica
come scienza che non si limita a fornire competenze puramente tecniche, ma si propone di
formare, insieme al perfetto oratore, il cittadino e l’uomo moralmente esemplare.
 Rapporti tra retorica e filosofia
Egli si pone sulla linea isocrateo-ciceroniana, polemizzando con la pretesa dei filosofi di
riservare a sé l’educazione dei giovani e affermando che la filosofia è solo una delle scienze che
contribuiscono alla cultura enciclopedica dell’oratore.
 Ostilità verso i filosofi contemporanei
“Sono disposto ad ammettere senza difficoltà che molti degli antichi filosofi non solo
impartirono insegnamenti moralmente validi ma vissero anche in conformità con tali
insegnamenti; invece ai nostri tempi nella maggior parte dei casi si sono celati sotto questo
nome i vizi più gravi. Non s’impegnavano infatti nella pratica della virtù e negli studi per essere
considerati filosofi, ma mascheravano i loro pessimi comportamenti sotto un’espressione
austera e un abbigliamento diverso dal comune”
(I, Prooem., 15)
LA RETORICA SECONDO QUINTILIANO
Quintiliano non considerava la retorica come un difetto, come un puro apprendimento di regole, ma
un’educazione umanistica in profondità che formava l’uomo in vista di quella che i greci
chiamavano paideia e i romani humanitas: una specie di cultura generale, unita alla finezza del
sentire e del ragionare. L’educazione retorica si identifica quindi con una cultura vasta e dominata,
lontana dall’oscurare o camuffare la verità, funzionale al concetto da esprimere. Escludere la
retorica dal discorso non significa essere schietti e spontanei, ma finire nella goffaggine e
nell’incolta rozzezza.
L’educazione retorica è anche educazione del gusto e dello stile che permette di valutare e
apprezzare gli autori della letteratura. Come osserva Michael Von Albrecht nella sua “Storia della
letteratura latina”: “Alla scuola di Quintiliano l’Europa moderna ha imparato a pensare e a parlare
autonomamente”. Ma l’Europa moderna ha anche ereditato da Quintiliano l’idea che ogni
educazione non può rinunciare alla formazione umanistica, quel particolare curriculum che va dallo
studio della grammatica alla stilistica, alla letteratura, fino alla storia e alla filosofia.
INSTITUTIO ORATORIA
Il suo capolavoro - dedicato a Vitorio Marcello (personaggio in vista alla corte di Domiziano) per
l'educazione del figlio Geta - è l'Institutio oratoria (93-96 d.C.), "La formazione dell'oratore", che
compendia l'esperienza di un insegnamento durato vent'anni (dal 70 al 90 ca). L’opera era un
programma di formazione culturale e morale che doveva seguire il futuro oratore sin dall'infanzia. Il
titolo dell'opera proviene dallo stesso autore, da un'espressione contenuta in una lettera al suo
editore Trifone, posta a premessa dell'opera. Sia in questa lettera, sia nel proemio del primo libro,
Quintiliano presenta il suo trattato come richiesto e atteso da molti, spiegando che circolava sotto il
suo nome un’Ars Rhetorica ricavata dagli appunti delle sue lezioni, da lui non autorizzata.
L’opera è un vero e proprio manuale sistematico di pedagogia e di retorica, in 12 libri, pervenutoci
integro. Nella sua organicità e nel carattere spiccatamente e minutamente precettistico di molte parti
è assai simile a un’Ars (ossia un manuale scolastico).
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Il I libro (precetti pedagogici) fa parte a sé, trattando di problemi vari di pedagogia relativi
all'istruzione "elementare" (una novità assoluta nel panorama culturale antico): dalla scelta
del maestro, al modo di insegnare i primi elementi di scrittura e lettura, dalla questione se sia
più utile l'istruzione pubblica o privata, al modo di riconoscere e invogliare le capacità dei
singoli discepoli, e così via.
Il II (scuola di retorica), invece, chiarisce la didattica del rètore, consiglia la lettura di autori
"optimi", né troppo antichi né troppo moderni, esorta gli scolari ad impostare le loro
declamazioni attinenti alla vita reale (e che puntassero comunque alla "sostanza delle cose"),
con un linguaggio semplice ed appropriato.
