SOCRATE Il problema delle fonti Socrate è una delle personalità più

SOCRATE
Il problema delle fonti
Socrate è una delle personalità più note dell'intera storia della filosofia, uno di quegli uomini in
grado di cambiare il corso della storia umana, con le parole e con i gesti, ma non con la scrittura,
per scelta. Di conseguenza, egli è anche uno dei personaggi più controversi, in grado di prestarsi ad
ogni genere di interpretazione. Il primo problema, dunque, è quello relativo alle fonti. Le
testimonianze indirette sono parecchie ma non sempre coerenti tra loro. Solo Aristofane scrive
quando Socrate è ancora in vita. Nella commedia Le Nuvole, descrive il filosofo come un
chiacchierone perdigiorno, significativamente rappresentato dentro una cesta calata dalle nuvole,
tutto intento a spiegare ai giovani della città assurde teorie, come, per esempio, quanto è lungo il
salto di una pulce o quale l'origine del ronzio delle zanzare. Aristofane fa riferimento ad un Socrate
poco conosciuto ancora oggi, un seguace di Anassagora e come tale interessato soprattutto al cielo e
non agli uomini, come invece avverrà in seguito. E tuttavia l'intento dell'autore è chiaro: mostrare
Socrate come corruttore di giovani, che insegna a disprezzare dei, usi e costumi di Atene.
Trattandosi delle medesime accuse di cui dovrà presto rispondere davanti ad una giuria popolare, la
questione non è affatto da sottovalutare. Che Socrate sia un “chiacchierone”, è innegabile. Si tratta,
d'altro canto, delle medesime accuse che cominciano a piovere su tutto il movimento sofista. E
allora Socrate è un sofista? In un certo senso sì e come tale viene percepito dai suoi contemporanei.
Il problema è che Atene si avvia verso una rapida decadenza e che a finire sul banco degli imputati
sarà proprio la sofistica, per ragioni che vedremo in seguito. Socrate – come tanti altri sofisti –
viene accusato di negare l'esistenza degli dei. In realtà il filosofo non la pensa proprio in questo
modo, ma è indicativo che i cittadini pensino proprio questo, perché è così che la pensano i Sofisti,
primo fra tutti Protagora, che infatti verrà condannato per questa ragione. Ma la “chiacchiera” di
Socrate è di ben altra natura rispetto a quella sofistica. Innanzitutto, il filosofo inizia a
“chiacchierare” in seguito ad un episodio piuttosto curioso, una sentenza dell'Oracolo di Delfi che
lo proclama come il più sapiente degli uomini. Stupito, quasi incredulo, Socrate si mette alla ricerca
di uomini più sapienti di lui, incalzandoli con raffiche di domande su ogni genere di questione, e
smascherando la loro ignoranza: è questa la sua “chiacchiera”, ben diversa, dunque, dai pedanti
discorsi dei suoi colleghi sofisti. Ma è poi vero che Socrate è il più sapiente tra gli uomini, quanto
meno di Atene? Niente affatto: il filosofo è convinto che l'affermazione dell'Oracolo vada
interpretato in altra maniera. È vero, nessuno alla fine si mostrerà all'altezza di resistere
all'estenuante interrogatorio socratico e tuttavia nemmeno il filosofo è in grado di rispondere a
talune domande che egli stesso pone all'interlocutore di turno. Dunque, se è il più sapiente degli
uomini, lo è perché lui “sa di non sapere”. Quella che potrebbe essere definita una “dotta ignoranza”
non è solamente una testimonianza di buona fede (sulle cose che non conosco non posso
pronunciarmi) ma anche la base della stessa filosofia: solo chi sa di non conoscere la natura delle
cose si sforzerà di conoscerla. La manifesta “ignoranza” socratica, dunque, è un potente stimolo
all'indagine, anzi l'unica spinta possibile per chi non voglia fermarsi alle apparenze o cullarsi su
saperi solo acriticamente acquisiti. Ma su questo torneremo tra poco. Continuiamo con l'analisi
delle fonti.
Di poco successiva alla morte è uno scritto di Policrate, molto noto e significativamente intitolato
Accusa contro Socrate. Si tratta di accuse molto pesanti. Socrate viene presentato come un acerrimo
nemico della democrazia, anzi come l'ispiratore più o meno occulto delle cospirazioni aristocratiche
che portano alla tirannia. Dunque, il processo e la condanna che seguiranno alla restaurata
democrazia non sono altro che un atto di giustizia. Policrate interpreta l'accusa di corruzione di
giovani, dunque, come il tentativo da parte di Socrate di minare alla base il consenso della
democrazia ateniese, a partire cioè dalle giovani generazioni. Anche in questo caso le informazioni
vanno decodificate: Socrate, in effetti, non è per nulla democratico, anzi taluni aspetti della sua
filosofia sono palesemente aristocratici se non anche reazionari. Di più: egli è stato effettivamente il
maestro di Crizia, forse il politico più dotato dei trenta che governano tirannicamente Atene. E
sicuramente il filosofo non è persona da tenersi per sé certe posizioni: dunque, le sue idee erano
notte a tutti i cittadini. E tuttavia sarebbe disonesto non ricordare come Socrate viene ridotto al
silenzio proprio dalle leggi liberticide che i Trenta Tiranni emanano – sarà un caso? – proprio pochi
giorni dopo che Socrate pronuncia queste parole:
come un pastore si dimostra cattivo se il suo gregge diminuisce, così un governante è dannoso se il
numero dei cittadini si assottiglia e la loro vita peggiora
Il riferimento – nemmeno tanto velato a dire il vero – è proprio a Crizia, il suo ex allievo. Una volta
emanato il decreto, che impedisce di fatto la libera espressione delle idee, Socrate si presenta ai
Tiranni con queste parole: “fatemi capire la legge: dovrò astenermi soltanto dai ragionamenti
ingiusti o anche da quelli giusti?”. Caricle, uno dei Trenta, gli risponde: “Visto che fai finta di non
intendere, ti ingiungiamo noi di non conversare affatto con i giovani” (il problema, per la destra o la
sinistra, è in sostanza sempre quello: la “corruzione” dei giovani). E Socrate: “Ma fino a quale età
gli individui vanno considerati giovani?”. Caricle: “Fino ai trent'anni”. E ancora Socrate: “Ma se
vado a fare la spesa e il venditore non ha ancora trent'anni, potrò chiedergli il prezzo? E se un
giovane mi chiede dove stai di casa, posso rispondergli?”. “Il guaio – gli risponde Caricle – è che
queste tue domande sono solo pretesti per potere plagiare i cittadini”. Non critiche, bensì plagio:
Socrate è ormai inviso a tutti, democratici e tiranni!
