QUADERNI DI CHIRURGIA VASCOLARE 04 Collana della Scuola di Specializzazione in Chirurgia Vascolare dell’Università degli Studi di L’Aquila diretta da Carlo Spartera Carla Petrassi / Raffaele D’Adamo Federico Accrocca / Alessandro Mastromarino Arteripoatia ostruttiva cronica degli arti inferiori Copyright © MMVII ARACNE EDITRICE S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] 00173 Roma via Raffaele Garofalo, 133 A/B (06) 93781065 ISBN 978–88–548–1189–8 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. I edizione: giugno 2007 Indice Prefazione ……………………………..…………………….......... 7 Capitolo 1 Patologia ostruttiva degli arti inferiori…………………….… 9 Capitolo 2 Fisiopatologia ed anatomia patologica ……………………... 19 Capitolo 3 Classificazione ed inquadramento clinico ……………….… 31 Capitolo 4 Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori……. 43 Capitolo 5 Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca………….……… 55 Capitolo 6 Malattia femoro-poplitea…………….................................... 99 Letture consigliate …………………………………………….. 131 5 6 Prefazione L’arteriopatia ostruttiva cronica degli arti inferiori è, forse, la patologia che più spesso porta il paziente dal chirurgo vascolare. La sua importanza dal punto di vista epidemiologico e le sue implicazioni socio-economiche sono ben codificate da tempo. Il coinvolgimento delle arterie degli arti inferiori da parte della malattia arteriosclerotica ha sempre costituito uno dei grandi capitoli della chirurgia vascolare. L’arteriosclerosi a livello dell’aorta addominale e delle arterie degli arti inferiori può assumere aspetti che, se clinicamente possono sembrare simili tra loro, dal punto di vista anatomico, fisiopatologico, terapeutico e prognostico possono essere estremamente diversi. La chirurgia di queste lesioni è andata incontro, nel tempo, ad un’importante evoluzione soprattutto concettuale. Negli anni Settanta i chirurghi vascolari ritenevano che tutte le lesioni delle arterie degli arti inferiori dovessero, ove possibile, essere corrette con un by-pass. Dopo anni nei quali ci si è dovuti confrontare con risultati non brillanti dal punto di vista della durata nel tempo e del vantaggio clinico per il paziente, si è giunti oggi alla consapevolezza che ogni paziente va valutato come un caso unico e che, soprattutto per le arterie al di sotto dell’inguine, vi sono situazioni nelle quali l’atteggiamento migliore è quello di instaurare una terapia medica mirata che può ottenere, insieme all’adozione di uno stile di vita adeguato, risultati identici, se non migliori, rispetto alla chirurgia. L’avvento della chirurgia endovascolare, poi, ha fatto scoprire nuove prospettive terapeutiche per questo genere di lesioni. In alcuni distretti, oggi, la terapia endovascolare delle lesioni arteriose è diventata la terapia di scelta, per la sua scarsa aggressività ed i buoni risultati ottenuti. In altri distretti le sue indicazioni non sono ancora così ampie, ma le limitazioni si riducono proporzionalmente ai progressi delle tecnologie in questo settore. Tutti questi aspetti, da quelli più semplicemente clinico-diagnostici, alle ultime novità in campo terapeutico sono illustrate in questo libro che, certamente, risulterà utile sia agli “addetti ai lavori” sia a coloro che vogliono conoscere i progressi della scienza medica in questo settore. Carlo Spartera 7 8 1. Patologia ostruttiva degli arti inferiori Cenni di anatomia L’aorta addominale (Fig. 1) si estende dalla XII vertebra toracica, a livello dello iato aortico del diaframma, fino allo spazio tra IV e V vertebra lombare, dove si biforca nelle due arterie iliache comuni (carrefour aortico). Ha una lunghezza di 12,5-13,5 cm ed un calibro che oscilla da 1,5 a 2,3 cm a seconda della costituzione individuale, del sesso e dell’età del soggetto. Decorre nello spazio retroperitoneale sulla superficie anteriore dei corpi vertebrali, in stretto rapporto a destra con la vena cava e con il dotto toracico, in avanti con il fegato, lo stomaco, il duodeno, il pancreas, la vena renale sinistra e con il mesentere, a sinistra con la vena mesenterica inferiore, i vasi genitali e l’uretere. Inoltre nel tessuto cellulare lasso che la ricopre, nello spazio retroperitoneale, sono presenti elementi linfatici e nervosi. Nel suo decorso emette alcuni rami parietali, le arterie freniche e le lombari, ed importanti Figura 1: Aorta addominale e suoi rami principali (in rosso). 9 10 Capitolo 1 rami viscerali: il tripode celiaco, l’arteria mesenterica superiore, le arterie renali, le arterie genitali e l’arteria mesenterica inferiore. I rami parietali, ma soprattutto quelli viscerali, svolgono un ruolo importante nei processi di formazione del circolo collaterale. Il tripode celiaco origina poco al di sotto dell’orifizio aortico del diaframma e si divide in 3 rami: le arterie gastrica sinistra, splenica ed epatica. L’arteria mesenterica superiore nasce circa 1 cm al di sotto del tronco celiaco, irrora principalmente l’intestino tenue, il colon ascendente e il colon trasverso. Le arterie renali, pari e simmetriche, originano in corrispondenza della I vertebra lombare, la sinistra leggermente più in alto della destra. L’arteria mesenterica inferiore nasce in prossimità della biforcazione aortica a livello della III vertebra lombare; provvede all’irrorazione del colon discendente e del sigma attraverso l’arteria colica sinistra, le arterie sigmoidee e le emorroidarie superiori, suoi rami terminali. Questi rami formano una vasta rete di collegamento anastomizzandosi non solo tra loro ma anche con i rami dell’arteria mesenterica superiore, del tronco celiaco e dell’arteria ipogastrica. Le arterie iliache comuni decorrono obliquamente in basso e lateralmente, fino a livello della base della V vertebra lombare, in corrispondenza del margine superiore dell’ala del sacro dove si biforcano nei loro rami terminali. Hanno una lunghezza media di 4,5-7 cm ed un calibro di circa 6,5-7 mm. In avanti sono ricoperte dal peritoneo parietale, incrociate dai rami del simpatico e dalle linfoghiandole iliache. L’arteria iliaca comune di sinistra è incrociata, nella sua porzione terminale, dall’uretere. A destra la vena iliaca comune decorre postero-lateralmente all’arteria del suo lato e posteriormente a quest’ultima arteria decorre il tratto terminale della vena iliaca comune di sinistra. Medialmente, l’arteria iliaca comune di sinistra è costeggiata dalla vena iliaca comune di sinistra. Raggiunta l’articolazione sacro-iliaca ogni arteria iliaca comune si divide nei due rami terminali, l’uno mediale, l’arteria ipogastrica, l’altro laterale, l’arteria iliaca esterna. L’arteria ipogastrica, oltre a provvedere all’irrorazione degli organi pelvici, dei genitali e della parte postero-mediale della coscia, partecipa alla formazione dei sistemi anastomotici lombare, mesenterico ed iliaco-femorale. L’arteria iliaca esterna decorre lateralmente in basso fino all’anello femorale, sotto il legamento inguinale, dove diviene arteria femorale comune. La lunghezza media dell’arteria è di 10 cm, il suo calibro nell’uomo è di 7 mm, 6,5 mm nella donna. Ricoperta dal peritoneo, anteriormente è in rapporto con l’uretere, il dotto deferente nell’uomo, l’ileo ed il cieco a destra ed il sigma a sinistra. Medialmente è presente la vena omonima, mentre posterolateralmente è in rapporto con il muscolo psoas. Patologia ostruttiva degli arti inferiori 11 L’arteria femorale comune, continuazione diretta dell’iliaca esterna, è lunga circa 4 cm (Fig. 2). Essa termina nel canale femorale dove si biforca in arteria femorale superficiale e arteria femorale profonda. È ricoperta dalla fascia lata; lateralmente è in rapporto con lo psoas ed il nervo femorale, medialmente con la vena omonima e con i vasi linfatici, mentre posteriormente riposa sui muscoli pettineo e ileopsoas. Si continua direttamente nell’arteria femorale superficiale, che decorre nel canale femorale delimitato anteriormente dal muscolo sartorio, mediamente e posteriormente dagli adduttori e lateralmente dal femore. Il calibro della femorale superficiale tende a ridursi, in senso cranio-caudale, dai 9 ai 5 mm. Essa termina al canale degli adduttori, detto anche canale di Hunter, dove si continua con l’arteria poplitea. La vena femorale decorre medialmente all’arteria nel tratto prossimale, mentre verso il basso tende a portarsi postero-lateralmente ad essa. L’arteria femorale profonda nasce dalla faccia postero-laterale dell’arteria femorale comune, si insinua nell’interstizio fra i muscoli adduttore lungo ed adduttore breve, inviando numerosi e cospicui rami per i muscoli della coscia. Quest’arteria è molto importante poiché, in caso di ostruzione della femorale superficiale, essa diviene la fonte principale per il circolo collaterale Figura 2: Principali arterie dell’arto inferiore. 