TRA IDENTITÀ E INTEGRAZIONE: ASPETTI DELLA POSIZIONE DELLO STRANIERO NEL MONDO GRECO Sommario: 1. Greci, xenoi, bárbaroi – 2. Sentimento di identità e rifiuto dell’integrazione: il mito dell’autoctonia – 3. La posizione delicata dell’apolide. 1. GRECI, XENOI, BÁRBAROI 1 La compresenza, nel mondo greco, di una forte omogeneità culturale e di un’estrema frammentazione politica incide in modo significativo sulla percezione dello straniero. Nel rivendicare la propria identità in rapporto allo “straniero”, l’uomo greco distingue infatti fra lo straniero di stirpe greca (xenos), che è tale in quanto appartiene ad una comunità politica diversa dalla propria, e il barbaro. I livelli di estraneità sono, nei due casi, assai diversi. Nel caso dello xenos, l’estraneità investe esclusivamente l’aspetto politico: il Greco cittadino di un altro stato, città (polis) o stato federale (ethnos), appartiene infatti alla medesima comunità di sangue, di lingua, di culti, di costumi che definisce, in Erodoto VIII, 144, la Grecità (Hellenikón) come unità etnicoculturale. La coscienza dell’appartenenza ad una civiltà unitaria, che è ben espressa dal passo erodoteo, convive con la coscienza delle differenze culturali tra ethne (per esempio, fra Dori e Ioni) e con il forte senso di appartenenza alle singole entità politiche, ognuna caratterizzata da una sua specifica identità culturale espressa nella comune esperienza religiosa (i culti) e politica (le leggi); essa tende poi ad accrescersi, nel corso del IV secolo, con lo sviluppo del panellenismo, ma senza indebolire il senso di appartenenza alla polis. Il barbaro, invece, diversamente dallo xenos, è “straniero due volte”, sia sul piano etnicoculturale, sia su quello politico: mentre non condivide con i Greci nessuno degli elementi identificati da Erodoto nella definizione della Grecità, vive pure un’esperienza dello stato radicalmente opposta a quella dei Greci. Egli si contrappone “in maniera simmetrica e completa alla duplice identità dell’uomo greco”2 e ne rappresenta l’immagine negativa. I barbari sono dunque radicalmente “altri”, e inferiori, in quanto, come mostra l’origine del termine bárbaros, parlano una lingua incomprensibile, percepita come un balbettio inarticolato, e in quanto sono caratterizzati da una ferocia di costumi che va a detrimento della loro piena umanità. Ma soprattutto, essi hanno con lo stato un rapporto di servitù, che li caratterizza come douloi di fronte al dispotismo del monarca, mentre i Greci si pongono di fronte allo stato come cittadini, liberi ed autonomi, protetti dalla sovranità della legge (cfr. il discorso di Demarato a Serse in Erodoto VII, 101105). Il processo di maturazione della percezione di sé da parte dell’uomo greco, con la sua caratterizzazione eminentemente politica e la sua forte contrapposizione con il barbaro3, si colloca nel contesto delle guerre persiane, come evidenzia la letteratura contemporanea. Eschilo, nei Persiani del 472, celebra la vittoria greca esaltando la superiorità non tanto di natura, quanto di civiltà politica dei Greci sui barbari: i Greci vengono definiti come coloro che “di nessun mortale sono chiamati servi né sudditi” (v. 242); Grecia e Persia sono rappresentate come due donne, “sorelle della stessa stirpe”, ma Ho già trattato i temi discussi in queste pagine nei seguenti interventi: Lo straniero nel mondo greco: xenoi, apolidi, barbari, in Stranieri, profughi e migranti nell’antichità, Nuova Secondaria 18, 3, novembre 2000, 30-38; I meteci di Lisia, Nuova Secondaria 18, 3, novembre 2000, 34-36; Rivendicazione di identità e rifiuto dell’integrazione nella Grecia antica (Ateniesi, Arcadi, Plateesi, Messeni), in Identità e integrazione. Passato e presente delle minoranze nell’Europa meridionale (Atti del Seminario, Milano 29 aprile e 3 maggio 2004), in corso di stampa; Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione: da Isocrate a Megastene, in Incontri tra culture nell’Oriente ellenistico e romano (Atti del Convegno, Ravenna 11-12 marzo 2005), in corso di stampa. 2 M. Moggi, Greci e barbari: uomini e no, in Civiltà classica e mondo dei barbari. Due modelli a confronto, Trento 1991, pp. 31-46, p. 34; I D., Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, in Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Roma-Bari 1992, pp. 51-76; I D., Lo straniero (xenos e barbaros) nella letteratura greca di epoca arcaica e classica, Ricerche storico-bibliche VIII, 1-2 (1996), pp. 103-116. 3 Che ha indotto J.M. Hall, Ethnic Identity in Greek Antiquity, Cambridge - New York 1997, pp. 47 ss., a parlare di “oppositional identity”, rispetto alla “aggregative identity” dell’arcaismo. 