Al di là delle sue posizioni politiche, l'autore potrebbe essere definito come l'inventore di una nuova
professione: l'intervistatore (di strada naturalmente). La sua carriera comincia nel 420, a quasi
cinquanta anni, cioè l'Oracolo di Delfi lo proclama il più sapiente tra gli uomini. Da quel giorno
Socrate non fa altro che abbordare gli ateniesi, bersagliandoli con ogni genere di domande. È
talmente stressante che – come scrive Diogene Laerzio - “i suoi interlocutori lo colpivano con
pugni o gli strappavano i capelli”. E Socrate? “Egli sopportava con rassegnazione. A tal punto che
una volta, mentre subiva i calci che riceveva da un tale, a chi si meravigliava del suo atteggiamento
paziente rispose: se mi avesse preso a calci un asino, l'avrei forse condotto in giudizio?”. Questo
era Socrate! Senofonte, che scrive a distanza di molti anni dalla morte del filosofo, sostanzialmente
concorda: Socrate è un vero e proprio scocciatore. Tampina le persone per strada sottoponendole ad
un vero e proprio interrogatorio, con domande spesso apparentemente prive di senso, e fino a
scatenare le ire degli interlocutori.
Insomma, si può dire che Socrate non goda affatto di una buona fama in città né quando questa è
governata dai democratici né quando passa nelle mani dei Tiranni né, come vedremo, quando torna
ad essere democratica. Ma, allora, come è possibile che di Socrate si serbi ancora oggi un ricordo
positivo? Come è possibile che lo si celebri ancora come uno dei più grandi ed apprezzati filosofi
della storia? È bastata solamente la condanna a morte a farne non solo un martire ma anche un
grande uomo ed un eccezionale pensatore? Niente affatto: a contribuire a creare il mito di Socrate
sono i due filosofi più grandi di tutta la filosofia classica (e forse di tutta la storia della filosofia fino
ai giorni nostri), Platone ed Aristotele. Il primo è il discepolo prediletto di Socrate, nonché anche il
suo amante, e come tale lascia ai posteri splendide pagine apologetiche, dense di pathos e di amore,
al punto che, soprattutto nelle prime opere, è difficile capire – dato che, è bene sempre ricordarlo,
Socrate non lascia nulla di scritto – dove finisca il pensiero di Socrate e dove invece cominci quello
di Platone. Aristotele, a sua volta discepolo di Platone, farà di Socrate l'avversario della Sofistica,
l'inventore del concetto, il teorico della virtù come scienza, l'uomo della rottura con tutta una lunga
tradizione. Per secoli è stata questa l'unica visione che si è avuta di Socrate, dunque molto positiva,
e i filosofi hanno fatto letteralmente a gara a mostrarsi attinenti alle sue idee, ai suoi insegnamenti.
Fino a quando non è comparso sulla scena, nel XIX secolo, un certo Friedrich Nietzsche, secondo il
quale il filosofo ateniese rappresenta l'inizio della decadenza occidentale, il demolitore del vero
spirito greco, aristocratico e dionisiaco, sulle cui ceneri ha imposto una nuova visione del mondo,
della vita, della storia. Socrate – secondo il filosofo tedesco – avrebbe contrapposto allo “spirito
libero” una vera e propria morale degli schiavi, una etica “sacerdotale”, che mortifica il corpo ed
eleva lo spirito, che considera la presenza su questo mondo come un passaggio, sebbene necessario,
verso un'altra vita, autentica, quella del cielo. Da allora il dibattito si è riaperto e ancora oggi si
discute, anche animatamente, su chi sia il vero Socrate.
La vita
Socrate nasce ad Atene nel 470 (o 469), da padre scultore e madre levatrice. Una famiglia
sicuramente non povera, ma nemmeno molto ricca e dunque non può che suscitare un certo stupore
la mancanza di testimonianza relative alle (eventuali) occupazioni del giovane Socrate. Insomma,
sembra proprio che Aristofane abbia ragione: Socrate è un “perdigiorno”, intento soprattutto a
“chiacchierare” con la gente.