12 Capitolo 1 che garantisce la perfusione della gamba e del piede grazie al grande numero di rami collaterali anastomotici esistenti tra questo vaso e i rami genicolari. L’arteria poplitea, prosecuzione della femorale superficiale, si estende dall’anello degli adduttori a quello del soleo. Essa diviene posteriore ed occupa il piano profondo del cavo popliteo. Anteriormente poggia sul piano fibroso dell’articolazione del ginocchio, è costeggiata dalle vene poplitee, solitamente due, e postero-lateralmente presenta il nervo ischiatico. Ha un calibro variabile dai 6 ai 4 mm. Presenta molti rami collaterali che costituiscono la rete perirotulea. Oltrepassato l’anello del soleo l’arteria poplitea si biforca nei suoi rami terminali: l’arteria tibiale anteriore ed il tronco tibio-peroniero. L’arteria tibiale anteriore, subito dopo la sua origine, attraversa lo spazio interosseo per giungere nella regione anteriore della gamba. Discende fino al legamento anulare anteriore del tarso e si continua nell’arteria pedidia che partecipa alla formazione delle arcate dorsali e plantari del piede. Il tronco tibio-peroniero discende sulla faccia dorsale della gamba e, dopo un breve tratto, termina biforcandosi nelle arterie tibiale posteriore e interossea o peroniera. L’arteria tibiale posteriore, ramo mediale di biforcazione, discende lungo la faccia posteriore della gamba fino al margine dorsale del malleolo mediale dove si biforca nelle arterie plantare laterale e mediale. L’arteria plantare laterale si anastomizza con il ramo plantare profondo della pedidia, formando l’arcata plantare profonda. L’arteria interossea si porta obliquamente, in basso e lateralmente, decorrendo caudalmente a ridosso della fibula fino al malleolo laterale ove si risolve nei suoi rami terminali, i rami calcaneari. Circoli collaterali Lo sviluppo di circoli collaterali (Fig. 3) nella malattia ostruttiva aorto-iliaca permette in genere un valido compenso, tale che la fenomenologia clinica si sviluppa molto tardivamente e raramente raggiunge gli stadi più avanzati. Ciò è in relazione all’ampia distribuzione dei circoli addominali e pelvici, al calibro dei singoli componenti e alla loro rilevanza funzionale. Le principali vie collaterali sono, in senso cranio-caudale: - la via epigastrica che inizia dall’arteria epigastrica superiore, passa per l’arteria epigastrica inferiore e si raccorda all’arteria femorale comune; - la via lombare, con inizio dalle arterie lombari e raccordo all’arteria iliaca interna (o ipogastrica), attraverso l’arteria ilio-lombare, nonché all’arteria femorale comune attraverso l’arteria circonflessa dell’ilio; Patologia ostruttiva degli arti inferiori 13 - la via mesenterica, con inizio dall’arteria mesenterica superiore e raccordo con l’arteria mesenterica inferiore, oppure con inizio dall’arteria mesenterica inferiore e raccordo all’arteria iliaca interna attraverso il sistema emorroidario supero-inferiore; - la via otturatoria, con inizio dall’arteria ipogastrica e raccordo con l’arteria femorale comune attraverso l’arteria circonflessa mediale del femore. Sistemi collaterali di minore importanza sono quelli fra i rami delle due arterie iliache interne (o ipogastriche), specialmente nella steno-ostruzione dell’iliaca comune di un solo lato. A livello del distretto arterioso sottoinguinale i circoli collaterali più costanti (Fig. 4) sono sostenuti dall’arteria circonflessa iliaca superficiale e dall’arteria epigastrica. L’arteria femorale profonda dà origine all’arteria circonflessa mediale del femore, all’arteria circonflessa laterale del femore (che spesso origina insieme all’arteria del quadricipite con un tronco comune), a 3-4 rami perforanti per i muscoli posteriori della coscia, a 1-4 arterie quadricipitali e alle arterie degli adduttori. Tutti questi rami costituiscono l’elemento fondamentale del circolo collaterale nella parte più prossimale dell’arto inferiore. L’arteria poplitea decorrendo nella losanga poplitea fornisce le arterie articolari superiori mediale e laterale, le arterie gemellari mediale e laterale, l’arteria articolare Figura 3: Circoli collaterali intermesenterici e con i rami delle arterie ipogastriche. 14 Capitolo 1 media e le arterie articolari inferiori mediale e laterale. Le arterie articolari superiori ed inferiori circondano l’articolazione del ginocchio ed in avanti si anastomizzano tra loro, con la suprema del ginocchio e con la ricorrente tibiale anteriore. L’arteria tibiale anteriore, lungo il suo decorso, fornisce l’arteria ricorrente tibiale anteriore, la ricorrente tibiale posteriore (incostante), rami muscolari per i muscoli anteriori della gamba e le arterie malleolari anteriori mediale e laterale. I rami collaterali della tibiale posteriore sono i rami muscolari per i muscoli posteriori della gamba, un ramo che entra a far parte del circolo perimalleolare, un ramo anastomotico con l’arteria peroniera e rami calcaneari che donano un’altra arcata anastomotica con la peroniera. I rami collaterali dell’arteria peroniera sono rami muscolari, un ramo perforante che si anastomizza con la tibiale anteriore, un ramo anastomotico con la tibiale posteriore e un ramo malleolare posteriore. È necessario sottolineare che la quantità e la qualità del circolo collaterale sono strettamente correlate al livello della patologia steno-ostruttiva; più prossimale sarà la patologia, maggiori saranno le possibilità di circolo collaterale; quanto più distale è la lesione steno-ostruttiva tanto minore sarà l’entità del circolo collaterale. Figura 4: Circoli collaterali a livello femoro-popliteo. Patologia ostruttiva degli arti inferiori 15 Emodinamica Per parlare della fisiologia della circolazione arteriosa si devono prendere in considerazione sia i vasi sanguigni (intesi tanto come “tubi” all’interno dei quali scorre un liquido il cui movimento è regolato da alcune leggi, quanto come apparato che può modificare il proprio stato in funzione di numerose variabili), sia il sangue contenuto nei vasi stessi, prendendo in considerazione la sua composizione ed il suo comportamento all’interno del sistema vasale. Vasi e sangue entrano poi nel complesso meccanismo della coagulazione. Il meccanismo della circolazione è regolato dalle leggi fisiche dell’idrodinamica. Peraltro bisogna tener presente che, contrariamente ai postulati idrodinamici, i vasi sanguigni non sono tubi rigidi, il sangue è un liquido con caratteristiche particolari ed il flusso sanguigno è pulsante nella maggiore parte del letto vasale. Il moto dei fluidi è oggetto di studio sia della cinetica che della cinematica. La prima scienza studia le forze che determinano il movimento, le grandezze che lo definiscono (pressione, flusso, resistenza) e le leggi che legano queste grandezze; la cinematica studia la geometria del moto (laminare, turbolento). Per viscosità di un fluido si intende la resistenza al flusso opposta dal fluido stesso; è pertanto la proprietà che esprime l’opposizione al moto relativo di parti adiacenti del fluido. La viscosità viene comunemente espressa con la lettera ŋ (coefficiente di viscosità) ed il suo inverso, la fluidità, con il rapporto 1/ŋ. Il sangue è un liquido reale con molte peculiarità che lo allontanano da altri fluidi reali sui quali vengono comunemente applicati gli studi dell’idrodinamica. Esso è un liquido viscoso, costituito da una sospensione di eritrociti, leucociti, piastrine e lipidi in una soluzione colloidale di proteine. Il volume percentuale di sangue costituito da cellule viene definito ematocrito; normalmente il valore dell’ematocrito si aggira intorno al 42% nell’uomo e al 38% nella donna. Tanto maggiore è la percentuale di cellule nel sangue, tanto più elevato sarà l’ematocrito e tanto maggiore l’attrito tra i vari strati del sangue all’interno dei vasi. L’aumento dell’ematocrito determina, quindi, un aumento notevole della viscosità. Per flusso ematico s’intende la quantità di sangue che passa per un determinato segmento vasale del sistema circolatorio in un definito periodo di tempo. Esso può essere espresso in millilitri al secondo (ml/sec) o litri al minuto (l/min). Il flusso ematico complessivo di un organismo umano adulto corrisponde alla gittata cardiaca: rappresenta, infatti, la quantità di sangue che ciascuno dei ventricoli pompa nell’unità di tempo. Il flusso arterioso, infatti, è determinato 16 Capitolo 1 dal cuore che fornisce una certa energia alla massa ematica circolante. Il flusso arterioso è pulsante e sincrono con la sistole cardiaca. Più precisamente, il sangue scorre nelle arterie e subisce accelerazioni durante la sistole; la continuità del flusso è garantita dall’energia immagazzinata in fase sistolica dalle pareti delle grandi e medie arterie che si dilatano: tale energia viene restituita, sotto forma di spinta alla massa ematica, durante la diastole allorché le arterie ritornano al loro calibro basale. L’energia totale fornita dal cuore è costituita da una parte di energia potenziale e da una parte di energia cinetica. L’energia potenziale è composta da: - pressione intravascolare, conseguenza diretta dalla spinta fornita alla massa ematica dal cuore; - pressione idrostatica, strettamente correlata all’altezza della colonna ematica in un vaso; - energia potenziale gravitazionale: tale grandezza rappresenta l’opposto della pressione idrostatica. L’energia potenziale si estrinseca come tensione laterale sulle pareti vasali. L’energia cinetica è rappresentata dalla velocità di scorrimento del sangue nei vasi. Il principio fisico che regola i rapporti tra energia potenziale ed energia cinetica di un fluido ideale è il principio di Bernoulli. Secondo tale teorema l’energia totale di un fluido, data dalla somma dell’energia potenziale, dell’energia cinetica e dell’energia di gravità, resta costante in ogni punto del condotto in cui il fluido scorre. Le altre leggi dell’idrodinamica applicabili alla circolazione ematica sono le seguenti. Teorema di Venturi: diretta conseguenza del Teorema di Bernoulli, il Teorema di Venturi si applica nel caso in cui vi siano variazioni di calibro del condotto. Fermo