I libri dal III al VII trattano della "inventio" e della "dispositio", cioè lo studio degli
argomenti da inserire nelle cause e l'arte di distribuirli;
I libri dall'VIII al X, dell' "elocutio", ovvero della scelta dello stile e dell'orazione. Il X libro
insegna i modi di acquisire la "facilitas", cioè la disinvoltura nell'espressione (prendendo in
esame gli autori da leggere e da imitare, Quintiliano inserisce qui un famoso excursus
storico-letterario sugli scrittori greci e latini – di uguali meriti – preziosa testimonianza sui
canoni critici dell'antichità: ma i giudizi hanno un carattere esclusivamente retorico).
L'XI libro parla della "memoria" e dell'"actio", cioè dell'arte di tenere a mente i discorsi e di
porgerli.
Il XII (la parte "longe gravissimam", "di gran lunga più impegnativa" dell'opera) presenta,
infine, la figura dell'oratore ideale: le sue qualità morali, i principi del suo agire, i criteri da
osservare.
SEVERO GIUDIZIO SU SENECA
X, 1, 125-131
Al termine della rassegna sugli scrittori latini troviamo questo complesso ed articolato giudizio su
Seneca. Quintiliano,pur riconoscendogli alcune qualità positive, pronuncia un giudizio decisamente
negativo sul suo stile: Seneca è infatti l'esponente più rappresentativo di quel corruptum dicendi
genus che il retore cerca di contrastare in nome di un ritorno al modello ciceroniano. I difetti di tale
stile alla moda, che suscita l'entusiasmo dei giovani inesperti, sono individuati principalmente nella
mancanza del senso della misura; viene inoltre espressamente rilevato l'abuso delle sententiae. Si
può notare peraltro che la condanna dello stile concettoso è espressa con uno stile nervoso e
spezzato che ricorda curiosamente proprio quello senecano: si veda in particolare (alla fine del
passo) la clausola abrupta (in quanto contravviene alla legge dei cola crescenti) quod voluit effecit.
Ex industria Senecam in omni genere eloquentiae distuli propter vulgatam falso de me opinionem,
qua damnare eum et invisum quoque habere sum creditus. Quod accidit mihi, dum corruptum et
omnibus vitiis fractum dicendi genus revocare ad severiora iudicia contendo: tum autem solus hic
fere in manibus adulescentium fuit. [126] Quem non equidem omnino ~nabar excutere, sed
potioribus praeferri non sinebam, quos ille non destiterat incessere, cum diversi sibi conscius
generis pIacere se in dicendo posse quibus illi placerent, diffideret. Amabant autem eum magis
quam imitabantur tantumque ab illo defluebant, quantum ille ab antiquis descenderat. [127] Foret
enim optandum, pares ac saltem proximos illi viro fieri. Sed placebat propter sola vitia et ad ea se
quisque dirigebat effingenda, quae poterat: deinde cum se iactaret eodem modo dicere, Senecam
infamabat.
[128]Cuius et multae alioqui et magnae virtutes fuerunt, ingenium facile et copiosum, plurimum
studii, multa rerum cognitio, in qua tamen aliquando ab his, quibus inquirenda quaedam mandabat,
deceptus est. Tractavit etiam omnem fere studiorum materiam: [129]nam et orationes eius et
poe1Jlataet epistulae et dialogi feruntur. In philosophla parum diligens, egregius tamen vitiorum
insectator fuit. Multae in eo claraeque sententiae, multa etiam morum gratia legenda, sed in
eloquendo corrupta pleraque atque eo perniciosissima, quod abundant dulcibus vitiis. [130] Velles
eum suo ingenio dixisse, alieno iudicio: nam si aliqua contempsisset, si prava non concupisset, si
non omnia sua amasset, si rerum pondera minutissimis sententiis non fregisset, consensu potius
eruditorum quam puerorum amore comprobaretur. [131] Verum sic quoque iam robustis et
severiore genere satis firmatis legendus vel ideo, quod exercere potest utcumque iudicium. Multa
enim, ut dixi, probanda in eo, multa etiam admiranda sunt, eligere modo curae sit, quod utinam
ipse fecisset: digna enim fuit illa natura quae meliora vellet: quod voluit effecit.