Il futuro filosofo vive la sua giovinezza nel periodo di massimo splendore di Atene. È difficile
credere – a differenza di quanto pensano Platone ed Aristotele – che non venga influenzato dal
clima che si respira in quegli anni, dunque anche dall'insegnamento dei Sofisti. Sappiamo però –
come si è detto in precedenza – che il primo amore di Socrate è per le scienze naturali. Solo in un
secondo tempo, influenzato dalla sofistica, si interessa all'uomo.
Lo splendore di Atene, tuttavia, non dura molto. Scoppia la guerra del Peloponneso: è la fine di un
sogno. Atene precipita nuovamente nel clima di guerra e contrapposizione, che ha effetti nefasti
anche sulla società, che torna pesantemente a dividersi. Socrate, comunque, da buon ateniese, si
arruola come oplita, distinguendosi in battaglia, come quando rimane al fianco del mitico Alcibiade,
ferito gravemente, salvandogli in tal modo la vita. Non male per un filosofo che vive sulle nuvole. È
decisamente meno eccitante, invece, la sua vita privata. Socrate, che sicuramente non è quello che si
può definire un bell'uomo – come lo stesso Platone, che pure lo ama, afferma a più riprese – si
sposa con una donna piuttosto irascibile, una vera e propria bisbetica, stando a numerose
testimonianze, Santippe, che gli darà tre figli (anche se Aristotele e Plutarco sono convinti che due
di questi siano il frutto di una relazione adulterina). E, forse, è anche per sfuggire alla moglie che lo
troviamo sempre in giro per le vie della città, intento a “chiacchierare” con le persone, non
negandosi mai però i piaceri del vino. Insomma, Socrate appare come uno dei tanti Sofisti che
affollano la città, che passa le giornate a discutere, mettendo in mostra le proprie capacità
dialettiche.
Con la sconfitta di Atene e il trionfo di Sparta, il clima però muta rapidamente. La democrazia
ateniese è finita. È il 404 a.C.: vanno al potere i Trenta Tiranni. Il nuovo governo è capeggiato da
Crizia, ex allievo di Socrate, che subito si attiva per demolire tutte le istituzioni democratiche
faticosamente edificate da Pericle. Crizia ha le idee molto chiare a tale riguardo: non più di 3.000
cittadini potranno d'ora in poi considerarsi a tutti gli effetti cittadini. Per mette in pratica questo vero
e proprio colpo di Stato, il governo non può che imporre una stretta autoritaria a tutta la società,
restringendo enormemente le libertà personali, anche dei suoi stessi sostenitori. Insomma, i Trenta
Tiranni instaurano – come si direbbe oggi – uno stato di polizia, grazie anche al supporto di un
nutrito contingente di militari spartani presenti in città. Il clima si fa molto pesante. Crizia e i suoi
uomini vedono nemici dovunque, contribuendo in tal modo a crearne ogni giorno di nuovi.
L'impressione – che è propria anche di tanti aristocratici – è che quello di Atene sia un governo
fantoccio, manovrato da Sparta, e che con le libertà individuali sia sparita anche l'indipendenza. In
realtà le cose non stanno proprio così. Il governo dei Trenta Tiranni pensa sopratuttto solo a se
stesso, a difendere i propri privilegi, preoccupando la stessa Sparta, la quale teme che monti il
malgoverno, favorendo una rivoluzione democratica, che non potrebbe che presentarsi con forti
connotati antispartani. Non deve dunque stupire se sarà proprio Sparta a guidare la transizione verso
una nuova forma di governo, formalmente democratica ma nei fatti conservatrice. Insomma, il
governo dei Trenta Tiranni non avrà lunga vita. I cospiratori, tra cui numerosi esuli politici,
prendono presto contatto con le autorità spartane, che danno alla fine il loro benestare alla
rivoluzione, purché questa non si caratterizzi in senso antispartano. La guerra civile sarà breve ma
cruenta. La tirannia ne esce pesantemente sconfitta. È il 403 a.C. Il nuovo governo è guidato da
Trasibulo, il quale, come prima mossa, emana un decreto di amnistia, per favorire la pacificazione
interna, con la sola esclusione dei tiranni, che vengono condannati all'esilio perpetuo: anche solo da
questo provvedimento si vede la differenza tra una tirannia ed un governo legittimo. Atene torna
nella legalità, anzi gli osservatori dell'epoca parlano apertamente di un ritorno alla democrazia. E
tuttavia la società è molto cambiata rispetto a quella dell'età di Pericle. È finita la spensieratezza, la
convinzione di vivere nel centro culturale, politico e militare del mondo. L'ateniese del IV secolo è
più diffidente, impaurito, chiuso, rancoroso. La guerra del Peloponneso, la tirannia, la guerra civile
non si cancellano in pochi anni nemmeno con una amnistia. Può sembrare piuttosto bizzarro, ma
sono soprattutto i sofisti a cadere sotto i colpi della restaurata democrazia, proprio loro che, meglio
di chiunque altro, avevano interpretato lo spirito democratico al tempo di Pericle. Ma sta proprio
qui la loro colpa: fedeli a quello spirito, avevano infatti scardinato miti, usi, consuetudini e
insegnato che un uomo, per potere realmente decidere cosa sia bene e cosa male, deve viaggiare,
studiare, confrontarsi in e con altri contesti, essere dotato cioè di spirito critico. Una critica che si
trasforma, agli occhi dell'ateniese del IV secolo, in un “maledetto relativismo”, che ha ridotto Atene
in macerie. Una democrazia molto particolare, dunque, che ha come obiettivo non tanto la
restaurazione della democrazia quanto quella del perduto prestigio di Atene. Una democrazia
“imperialista”, dunque, che vuole riconquistare il potere sulla regione, tornare ad essere la città
leader di tutta la Grecia, a costo di sacrificare proprio la democrazia.