restando che la portata del condotto e l’energia totale del fluido devono rimanere costanti, la riduzione di calibro viene compensata da un aumento di velocità del liquido stesso (cioè da un aumento dell’energia cinetica) e da una riduzione direttamente proporzionale della pressione che il liquido esercita sulle pareti del condotto (energia potenziale). Questa legge trova la sua applicazione pratica nel caso in cui il diametro di un vaso venga ridotto dalla presenza di una placca arteriosclerotica (ATS); fino a quando la portata ematica nell’unità di tempo resta costante, la riduzione del diametro vasale non ha ripercussioni sulla vascolarizzazione né evidenziazioni cliniche; quando la progressione della placca ATS comporta una riduzione del lume vasale del 70% o più (placca emodinamicamente efficiente) si ha una riduzione del flusso nel territorio a valle. Patologia ostruttiva degli arti inferiori 17 Legge di Poiseuille: questa legge afferma che, in condizioni di flusso laminare, il moto di un fluido è garantito da una differenza di pressione tra i due estremi del condotto considerato. È noto a tutti che, affinché il sangue possa distribuirsi a tutto l’albero arterioso, è necessario che in segmenti successivi del letto vascolare vi siano regimi tensivi diversi; in particolare il sangue si muove da un distretto a pressione maggiore verso uno a pressione inferiore. Inoltre la maggior quantità di flusso si dirigerà verso il territorio che oppone le resistenze minori. Legge di Leonardo: l’assunto di questa legge è che la portata del condotto è costante in ogni suo punto e che dipende dalla superficie di sezione del condotto e dalla velocità di scorrimento del fluido. Essendo questi fattori in proporzione diretta tra loro è ovvio che, affinché il prodotto rimanga costante, la variazione di uno di essi determina la variazione uguale e contraria dell’altro; la riduzione della sezione vasale comporterà un incremento di velocità del sangue, mentre un suo aumento determinerà un rallentamento del flusso. Coagulazione La coagulazione è un meccanismo fisiologico molto complesso nel quale interagiscono, in perfetto equilibrio, le attività coagulanti, anticoagulanti, fibrinolitiche ed antifibrinolitiche proprie dell’organismo. L’alterazione di questo delicato equilibrio, in qualunque senso si verifichi, determina l’attivazione di meccanismi patologici che possono provocare danni come, ad esempio, trombosi vasali con conseguenze ipo-anossiche per il territorio interessato. Allo scopo di ostacolare le potenzialità trombogene del sangue sono presenti, nel torrente circolatorio, delle sostanze ad azione anticoagulante ed esiste, inoltre, il processo fibrinolitico governato dalla plasmina che, però, a sua volta, può venir ostacolata dalla presenza di potenti antiplasmine. Da tutto ciò si capisce facilmente come solo un giusto equilibrio tra i diversi processi, dettato e governato dalle esigenze del momento, possa assicurare il corretto funzionamento di un meccanismo tanto delicato. Un aspetto importante da ricordare, per le sue implicazioni fisiopatologiche, è che il sistema coagulativo è in attività continua, seppure ad un livello minimo, per cui quando si crea la necessità di formare un trombo, il sistema coagulativo non si trova a partire da zero, ma aumenta solamente il suo livello di attività. Tale continua attività implica necessariamente la presenza 18 Capitolo 1 di una serie di meccanismi che modulano il potenziale coagulativo impedendo l’eccessiva formazione di fibrina. La conoscenza di tutti i meccanismi implicati nel processo coagulativo assume importanza nella pratica clinica quando ci si trovi di fronte a situazioni in cui l’equilibrio esistente fra i sistemi sia sbilanciato in senso trombotico o, al contrario, emorragico. La malattia arteriosclerotica, per le alterazioni sue proprie e per la sua storia naturale ed evoluzione, è una di quelle situazioni che si possono definire in equilibrio instabile, in cui molti fattori possono far volgere l’ago della bilancia verso la trombosi. Proprio in quest’ottica è doveroso applicare, una terapia preventiva di questo fenomeno usufruendo dei farmaci che la moderna tecnologia mette a disposizione e che possono agire sull’aggregazione piastrinica o sui fattori plasmatici della coagulazione. In questa sede vale la pena ricordare che l’azione antiaggregante piastrinica si può esplicare a diversi livelli: rendendo indisponibile il Ca++ (indispensabile in molte fasi del processo aggregativo), inibendo l’azione degli enzimi (ciclossigenasi, fosfodiesterasi) che favoriscono la produzione di sostanze ad azione aggregante, potenziando l’azione di enzimi (adenilciclasi) che catalizzano la produzione di sostanze antiaggreganti. L’azione delle sostanze che agiscono sui fattori della coagulazione si esplica in alcuni casi con l’opposizione alla loro azione (eparina), in altri mediante l’inibizione del metabolismo di sostanze Vit. K-dipendenti indispensabili alla loro sintesi (dicumarolici). 2. Fisiopatologia ed anatomia patologica Fisiopatologia dell’ostruzione arteriosa Normalmente il flusso muscolare è compreso tra 1,5 e 6 ml/100g/min con grande variabilità nell’ambito dello stesso muscolo e tra un muscolo e l’altro. Durante l’attività muscolare il flusso aumenta fino a 80-100 ml/100 g/min. Il problema chiave della circolazione muscolare è rappresentato dalla possibilità di incrementare il flusso ematico durante l’attività e fornire la maggior quantità di O2 richiesta. La possibilità di soddisfare tale esigenza è strettamente legata alla capacità di vasodilatazione e di utilizzazione del letto capillare normalmente non funzionante. In condizioni normali la vasodilatazione inizia con la contrazione muscolare ed è sottoposta ad un controllo nervoso, metabolico ed ormonale. La regolazione nervosa è prevalentemente di pertinenza del sistema simpatico che svolge un’azione vasocostrittrice responsabile del normale tono vasale. Anche se esistono fibre vasodilatatrici, la vasodilatazione è prevalentemente legata alla riduzione degli stimoli vasocostrittori. La dilatazione nervosa permane per circa un minuto dopo la fine dell’esercizio muscolare. La regolazione metabolica è dovuta alla produzione locale di sostanze provenienti dal metabolismo muscolare nelle condizioni di ischemia relativa che qualunque sforzo muscolare determina. In tale condizione si verifica, a livello muscolare, una diminuzione dell’O2 e del pH con aumento della CO2, dell’acido lattico, del K+, dell’osmolalità, dell’adenosina e dei nucleotidi adenilici. Tutto ciò si esplica in un effetto vasodilatatore. La vasodilatazione metabolica termina quando è stato ripagato tutto il debito di O2 e di substrati contratto con l’esercizio fisico. La regolazione ormonale è in relazione ad ormoni vasomotori tendenti a mantenere normali la pressione arteriosa sistemica, la temperatura corporea e l’omeostasi e rendere possibile la risposta agli stress. La risposta ormonale all’attività muscolare può essere sistemica (adrenalina e noradrenalina) o prevalentemente locale (prostaglandine PGA e PGE). Le prostaglandine, peraltro, vengono prodotte ubiquitariamente nelle cellule endoteliali, a partenza dai fosfolipidi di membrana. Tutti questi meccanismi agiscono provocando il rilasciamento delle fibrocellule muscolari lisce arteriolari e degli sfinteri precapillari, con conseguente reclutamento di quella parte di letto capillare normalmente non utilizzata. Tale effetto è molto rapido poiché gli sfinteri precapillari ed il letto capillare si dilatano di circa 1 µ/sec e quando il diametro raggiunge i 3 micron i globuli rossi possono passare liberamente. La vasodilatazione provoca una riduzione delle resistenze con conseguente aumento del gradiente pressorio e della velocità di flusso che però, oltre un 19 20 Capitolo 2 certo limite, produce una riduzione degli scambi metabolici. Il reclutamento del letto capillare inattivo consente di superare questo scoglio attraverso l’aumento esponenziale della sezione complessiva del letto vasale, con proporzionale riduzione della velocità di flusso. Il vantaggio che ne deriva è duplice: da una parte la maggiore permanenza del sangue nel letto capillare migliora gli scambi metabolici mentre, dall’altra, la maggior quantità di vasi perfusi consente una migliore distribuzione di ossigeno alle cellule muscolari evitando che vi siano cellule muscolari in maggior debito di ossigeno rispetto ad altre. La vasodilatazione conseguente all’esercizio muscolare, oltre alle ripercussioni emodinamico-metaboliche descritte sopra, condiziona le modalità di flusso anche a livello di tutti i vasi dell’arto inferiore, sia in condizioni normali che in presenza di arteriopatia ostruttiva. In un distretto arterioso normale le resistenze al flusso sono da ascrivere prevalentemente ai vasi di distribuzione (arteriole, sfinteri precapillari e letto capillare) ed in minor grado alle grosse arterie. Per meglio comprendere le modificazioni emodinamiche dell’arto inferiore ne possiamo assimilare la circolazione ad un modello idraulico in cui viene immesso del liquido a pressione costante e nel quale le resistenze opposte dai vasi di conduzione sono rappresentate da un tubo comprimibile al quale può essere applicato un agente stenosante (morsetto), gli sfinteri precapillari sono rappresentati da una valvola (triangolo) mentre l’insieme del letto capillare è raffigurato da un serbatoio. La pressione vigente nei vasi di