Traduzione
Parlando di ogni tipo di stile, ho rinviato di proposito la menzione di Seneca, perché si è diffusa la
falsa opinione che io lo condanni e addirittura che lo abbia in odio. Questo mi è capitato mentre mi
sforzavo di correggere, riportandolo a criteri di gusto più rigorosi, un modo di esprimersi corrotto
e rovinato da difetti di ogni genere. A quell'epoca, del resto, si può dire che fosse il solo autore letto
dai giovani. [126] Io non mi proponevo certo di strapparlo dalle loro mani, ma non tolleravo che
fosse anteposto ad autori più validi, contro i quali egli si era costantemente accanito perché,
rendendosi conto di quanto il suo stile fosse diverso dal loro, dubitava di poter piacere a chi
apprezzasse quegli autori. Del resto i giovani lo amavano più di quanto non lo imitassero, e tanto
risultavano peggiori di lui quanto egli era stato inferiore agli antichi. [127] Sarebbe stato
desiderabile, infatti, che lo eguagliassero, o almeno che gli si avvicinassero. Invece egli piaceva
soltanto per i suoi difetti, e ciascuno si sforzava di riprodurre quelli che riusciva a imitare; quindi,
vantandosi di parlare come Seneca, lo screditavano.
[128] Egli ebbe d'altronde molti e notevoli pregi, un ingegno pronto e feconde grandissimo
impegno, vasta cultura, anche se talvolta, in questo campo, fu messo fuori strada da coloro a cui
affidava ricerche su determinati argomenti. [129] Si occupò inoltre di quasi tutti gli ambiti di
studio: di lui si tramandano orazioni, poesie, lettere e dialoghi. Per quanto riguarda la filosofia, fu
poco accurato, ma seppe attaccare i vizi in modo egregio. Si trovano in lui molte massime
eccellenti, molte parti, anche, che vale la pena di leggere per ragioni morali; però nel modo di
esprimersi è quasi completamente guasto, e risulta tanto più deleterio in quanto è pieno di difetti
seducenti. [130] Vorresti che avesse parlato seguendo il proprio ingegno ma attenendosi al gusto
di altri. Infatti se avesse rifiutato alcune cose, se non si fosse prefisso obiettivi sbagliati, se non
avesse amato tutto ciò che era suo, se non avesse sbriciolato la sostanza degli argomenti con
frasette troppo brevi, otterrebbe approvazione sulla base del consenso dei dotti piuttosto che
dell'amore dei ragazzini. [131]Ma anche così dev'essere letto da studenti già provetti e
sufficientemente temprati da uno stile più rigoroso, se non altro perché può comunque esercitare il
loro senso crf1ico. Molto infatti in lui, come ho detto, è degno di approvazione, molto anche di
ammirazione, purché si abbia cura di scegliere; e volesse il cielo che l'avesse fatto egli stesso!Il suo
talento infatti avrebbe meritato che si proponesse obiettivi più validi: ciò che si propose, seppe
realizzarlo.
QUINTILIANO: IL PROCESSO EDUCATIVO
Concetto di educazione
Prima di esaminare qual è stato il programma formulato da Quintiliano per la preparazione del
futuro oratore, è bene illustrare quale sia stato il suo concetto d’educazione nella situazione storica
in cui egli visse;
Tale concetto era espresso su tre diverse prospettive:
 GENERALE: perché abbraccia tutti gli aspetti dell’umanità;
 INTEGRALE: perché deve formare tutto l’uomo;
 UNITARIO: perché tutte le varie parti dell’educazione concorrono ad un fine unitario: la
personalità dell’educando;
Principio fondamentale della pedagogia di Quintiliano
L’educazione è un processo continuo e graduale.
 CONTINUO: perché il processo educativo nell'uomo parte dalla “culla”, cioè sin dalla
tenera età e lo accompagna non solo fino al compimento degli studi ma alla sua maturità, ed
anche alla vecchiaia, per non dire fino agli ultimi giorni della sua vita;
 GRADUALE: perché l’educazione deve procedere adeguando le difficoltà alle successive
fasi di sviluppo del discente;
In merito a questo principio, Quintiliano, formulò un efficace esempio: “Come un vaso dalla bocca
stretta difficilmente si riempie se vi servi il liquido in abbondanza, perché finisce col traboccare,
mentre si riempie se il liquido vi viene versato a poco a poco, e addirittura a goccia a goccia, e così
si deve agire con le menti dei piccoli” [1].
Da quest’esempio è implicito che l’educazione è anche un processo molto lento.