1 1 l’una docile al giogo, l’altra intollerante di ogni costrizione, che rifiuta di lasciarsi imporre le redini (v. 176 ss.). In tutta la tragedia attica i barbari sono presentati come incapaci di concepire il potere politico se non come assoluto e dispotico: come tali essi sono destinati ad essere dominati dai Greci, radicalmente diversi da loro4. L’esasperata autocoscienza che induce il Greco a contrapporsi al barbaro ha dunque come contenuto l’antinomia fra polites e doulos, fra cittadino libero e suddito. Nel IV secolo affiora invece l’idea di una vera e propria superiorità etnica, e non solo politica, del Greco sul barbaro. Isocrate (Antidosi, 293-294; cfr. Panegirico, 184; Panatenaico, 163) considera i barbari inferiori per virtù (areté) e per educazione (paideia); Aristotele (Politica, 1285 a 20) arriva a definire i barbari, che si lasciano governare dispoticamente, come schiavi per natura. “Grecità” diviene così uguale a cultura e civiltà, mentre l’Oriente persiano incarna la barbarie, non più soltanto in senso politico, ma anche come stile di vita collegato con le qualità naturali della razza: l’autocoscienza greca assume un carattere non più soltanto etico-politico, ma più ampiamente "culturale", fino ad assumere risvolti etnici non chiaramente presenti in origine5. Il mondo greco ci propone dunque una duplice definizione dello straniero: una definizione culturale, che identifica il barbaro, e una definizione politica, che identifica lo xenos6. La percezione dello xenos non risente, ovviamente, dell’estraneità etnico-culturale relativa ai ba rbari, ma anch’egli, quando non sia garantito da specifici rapporti di tipo personale o familiare che lo trasformano in ospite o protetto da convenzioni stipulate a livello di comunità, è un individuo formalmente privo di diritti e, quanto meno potenzialmente, anche un polemios, un nemico, esposto al diritto di rappresaglia (il diritto di impadronirsi della persona o dei beni di qualcuno, che il cittadino di uno stato poteva esercitare nei confronti del cittadino di uno stato estero, quando non potesse far valere i suoi diritti davanti agli organi di tale stato). E’ questo il riflesso del frazionamento politico del mondo greco, in cui ogni comunità statale si pone in posizione antagonistica e competitiva rispetto alle altre: ma del problema si prese coscienza, cercando, fin dall’età arcaica, di porvi rimedio con istituti particolari. Essi riguardano prevalentemente il mondo degli xenoi, e sembrano dunque presupporre, almeno idealmente, una omogeneità politico-culturale (non sono pensati, cioè, per essere applicati, in via normale, ai rapporti con i barbari). Tra queste forme, la più antica era la xenía, presente nel mondo greco fin dall’arcaismo: essa era una forma di ospitalità fondata sulla reciprocità, che prevedeva la mutua assistenza (espressa attraverso l’ospitalità concreta, cioè l’offerta di vitto e alloggio, e attraverso la rappresentanza di fronte alla comunità cittadina ospitante) e veniva sancita con lo scambio di sýmbola, piccoli oggetti spesso spezzati in due parti, che servivano come strumento di riconoscimento e come prova dei legami di ospitalità anteriormente stabiliti. La prossenia costituisce l’adattamento alle esigenze pubbliche dell’antica pratica privata della xenía. Il prosseno era un cittadino che, risiedendo nella sua città d’origine, rappresentava la comunità straniera che gli aveva conferito il titolo di prosseno; veniva nominato dalla comunità interessata non fra i propri cittadini, ma fra i cittadini della comunità in cui si desiderava assicurare protezione ai propri cittadini quando vi giungevano come xenoi. Suo compito era essenzialmente quello di assicurare la protezione materiale dello straniero e la cura dei suoi interessi; in cambio, il prosseno veniva considerato straniero privilegiato nello stato che gli aveva conferito il titolo, e talora gli veniva addirittura concessa la cittadinanza7. L’asylía o inviolabilità si sviluppò invece in ambito sacrale. In origine essa caratterizzava lo hieròn ásylon, il luogo sacro da cui persone e cose non potevano essere allontanate con la violenza e entro il quale esse erano protette da una garanzia giuridica che le rendeva immuni dal diritto di rappresaglia. Con l’evoluzione del diritto, si sviluppò una differenza tra la sacralità del santuario, ove chiunque aveva il diritto di porsi come supplice (hikesía), e l’asylía vera e propria, che non era legata solo al diritto sacrale, ma era giuridicamente garantita anche dalla legge positiva e presupponeva una concessione. Cfr. Eschilo, Supplici, pp. 370 ss.; Euripide, Ecuba, pp. 1199 ss.; Elena, p. 276; Ifigenia in Aulide, p. 1400. Cfr. W. Nippel, La costruzione dell’“altro”, in I Greci. Storia cultura arte società, I: Noi e i Greci, Torino 1996, pp. 165-196. 