distribuzione è rappresentata dal livello che il liquido raggiunge in un tubo comunicante con il sistema nel tratto compreso tra il morsetto e la valvola. In condizioni normali (assenza di stenosi), a riposo, l’apporto ematico ai tessuti è assicurato anche se le resistenze del letto vasale sono alte (valvola chiusa). In questo caso la caduta pressoria tra punto di immissione e vasi di distribuzione è minima. Durante l’esercizio muscolare, per i fenomeni sopradescritti, si ha il rilasciamento degli sfinteri precapillari (valvola aperta) con conseguente aumento del letto capillare e del flusso ematico al suo interno (aumento del livello del liquido nel serbatoio) che soddisfa completamente le esigenze funzionali. Tutto questo si verifica senza una significativa riduzione pressoria a livello dei vasi di distribuzione (Fig 1). La situazione si modifica sostanzialmente in presenza di lesioni arteriosclerotiche emodinamicamente efficienti a livello dei vasi di conduzione (Fig. 2). Ricordiamo che per “emodinamicamente efficiente” s’intende una lesione in grado di ridurre il flusso di sangue nel territorio a valle. Questa situazione, rappresentata dal restringimento parziale del condotto per l’azione del morsetto, rende significative le resistenze opposte dai vasi di conduzio- Fisiopatologia ed anatomia patologica 21 Figura 1: Rappresentazione schematica degli eventi che, in un soggetto con albero arterioso integro, assicurano un adeguato apporto ematico ai gruppi muscolari tributari, sia in condizioni di riposo che durante l’esercizio. Figura 2: Rappresentazione schematica della situazione emodinamica che si verifica nel caso di una stenosi a carico dei vasi di maggior calibro, sia a riposo che durante l’esercizio muscolare. 22 Capitolo 2 ne provocando una significativa riduzione pressoria nei vasi di distribuzione (tubo comunicante). Perché il flusso nel letto capillare possa mantenersi normale si determina un parziale rilasciamento degli sfinteri precapillari con arruolomanto del letto capillare, aumento del gradiente pressorio (parziale innalzamento del triangolo) e riduzione delle resistenze. L’esercizio muscolare evidenzia la precarietà di questa situazione. Infatti, le maggiori richieste periferiche, non possono venir soddisfatte completamente perché, da una parte la capacità di vasodilatazione è stata già parzialmente sfruttata in condizioni di riposo e dall’altra, per vincere le maggiori resistenze dei vasi di conduzione, una parte dell’energia cinetica del sangue viene persa con conseguente ulteriore riduzione della pressione nei vasi di distribuzione (tubo comunicante). Quindi, alla totale apertura della valvola non si associa un sufficiente riempimento del serbatoio. Questo tipo di ischemia viene definita “relativa” proprio perché evidenziata da una situazione di maggiore richiesta di flusso periferico provocata dalla contrazione muscolare che non può essere soddisfatta a causa della presenza della lesione. Questo comporta l’accumulo di cataboliti a livello muscolare che si estrinseca, clinicamente, con la comparsa di dolore da sforzo o “claudicatio intermittens”. L’accentuarsi della lesione nel vaso di conduzione (stenosi maggiormente serrata) ed in quelli di distribuzione determina già a riposo una riduzione di pressione nei vasi di distribuzione (tubo comunicante) ed il conseguente progressivo rilasciamento degli sfinteri precapillari (valvola). Si arriva ad una situazione in cui anche a riposo il flusso capillare (serbatoio) è insufficiente al normale metabolismo. In questo caso non possono venire soddisfatte neanche le esigenze di base (Fig. 3). È questa una situazione di ischemia “assoluta” caratterizzata clinicamente dalla comparsa di dolore anche a riposo. La presenza di lesioni arteriose in serie (lesioni tandem) aggrava la situazione emodinamica. Infatti la circolazione periferica subisce le conseguenze di un duplice calo pressorio (tubi comunicanti). Se per mantenere normale il flusso nel letto capillare a valle della prima lesione (serbatoio) è sufficiente una parziale dilatazione degli sfinteri precapillari (valvola) di questo distretto, per garantire un flusso sufficiente nel distretto capillare a valle della seconda stenosi può essere necessaria, già a riposo, la quasi totale apertura degli sfinteri precapillari locali (valvola) (Fig. 4). Ovviamente l’esercizio muscolare comporterà la comparsa di sintomatologia (claudicatio intermittens) prima laddove la riserva funzionale è pressoché esaurita, cioè nel distretto più distale. Le lesioni ostruttive possono essere di entità tale da non garantire, nel distretto più distale, un flusso ematico sufficiente neanche in condizioni di base; comparirà allora il dolore a riposo. Fisiopatologia ed anatomia patologica 23 Figura 3: Rappresentazione schematica della situazione emodinamica esistente in un caso di ischemia assoluta (III, IV stadio di Fontaine). Figura 4: Rappresentazione schematica della situazione emodinamica vigente nel caso in cui una lesione delle arterie di maggior calibro si associ ad una lesione delle arterie più distali. 24 Capitolo 2 Circolo collaterale La presenza di una lesione arteriosa ostruttiva, oltre ad essere responsabile delle modificazioni del flusso periferico sopra descritte, stimola lo sviluppo di un circolo di supplenza nel tentativo di controbilanciare il più possibile la riduzione di pressione provocata dalla lesione stessa e migliorare, quindi, il flusso periferico. Il sistema arterioso può essere paragonato ad una rete le cui maglie, diverse per dimensione e numero nei vari distretti, sono variamente legate tra loro e sono proprio questi punti di giunzione che consentono l’instaurarsi di una circolazione collaterale in caso di ostruzione del vaso principale (Fig. 5). Classicamente il circolo collaterale può essere: a) preformato o primario: costituito da rami arteriosi che si anastomizzano sia direttamente (a pieno canale) sia attraverso ramificazioni minori con rami provenienti dalla stessa arteria da cui traggono origine o da arterie che irrorano territori diversi. A livello degli arti inferiori un sistema di questo ti po è costituito dalle anastomosi tra i rami dell’arteria femorale profonda e quelli dell’arteria poplitea; b) neoformato o secondario: è costituito da arteriole e capillari che, per poter svolgere questo ruolo, devono prima andare incontro ad una progressiva ipertrofia e dilatazione. Di solito si tratta di arteriole muscolari. Figura 5: Rappresentazione schematica di circolo collaterale. Fisiopatologia ed anatomia patologica 25 I vasi che costituiscono il circolo collaterale subiscono nel tempo delle modificazioni strutturali: la parete arteriosa si ispessisce in risposta all’aumento pressorio del flusso, aumentano le fibre muscolari e le cellule endoteliali mentre si distendono le fibre elastiche e collagene. Ne consegue che il calibro dei vasi collaterali aumenta ed essi diventano tortuosi (Fig. 6). Non va dimenticato che per quanto sviluppato il circolo collaterale possa essere esso non riesce mai a compensare completamente la lesione del vaso principale. Bisogna, inoltre, ricordare che il circolo collaterale si sviluppa e mantiene la sua funzione fin quando permane l’ostacolo nel vaso principale; una vola trattata la lesione causale esso torna a svolgere le sue funzioni originali. Diversi fattori entrano in gioco nello sviluppo del circolo collaterale: Fattori emodinamici: l’ostruzione di un segmento arterioso provoca la caduta della pressione a valle dell’ostacolo e la contemporanea diminuzione delle resistenze periferiche accentua tale gradiente pressorio. Dato che il flusso tende a dirigersi verso i territori a minore resistenza, l’unica via percorribile Figura 6: Immagine angiografica di un’ostruzione dell’arteria femorale superficiale con circolo collaterale di compenso. I vasi del circolo collaterale appaiono tortuosi. 26 Capitolo 2 per superare l’ostacolo costituito dall’ostruzione è quella dei rami collaterali che collegano il vaso a monte dell’ostruzione con il territorio a valle, nel quale le resistenze sono ridotte. Fattori metabolici: nel territorio ischemico prevale un metabolismo di tipo anaerobico che dà luogo alla produzione di metaboliti ad azione prevalentemente vasodilatatrice; questo mantiene il gradiente pressorio. Fattori nervosi: la risposta ad una ostruzione può essere inizialmente una vasocostrizione da ipertono simpatico. Ad essa fa sempre seguito una vasodilatazione da riduzione del tono simpatico che si protrae più a lungo nel tempo e che contribuisce alla riduzione delle resistenze. Esistono poi altri fattori che influenzano la “qualità” del circolo collaterale, cioè la capacità di supplire più o meno adeguatamente ad una ostruzione arteriosa; essi sono: Sede ed estensione dell’ostruzione: è ben noto che quanto più prossimale è una lesione nell’albero arterioso dell’arto inferiore, tanto maggiori sono le possibilità di compenso. Inoltre è importante che il processo ostruttivo non coinvolga l’ostio dei rami collaterali sia a monte che a valle della lesione. Stato vasomotorio: l’integrità anatomo-funzionale alla base della vasodilatazione favorisce l’instaurarsi di un buon circolo collaterale. Trofismo dei muscoli: è importante soprattutto per lo sviluppo del circolo collaterale neoformato. Efficienza cardiaca: l’insufficienza cardiaca può compromettere l’efficienza di un circolo collaterale anche ben sviluppato. Gradualità dell’ostruzione: il fattore “tempo” è