Le fonti dell’educazione
Il processo educativo di Quintiliano prevede due parti essenziali: “l’educazione morale e
l’educazione intellettuale”; il loro sviluppo viene affidato a quelle che erano le istituzioni
tradizionali dell’educazione romana: la “famiglia” e la “scuola”.
La famiglia
La prima fase dell’educazione del fanciullo[2] era affidata alla famiglia, nella quale, Quintiliano
riconosce anche sé, contro tradizione, l’efficacia della madre anche nel campo della cultura.
L’ambiente familiare aveva il compito di impartire una prima formazione morale, ritenuta da
Quintiliano, basilare ed essenziale per la formazione dell’uomo e quindi dell’oratore e, inoltre,
quello di curare un corretto apprendimento del linguaggio, con la precauzione di tenere lontano
dalle orecchie e dalle labbra del fanciullo ogni linguaggio poco pulito.
La preoccupazione di Quintiliano, era quella di non trascurare questo primo periodo della vita,
perché, il fanciullo fin dalla nascita, osserva, ascolta e tenta con l’imitazione di riprodurre le
espressioni degli altri conservando fortemente quelle impressioni che tanto sono più cattive tanto
più restando tenaci nell’animo del fanciullo. Quindi, si può capire, come sia fondamentale, per
Quintiliano, il possesso di una buona moralità degli adulti che stanno affianco dei fanciulli;
Nell’indicare gli adulti, egli, si riferisce non solo ai genitori ma a tutti gli altri che gli sono a
contatto come le nutrici, gli schiavi e soprattutto i pedagoghi.
Il maestro
Per Quintiliano l’atto educativo non è un processo naturale, bensì un atto intenzionale che deve
essere affidato a chi sappia guidare il minore nella sua ascesa verso la maturità: questa figura è
quella del maestro.
Figura necessaria non solo come tecnico del sapere ma anche come uomo, capace di instaurare un
nuovo rapporto educativo fondato sul reciproco senso di stima e affetto; il maestro, dice
Quintiliano, tratti i suoi discepoli sempre come piccoli uomini e loro lo considerino un genitore
spirituale, un modello a cui gli alunni si propongono di imitare.
Occorre che il maestro sappia contemperare la sua autorità con la benevolenza; autorità fondata sul
fatto che sia il maestro ad impostare e giudicare l’educazione.
Uno degli aspetti nei quali si esprime la comprensione che egli ebbe del fanciullo, e’ quello che
concerne i premi e i castighi: “Fin dai primi anni si comincino a lodare i suoi tentativi e lo si
ricompensi con opportuni premi; quando qualcosa non va, il maestro trovi il modo più efficace per
rendere consapevoli i discepoli del loro torto, ma in modo di non scoraggiarli e stimolarli a far
meglio1[3]. E’ ovvio che in questa raffigurazione del maestro, Quintiliano, disconosce l’uso dei
castighi in genere e, particolarmente dei castighi corporali: inutili e offensivi per la dignità del
minore.
La figura del maestro che egli descrive, esprime tutta la sua fede nell’atto educativo: sia, il buon
maestro, d’onesti costumi e abbia una solida cultura, sia fermo nei suoi principi e abbia fede negli
ideali, sia ottimista sulla natura degli uomini e sull’efficacia del proprio magistero educativo, sia
affabile e modesto e si lasci guidare dall’affetto per la propria opera.
Il maestro, afferma Quintiliano, deve conoscere, anche, la psicologia dei suoi alunni per
permettergli la comprensione del discepolo e adeguare l’opera educativa alla sua personalità e al
suo particolare momento psicologico.
La didattica
Fasi dell’istruzione
Quintiliano sa che ogni età ha le sue condizioni, e riconosce che fino a sette anni il fanciullo non
deve ancora essere sottoposto ad uno sforzo eccessivo, perché ciò potrebbe condurre a fargli odiare
lo studio.
Il primo studio a cui il fanciullo dovrà dedicarsi è quello del leggere e dello scrivere, l’acquisto di
una buona pronuncia, l’accostamento alle prime forme di calcolo e all’esercizio della memoria, ma
sotto forma di giuoco, così come, per l’insegnamento delle lettere dell’alfabeto, Quintiliano
suggerisce che esso sia condotto mediante giuochi, fornendo al bambino lettere d’avorio o d’altro
materiale adatto, mediante al quale egli, giocando, impari l’alfabeto.