È in questo contesto – ancora una volta paradossalmente – che va inserito il processo al quale
Socrate viene sottoposto nel 399 a.C. Egli, infatti, viene ormai visto come il principe dei Sofisti,
uno dei maggiori “dialettici”, “eristici”, “retori” presenti in città, un distruttore delle certezze, in una
parola, un “relativista”. Le accuse sono precise: non avere riconosciuto gli dei patri, averne
introdotti di nuovi e avere corrotto i giovani. Precisa anche la connotazione politica e sociale degli
accusatori: si tratta di due democratici, Anito e Licone, che per l'occasione si servono di un
prestanome per formalizzare l'accusa, tale Meleto. Dunque, confluiscono nell'accusa i due “storici”
filoni che non hanno mai visto di buon occhio la filosofia di Socrate: quello che lo considera un
Sofista e quello che lo vuole nemico della democrazia (che spesso coincidono).
Il processo è uno degli avvenimenti più importanti nella storia di Atene, che pure di filosofi accusati
di ogni genere di misfatto ne ha visti parecchi. Prima di tutto per il prestigio dell'accusato e, in
secondo luogo, per la decisione di Socrate di non difendersi dalle accuse mossegli da Meleto, ma di
contestare le basi stesse del processo. È la prima volta che un imputato decide di rinunciare alla
propria difesa, di non colpire la giuria con i propri discorsi, di farsi difendere da qualche mago del
foro, di impietosire i giurati portando al loro cospetto amici e parenti in lacrime. Il processo
dimostra tutte le qualità intellettuali di Socrate, che smonta una ad una le accuse, mostrando cioè
l'inconsistenza delle tesi avversarie, l'ignoranza dell'interlocutore riguardo all'oggetto stesso del
contendere: è la sua specialità. A finire sotto le grinfie del filosofo è naturalmente Meleto.
L'accusatore esordisce affermando che tutti si curano dei giovani nel giusto modo tranne Socrate, il
quale infatti – questa l'accusa – li travia. Socrate in poche battute lo demolisce. Se è vero – come
l'accusa afferma – che la gente tende a stare solo con chi apporta loro dei beni e a scansare chi porta
loro dei mali, allora sarà anche vero che chi insegna il male dovrebbe rimanere da solo e dunque
non potrebbe traviare proprio nessuno. E tuttavia possibile che chi insegna il male lo faccia senza
saperlo come anche chi viene istruito, ma secondo le leggi ateniesi – conclude Socrate – chi sbaglia
senza saperlo non va processato ma istruito. Come si nota molto chiaramente da questi brevi
passaggi, non si tratta di ammaliare la giuria con le parole, di fare sfoggio di retorica, ma di seguire
logicamente il discorso portandolo alle sue logiche conclusioni.
L'altra accusa, pesantissima, in quanto è costata la vita o l'ostracismo a non pochi intellettuali in
passato, afferma che l'imputato non solo non crede agli dei patri ma ne professa di nuovi (chiaro
riferimento al daimon socratico di cui ci si occuperà in seguito). Meleto è molto chiaro a tal
riguardo: Socrate è ateo, come dimostra la sua amicizia con Anassagora. Immediata la risposta di
Socrate: come è possibile essere atei e professare nuovi dei al tempo stesso? Trattasi di una accusa
contraddittoria, dunque di una non-accusa. Non possono esistere cose attinenti ai cavalli senza
cavalli – prosegue Socrate – né sonate di flauto senza suonatori di flauto. Allo stesso modo –
conclude – non possono esistere nuovi dei se non originati dagli dei, sia pure come figli impuri.
Insomma, l'imputato si dichiara totalmente estraneo all'accusa.
E tuttavia, pur avendo demolito punto per punto tutte le accuse, Socrate sa benissimo che non sarà
facile essere assolto; capisce cioè come pesino come macigni la sua fama di sofista, l'essere stato
maestro di Crizia ed essersi attirato le antipatie popolari con quelle “chiacchiere” stressanti. Lo sa
e, a scanso di equivoci, dichiara di non avere affatto paura della morte. Come potrebbe essere
altrimenti? Se egli sa di non sapere, questa l'unica certezza, non può certo temere ciò che ignora del
tutto, come la morte appunto. Che venga pure, dunque, la morte, sempre meglio del divieto di fare
filosofia, del silenzio.