molto importante nello sviluppo del circolo di supplenza. Infatti, nelle ostruzioni croniche, a differenza di quelle acute, il circolo collaterale ha il tempo di svilupparsi prima che intervenga un’ischemia assoluta. Deflusso venoso: l’ipertensione venosa aggrava la situazione in quanto la stasi venosa diminuisce il gradiente arteriolo-capillare con ripercussione sul gradiente pressorio provocato dalla lesione. A livello degli arti inferiori i circoli collaterali più importanti si sviluppano tra: - l’arteria femorale profonda e l’arteria poplitea; - l’arteria femorale profonda, le arterie genicolate e i rami di biforcazione della poplitea; - l’arteria femorale superficiale e i rami di biforcazione della poplitea; - le arterie tibiali e l’arteria peroniera tra loro. L’aterosclerosi parietale è la condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo di sintomi ischemici. A questi ultimi si giunge per aggravamento progressivo della stenosi fino all’ostruzione che può verificarsi per trombosi sovrapposta a una stenosi “critica” (> 90% del lume) o per complicazioni Fisiopatologia ed anatomia patologica 27 all’interno della placca stessa quali un’emorragia od una necrosi colliquativa. Quest’ultima è in grado di provocare un rigonfiamento acuto della placca con improvvisa riduzione critica del lume o trombosi. In assenza di complicanze acute, quali una trombosi o un’embolia, il paziente con arteriopatia cronica ostruttiva degenerativa degli arti inferiori non manifesta sintomi per lungo tempo, acquisendo accettabili gradi di compenso metabolico. La lenta progressione delle lesioni consente un compenso adeguato alla riduzione del flusso grazie all’attivazione dei circoli collaterali. Un’altra modalità evolutiva dell’arteriopatia cronica ostruttiva è l’embolizzazione periferica per rottura della placca complicata. Detriti ateromasici e migrazione di trombi sovrapposti sulla placca ulcerata possono occludere rami più periferici nel territorio di distribuzione, dove il compenso attraverso circoli collaterali è meno sviluppato. È fondamentale, per il verificarsi della sintomatologia ischemica, la concomitanza di steno-ostruzioni e di insufficiente circolo collaterale. A livello periferico il flusso è regolato dalle piccole arterie terminali e dagli sfinteri precapillari (tono simpatico e catecolamine). Nell’ischemia cronica esiste, già in condizioni basali, una vasodilatazione arteriolare mediata dall’abbassamento della tensione di ossigeno; con l’esercizio muscolare la vasodilatazione aumenta, ma rimane elevata la resistenza totale al flusso a causa della presenza della o delle stenosi. In conseguenza di ciò, anche l’eventuale aumento del flusso non può soddisfare le aumentate richieste metaboliche dei tessuti periferici durante l’esercizio. Anatomia patologica Dal punto di vista anatomo-patologico l’elemento caratterizzante della patologia aterosclerotica è la placca. La lesione aterosclerotica origina nell’ambito degli strati della parete arteriosa, ad opera di un accumulo di lipidi e di una trasformazione delle cellule costituenti, si accresce aggettando nel lume del vaso fino a determinarne la completa occlusione. Il fenomeno di formazione e di estensione della placca può realizzarsi lentamente o velocemente, a seconda delle caratteristiche anatomiche ed emodinamiche del soggetto e della presenza o meno dei fattori di rischio. Dal punto di vista morfologico le lesioni aterosclerotiche sono caratterizzate da un’estrema variabilità. Esse possono essere rappresentate da piccoli ateromi, localizzati e lievemente aggettanti nel lume del vaso, con superficie liscia ed estensione limitata, oppure da ateromi molto estesi, coinvolgenti segmenti vascolari molto ampi, con superficie estremamente irregolare e che provocano stenosi vasali importanti od occlusioni complete. 28 Capitolo 2 Anche dal punto di vista strutturale le lesioni sono caratterizzate da un’estrema variabilità. Il contenuto della placca, infatti, può essere prevalentemente fibroso o calcifico oppure le due diverse componenti possono essere diffusamente presenti nel contesto della placca (Fig. 7). Inoltre, è possibile la presenza di un “core” fibroso contornato da uno strato superficiale di tipo calcifico o viceversa; è possibile anche la presenza, nell’ambito della placca, di zone fortemente calcifiche e zone prevalentemente a contenuto fibroso. Infine, il contenuto lipidico della placca può essere localizzato in accumuli ben distinti nel core della lesione o diffusamente e omogeneamente distribuito nel suo contesto. Spesso nel contesto della placca, all’esame morfologico, è possibile riscontrare veri e propri aspetti di emorragia intraplacca con coaguli e aggregati piastrinici frammisti a materiale di tipo lipidico. In alcuni casi, aggregati piastrinici possono essere rinvenuti anche in corrispondenza della superficie della lesione: ciò avviene soprattutto in presenza di placche con superficie irregolare e frastagliata o addirittura su placche in cui si sono realizzati fenomeni di ulcerazione dello strato superficiale. Spesso queste formazioni trombotiche superficiali o i fenomeni di emorragia intraplacca sono alla base di complicanze importanti e di ischemia improvvisa e grave dell’arto; in particolare, possono dare luogo a fenomeni di embolizzazione periferica di frammenti di trombo o del materiale contenuto all’interno della placca, possono essere responsabili dell’improvviso aumento di volume della placca con occlusione del lume vasale o dell’improvvisa trombosi vasale. Figura 7: Reperto intraoperatorio di placca ATS fibrocalcifica: è evidente all’apertura della placca la presenza di materiale ateromasico al suo interno. Fisiopatologia ed anatomia patologica 29 Questa notevole variabilità morfo-strutturale è ascrivibile, in prima istanza, all’anatomia dei segmenti vascolari interessati, alle caratteristiche del flusso a tale livello e alla risposta locale e individuale a numerosi fattori di rischio che contribuiscono in maniera significativa alla genesi e alla progressione della malattia. 30 Capitolo 2 3. Classificazione ed inquadramento clinico Classificazione Per insufficienza vascolare degli arti inferiori (IVAI) od arteriopatia ostruttiva cronica periferica (AOCP) si intende l’insieme di quelle affezioni delle arterie degli arti che hanno un andamento cronico e che comportano una riduzione del lume vasale fino all’ostruzione, con conseguente ischemia cronica degli arti di entità e quadro clinico diversi. Etiologia Arteriosclerosi L’arteriosclerosi è la causa principale dell’IVAI. La sua incidenza varia nelle diverse parti del mondo a causa di fattori razziali, ambientali, igienici, alimentari e comportamentali. Nei paesi occidentali ed in particolare in Italia, l’arteriosclerosi incide nell’IVAI almeno per il 90%, lasciando a tutte le altre cause il 10%. Va subito precisato che nel gruppo “arteriosclerotico” vanno incluse tutte le arteriopatie di tale natura che insorgono nei soggetti diabetici, nei quali assumono spesso, come verrà precisato in seguito, connotazioni morfologiche e cliniche alquanto peculiari. Non è da trascurare, inoltre, il fatto che vasculopatia diabetica e lesioni arteriosclerotiche, soprattutto nei segmenti periferici, talora coesistono, rendendo difficile e di scarsa utilità ai fini clinici e terapeutici ogni tentativo di distinzione. L’arteriosclerosi è una malattia sistemica. Il termine arteriosclerosi fu coniato nel 1829 da Lobstein per definire un aspetto macroscopico di indurimento parietale delle arterie ed è stato in seguito utilizzato estensivamente da numerosi Autori per definire diverse patologie vascolari caratterizzate dalla deposizione di sostanze lipidiche e dalla sclerosi di arterie e di arteriole muscolari. Nel termine “arteriosclerosi” veniva così a essere compresa anche “l’aterosclerosi”. L’arteriosclerosi è un termine generico per diverse malattie caratterizzate da ispessimento e perdita di elasticità della parete arteriosa. L’aterosclerosi è una forma di arteriosclerosi caratterizzata da un ispessimento subintimale localizzato (ateroma) delle arterie di medio e grosso calibro, che può ridurre o impedire del tutto il flusso ematico. L’aterosclerosi si caratterizza per la sua poliditrettualità interessando in modo variabile cervello, cuore, reni, altri organi vitali e arti e per questa sua caratteristica rappresenta ancora oggi la principale causa di morbilità e mortalità negli USA e nella maggior parte dei 31 32 Capitolo 3 infatti, negli USA si sono verificate quasi 1 milione di morti dovute a vasculopatia (il doppio che per cancro e 10 volte di più che per incidenti). Nonostante la prevenzione e la terapia della malattia coronarica abbiano portato a una riduzione del 28,6% del tasso di mortalità correlata per età fra il 1984 e il 1994, la malattia coronarica e l’ictus ischemico insieme costituiscono la prima causa di morte nei paesi industrializzati dell’Occidente e la loro prevalenza nel resto del mondo è in aumento. La placca aterosclerotica è costituita da un accumulo di lipidi intra- ed extracellulare, di cellule muscolari lisce, tessuto connettivo e glicosaminoglicani. La lesione aterosclerotica più precocemente rilevabile è la stria lipidica (formata da cellule schiumose cariche di lipidi) che si trasforma successivamente in placca fibrosa (costituita di cellule muscolari lisce intimali circondate da tessuto connettivo e da lipidi intracellulari ed extracellulari) che rappresenta