6 Cfr., oltre ai contributi di Moggi citati alle note 3 e 4, M.-F. Baslez, L’étranger dans la Grèce antique, Paris 1984, p. 22. 7 Su xenía e prossenia cfr. M. Scott, Philos, philotes and xenia, in Acta classica 25 (1982), pp. 1-19; M.B. Walbank, Athenian Proxenies of the Fifth Century B.C., Toronto-Sarasota 1978; B. Bravo, “Sulan”. Représailles et justice privée dans les cités grecques, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa” III, 10, 1980, pp. 675-987. 4 5 2 L’asylía, nel senso di immunità dal diritto di rappresaglia, poteva essere concessa ai singoli in virtù di particolari benemerenze oppure ad intere città in seguito a trattati; in quest’ultimo caso essa era concepita anche come riconoscimento dell’inviolabilità di un’area sacra o di un intero territorio, all’interno dei quali veniva garantita protezione, in quanto l’area dichiarata ásylos era sottratta alla giurisdizione secolare. Le dichiarazioni di asylía si diffusero in età ellenistica grazie all’iniziativa dei grandi santuari, come Delfi, di sovrani e di città: nonostante il loro carattere prevalentemente onorifico, esse contribuirono notevolmente, grazie alla protezione che offrivano, a favorire la libera circolazione internazionale8. Si è detto che i sýmbola erano, in origine, i doni che gli ospiti si scambiavano come pegno di ospitalità. Il termine passò poi a designare le convenzioni giudiziarie, di carattere reciproco, tra due stati, destinate a proteggere i rispettivi cittadini nei casi di contenzioso riguardanti prevalentemente l’ambito commerciale. Il termine symbolaí, invece (che designava in origine i rapporti di tipo creditizio in ambito di diritto privato), venne ad identificare prima gli accordi tra Atene e le città appartenenti alla lega delioattica (trattati che garantivano l’immunità della persona e dei beni di cittadini ateniesi e regolavano le procedure esperibili per agire in giudizio sui rispettivi territori, e di cui abbiamo alcune testimonianze epigrafiche), poi accordi giudiziari tra stati greci di portata più generale, non limitati all’area dei rapporti creditizi9. Lo straniero di passaggio nella polis poteva poi godere di alcune concessioni. Nel diritto attico sono attestati il diritto di svolgere traffici commerciali nell’agorá, il diritto di usare pascoli in territorio ateniese, il diritto di possedere immobili (énktesis ghes kai oikías), il diritto di sposare una donna attica (epigamía). Concessioni come l’epigamía e l’énktesis, che incoraggiavano la stabilizzazione, erano di carattere eccezionale, perché la polis era assai riluttante a concedere forme di equiparazione allo straniero, anche in un contesto democratico come quello dell’Atene periclea. Un notevole progresso nella mitigazione della posizione dello straniero fu l’istituto della metoikía, a noi noto soprattutto in ambito ateniese, ma certamente esistente anche in altre città greche. I meteci, o stranieri residenti, avevano uno status intermedio tra cittadini e xenoi: erano stranieri, di stirpe greca, che si stabilivano in Atene, per motivi commerciali, per un periodo superiore a un mese. Avevano l’obbligo di porsi sotto la protezione di un cittadino, che assumeva la funzione di patrono (prostates): suo compito era appoggiare la richiesta di iscrizione nelle liste dei meteci e garantire il pagamento della tassa (di 12 dracme all’anno) cui erano sottoposti gli stranieri residenti. I meteci erano iscritti in speciali registri anagrafici e prestavano servizio militare (flotta, truppe ausiliarie), ma erano esclusi da ogni forma di partecipazione politica. Per quanto riguarda la capacità processuale, potevano ottenere la tutela dei loro diritti intentando le apposite azioni davanti al magistrato competente, l’arconte polemarco (che in età classica era competente per ciò che riguardava i rapporti con gli stranieri). Si ritiene in genere che avessero la possibilità di agire in giudizio solo quando erano in gioco i loro interessi particolari: potevano cioè esperire solo azioni private, non pubbliche (riservate ai cittadini), e comunque, secondo una testimonianza di Aristotele (Politica 1275 a 5 ss.), attraverso il prostates. Sembra però che quest’ultimo non avesse una funzione di rappresentanza, ma semplicemente di garanzia in sede di citazione o di istruttoria, anche in relazione al deposito delle spese legali. La posizione del meteco nell’ambito della comunità della polis è assai