O miei concittadini di Atene, io vi sono obbligato e vi amo; ma obbedirò piuttosto al dio che a voi, e
finché abbia respiro, e finché ne sia capace, non cesserò mai di filosofare e di ammonirvi
Il verdetto è stupefacente. Contro ogni previsione, infatti, Socrate viene creduto innocente da ben
220 giurati su 500. E tuttavia la maggioranza, seppure risicata, lo considera colpevole. Ma la legge
offre all'imputato come all'accusa il diritto di proporre una pena, riservandosi di scegliere tra le due
opzioni. Il problema non è di poco conto: come può Socrate proporre una pena considerandosi
totalmente innocente? Con una giuria divisa quasi a metà, potrebbe tranquillamente cavarsela
proponendo per se stesso una pena sicuramente severa ma che non lo impedisca nella sua attività,
come una multa, per esempio, sicuramente molto ben accetta, dato che le casse dello Stato
piangono dopo la guerra del Peloponneso.. E invece, visto che è innocente, chiede di essere
mantenuto a spese della cittadinanza per il resto dei suoi giorni, come si deve alle personalità più in
vista della città. La platea reagisce molto duramente, con rabbia. Con questa proposta Socrate si
gioca i numerosi consensi conquistati durante il dibattimento. Ma non si ferma qui. Accetta le
critiche e rilancia, proponendo una nuova sanzione: una mina di argento, cioè quanto è in suo
possesso. Una cifra ridicola, che contribuisce ad esacerbare gli animi. È in questa occasione, e solo
in questa, che Socrate mostra un cedimento, spronato dalla sua ristretta schiera di amici, tra cui il
fedele Platone. Torna di fronte ai giudici e si dice disposto a pagare una ammenda di trenta mine.
Una cifra sicuramente inferiore alle attese, ma indubbiamente più credibile della precedente.
Troppo tardi. Socrate ha contro la maggioranza dei giudici che, in 360, votano per la pena di morte.
Ma non è finita. La legge consente all'imputato un'ultima dichiarazione. Socrate, calmo come al
solito, dichiara che, data l'età, la morte sarebbe giunta molto presto e che comunque il dolore non
sarà tanto il suo quanto quello di Atene, che d'ora in poi avrà fama di avere ucciso un uomo
innocente. La condanna, insomma, si ritorcerà presto contro chi l'ha comminata e se fino ad ora i
nemici, veri o presunti, della città si potevano contare sulle dita di una mano, dopo l'esecuzione si
moltiplicheranno a dismisura. Socrate non chiede pietà, non abiura, non protesta, accetta con
estrema serenità il verdetto, pur mostrandone – poteva essere altrimenti? – la sua intrinseca
contraddittorietà. D'altro canto, cosa potrà essere mai la morte se non un “piacevole sonno”, anzi un
trapasso verso un mondo migliore, quell'Ade dove dimorano i più grandi eroi dell'antichità che la
città continua a celebrare?
Con queste parole e questa calma, Socrate si avvia a lasciare questo mondo. Sarà una pianta
velenosa, la cicuta, a realizzare tale passaggio. Il filosofo la beve come se fosse acqua, in piena
coscienza e tranquillità, con al fianco i suoi amici di sempre, tra cui, naturalmente, Platone, che ci
riferisce le ultime parole del maestro:
Ma ecco che è ora di andare: io a morire, e voi a vivere.
Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti fuori che al dio
Il pensiero
Socrate – come si è detto a più riprese – inizialmente si appassiona alle scienze naturali, mettendosi
alla ricerca dell'arché. Poi, influenzato dalla sofistica, cambia radicalmente prospettiva: ora
l'obiettivo è la conoscenza dell'uomo. Socrate fa suo uno dei motti dell'oracolo di Delfi: “conosci te
stesso”. E tuttavia tale conoscenza non può ridursi ad un semplice soliloquio: non si è uomini se
non fra uomini, in quanto ciò che rende effettivamente tali è proprio il rapporto con gli altri. La
speculazione filosofica, di conseguenza, assumerà i connotati di un dialogo interpersonale, volto
quanto meno alla confutazione di tutte le false verità presenti in ognuno di noi. Insomma, non si
può intraprendere alcun dialogo se non si parte dalla coscienza della propria ignoranza, condizione
necessaria per avviarsi verso la ricerca della verità. Il sapere di non sapere, dunque, non è un gioco
sofistico, come in molti pensano allora, né tanto meno una manifestazione di falsa modestia: è la
base del filosofare socratico, la conditio sine qua non. Il dialogo dovrà dunque smascherare false
certezze, rendere consapevoli gli interlocutori della propria ignoranza. A tale scopo Socrate si
avvale della ironia (in greco eironeia significa dissimulazione), un gioco di parole, un teatro di
finzioni attraverso cui si mettono a nudo le coscienze soddisfatte di chi si trova a discutere con lui.
Non è dunque la certezza a fare di un individuo un essere virtuoso, ma il suo esatto contrario, il
dubbio, condizione necessaria della ricerca filosofica. È Socrate stesso a porsi nella condizione del
non sapere, permettendo al suo interlocutore di partire da una posizione di forza, affinché si
vengano alla luce tutte le certezze. Quindi, parte una selva di domande su ogni genere di cose: un
vero e proprio bombardamento, spesso molto irritante, ma dal quale si esce frastornati e consci di
possedere solo conoscenze parziali. È la tecnica della confutazione. E tuttavia, se la cosa terminasse
qui, Socrate sarebbe un sofista come tanti altri, un semplice demolitore di certezze, un relativista
radicale. E invece il filosofo ateniese considera questo il punto da cui partire per un faticoso
processo di ricerca della verità, che paragona significativamente al mestiere della madre. Scrive
Platone: “Come costei, essendo levatrice, aiutava le donne a partorire i bambini, così Socrate,
ostetrico di anime, aiuta gli intelletti a partorire il loro genuino punto di vista sulle cose”. Il filosofo,
dunque, non ha intenzione di trasmettere alcunché, solamente di aiutare l'interlocutore a partorire da
sé le proprie verità. La verità, per essere tale, è sempre conquista personale e l'educazione si
configura sempre come una auto-educazione. Ma di quali verità si sta parlando?
