Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma

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LIBRO
IN ASSAGGIO
SCIPIONE E
ANNIBALE- LA
GUERRA PER
SALVARE ROMA
DI GIOVANNI BRIZZI
CAPITOLO I
RUMORI DI GUERRA
1. Un ‘adolescenza spensierata
Ricordava, Scipione...
Tutto era cominciato sedici anni prima. Publio proveniva da una -e già allora la più illustre,
quanto a prestigio- delle sette famiglie che componevano la gens Cornelia, un clan a sua
volta tra i più antichi e nobili della res publica. Ceppo patrizio, risalente secondo la tradizione
addirittura all’età monarchica, e appartenente quindi all’aristocrazia genetica di Roma, la sua
gens aveva radici che affondavano, di fatto, nelle nebbie stesse degli albori. La sua famiglia,
in particolare, doveva il proprio cognomen a un capostipite illustre, il quale, quasi fosse uno
scipio, un bastone, aveva fatto da guida al padre cieco; e si era quindi sempre vantata sia
dei suoi mores, delle sue tradizioni e delle sue virtù, in specie della pietas verso il pater
familias, sia della sua risaputa disposizione a offrire, al bisogno, un appoggio vitale anche
alla patria in pericolo, non solo agli anziani della stirpe. Capaci da sempre di dare allo Stato
censori, consoli e dittatori in gran numero, i Cornelii Scipiones avevano un larario tra i più
gremiti di imagines, di ritratti, di tutta Roma. Lo stesso Publio si era sentito in soggezione più
volte sotto lo sguardo severo dei progenitori, e i molti elogia ricordavano a tutti le
benemerenze dei membri della famiglia nei confronti della res publica. Nel novero, pur tanto
illustre, degli antenati spiccava, tra le altre, la figura di quel Publio — aveva portato il suo
stesso praenomen — che era stato magister equitum del grande Furio Camillo, il salvatore
dell’Urbe, e che si era poi alternato spesso con lui nella funzione di interrex. Nel recente
sepolcro allestito lungo la via Appia, poco fuori della Porta Capena, erano deposti il corpo di
Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Cneo, console nell’anno
quattrocentocinquantaseiesimo di Roma ed eroe della terza guerra contro i Sanniti, «il cui
aspetto fu — come recitava il suo elogium — l’aspetto stesso della virtù»; e quello del minore
dei figli di lui, Lucio, console nell’anno quattrocentonovantacinquesimo di Roma. Da
quest’uomo, «che i cittadini romani per lo più consentono esser stato il migliore dei boni» —
così, di nuovo, secondo l’ampollosa laudatio funebre del nonno —‘ erano nati lo zio e il padre
di Publio, Cneo e Publio pater.
A partire dalla metà circa del secolo precedente i Cornelii Scipiones si erano definitivamente
schierati con la pars che, in Roma, traeva sostegno dalle emergenti clientele mercantili, e
dunque ne promuoveva per quanto possibile gli interessi. Al seguito dei potenti Appii Claudii —
e insieme ad alcune famiglie amiche e a una parte dei loro stessi gentiles: gli sfortunati
Cornelii Rufini, per esempio — gli Scipioni avevano conosciuto un grande momento; ed erano
riusciti a imporre al senato riluttante un confronto con Cartagine per Messana’ (Messina) che
aveva portato poi allo scontro per il controllo della Sicilia intera. Il loro gruppo di pressione,
che comprendeva commercianti, pubblicani e banchieri, era composto tanto dai settori più
ricchi della plebe urbana, quanto — soprattutto — dalle aristocrazie mercantili federate, etrusche,
campane e italiote. Legami clientelari, alleanze e unioni matrimoniali erano frequenti, per la
famiglia, in particolare proprio con la realtà etrusca; sia, appunto, con il mon dimprenditoriale
e affaristico — da cui, come denunciava il loro stesso cognomen, si erano elevati, per
esempio, gli amici Apu5 tii Fullones, di nobiltà recente —; sia con quello di matrice più
decisamente aristocratica, donde proveniva un’altra delle famiglie legate a filo doppio con
loro, quella dei Pomponii Mathones. A quest’ultimo ceppo era appartenuta sua madre
Pomponia, venuta giovanissima in sposa a Publio pater.
Publio era nato nell’anno cinquecentodiciottesimo di Roma, il primo della centotrentaseiesima
Olimpiade, essendo consoli Publio Cornelio Lentulo e Caio Licinio Varo (236/235 a.C.) e gli
anni iniziali della sua vita erano trascorsi sostanzialmente sereni, tra l’amore della madre e i
giochi con i coetanei e con il più giovane fratello Lucio nei giardini della casa paterna, situata
oltre le tabernae veteres, non lungi sia dal foro e dalla Curia, sia da quel vicus Tuscus che
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ospitava — fino dall’età di Romolo, secondo alcuni; o almeno fino da quella dei primi Tarquini —
una parte importante della comunità etrusca di Roma. A turbare quegli anni infantili era stata,
in fondo, solo la molestia, ora tanto rimpianta, dello studio. Oltre a non perder l’occasione di
rammentargli continuamente le glorie, e quindi i doveri legati alla famiglia, i suoi avevano
curato di istruirlo — fin troppo, gli era parso allora... — su tutto l’insieme di valori etici socialmente
riconosciuti che costituiva, per un Romano, il paradigma di ogni azione politica e
amministrativa. Aveva così appreso che al centro del sistema, e ciò da sempre, fino ad aver
costituito nei secoli il patrimonio stesso dei mores maiorum, stava la virtus, intesa come
organico complesso di pregi e requisiti che andavano dalla sapientia, l’avvedutezza
necessaria al retto comportamento nella vita pubblica, alla fortitudo, la determinazione
nell’agire per il bene dello Stato. Solo la virtus, gli era stato insegnato, consentiva di
guadagnare il pubblico consenso; e con esso l’hoo5, inteso sia come accesso alle
magistrature, sia come alto riconoscimento sociale. Ciò che i boni, gli uomini per bene.
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