discussa. In genere sono state sottolineate le forme di esclusione del meteco rispetto al cittadino: l’impossibilità di esercitare i diritti politici, le restrizioni in termini di godimento dei diritti civili (matrimonio, proprietà), la mancata equiparazione giuridica e fiscale. Tuttavia, è stato posto l’accento anche sulle modalità di parziale integrazione (a livello militare, fiscale, giudiziario) e sulla necessità di ridimensionare il ruolo del prostates. Sull’asylía, cfr. K.J. Rigsby, Asylia. Territorial Inviolability in the Hellenistic World, Berkeley-Los Angeles 1996; M. Dreher (ed.), Das antike Asyl. Kultische GrunD.L.agen, rechtliche Ausgestaltung und politische Funktion (Akten des Kolloquiums Villa Vigoni, Loveno di Menaggio, 13.-16. März 2002), Köln 2003. 9 Sulle convenzioni fra stati cfr. P. Gauthier, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy 1972; S. Cataldi, Symbolai e relazioni tra le città greche nel V secolo a.C., Pisa 1983. 8 3 La posizione del meteco rispetto alla comunità ateniese sembra insomma essersi avviata verso una maggiore integrazione nel corso del IV secolo, soprattutto nel campo giudiziario10. 2. SENTIMENTO DELL’AUTOCTONIA DI IDENTITÀ E RIFIUTO DELL’INTEGRAZIONE: IL MITO Non tutti gli stati greci avevano lo stesso atteggiamento di fronte al rapporto con lo xenos. Atene non temeva il rapporto con gli stranieri ed era disponibile ad accoglierli nel suo territorio e a farveli risiedere stabilmente come meteci: essa aveva anzi fama di aprire le sue porte agli esuli fin dall’epoca soloniana (Plutarco, Vita di Solone, XXIV, 2) e alimentava tale fama come una delle caratteristiche positive del proprio stile di vita (Tucidide II, 39, 1). Sparta, invece, teneva sotto attento controllo gli stranieri di passaggio e praticava regolari xenelasíai, “espulsioni di stranieri” (Tucidide I, 144, 2): si temeva infatti che il contatto con gli stranieri e, in particolare, l’importazione di denaro monetato alterassero il delicato sistema socio-economico spartano (cfr. Senofonte, Costituzione degli Spartani XIV, 4). Ma, al di là di queste differenze legate ad un diverso stile di vita, tutto il mondo greco è accomunato da un sostanziale rifiuto dell’integrazione, non solo verso il barbaro, ma anche verso lo xenos. Diversamente che nel mondo romano, dove la coscienza di essere fin dalle origini un popolo misto favorì la disponibilità all’integrazione del “diverso” sul piano etnico, sociale e culturale, in Grecia l’ideale è costituito dalla “non mescolanza”11: lo evidenzia bene il mito dell’autoctonia (la rivendicazione di essere “nati dalla terra” e di non essere immigrati nella propria sede di stanziamento dall’esterno), utilizzato come forma di rivendicazione di identità etnico-culturale. Un primo esempio ci è offerto dal contesto ateniese, che ripropone il mito dell’autoctonia attraverso diverse fonti. Tucidide si premura di precisare che l’Attica “fin dai tempi più remoti era stata abitata sempre dalle stesse persone” (I, 2, 4), mentre i Dori erano giunti nel Peloponneso ottant’anni dopo la guerra di Troia, sotto la guida degli Eraclidi (I, 12, 3). La contrapposizione tra gli Ateniesi, autoctoni e di origine pura, e i popoli giunti da fuori e di carattere “misto” (migades) è espressa con particolare forza da Isocrate (Panegirico, 24). Il tema mitico vale a rivendicare aspetti apparentemente contraddittori del sistema di vita ateniese. Da una parte, esso ha un significato democratico e sottolinea l’uguaglianza fra i cittadini di Atene, tutti parte di una popolazione etnicamente e culturalmente unitaria, priva di stratificazioni sociali legate all’arrivo di nuove popolazioni sovrappostesi a quelle già insediate nel territorio (come era invece avvenuto, nel Peloponneso, con l’arrivo dei Dori)12. Lo mette bene in evidenza un passo del celebre Epitafio di Pericle (Tucidide II, 36, 1) che collega autoctonia e libertà; analoga sottolineatura delle conseguenze che discendono dall’essere gli Ateniesi autoctoni, in termini di libertà e di democrazia, emerge da un passo dell’Epitafio di Lisia (II, 17-18). D’altro lato, il mito dell’autoctonia ha in ambito ateniese un risvolto assai meno nobile: poiché si basa su una forte rivendicazione di identità anche etnica, esso vale infatti a giustificare la “serrata” della cittadinanza, voluta dalla legge di Pericle del 451/50, che limitava l’accesso al corpo dei cittadini di pieno diritto ai figli di padre e di madre ateniese, con l’intento di riservare ad un gruppo relativamente limitato i privilegi derivanti dal possesso dello status di cittadino: privilegi che nella democrazia ateniese erano tanto significativi da frenare ogni disponibilità ad estenderli oltre la cerchia dei cittadini “puri” (katharoí). Del resto, non manca l’utilizzazione del tema dell’autoctonia in chiave imperialistica: l’immagine dell’Attica come madrepatria dell’intera stirpe ionica, che armonizza mito dell’autoctonia e tema della Cfr. D. Whitehead, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge 1977; C. Bearzot, Apragmosyne, identità del meteco e valori democratici in Lisia, in Identità e valori: fattori di aggregazione e fattori di crisi nell’esperienza politica antica (Atti del Convegno, Bergamo-Brescia 16-18 dicembre 1998), Roma 2001, pp. 63-80. 