Qui il discorso si complica, anche per la mancanza di testi scritti. Sappiamo che la struttura del
dialogo socratico è “a spirale”, fatto di domande e risposte, obiezioni, nuove domande e nuove
risposte e così via. La molla dell'intero percorso, però, poggia tutto sul tì èsti: che cos'è? È la
fatidica domanda che Socrate pone di continuo al suo interlocutore. Facciamo un esempio. Alla
domanda, che cos'è la virtù, qualcuno potrebbe rispondere “chi onora le leggi”, qualcun altro “chi
onora i genitori”, altri ancora “chi si comporta bene”. Ma questi, per Socrate, non sono che esempi
di virtù, non la sua chiara definizione. Non si tratta, dunque, di semplice dialettica sofistica né tanto
meno di eristica. Un altro esempio serve a chiarire meglio la questione. Ce lo narra Platone. Un
giorno Socrate incontra uno dei più noti ed apprezzati sofisti dell'epoca, Ippia. Questi lo invita ad
una sua conferenza e mentre si avviano insieme il primo comincia a bersagliarlo di domande: “tu
che sai tutto, mi sapresti dire che cos'è la bellezza?”. “Niente di più facile – risponde Ippia – bello è,
per esempio, una bella ragazza!”. Un po' poco per uno dei più brillanti intellettuali dell'epoca.
Socrate obietta subito che, per restare nell'ambito degli esempi concreti, una bella azione non è
affatto una bella ragazza. E chiarisce: “Non volevo, comunque, degli esempi, ma che cosa è il
bello”. Il dialogo, lunghissimo, sebbene fatto di discorsi molto brevi, di secche battute e non di
lunghi sermoni come sono soliti fare i sofisti, si conclude con un Ippia molto irritato: “Ma
insomma, Socrate, basta con queste ciance e sottigliezze!”. La verità è che il sofista non è stato in
grado di rispondere alla domanda iniziale e sebbene Socrate non riveli la soluzione, in quanto non
gli spetta (egli sa di non sapere), il match si conclude con la sconfitta del sofista, che invece si vanta
di sapere tutto.
Dagli esempi sopra riportati sembra avere decisamente ragione Platone, quando afferma che
l'intento di Socrate sarebbe quello di giungere ad una corretta definizione delle cose, nonché anche
Aristotele, secondo il quale il filosofo ateniese è lo scopritore del concetto. In linea di massima, tali
interpretazioni sono tuttora valide, anche se non sono pochi coloro che storcono il naso. Platone ed
Aristotele, infatti, hanno un intento molto preciso: fare di Socrate l'anti-sofista per eccellenza, che
non si limita affatto a demolire le verità, ma ne costruisce di nuove ed assolute. In tal modo, il
filosofo si configura come quello che per primo reagisce al relativismo, un movimento che non a
caso culminerà proprio con Platone ed Aristotele. Come risolvere la questione? In un certo senso
proprio alla maniera di Aristotele, il quale avrà modo di dire che la verità si colloca sempre nel
mezzo. Socrate non è né semplicemente un sofista né semplicemente uno che combatte contro il
relativismo sofistico. Egli non ha sicuramente edificato una scienza delle definizioni né una del
concetto. Il suo intento, dunque, non è tanto quello di contrapporre al relativismo sofistico una
nuova forma di sapere assoluto, come invece faranno Platone ed Aristotele, sebbene non si
accontenti di una semplice demolizione dei saperi acquisiti. Di più non si può dire.
La morale
Strettamente legata al pensiero è la morale socratica. Dovere dell'uomo è quello di essere virtuoso.
Ci si era chiesti imbattendosi nella diatriba tra Socrate e Ippia: che cos'è la virtù? Ebbene, secondo
il filosofo, essa è ricerca, scienza, in una parola filosofia. La virtù (areté in greco) era stata
concepita per secoli dai Greci come il modo di essere ottimale in qualche campo specifico: la virtù
del ghepardo è la velocità, mentre quella del leone la forza. Un qualcosa di innato, dunque: o si è
virtuosi sin dalla nascita e quindi per tutta la vita o non lo si è per nulla. Poi sono arrivati i Sofisti è
il quadro è mutato radicalmente: la virtù non è affatto innata, non è un dono di natura o degli dei,
ma un valore che è possibile apprendere nel corso della vita, naturalmente con sforzo e impegno
costanti. Insomma, la virtù dipende non dalla natura bensì dall'educazione. In questo senso, dunque,
Socrate concorda pienamente con i Sofisti, ma non si ferma qui. La virtù è sempre una forma di
sapere, cioè un prodotto della mente. Per essere virtuosi non occorrono tanto le azioni, quanto i
pensieri, dunque la ragione. Virtuoso è l'uomo che ha piena coscienza di sé. La vita, di
conseguenza, si configura come una avventura (molto disciplinata) della ragione. Non esistono tanti
tipi di virtù ma una sola: la giustizia, il coraggio, la prudenza, il rispettare i genitori o il servire la
patria non sono altro che modi di essere di quell'unica virtù che è la scienza del bene. Comportarsi
da giusti e da coraggiosi, per esempio, significa sempre sapere quando e come è bene esserlo.
