Platone (Teeteto, 173 c – 176 a): Socrate: - [I filosofi], fin da giovani, ignorano la via che porta alla piazza, e dove sia il tribunale, o il consiglio, o altra sede pubblica della città; non vedono e non odono le leggi e le deliberazioni, sia pronunciate che messe per iscritto; congiure per prendere il potere, convegni, cenacoli e conviti in compagnia di flautiste, non viene loro in mente nemmeno in sogno di farli; se uno in città sia di nobili o di umili natali, o se qualche traccia di mancanza di nobilita gli sia derivata dal ramo paterno piuttosto che da quello materno della famiglia, tutto ciò gli sfugge più di quanto non gli sfugga il calcolo delle gocce del mare. E, tutte queste cose, neppure sa di non saperle […]. Teodoro: - Che cosa intendi dire, Socrate, con questo? Socrate: - Ciò che si dice di Talete, Teodoro, che, mentre interpretava i moti regolari delle stelle e guardava al cielo, cadde in un pozzo; e una servetta tracia, arguta e graziosa, lo prese in giro dicendogli che, mentre si sforzava di conoscere le cose del cielo, gli sfuggivano quelle che aveva davanti a sé e ai propri piedi. Lo stesso scherzo si adatta a tutti coloro che si dedicano alla filosofia. Infatti al filosofo sfugge di chi gli è vicino, o del dirimpettaio, non solo che cosa faccia, ma quasi se sia un uomo o un’altra bestia; ma che cosa sia mai l’uomo e che cosa, in base alla sua natura, gli si addica fare o patire, a differenza di tutte le altre cose, questo egli indaga e fa continui sforzi in questo senso. Comprendi, ora, Teodoro? Teodoro: - Sì, dici il vero. Socrate: - Ebbene, carissimo, se un tale [filosofo], in privato o in pubblico, […], in tribunale o altrove, è costretto a discutere delle cose che ha davanti ai piedi o agli occhi, suscita il riso non solo delle servette tracie, ma anche di tutta la gente, cadendo, per inesperienza, in pozzi e in ogni sorta di vicoli ciechi; e la sua goffaggine è tremenda, procurandogli fama di stoltezza. E, insultato, non sa nulla di adatto a contraccambiare l’insulto, perché, non essendosene mai dato pensiero, non conosce nulla di cattivo riguardo a nessuno; e nel suo imbarazzo appare ridicolo. E, se altri sono lodati e magnificati e lui si mette, visibilmente, a ridere, non per supponenza, ma sinceramente, sembra che sia uno sbruffone. Se, per esempio, un tiranno o un re viene lodato come un pastore, egli crede di sentirlo lodare come un vero pastore di porci, di capre o di buoi, da cui egli possa mungere molto latte […]. Ebbene, un tale uomo è deriso dai più, sia perché, come pare, manifesta troppa presunzione, sia perché ignora le cose che ha tra i piedi e si trova continuamente in difficoltà. Teodoro: - Le cose accadono proprio in questi termini, Socrate. Socrate: - Ma se egli, carissimo, solleva qualcuno in alto e questi accetta di seguirlo al di là della questione “Che ingiustizia ho commesso nei tuoi confronti e tu nei miei?”, per indagare la giustizia in se stessa e l’ingiustizia, e che cosa sia ciascuna delle due e in che cosa differiscano da tutte le altre cose o tra loro; o [lo conduca] al di là di questioni come “è felice il re?” oppure “è felice chi possiede dell’oro?”, per indagare intorno alla regalità, alla felicità e all’infelicità dell’uomo […], ebbene se intorno a tutte queste questioni dovesse rendere ragione colui che è pusillanime, cavilloso, adatto ai tribunali, egli pagherebbe [al filosofo] il pegno: sospeso in alto, guardando verso dall’alto il basso, preda delle vertigini per mancanza di abitudine, pieno di difficoltà, balbettante, susciterebbe il riso non di servette tracie o d’altri privi di educazione, che non si accorgono di nulla, ma di tutti coloro che sono stati allevati in modo non servile. Questo, Teodoro, in verità è il costume dell’uno e dell’altro: l’uno, che chiami filosofo, allevato nella vera libertà e nell’ozio [scholé], sembra un inetto e un buono a nulla se gli sono affidati compiti servili […]; l’altro, invece, che è in grado di adempiere con precisione e velocità questi servizi, non sa “gettarsi sulla spalla destra il mantello”, come si dice degli uomini liberi, né, afferrando correttamente l’armonia delle parole, celebrare, inneggiando, la vera vita degli dei e degli uomini felici. Platone, Opere complete, Volume II, Teeteto, Laterza 1984, pagg. 123 – 126. La Guerra del Peloponneso (in greco antico: Περὶ τοῦ Πελοποννησίου πoλέμου, Perì tu Peloponnēsìu polèmu) è un'opera di Tucidide sulla guerra del Peloponneso, scritta dallo storico greco nel periodo di permanenza ad Atene. Il titolo dell'opera e la divisione in otto libri, realizzate dai bibliotecari alessandrini, sono entrambe posteriori. Descrizione L'opera è un profondo e analitico resoconto cronologico del conflitto che oppose fra il 431 a.C. e il 404 a.C. Sparta ed Atene per il predominio sulla Grecia. I libri comprendono tre fasi precise del conflitto (e il I libro comprende un excursus sul cinquantennio di pace - Pentecontaetia - che precedette il conflitto diretto): lo scontro tra i due colossi Atene e Sparta dal 431 a.C. al 421 a.C. (anno della pace stipulata dall'uomo politico e generale ateniese Nicia); la sventurata spedizione ateniese in Sicilia iniziata nel 415 a.C. e conclusa nel 413 a.C. con la distruzione della flotta nel porto di Siracusa da parte delle truppe del comandante spartano Gilippo; ed infine la prosecuzione del conflitto fino al 411 a.C. Nelle intenzioni di Tucidide la narrazione sarebbe dovuta proseguire fino alla fine della guerra (404 a.C.). Antefatto Nel 431 a.C., in seguito all'invasione del territorio ateniese da parte del re spartano Archidamo II, ha inizio la trentennale guerra del Peloponneso. Alla fine del primo anno di guerra, che si è concluso senza sostanziali mutamenti, gli Ateniesi organizzano le esequie ufficiali per i caduti, che prevedono un discorso funebre, detto epitafios, destinato ad essere pronunciato da parte di un uomo designato dalla città, che goda di particolare prestigio. Il discorso pericleo non è una semplice celebrazione formale degli ateniesi morti, ma dall'occasione particolare Pericle passa subito ad un'analisi più generale della città e del suo sistema politico, così che le parole dello statista finiscono per risultare un vero e proprio manifesto della democrazia ateniese. Epitaffio di Pericle (431 a.C.) Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così. Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma che la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola della Grecia e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e non caccia mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così. Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 34 – 46, Garzanti editore 2003.