la lesione aterosclerotica vera e propria. La placca fibrosa presenta una notevole variabilità di forma, contenuto ed estensione; da questa variabilità dipendono particolari implicazioni di tipo emodinamico e di conseguenza tutti i caratteristici sintomi e segni di tale patologia. I vasi aterosclerotici hanno un’espansione sistolica ridotta e un’onda di propagazione anormalmente rapida. Anche le arterie arteriosclerotiche dei soggetti ipertesi hanno una ridotta elasticità, che si riduce ulteriormente quando si sviluppa aterosclerosi. Sono state proposte due ipotesi principali per spiegare la patogenesi dell’aterosclerosi: l’ipotesi lipidica e l’ipotesi del danno endoteliale cronico, probabilmente correlate. L’ipotesi lipidica postula che un aumento delle lipoproteine plasmatiche a bassa densità (LDL) provoca il loro ingresso nella parete arteriosa, con conseguente accumulo di lipidi nelle cellule muscolari lisce e nei macrofagi (cellule schiumose). Le LDL contribuiscono anche all’iperplasia delle cellule muscolari liscie e alla loro migrazione verso le regioni intimali e sottointimali in risposta a fattori di crescita. In tale ambiente le LDL vengono modificate od ossidate diventando così più aterogene. Mano a mano che le strie lipidiche e le placche fibrose si accrescono e sporgono nel lume, lo strato sottoendoteliale risulta esposto alla corrente ematica nelle sedi di danno endoteliale e si formano aggregati piastrinici e trombi murali. Il rilascio di fattori di crescita da parte di piastrine aggregate può aumentare la proliferazione della muscolatura liscia a livello dell’intima. Alternativamente, l’organizzazione e l’incorporazione all’interno della placca aterosclerotica possono contribuire alla sua crescita. L’ipotesi del danno endoteliale cronico postula che il danno endoteliale dovuto a diversi meccanismi provoca una perdita di endotelio, con adesione delle piastrine allo strato sottoendoteliale, aggregazione piastrinica, chemio- Classificazione ed inquadramento clinico 33 tassi di monociti e linfociti T e rilascio di fattori di crescita derivati dalle piastrine e dai monociti, che inducono la migrazione delle cellule muscolari lisce dalla media nell’intima dove si replicano e sintetizzano tessuto connettivo e proteoglicani e formano una placca fibrosa. Anche altre cellule (per esempio macrofagi, cellule endoteliali, cellule muscolari lisce arteriose) producono fattori di crescita che possono contribuire all’iperplasia delle cellule muscolari lisce e alla produzione di matrice extracellulare. Queste due ipotesi sono strettamente collegate e non si escludono a vicenda. Fattori di rischio arteriosclerotico I fattori di rischio per l’aterosclerosi possono essere suddivisi in non modificabili e modificabili. I principali fattori di rischio non modificabili comprendono l’età, il sesso maschile e una storia familiare di aterosclerosi prematura; i fattori modificabili comprendono alcuni stati patologici come l’ipertensione, l’obesità e il diabete o alcuni particolari stili di vita come l’abitudine al fumo. Vi è anche una forte evidenza che l’inattività fisica sia associata con un aumentato rischio di malattia aterosclerotica (Fig. 1). Figura 1: Principali fattori di rischio dell’arteriopatia ostruttiva periferica. 34 Capitolo 3 Elevati livelli di lipoproteine a bassa densità (LDL) e ridotti livelli di lipoproteine ad alta densità (HDL) predispongono all’aterosclerosi. Vi è una diretta associazione tra i livelli di colesterolo totale e di LDL e il rischio di coronaropatia. I livelli di HDL sono inversamente correlati con il rischio di arteriopatia. Le principali cause della riduzione delle HDL sono il fumo di sigaretta, l’obesità e l’inattività fisica. Un ridotto livello di HDL è anche associato con l’uso di steroidi androgeni e composti correlati (inclusi gli anabolizzanti), β-bloccanti, con l’ipertrigliceridemia e con fattori genetici. Il livello di colesterolo e la prevalenza di arteriopatia sono influenzati da fattori genetici e ambientali (inclusa la dieta). Una pressione arteriosa diastolica o sistolica elevata è un fattore di rischio per ictus, IMA e insufficienza cardiaca e renale oltre che per arteriopatia periferica. Il rischio associato con l’ipertensione è inferiore nelle società con bassi livelli medi di colesterolo. Il fumo aumenta il rischio di arteriopatia periferica, coronaropatia, vasculopatia cerebrale e di insuccesso a distanza della chirurgia arteriosa ricostruttiva. Il fumo è particolarmente pericoloso nelle persone che già hanno un aumentato rischio di patologie cardiovascolari. Esiste una relazione doserisposta tra il numero di sigarette fumate al giorno e il rischio di malattia coronarica ed arteriopatia periferica. Anche il fumo passivo può aumentate il rischio di patologia vascolare. Uomini e donne sono entrambi suscettibili, ma il rischio può essere maggiore nelle donne. La nicotina e le altre sostanze chimiche derivate dal tabacco sono tossiche per l’endotelio vascolare. Il fumo di sigaretta aumenta le LDL e riduce le HDL, aumenta il monossido di carbonio ematico (e può quindi produrre un’ipossia endoteliale) e favorisce la vasocostrizione delle arterie già ristrette a causa della patologia aterosclerotica; aumenta anche la reattività piastrinica (ciò può favorire la formazione di un trombo piastrinico), la concentrazione ematica di fibrinogeno e l’ematocrito, con un conseguente aumento della viscosità ematica. Sia il diabete insulino-dipendente che quello non insulino-dipendente sono associati con fenomeni aterosclerotici più diffusi e ad insorgenza più precoce, come parte di un diffuso squilibrio metabolico che comprende la dislipidemia e la glicosilazione del tessuto connettivo. L’iperinsulinemia danneggia l’endotelio vasale. Il diabete è un fattore di rischio particolarmente importante nelle donne e annulla l’effetto protettivo degli ormoni femminili. Alcuni studi hanno rilevato che l’obesità, in modo particolare l’obesità del tronco negli uomini, è un fattore di rischio indipendente per arteriopatia periferica e coronaropatia. L’ipertrigliceridemia è comunemente associata con l’obesità, il diabete mellito e l’insulino-resistenza e sembra essere un importante fattore di rischio indipendente nelle persone con bassi livelli di LDL o HDL e nelle persone più giovani. Classificazione ed inquadramento clinico 35 Diversi studi hanno associato uno stile di vita sedentario con un aumentato rischio di arteriopatia e altri studi hanno dimostrato che l’esercizio fisico regolare può essere protettivo. Elevati livelli ematici di omocisteina, dovuti a una riduzione del suo metabolismo geneticamente determinata, possono causare un danno all’endotelio vascolare che rende i vasi predisposti all’aterosclerosi. Altre cause di arteriopatia ostruttiva La malattia di Buerger, nota anche come tromboangioite obliterante, è certamente una forma flogistica che però va tenuta distinta dalle altre forme di arterite sia per l’etiologia, non del tutto nota e con caratteristiche simili alle malattie autoimmunitarie, sia perché colpisce oltre alle arterie anche vene, linfatici e nervi. Il quadro clinico, inoltre, è specifico, con frequente coinvolgimento anche degli arti superiori. La sua incidenza viene riportata negli studi più numerosi intorno al 3-5% di tutte le IVAI. Le arteriti costituiscono una famiglia eterogenea per etiologia e per sintomatologia. Oltre alla natura flogistica, hanno in comune il fatto di colpire soggetti giovani o relativamente più giovani rispetto a quelli portatori delle forme aterosclerotiche. In un recente studio è stato notato che in pazienti al di sotto dei 50 anni con IVAI di tipo segmentario a diversi stadi clinici, si poteva porre un fondato sospetto di infezione da Rickettsie. Talora il nesso con la malattia di base è evidente per l’insorgenza rapida, coincidente o immediatamente successiva all’infezione, mentre altre volte tale relazione risulta più difficile da identificare e rimane incerta sia perché la manifestazione morbosa generale passa inosservata, sottovalutata o non esattamente diagnosticata, sia per la comparsa dei sintomi ischemici a distanza di mesi o anni. L’IVAI dovuta a compressione sull’arteria da parte di strutture anatomiche è un’entità nosologica nota anche se rara; la più osservata, descritta e trattata è la sindrome da “entrapment” (intrappolamento) dell’arteria poplitea. Gli esiti di trauma, sia aperto che chiuso, possono dare origine a quadri ostruttivi con ischemia cronica. Si tratta spesso della conseguenza di lesioni traumatiche che nelle immediatezze dell’evento non hanno dato luogo né ad emorragie imponenti né ad ischemia acuta e che per questo sono passate inosservate. L’ostruzione arteriosa del segmento leso è avvenuta lentamente ed a distanza di tempo dal trauma e, essendoci stato il tempo necessario allo sviluppo di un buon circolo collaterale, si manifesta con ischemia cronica. La “sindrome dell’aorta piccola” (small aorta syndrome) rappresenta un quadro anatomico e clinico piuttosto che un’entità nosologica a sé stante. Viene osservata in donne relativamente giovani, forti fumatrici, che presen- 36 Capitolo 3 tano l’aorta, e spesso anche le arterie iliache, di calibro ridotto rispetto alla norma. Non si tratta di un’ipoplasia, perché non ne ha le caratteristiche, e meno ancora di una coartazione e non è una forma flogistica perché tutti i parametri ematochimici dell’infiammazione sono nella norma. È caratteristico un cercine