11 Cfr. M. Sordi, Integrazione, mescolanza, rifiuto nell’Europa antica, in Integrazione, mescolanza, rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità all’Umanesimo (Atti del Convegno Cividale del Friuli, 21-23 settembre 2000), Roma 2001, pp. 17-26; E AD., Her. VIII, 144, 3 – Sall. Cat. VI, 2: unità e alterità etnica nel modello greco e nel modello romano, in L’alterità nella dinamica delle culture antiche e medievali: interferenze linguistiche e storiche nel processo della formazione dell’Europa (Atti del Convegno Milano, 5-6 marzo 2001), Milano 2002, pp. 71-81. 12 Cfr. V. Rosivach , Autochtony and the Athenians, CQ 37 (1987), pp. 294-306; M. Sordi, Propaganda e confronto politico, in Alle radici della democrazia: dalla polis al dibattito costituzionale contemporaneo, Roma 1998, pp. 57-67, 60 ss.. 10 4 parentela ionica, ebbe un ruolo importante nel sostenere le pretese egemoniche degli Ateniesi rispetto agli alleati ionici della lega delio-attica. Un altro esempio è offerto dal caso dell’Arcadia, che ripropone il tema dell’autoctonia in un contesto geopolitico molto diverso, quello del Peloponneso, la cui storia era stata caratterizzata dall’arrivo successivo di diverse popolazioni e dalla ricerca di non sempre facili compromessi di convivenza con i popoli già presenti sul territorio. Gli Spartani, non a caso, giustificavano la loro egemonia sul Peloponneso con il mito del “ritorno degli Eraclidi”, testimoniato anche da Tucidide I, 12, 3: l’arrivo dei Dori nella penisola non sarebbe stata una vera e propria invasione di popoli estranei all’area peloponnesiaca, ma il ritorno alla loro terra d’origine degli antichi abitanti. In questo contesto di tensioni e rivalità fra popolazioni etnicamente non omogenee, gli Arcadi, all’epoca dell’egemonia tebana, si appellano alla tradizione che li voleva unica popolazione autoctona del Peloponneso13 per rivendicare il diritto all’egemonia su di esso, sia contro gli Spartani, invasori provenienti dall’esterno, sia contro i Tebani, possibili “nuovi Spartani”, a loro volta estranei al Peloponneso. Il tema viene proposto in un discorso dell’arcade Licomede di Mantinea, che risale all’anno 364 e che ci è conservato da Senofonte (Elleniche VII, 1, 23-24). Il richiamo all’autoctonia ha, come si è già ricordato, anche precise implicazioni democratiche, che si ripropongono qui nella contrapposizione tra gli Arcadi, stato federale a orientamento democratico, e la Sparta oligarchica paladina delle autonomie cittadine. Ma l’aspetto a mio parere più significativo sta nel collegamento tra il mito dell’autoctonia e la crescita di una autocoscienza che porta gli Arcadi a rivendicare l’egemonia sul Peloponneso. Licomede presenta infatti gli Arcadi come gli unici abitanti autoctoni del Peloponneso, dunque i più antichi e i soli a poter vantare diritti sul territorio; inoltre, come la popolazione “più numerosa e più forte della Grecia”, come la più coraggiosa e capace di fornire un insostituibile contributo militare. La convinta rivendicazione dell’origine autoctona e della forza militare e demografica degli Arcadi va di pari passo con l’invito ad assumersi le relative responsabilità storiche come egemoni di un Peloponneso libero da influenze esterne, finalmente nelle mani non di usurpatori venuti da fuori, ma di un popolo dotato di una forte identità etnica strettamente legata alla dimensione locale14. Il mito dell’autoctonia riveste dunque per i Greci un ruolo fondamentale nella rivendicazione della propria identità etnico-culturale ed è usato, di volta in volta, per porre l’accento su aspetti diversi, dall’uguaglianza “democratica” tra le componenti della cittadinanza alla difesa dei propri privilegi, dalla giustificazione di pretese egemoniche su elementi culturalmente affini alla rivendicazione nazionalistica dei propri diritti ancestrali su un territorio contro usurpatori di diversa origine. In tutti i casi, appare forte la tendenza a sottolineare la propria identità politica e culturale nei confronti di altre realtà elleniche, verso le quali viene percepita e sottolineata, a diversi livelli, un’estraneità che fa da presupposto al rifiuto di ogni autentica prospettiva di integrazione. 