Socrate opera in tal modo una rivoluzione della tradizionale tavola dei valori, poiché – come
scrivono due studiosi italiani, Giovanni Reale e Dario Antiseri – i veri valori “non sono quelli legati
al corpo, come la vita, la vigoria, la salute fisica e la bellezza, ma solamente i valori dell'anima, che
si assommano tutti quanti nella conoscenza”. Sebbene Socrate non parli mai esplicitamente di
“anima” (cosa che invece farà Platone) bensì di daimon (demone: ecco perché lo si accusa di avere
introdotto nuove divinità!), è innegabile che egli esalti i valori dell'interiorità e del sapere. Ma non
si tratta di auto mortificarsi, né di vivere asceticamente, come penserà Nietzsche, tutt'altro.
L'esaltazione della vita interiore è un potenziamento di quella esteriore, un vero e proprio calcolo
razionale finalizzato a rendere migliore e più felice la nostra vita. Insomma, solo chi è virtuoso può
dirsi realmente felice, mentre il non virtuoso, visto che non ragiona, si abbandona agli istinti, che
alla lunga non possono che renderlo infelice. La ragione non fa altro che disciplinare la nostra
esistenza, insegnandoci a vivere meglio con noi stessi e con gli altri. E tuttavia una tale concezione
non può che portare a dei paradossi. Infatti, se si intende la virtù come scienza
nessuno pecca volontariamente
e
chi fa il male lo fa per ignoranza del bene
Insomma, l'uomo fa il male perché non conosce il bene, cioè non si rende conto di cosa sta
effettivamente facendo: il male, dunque, è semplice ignoranza. Di conseguenza, l'uomo è sempre
innocente e dovere di chi non lo è sarà di trasmettere le proprie conoscenze agli altri. Conseguenza
di un tale approccio: sarà sempre meglio subire il male (e dunque esserne coscienti) che
commetterlo (in maniera inconscia).
La scelta di non scrivere nulla
Socrate non lascia nulla di scritto. Non si tratta di incapacità o di ignoranza, ma di una scelta
cosciente, precisa, direttamente legata alla sua speculazione, anzi la sua logica conclusione. Il
fondamento della sua filosofia è infatti il dialogo, l'armonico alternarsi di posizioni tra due
interlocutori. Un dialogo serrato, spesso molto duro, in alcuni casi sicuramente irritante, ma pur
sempre un dialogo. E il dialogo avviene in un preciso contesto, con un altrettanto preciso stato
d'animo da parte di chi vi partecipa e chi vi assiste. Insomma, ogni dialogo – come ha messo ben in
luce la moderna scienza delle comunicazioni – presuppone, come minimo, l'esistenza non solo di un
mittente e di un destinatario, ma anche di un mezzo di comunicazione e di un contesto. Se si
elimina anche uno solo di questi elementi, la comunicazione risulta impossibile. Se A e B
dialogano, alterneranno il loro status di mittente e destinatario e lo faranno per mezzo della voce e
in un ben determinato contesto. Se anche modifichiamo solamente il contesto, la comunicazione
non sarà più la stessa. Una lezione di filosofia tenuta in una classe dove regna il silenzio sarà ben
diversa da una dove, al contrario, c'è confusione. L'atto comunicativo, insomma, è unico ed
irripetibile. Di conseguenza, è impossibile da registrare, per esempio su un foglio, per mezzo della
scrittura. Come sarebbe possibile riportare il pathos dell'evento comunicativo, lo stato d'animo degli
interlocutori, il crescere o il decrescere della discussione, il contesto, il timbro di voce del mittente
attraverso la scrittura? Per Socrate tutto ciò è impossibile. Ci proverà Platone, dotato di un genio
artistico fuori dal comune, scegliendo, non a caso, la forma dialogica, la più fedele alla forma orale.
E tuttavia il dialogo è altra cosa, come egli stesso avrà modo di precisare. Insomma, al contrario di
quanto pensa Gorgia, Socrate ritiene che la realtà esistente è conoscibile dall'uomo, sebbene a costo
di notevoli sforzi intellettuali, e il linguaggio orale è il mezzo principe per demolire false certezze
ed iniziare il processo cognitivo; quello scritto, al contrario, rischierebbe di fare violenza alla
conoscenza stessa, cristallizzando in forme eterne eventi che, quando si sono manifestati,
mostravano tutta la loro vitalità e che possono essere comprese pienamente solo in rapporto a tale
vitalità. La filosofia non è una scienza fredda, non ha a che fare con cadaveri. La filosofia è scienza
in essere, che si mostra e vive della speculazione nel qui ed ora, cessando di avere senso una volta
che tale speculazione sia terminata. Ecco spiegata la scelta di non scrivere nulla. Quanto detto e
sostenuto da Socrate è vivo nelle persone che lo hanno osservato direttamente, che hanno avuto la
fortuna o la sventura di avere a che fare con le sue confutazioni, partecipando al dialogo
comunicativo. A tutti gli altri, ai posteri, non resta che accontentarsi delle “ombre”, delle copie di
tali eventi, sicuramente importanti per ricostruire la sua personalità, alcuni tratti della sua filosofia,
ma assolutamente non in grado di riportarci Socrate in vita.