di stenosi fibrosa dell’aorta addominale sottorenale esteso per 1-3 cm e senza dilatazione post-stenotica. La presenza di lesioni similari a quelle aterosclerotiche e l’episodica associazione con un’arteriopatia ostruttiva segmentaria femoro-poplitea hanno fatto ipotizzare che si tratti di una variante aterosclerotica. Una coartazione aortica può manifestarsi in età adulta con sintomi tipici della claudicatio, cioè come un’IVAI associata ad un’ipertensione arteriosa sistemica della metà superiore del corpo. Si può trattare di una coartazione istmica tipica, compensata da un ricco circolo collaterale, o di una coartazione atipica, addominale o toraco-addominale, che soltanto gli esami istologici sono in grado di distinguere con certezza da forme flogistiche. Le lesioni da displasia sono più frequenti in altri distretti rispetto agli arti inferiori; le arterie renali e le carotidi ne sono colpite con relativa frequenza. Tuttavia una patologia di questo genere, in tutte le sue varianti, può presentarsi anche a livello degli arti inferiori e soprattutto delle iliache esterne. La degenerazione cistica avventiziale determina stenosi e ostruzione dell’arteria per l’aumento volumetrico della cisti intraparietale; è di pertinenza quasi esclusiva dell’arteria poplitea. Ciò ha fatto supporre un ruolo etiologico del microtrauma cronico dovuto alla flesso-estensione del ginocchio e ad altre strutture muscolo-tendinee e legamentose. Un’entità nosologica a parte è rappresentata dall’endofibrosi dell’arteria iliaca esterna. Questa costituisce una patologia tipica di giovani atleti che svolgono alcuni sport a livello agonistico (ciclismo, maratona, raramente altri). Durante l’attività sportiva il movimento ripetuto di flesso-estensione degli arti inferiori determina uno stress meccanico a carico dell’arteria iliaca esterna, provocando una fibrosi endoluminale in assenza di patologie aterosclerotiche. I sintomi insorgono solo per sforzi massimali e sono assenti nella normale attività quotidiana. Inquadramento clinico L’ischemia cronica periferica è oggi classificata come “relativa” e “critica”. L’ischemia relativa si manifesta con la cosiddetta claudicatio intermittens, cioè la comparsa di dolore durante lo sforzo muscolare. Tale sintomo ha delle caratteristiche precise: si manifesta a carico di un determinato gruppo muscolare, è facilmente riproducibile con un adeguato e costante esercizio Classificazione ed inquadramento clinico 37 fisico e cessa più o meno rapidamente con il riposo. La claudicatio intermittens è tipicamente un dolore da sforzo riferito come crampiforme, solitamente localizzato a livello del polpaccio o della coscia o dei glutei o a tutti questi livelli a seconda della localizzazione e della distribuzione delle stenosi e/o delle ostruzioni arteriose; esso ha un precursore clinico nella “sensazione di pesantezza” o di “stiramento” dei gruppi muscolari. L’ischemia critica è caratterizzata dalla presenza di dolore a riposo e/o di lesioni trofiche o gangrena alle estremità; il dolore a riposo viene definito come un dolore persistente da almeno due settimane e che richiede un trattamento analgesico continuo; la pressione arteriosa misurabile alla caviglia è uguale o inferiore a 50 mmHg e la pressione digitale è di 30 mmHg. Nonostante questa classificazione sia di più recente concezione e fondi il suo razionale sulla necessità di individuare i pazienti che hanno bisogno di un intervento tempestivo di rivascolarizzazione a causa dell’elevato rischio di perdita dell’arto (ischemia critica), nella pratica clinica è ancora utile rapportarsi alla vecchia classificazione di Lériche-Fontaine che individua 4 stadi clinici: - I stadio: asintomatico o pauci-sintomatico (senso di freddo, parestesie) in presenza di lesioni ateromasiche; - II stadio: claudicatio intermittens. Viene a sua volta suddiviso in IIa quando il dolore si manifesta dopo un percorso di circa 200 m o più e IIb quando il dolore si manifesta prima di 200 m; - III stadio: dolore a riposo; - IV stadio: ulcere o gangrena, limitate all’avampiede (IVa) o più prossimali (IVb). In effetti i primi due stadi sono tipici dell’ischemia relativa, mentre il III e il IV possono essere assimilabili al quadro clinico di ischemia critica. La claudicatio intermittens riveste una diversa importanza in relazione all’entità (distanza percorsa dal paziente prima della comparsa del dolore), all’età del paziente e alle sue occupazioni. Una sotto-stadiazione del II stadio di Lériche-Fontaine può essere utile perché, in base a una diversa gravità della claudicatio, è possibile impostare un programma diagnostico e terapeutico più o meno aggressivo: - una claudicatio che compare dopo 200 m, salvo casi particolari, è trattabile con terapia medica; - una claudicatio che compare fra 100 e 200 metri può essere invalidante se il soggetto è relativamente giovane e ha occupazioni dinamiche, mentre può essere assolutamente ben tollerata da un soggetto anziano; l’indicazione terapeutica dovrà tener conto di questi aspetti; - una claudicatio che compare prima di 50 m è invalidante per qualunque paziente e va affrontata in modo aggressivo. 38 Capitolo 3 L’associazione di disturbi soggettivi e sintomi obiettivi può variare in rapporto alla sede delle lesioni. Il tempo di recupero, cioè il tempo necessario a che il dolore scompaia, è indice indiretto del compenso da parte del circolo collaterale; quando quest’ultimo è valido, il tempo di recupero in genere si attesta sui 2-3 minuti. Quando supera questi valori è lecito sospettare uno scarso compenso e/o la presenza di altre cause, per esempio neurologiche. Dopo un intervallo di riposo più o meno prolungato, il paziente può riprendere a deambulare, percorrendo la stessa distanza o qualche metro di più (fenomeno del “riscaldamento” o “messa in moto” dei circoli collaterali, che “a freddo” sono meno efficaci). Il dolore a riposo inizia a comparire quando l’apporto ematico non è più sufficiente per le necessità metaboliche tessutali in condizioni basali. È spesso riferito l’aumento della sintomatologia dolorosa durante la notte per effetto del clinostatismo, con necessità di mantenere l’arto a “penzoloni” fuori dal letto per alleviare il dolore. L’intensità del dolore è parzialmente dipendente dalla postura, a causa dell’effetto diretto della pressione idrostatica sulla pressione endovasale: se la pressione di perfusione è molto bassa, il semplice aumento della pressione idrostatica, con la posizione declive dell’arto può essere relativamente importante. A differenza della claudicatio, il dolore a riposo non riguarda le parti muscolari, ma i segmenti acrali dell’arto (piede, tallone, dita). L’intensità del disturbo può essere variabile: da saltuari, vaghi dolori crampiformi fino a una qualità di vita gravemente minata e scandita da algie che rendono invalido il paziente. Lesioni trofiche, ulcere e/o gangrena, compaiono quando l’apporto ematico non è più sufficiente a garantire neanche la vitalità dei tessuti periferici. Sono prediletti i segmenti più distali dell’arto, ove è meno efficace l’energia cinetica residua del circolo a valle dell’occlusione. Particolarmente minacciate sono le zone di maggiore sollecitazione meccanica, come i talloni, ove può agire anche il decubito durante il riposo, o le articolazioni metatarsofalangee o inter-falangee delle dita, per la massima pressione d’appoggio durante la deambulazione (Fig. 2). Le ulcere ischemiche sono dolenti, con fondo torpido e spesso infetto. Sul tallone, il punto di partenza di una necrosi calcaneare può essere un’iniziale fissurazione (ragade) trascurata o qualsiasi evento traumatico sub-clinico. Nel diabetico è frequente la necrosi parcellare di un dito, senza compromissioni prossimali del trofismo. Se non vi è sovrapposizione infettiva, la gangrena è di tipo secco, con mummificazione dei tessuti, che appaiono di colore nerastro, compatti e duri, essiccati, senza segni di flogosi dei tessuti sani adiacenti, che appaiono nettamente demarcati dal tessuto necrotico (Fig. 3). Classificazione ed inquadramento clinico 39 La sovrainfeizione batterica porta al quadro di gangrena umida. In questo caso, all’esplorazione, si ritrovano secrezioni siero-purulente o franche colliquazioni purulente di una parte più o meno estesa dei tessuti molli del piede, associate a osteomielite, specie delle articolazioni metatarso-falangee e Figura 2: Lesione trofica in una zona di intensa sollecitazione meccanica. Figura 3: Gangrena secca delle dita del piede. 