3. LA POSIZIONE DELICATA DELL’APOLIDE Esclusione tendenziale dello straniero e forte sottolineatura dell’identità rendono particolarmente difficile la posizione, in Grecia, dell’apolide. Tale è la condizione degli esuli (phygades), la cui posizione giuridica è, nel mondo greco, anche più delicata di quella degli xenoi. Gli apolidi sono infatti uomini rimasti privi della cittadinanza: ed essendo il Greco essenzialmente un polites, l’assenza di cittadinanza rende l’esule degno di disprezzo. Si diventava esuli in seguito a provvedimenti di bando, dovuti a motivi di carattere politico (le lotte di fazione che caratterizzarono la storia della Grecia classica furono potenti fattori di crescita del fenomeno dell’esilio) oppure all’applicazione di una pena; era però relativamente frequente che vi si ricorresse volontariamente, per sfuggire (anche preventivamente) a Presente già in Erodoto (VIII, 73: “Sette popoli abitano il Peloponneso. Di essi due sono autoctoni e risiedono nella regione che abitavano anche nei tempi antichi, gli Arcadi e i Cinuri”) e in Tucidide (I, 2, 3: “Le terre migliori subivano continui mutamenti di abitatori, come quella che ora è chiamata Tessaglia e la Beozia e la maggior parte del Peloponneso ad eccezione dell’Arcadia”). 14 Cfr., per ulteriore approfondimento sul discorso di Licomede, C. Bearzot, Federalismo e autonomia nelle Elleniche di Senofonte, Milano 2004, *. 13 5 questi provvedimenti o per cercare altrove condizioni di vita più favorevoli. Nel corso del IV secolo il numero degli esuli crebbe enormemente nel mondo greco: gli apolidi, in condizioni di grave precarietà sul piano economico e sociale, andarono ad accrescere le masse itineranti di avventurieri, mercenari, mercanti (Isocrate fa spesso riferimento a loro definendoli con il nome di planómenoi, “erranti”: cfr. Plataico, 46 ss.; Archidamo, 68; Filippo, 96). In una Grecia povera di risorse, queste masse di apolidi privi di residenza fissa e di mezzi di sostentamento (l’aporía tou biou di cui parla Isocrate, Panegirico, 174, sottolineandone le conseguenze negative in termini di instabilità sociale) alimentarono anche il brigantaggio15. L’esule poteva porre rimedio alla sua condizione (che spesso comportava anche la rottura dei rapporti familiari e la confisca dei beni) chiedendo ospitalità ad un’altra comunità politica. L’esule si affidava, in questo caso, al principio religioso della sacralità dell’ospite, posto sotto la protezione di Zeus Xenios, e poteva rendere più impegnativa per l’interlocutore la sua richiesta ponendosi nella condizione di supplice (hiketes): tuttavia, le autorità politiche potevano esitare nel concedere protezione, per motivi di opportunità politica (evitare conflitti con la comunità d’origine dell’esule) o anche per il possibile contrasto tra norma religiosa e legge positiva (l’esule poteva trovarsi nella sua condizione anche in base a fondati motivi giuridici). La sicurezza dell’esule dipendeva insomma dalla disponibilità di comunità che non avevano obblighi nei suoi confronti, il che lo esponeva a diversi rischi: egli poteva essere dichiarato nemico dallo stato ospite, e dunque perseguito, catturato e ucciso (si pensi al caso di Temistocle, inseguito per tutta la Grecia da emissari spartani e ateniesi, o ai “cacciatori di esuli” sguinzagliati dai Macedoni contro i democratici ateniesi nel 322), oppure essere oggetto di una richiesta di estradizione (come quella rivolta da Sparta alle città greche a proposito dei democratici esuli all’epoca dei Trenta Tiranni). Il tema dei rischi che l’esule correva nel momento in cui si rivolgeva ad una comunità per chiedere ospitalità è fortemente presente nella tragedia attica, a riprova dell’importanza del problema nella società, nella cultura e nell’etica greca (per esempio nelle Supplici di Eschilo, nell’Edipo a Colono di Sofocle, negli Eraclidi di Euripide). Già abbiamo ricordato la tradizionale disponibilità degli Ateniesi nei confronti degli esuli: possiamo aggiungere che l’epigrafia ha restituito diversi decreti ateniesi in favore di esuli, i quali prevedono, oltre a vari onori e concessioni, forme di affidamento alle autorità (la boulé, gli strateghi), affinché essi non subiscano adikía e godano di tutela giuridica. La massima aspirazione degli esuli era costituita, in ogni caso, non dall’integrazione in un diverso contesto politico e sociale, ma dal ritorno alla propria comunità di origine. Lo