Per l’apprendimento della scrittura consiglia, di far tracciare al fanciullo le lettere su tavolette
d’argilla sulle quali siano già incise le lettere da scrivere; in questo modo, il fanciullo si allenerà a
seguirne il tracciato con lo stilo; tal esercizio abituerà alla forma e a scrivere rapidamente. Quando
il fanciullo avrà imparato da sé a tracciare i segni dell’alfabeto, gli si daranno dei modelli da
copiare: dapprima parole, e quindi frasi.
Quando il fanciullo avrà appreso a leggere e a scrivere, passerà alle scuole del grammatico
(letteratura in Grecia) e quindi a quella del retore.
Il valore della scuola
Nell’antica Roma, il dilemma, era su chi doveva controllare e dirigere l’educazione, ma Quintiliano
non si preoccupa delle finalità che potrebbe conseguire la scuola statale o quella privata, ma
piuttosto dei migliori risultati che può conseguire l’educazione scolastica nella sua collettività nei
confronti dell’educazione individuale. Qui Quintiliano esalta il valore educativo della scuola come
comunità; l’insegnamento individuale è soltanto istruzione; la scuola intesa come piccola società è
invece vera educazione, vera formazione nella quale l’alunno apprende a vivere socialmente, si
abitua a trattare con i suoi simili, aiuta l’accrescere dei rapporti interumani.
Uno degli argomenti che Quintiliano adduce a sostegno della sua tesi sulla superiorità
dell’insegnamento pubblico su quello privato è il fatto che la scuola sveglia il senso della
emulazione tra condiscepoli; in merito a ciò, egli applicava un sistema che dava molto profitto:
divideva gli alunni in vari gruppi e fissava, secondo la loro capacità, l’ordine di parlare e chi faceva
progressi era posto più in alto nella graduatoria. La classifica si rifaceva ogni trenta giorni per
tenere sempre desta l’emulazione, così i perdenti speravano di essere vincitori e il vincitore cercava
di non farsi togliere il primato. Conclude, Quintiliano, che questa emulazione eccitava più delle
esortazioni del maestro.
Il programma di studi
Nella scuola del grammatico era previsto lo studio della grammatica, ritenuta da Quintiliano
fondamento stabile per la formazione del futuro oratore; studiata non soltanto per conoscere le
regole della lingua, o per chiamare meglio il senso dei testi, ma penetrando nei suoi misteri, vi si
scopriranno mille finezze che non soltanto acuiscono l’intelligenza, ma coltivano l’erudizione e la
scienza più profonda.
Oltre alla grammatica, per Quintiliano, le discipline che il futuro oratore deve studiare erano la
musica, la geometria, l’astronomia, la storia, la filosofia, la retorica e la conoscenza del diritto
civile, della recitazione, dei costumi e della religione dello stato in cui vive.
Lo studio della musica perché, Quintiliano dichiara, un’orazione ha una struttura musicale; una
struttura armonica che ha la sua efficacia nell’impressionare gli animi, analogamente a
quell’ottenuta con gli strumenti musicali. Ritiene necessaria per l’oratore anche la conoscenza della
geometria (distinta in scienza dei numeri e scienza delle figure) perché in quel periodo, a Roma, si
avevano scarse cognizioni di questa disciplina. Quintiliano accenna alla necessità delle conoscenze
astronomiche; egli ne tratta come un’estensione della geometria, perché è questa che insegna come i
movimenti degli astri siano certi e regolari.
La storia è per Quintiliano un genere analogo alla poesia; essa non serve per dimostrare, ma per
narrare, per conoscere e meditare i più nobili fatti che l’antichità ci ha tramandato.
Il futuro oratore deve conoscere la filosofia, e particolarmente la filosofia morale, la quale
comprende anche il diritto civile. Quintiliano ritiene che i problemi della filosofia, per quanto
concerne l’educazione, sono di competenza dell’oratoria, e che soltanto per motivi storici essi siano
stati trattati, quasi in esclusiva, dai filosofi. Pertanto, Quintiliano, pur ritenendo che l’oratore non
deve trascurare i filosofi, lo invita a trarne solo ciò che gli è utile, e non accettarne le conclusioni
strettamente tecniche, che sono astratte e assai lontano dalla realtà.