LE SCUOLE SOCRATICHE
Alla morte di Socrate i suoi discepoli si dividono. Platone, il suo prediletto, avrà enorme fortuna,
grazie anche ai cosiddetti dialoghi socratici, con i quali è possibile oggi conoscere non solo il
pensiero ma anche la personalità del maestro. Egli fonderà una propria scuola, l'Accademia, che
indubbiamente farà propri molti degli insegnamenti socratici. Accanto ad essa ne sorgeranno altre
quattro. La Scuola di Megara, fondata da Euclide; la Scuola Cinica, fondata da Antistene; la
Scuola Cirenaica, fondata da Aristippo; la Scuola Eretriaca fondata da Fedone, di cui però non si
sa assolutamente nulla.
LA SCUOLA DI MEGARA
Euclide di Megara (da non confondere con il più noto matematico) ritiene che il bene sia uno solo e
coincide, di fatto, con l'essere di Parmenide. Uno sviluppo per certi versi sorprendente del
socratismo: saggezza, dio, intelletto, virtù eccetera non sono altro che nomi diversi indicanti lo
stesso essere. L'unicità dell'essere rappresenta dunque il punto di partenza della speculazione di
questa scuola. Alla scuola megarica appartengono anche alcuni divertenti paradossi, come quello
che segue: “io sto mentendo”. Dove sta il paradosso? Nell'impossibilità di sapere effettivamente se
chi pronuncia una tale affermazione stia o meno dicendo la verità. Se mente significa che dice la
verità e se dice la verità allora vuol dire che sta mentendo. I megarici diedero vita ad una vera e
propria moda: molti di loro si sbizzarriscono nel formulare paradossi o, come verranno giustamente
chiamati in seguito, insolubili. Uno dei più noti recita così: un bambino imprudente gioca sulle rive
di un fiume. Ad un certo punto si avvicina un coccodrillo, che riesce ad afferrarlo. La madre del
bambino accorre e lo implora di lasciarlo libero. Il coccodrillo gli fa una proposta: “dimmi che cosa
ho intenzione di fare con il tuo piccolo. Se indovinerai te lo restituirò, mentre se sbaglierai lo
divorerò”. E la madre senza alcuna esitazione esclama: “tu lo mangerai!”. Con molta tranquillità e
tenendo sempre ben stretta la preda tra i denti, il coccodrillo replica: “Non posso ridarti comunque
il bambino, perché se te lo rendo farò sì che tu abbia detto il falso, e ti avevo garantito che su tu
avessi detto il falso lo avrei divorato”. Ma la madre, astuta, controbatte: “Non puoi mangiare il mio
bambino perché se lo divori farai sì che io abbia detto la verità, e tu avevi promesso che se io avessi
detto la verità, avresti restituito il bambino”. Si tratta di giochi che divertono molto i
contemporanei, come oggi molti rebus dei giornali si enigmistica.
LA SCUOLA CINICA
Sembra che il nome derivi dal genere di vita che conducono i suoi aderenti, cioè letteralmente da
cani, randagia, indifferente alle regole morali e talvolta anche alle leggi. Taluni storici, invece,
tendono a fare risalire l'origine del nome dall'edificio che ospita la scuola, il Cinosarco. Comunque
stiano le cose, i cinici si fanno portatori di un'etica naturalistica, il più possibile “autarchica”,
indipendente. Dei veri e propri ribelli, che ritengono esistente la sola realtà corporale. Anitestene è
il fondatore della scuola, ma indubbiamente più noto è uno dei suoi allievi, tale Diogene Sinope,
detto anche “Socrate pazzo”. È lui ad andare in giro per le città della Grecia a mendicare e predicare
un ascetismo non sempre pacifico e razionale.
LA SCUOLA CIRENAICA
Aristippo crede la sensazione sia sempre vera, che sia l'unico criterio di verità per l'uomo. E
tuttavia, pur essendo di per sé assolutamente vera, non dice nulla intorno all'oggetto che la produce.
L'uomo vede il bianco o sente il dolce e di questo bisogna esserne certi. E tuttavia non possiamo
assolutamente dire se l'oggetto che produce quella sensazione sia effettivamente bianco o
effettivamente dolce. Sono parole che ricordano Protagora: l'uomo è misura di tutte le cose. La
sensazione è prodotto dell'incontro di due movimenti: quello dell'oggetto (attivo) e quello del
soggetto (passivo). I due movimenti danno vita da un lato alla sensazione, dall'altro all'oggetto
sensibile, ma entrambi non sussistono prima o dopo l'incontro dei due movimenti. Insomma, nulla
esiste ma tutto si genera. La sensazione è anche la guida della condotta umana, identificandosi con
il piacere, che è sempre piacere dell'attimo, giacché come sensazione non ha né stabilità né tanto
meno durata. Di conseguenza, occorre pensare solo al momento presente e mai al passato od al
futuro, perché il primo non è più, mentre il secondo non sappiamo se ci sarà. Di conseguenza,
bisogna sapere “cogliere l'attimo” (carpe diem), non lasciarsi sfuggire le occasioni, godere il
presente e non soffrire né per ciò che è stato né, tanto meno, per ciò che, eventualmente, sarà. Va
detto che questa originale filosofia non verrà ripresa da alcuno dei suoi discepoli. Teodoro,
conosciuto anche come “l'ateo”, per esempio, pur ribadendo la priorità della sensazione, colloca il
fine dell'esistenza in una felicità che coincide con la saggezza. Tutto il contrario di quanto pensa
Egesia, il quale ritiene che la felicità sia impossibile e per questo etichettato come “l'avvocato della
morte”.