mostra bene il caso degli abitanti di Platea, una comunità di esuli che, in condizioni assai sfavorevoli, riuscì a mantenere una salda identità cittadina e coltivò sempre il sogno del ritorno, mostrandosi disinteressata all’integrazione in un contesto diverso. Platea, città beotica gravitante fin dal VI secolo su Atene, cui era legata da una stabile amicizia, venne distrutta nel 427 dai Tebani, sostenuti dagli Spartani; gli uomini furono uccisi, donne e bambini resi schiavi (Tucidide III, 68). Circa 2000 Plateesi (tra cui circa 550 adulti maschi) trovarono rifugio in Atene, dove ricevettero, con un raro caso di naturalizzazione di gruppo, la cittadinanza ateniese16. L’inserimento nel corpo civico ateniese consentì ai Plateesi di sfuggire alla precaria condizione di apolidi, in attesa di tempi migliori. Durante la permanenza in Atene, sappiamo che la comunità dei Plateesi cercò di mantenere la sua coesione attraverso lo stretto contatto con i connazionali e il mantenimento delle proprie abitudini e tradizioni. Un passo dell’orazione lisiana Contro Pancleone, rivolta contro un tale che si diceva Plateese ed era sospettato di volere, con ciò, usurpare i diritti concessi dagli Ateniesi agli sfortunati abitanti di Platea, ci informa del fatto che i Plateesi residenti in Atene si riunivano fra loro una volta al mese al mercato del formaggio fresco (Lisia XXIII, 5-6). La testimonianza illustra bene la volontà dei Plateesi di mantenere la propria identità e la coesione della comunità, costituendo una sorta di enclave nell’ambito del corpo civico ateniese, in attesa del ritorno alla propria città di origine. La difficoltà di integrazione dei Plateesi in ambito ateniese, nonostante la Cfr. C. Bearzot, Xenoi e profughi nell’Europa di Isocrate, in Integrazione, mescolanza, rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità all’Umanesimo (Atti del Convegno, Cividale del Friuli 21-23 settembre 2000), Roma 2001, pp. 47-63. 16 Cfr. L. Prandi, Platea. Momenti e problemi della storia di una polis, Padova 1988, pp. 93 ss.; per una accurata disamina delle fonti sulla concessione cfr. M.J. Osborne, Naturalization in Athens, I, Brussel 1981, 28 (D1); II, Brussel 1982, pp. 11 ss.. 15 6 tradizionale amicizia con Atene e la generosa accoglienza ricevuta, è testimoniata dal mantenimento dell’etnico Plataieus (che emerge, oltre che dalla testimonianza lisiana, dalle iscrizioni sepolcrali)17 e dallo svolgimento del servizio militare in unità separate (Tucidide IV, 67, 1-2). Una conferma viene dal fatto che gli Ateniesi, già nel 421, cercarono di trovare una nuova sede ai Plateesi, inviandoli col loro consenso a Scione, distrutta e spopolata (Tucidide V, 32, 1; Isocrate, Panegirico, 109; Diodoro XII, 76, 4). Nel 404 però, dopo la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso, i Plateesi furono espulsi da Scione per volontà di Lisandro (Plutarco, Vita di Lisandro, XIV, 4) e dovettero rientrare in Atene, dove come testimonia Lisia, si trovavano agli inizi del IV secolo. Ma la vicenda non finisce qui. Platea fu ricostruita in seguito alla pace comune del 386 (Pausania IX, 1, 4), dalla quale probabilmente i Plateesi si attendevano una garanzia di autonomia dalle pretese tebane. In un clima politico che vedeva Atene e Tebe alleate contro Sparta, l’appoggio di quest’ultima diveniva fondamentale per Platea, che accolse una guarnigione spartana e con Sparta collaborò negli anni successivi. Nell’estate del 373 Platea, riluttante ad aderire alla Lega beotica sottomettendosi al controllo di Tebe, fu nuovamente attaccata e distrutta dai Tebani; l’intervento fece precipitare i rapporti fra Atene e Tebe, che erano state fino a quel momento unite contro Sparta (Senofonte, Elleniche, VI, 3, 1)18. Si apriva così, per i Plateesi, una nuova stagione di incertezza. Nonostante l’impegno profuso da Isocrate, che pubblicò fra 373 e 371 il Plataico per sostenere i Plateesi che chiedevano la ricostruzione della loro città e dipinse a tinte fosche il triste destino dei Plateesi privati della patria (§ 46 ss.), questa volta l’impegno ateniese nei confronti degli esuli fu meno deciso di quello del 427. Del resto, forse gli stessi Plateesi non si attendevano, né desideravano, un nuovo assorbimento nel corpo civico ateniese: dal Plataico isocrateo risulta in realtà che essi si limitarono a richiedere la ricostruzione della loro città, lamentando la perdita del koinòs bios e, con esso, del rapporto solidale con la comunità (§ 46-49). Il passo mostra come i Plateesi temessero soprattutto la perdita di identità collegata con la fine di quel koinòs bios che si sperimentava nell’ambito della polis