Quintiliano ritiene opportuno lo studio anche della recitazione, per la quale consiglia all’alunno di
prendere lezioni da qualche attore, non per fare il commediante, ma per apprendere e ben
pronunciare le parole, ad usare il giusto tono della voce e a gestire in modo adeguato il discorso.
Ma a che servono, si chiederanno alcuni, tali discipline (come ad esempio, saper riconoscere i suoni
di una cetra), per difendere una causa o reggere un’assemblea? Quintiliano esamina questa necessità
e risponde che tali discipline giovano a formare l’oratore, anzi l’oratore perfetto, colui che in
nessuna sua parte è manchevole. Egli a tal proposito formula un esempio: “come api che
compongono, dai succhi di mille fiori diversi, quel miele il cui sapore l’uomo non è capace di
imitare”2[4].
La partecipazione dell’educando a questo atto educativo viene riconosciuta libera e attiva,
suggerendo all’alunno di approfondire per conto proprio gli argomenti, studiati a scuola, con altri
libri ed altro materiale utile a chiarire ed estendere gli stessi argomenti.
L’età del passaggio dal grammatico al retore dipende dal livello del sapere tratto dagli studi;
passerà, in altre parole quando ne sarà capace. Pertanto, i professori di retorica cominceranno il loro
insegnamento là dove è arrivato quello del grammatico.
Nella scuola del retore il minore impara a comporre e l’esercizio è il mezzo necessario per
quest’apprendimento. L’esercizio del comporre, per Quintiliano, comprende due problemi: “Come e
che cosa comporre”. Egli tratta del primo nel cap. X e III e del secondo nel X e V.
Come comporre, occorre, dice Quintiliano, che l’esercizio sia sorretto dal metodo; bisogna abituare
gli alunni a non scrivere molto, ma diligentemente e accuratamente. Ogni componimento deve
avere tre qualità: essere corretto, chiaro e ornato (adeguato). L’esercizio del comporre non potrebbe
avere alcun’efficacia se non si sapesse che cosa comporre; lo scrivere è frutto di studio e di
preparazione ma l’esercizio del comporre ha bisogno di una guida che è data dalla lettura.
In quanto agli argomenti da scegliersi per l’esercizio del comporre, Quintiliano comincia con il
suggerire di tradurre dal greco al latino, esercizio molto usato dai grandi oratori. Esercizio assai
utile, gli autori greci infatti sono ricchi d’erudizione e molta arte portano all’eloquenza. Gioverà,
poi, il volgere le poesie in prosa perché fa sì che le cose dette nei versi si possono esprimere, in
prosa, con termini diversi. Quintiliano consiglia anche di parafrasare orazioni latine, perché
quest’esercizio esige una lettura attentissima che non faccia trascurare nulla del testo; consiglia
anche di rifare più volte, in forme diverse, lo stesso componimento, specialmente quello che parli di
cose semplicissime, perché in tal caso è più difficile trovare diverse forme d’espressione.
Come esercizi di composizione indica, inoltre, le tesi, il confutare o l’approvare le sentenze. Infine
nella stesura finale degli scritti bisognava effettuare il lavoro di correzione e come miglior metodo
per attuarlo era quello di riporli per qualche tempo, perché, diceva Quintiliano, spesso non si è in
grado, per motivi affettivi nei confronti del proprio lavoro, di giudicarli adeguatamente; quando
invece si lascia scorrere del tempo, l’autore non ha più “quell’affetto paterno” verso i suoi scritti e li
legge come se fossero lavori di un altro, ed è pertanto più sereno nel giudicarli.
Nel concludere queste note, possiamo affermare, che tutti i suoi principi, riflessioni, intuizioni e
consigli sul modo di studiare si racchiudono in una sola figura: quella del maestro. E quando nel
finale del suo testo, egli dice che se la sua opera, forse, non potrà dare ai giovani una grande utilità,
almeno potrà incitare la loro buona volontà, egli traccia nella figura del buon maestro, che ci ha
descritto, il proprio ritratto.