e che costituiva uno degli aspetti fondamentali dell’identità greca, tant’è vero che essi avevano cercato in ogni modo di mantenerne alcuni aspetti durante il soggiorno ateniese del secolo precedente: in questa prospettiva, una nuova concessione di cittadinanza da parte ateniese non avrebbe certo risolto i loro problemi. Non è la piena integrazione nel corpo civico dell’amica Atene che i Plateesi si attendevano, bensì un concreto aiuto a tornare a Platea e a ricostituire l’integrità della comunità cittadina originaria: il che poté avvenire solo dopo il 338, quando Platea fu ricostruita per iniziativa di Filippo II di Macedonia. Nella situazione di estrema precarietà dei Plateesi, costretti a lunghi periodi di esilio che comportarono la resezione dei rapporti con il territorio e lo sfaldamento della comunità e li costrinsero a sopravvivere come minoranza numerica più o meno ben tollerata in ambiente estraneo, colpisce la capacità di mantenere comunque una forte identità etnica, politica e culturale, in grado di consentire la rifioritura della comunità, una volta realizzate condizioni più favorevoli. E colpisce soprattutto il disinteresse per l’integrazione in Atene, che pure li aveva accolti con generosità, concedendo loro una eccezionale naturalizzazione di gruppo e sottraendoli al loro stato di apolidi. La percezione dello straniero nella mentalità dei Greci e la posizione giuridica di cui egli godeva nel mondo delle città greche autorizzano a parlare di una sua “definizione funzionale”19: egli, cioè, riceve una serie di concessioni che ne migliorano la condizione e ne favoriscono, se non l’integrazione, almeno la sicura convivenza con i cittadini della comunità che più o meno stabilmente li ospita, nella misura in cui essi offrono a tale comunità prestazioni che essa riconosce utili. Il rapporto che si viene a determinare è dunque di natura contrattuale: la polis, nel suo carattere di comunità fondata sul riconoscimento di culti e di leggi comuni e sulla partecipazione dei cittadini alla gestione degli affari comuni, in linea di principio esclude lo straniero; ma ne può apprezzare l’attività in campo economico, contributivo, militare, evergetico. In questo caso, la città elabora i diversi istituti che abbiamo esaminato Plataieús /Plataiké, con diverse grafie: cfr. IG II-III 2 10086-10102. Sulla vicenda e le relative fonti cfr. Prandi, Platea, pp. 121 ss.; C. Bearzot, La città che scompare. Corinto, Tespie e Platea tra autonomia cittadina e politeiai alternative, in In limine. Ricerche su marginalità e periferia nel mondo antico, Milano 2004, pp. 269-286. 19 Baslez, L’étranger dans la Grèce antique, 204. 17 18 7 e, pur non integrando lo straniero, gli offre la possibilità di non essere considerato un nemico e di entrare in una qualche relazione con la comunità cittadina. Ma il rapporto fra identità e integrazione nel mondo greco è complesso. Il cittadino, con il suo forte senso di identità, anche nei confronti degli altri Greci, che così bene si esprime nel mito dell’autoctonia, è riluttante a integrare lo xenos; ma è anche vero che neppure lo xenos vuole veramente integrarsi, e gli apolidi, come mostra il caso dei Plateesi, mostrano un sostanziale disinteresse per ogni soluzione (dall’integrazione alla ricerca di nuove sedi) che non comporti la ricostruzione della comunità originaria. Il forte senso identitario caratteristico dell’uomo greco tende ad escludere ogni forma di integrazione, non solo, come è logico, nel caso in cui si debba concederla, ma anche nel caso in cui se ne sia beneficiari. Il tramonto, in seguito all’affermazione dei grandi regni ellenistici, dell’esperienza politica della polis (le cui tradizionali strutture sopravvivono, ma ormai prive, una volta venute meno l’autonomia e la libertà, del loro più autentico significato partecipativo) favorì una percezione diversa, e caratterizzata da maggiore apertura e disponibilità, verso lo straniero. La grande crescita della popolazione e la commistione che essa portò con sé creò un tessuto sociale assai composito, in cui la diversità, anche etnica, fu percepita in forma meno drammatica. All’interno delle città, la differenza tra meteci e xenoi, così forte nella polis classica, si affievolì; lo sviluppo della vita associativa, in ambito militare, commerciale e religioso-cultuale, favorì l’integrazione degli elementi stranieri, anche di etnia non greca. La città ellenistica, concepita come centro di cultura piuttosto che come forma di stato, può essere considerata, diversamente da quella classica, una più efficace struttura di integrazione. Cinzia Bearzot Università cattolica di Milano 8