La scuola secondo Quintiliano
Quintiliano esalta il valore educativo della scuola come comunità: l’insegnamento individuale è
soltanto istruzione vi si appagano i mediocri che non sono capaci di assurgere alla funzione del
maestro. L’insegnamento collettivo è invece vera educazione, vera formazione. L’insegnante del
singolo discepolo si limita ad illustrare la scienza; l’insegnante della comunità ha nell’uditorio
numeroso lo stimolo ad esprimere tutta la propria umanità, pronta a svelarsi quando sente di essere
intesa e ad incontrarsi con l’umanità degli altri. La scuola pubblica è una piccola società nella quale
l’alunno apprende a vivere socialmente.
E’ nella scuola come comunanza che si apprende il senso comune. Nella scuola il discepolo trae
motivo di miglioramento non solo dal maestro, ma anche dai condiscepoli ed egli impara cosi,
anche, a comprendere come sia utile ad ogni individuo l’apporto dell’intelligenza e della laboriosità
degli altri. Il confronto con i condiscepoli evita intanto che l’isolamento faccia languire la mente e
la conduca al buio, o al contrario che la gonfi di una tronfia superbia.
Egli non si preoccupa dunque della finalità che potrebbe conseguire la scuola collettiva come scuola
statale, e particolarmente delle finalità politiche prospettate dai suoi predecessori, ma piuttosto dei
migliori risultati che può conseguire l’educazione scolastica nei confronti dell’educazione
individuale. La scuola per Quintiliano è vista nella sua complessità e in questa complessità egli
scopre un valore formativo particolare, anzi forse, il vero mezzo formativo: è a scuola che ci si
forma davvero uomini, è a scuola che il maestro può diventare davvero un educatore.
Quintiliano comprende il valore educativo della scuola, vedendo in essa la vera e l’unica istituzione
educativa; e sente che la scuola va al di la delle parti che la compongono e delle attività che vi si
svolgono, perché unifica tutto in un significato nuovo, in un nuovo valore.
Egli esamina gli argomenti che si possono addurre contro o in favore o contro a ciascuna soluzione.
Innanzi tutto le conseguenze morali. In famiglia, certamente è più facile curare la moralità che non a
scuola dove, tra la turba dei fanciulli, ve ne saranno certamente di peggiori e di maggiormente
portati al vizio. E Quintiliano dichiara, a questo punto, che se risultasse che le scuole giovano agli
studi ma nuocciono alla morale, sarebbe preferibile saper vivere onestamente, più che parlare bene;
le due cose sono in verità inseparabili, ma se pur si potessero separare, meglio non essere oratore
che non essere vir bonus.
Quintiliano intende difendere la scuola; sul piano dei pericoli morali la famiglia e la scuola sono
sullo stesso piano. Anzi, a rifletterci bene, la scuola in se stessa non può essere causa od occasione
d’immoralità: se lo è, è perché la famiglia manda a scuola minori già viziati, già corrotti, e non è
quindi a scuola che prendono questi mali, ma nella scuola li portano.
La mediazione educativa è opera, per Quintiliano, della cultura; essa è l’anima essenziale del
processo formativo. Quintiliano è dunque per una scuola di cultura (e non poteva essere
diversamente dato il fine particolare che si prefiggeva) ma bisogna rilevare due importanti
osservazioni: la prima è che egli ha un senso vivo della cultura, una cultura dinamica, formativa; la
seconda è che Quintiliano sente il valore della partecipazione attiva del discepolo alla scuola. La
cultura per Quintiliano non è un arido sapere o una mnemonica erudizione, ma il frutto
dell’esperienza dell’uomo. Essa ci serve perché ci mostra la strada che hanno percorso coloro che ci
hanno preceduto, e ci facilita, pertanto, l’inizio della strada che dobbiamo percorrere noi.
In quanto al numero delle discipline, egli le prevede varie perché ritiene che tutte le scienze
debbano essere conosciute dall’oratore. La duttilità intellettiva non farà avvertire noia e stanchezza
e favorirà un apprendimento proficuo e consistente. La cultura è, dunque, per Quintiliano, come una
ricchezza da accumulare per servirsene al bisogno.
Note:
[1] Institutio Oratoriae I, I
[2] indicato, nell’Institutio oratoria, con il termine di “puer” fino alla scuola di grammatico, mentre
per gli alunni di retorica utilizza “adulescens”; in ogni modo il più usato sarà “juvenis” per indicare
tutti i minori a cui la sua opera è destinata
[3] Institutio Oratoriae I, I, 20
[4] Institutio Oratoriae I, X, 7