40 Capitolo 3 del segmento distale dei metatarsi (Fig. 4). I germi che s’impiantano sulla necrosi possono rapidamente estendersi al resto dell’arto e, in particolare se anaerobi, provocare una rapida diffusione dell’infezione, a volte con i caratteri della gangrena gassosa, che minaccia la vitalità dell’arto e la sopravvivenza stessa del paziente. Arteriopatia diabetica In passato l’attenzione nei pazienti diabetici era rivolta verso la microangiopatia diabetica per la quale si riteneva impossibile apportare miglioramenti alla vascolarizzazione del piede diabetico attraverso interventi chirurgici di rivascolarizzazione o terapie disostruttive endovascolari per la presenza di lesioni occlusive diffuse a carico del microcircolo del piede. Successivamente si è dimostrata la presenza di anormalità del microcircolo di natura non occlusiva come l’ispessimento e le calcificazioni a livello della membrana vasale che non consentirebbero il passaggio dell’ossigeno. La presenza di una macroangiopatia con riduzione della perfusione ematica al piede sarebbe la vera responsabile del “piede diabetico vascolare” caratterizzato da una condizione d’ischemia cronica del piede che presenta una spiccata suscettibilità all’ulcerazione e alle infezioni. Figura 4: Gangrena umida in sede interdigitale. Classificazione ed inquadramento clinico 41 L’arteriopatia diabetica, contrariamente a quanto accade nei soggetti aterosclerotici, è caratteristicamente localizzata a livello delle arterie tibiali, che appaiono fortemente sclerotiche e calcifiche, spesso associata a pervietà dei vasi a monte. Non è infrequente in questi pazienti, infatti, la presenza dei polsi poplitei con quadri d’ischemia del piede piuttosto gravi caratterizzati da dolore a riposo e gangrena delle dita. Spesso l’arteriopatia diabetica decorre asintomatica fino all’insorgenza della lesione trofica. Il dolore, infatti, è presente solo in un quarto dei pazienti per la presenza della neuropatia sensoriale che toglie la sensibilità alle estremità facilitando l’insorgenza accidentale di lesioni cutanee che sfociano facilmente in necrosi. La contemporanea presenza di vasculopatia e neuropatia rende ragione anche della facile insorgenza di infezioni superficiali anche a seguito di traumi di modesta entità. Tali infezioni possono manifestarsi sotto forma di celluliti, necrosi umide dei tessuti molli e osteomieliti che interessano il piede. L’arto sede d’ischemia da arteriopatia diabetica presenta aspetti particolari che si differenziano dalla normale sintomatologia dell’arteriopatia periferica. La sintomatologia è condizionata della presenza della neuropatia. La denervazione simpatica dei vasi periferici è responsabile di un aumento di flusso a riposo con apertura delle anastomosi artero-venose con conseguente edema del piede che appare caldo al termotatto. La denervazione vascolare è responsabile anche della particolare rarefazione ossea del piede diabetico, con suscettibilità alle fratture, e della angiosclerosi diffusa. All’aumento della temperatura cutanea si associa la presenza di lesioni trofiche. Significative sono le alterazioni del trofismo cutaneo del piede caratterizzate da pelle secca, squamosa e iperpigmentata anche a livello di gamba. I talloni presentano spesso soluzioni di continuo e flittene con aree di necrosi cutanea. Le lesioni trofiche sono caratteristicamente localizzate a livello metatarsale, lateralmente e negli spazi interdigitali, o a livello del tallone e sono in genere profonde con fondo sanioso. Sono da differenziare dalle ulcere neuropatiche che sono caratteristicamente localizzate a livello plantare in corrispondenza delle teste metatarsali con aspetto ipercheratosico e con bordi irregolari e sottominati. Quando presente, la gangrena può essere secca o con superinfezione batterica (gangrena umida). In caso di gangrena umida si possono formare rapidamente raccolte ascessuali che si espandono attraverso le fasce tendinee verso la gamba (Fig. 5). Molto importante nei pazienti diabetici con arteriopatia periferica è la diagnosi precoce e il controllo dei valori glicemici. La pulizia del piede e l’uso di calzature comode sono gli elementi che consentono la prevenzione delle lesioni cutanee che rappresentano il prodromo dell’infezione e della gangrena. 42 Capitolo 3 Storia naturale L’evoluzione clinica dell’arteriopatia cronica ostruttiva degli arti inferiori varia in rapporto a numerosi fattori. Normalmente la malattia decorre asintomatica o paucisintomatica per un periodo più o meno lungo e la scoperta avviene quando i sintomi diventano così importanti da richiedere il parere del medico. Al momento della diagnosi, a parità di entità sintomatologica, si possono avere lesioni vascolari di gravità diversa, soprattutto in rapporto all’efficacia del circolo di compenso. Pertanto, la prognosi di questi pazienti è molto variegata, non solo in rapporto alla stadio clinico della malattia, ma soprattutto in rapporto alla localizzazione anatomica delle lesioni, alla loro entità e diffusione, alla loro stabilità, all’associazione con il diabete e alla persistenza dei fattori di rischio per aterosclerosi. Se non intervengono modificazioni terapeutiche o se il paziente non muore prima per altre cause (cardiache, cerebro-vascolari, neoplastiche), il punto d’arrivo della malattia è la progressiva compromissione dell’irrorazione tessutale, passando per una fase definita come ischemia critica, fino alla gangrena delle parti più distali dell’arto. Nei pazienti con arteriopatia in stadio precoce la storia naturale predice una stabilità sintomatologica e un basso tasso di amputazione a 3-5 anni (~ 5%). In pazienti che si presentano con caratteristiche cliniche d’ischemia critica, il tasso di amputazione a 12 mesi sale al 30-50%. Figura 5: Interessamento dei tendini e dei muscoli del piede in una gangrena in paziente diabetico. 4. Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori Diagnosi clinica Di fondamentale importanza per una diagnosi accurata è la puntuale raccolta dell’anamnesi. La descrizione del dolore, della sua localizzazione e irradiazione, delle sue caratteristiche, dell’autonomia di marcia in pianura e in salita e del tempo di recupero sono informazioni indispensabili che già possono orientare l’esaminatore non solo verso una diagnosi di patologia ma anche di sede. La presenza nell’anamnesi di importanti fattori di rischio contribuisce ad orientare verso una diagnosi di aterosclerosi periferica. Egualmente importante è l’esame obiettivo del paziente durante il quale verrà ricercata una serie di segni fortemente indicativi di aterosclerosi periferica. Nella ricerca dei segni clinici dell’ischemia cronica degli arti inferiori, particolare importanza assumono l’aspetto e la temperatura del piede e della cute e la valutazione dei polsi arteriosi degli arti inferiori. Il piede appare di solito pallido, soprattutto in posizione clinostatica. Le alterazioni degli annessi cutanei abitualmente presenti nell’arteriopatia cronica ostruttiva sono la scarsità o l’assenza di peli sulla superficie antero-esterna della gamba fino ai settori più distali (Fig. 1). Figura 1: Alterazioni degli annessi cutanei in un paziente con arteriopatia periferica. 43 44 Capitolo 4 Spesso il paziente con importanti dolori a riposo tende ad assumere una posizione antalgica, con ginocchia flesse e gambe penzoloni. Il protrarsi nel tempo della flessione, associata a fenomeni di retrazione ischemica dei muscoli e tendini, può condurre all’anchilosi. Facendo assumere al paziente una posizione emodinamicamente più vantaggiosa per il suo circolo distrettuale (seduto o in piedi), le dita o l’avampiede potranno assumere un colorito rossoporpora o più francamente cianotico (eritrocianosi declive), traduzione clinica del contributo della pressione idrostatica che aumenta, però, l’afflusso in un territorio di prevalente vasoparalisi, già dilatato al massimo. L’iposfigmia o asfigmia nelle sedi di palpazione dei polsi arteriosi indica sempre l’esistenza di un’importante arteriopatia dei vasi a monte. A livello degli arti inferiori i polsi sono reperibili alla piega dell’inguine (femorale), nel cavo popliteo (il polso popliteo non è facilmente apprezzabile in quanto l’arteria è situata profondamente, è preferibile allora fare flettere il ginocchio per detendere i muscoli nel cavo popliteo; in ogni caso, la percezione di un polso popliteo nettamente più valido del polso femorale a monte può essere indicativa della presenza di una lesione della poplitea di tipo aneurismatico), dietro al malleolo mediale, fra sperone osseo e tendine d’Achille (tibiale posteriore), sul dorso del piede, fra I e II metatarso (pedidia). Il polso pedidio, pur se con vaso pervio e senza stenosi significative a monte, può non essere palpabile in una percentuale di casi non trascurabile (10-20%) per anomalie di decorso: l’assenza bilaterale del polso è più indicativa di anomalia, l’assenza monolaterale è più verosimilmente indice di ostruzione (Fig. 2). Fig. 2: Sede di palpazione dei polsi arteriosi degli arti inferiori. A: arteria femorale; B: arteria poplitea; C: arteria tibiale posteriore; D: arteria pedidia. Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori 45 La differenza tra i polsi di uno stesso arto o tra i polsi dei due arti allo stesso livello può essere suggestiva della localizzazione della malattia. L’assenza del polso femorale di un lato è indice di un’ostruzione iliaca monolaterale. Nello stesso arto, un valido polso femorale con mancanza del polso popliteo e dei polsi periferici è l’espressione di una localizzazione femoro-poplitea della malattia. A livello degli arti inferiori l’auscultazione permette di riconoscere la presenza di soffi vascolari a livello delle arterie principali prossimali. La turbolenza ematica che produce il soffio è correlata non solo e non tanto all’importanza emodinamica della lesione ma anche alle caratteristiche istologiche della placca. In presenza di stenosi superiori al 30-50% in arterie con parete non estremamente calcifica è possibile rilevare un soffio di entità e caratteristiche variabili. Non va dimenticato peraltro che l’assenza di soffio non equivale ad assenza di lesione ed il soffio può anche avere un’origine sistemica (cuore, tiroide, anemia, etc.). Nelle fosse iliache è possibile auscultare un soffio da stenosi dell’iliaca comune e/o esterna. A livello inguinale si può rilevare un soffio femorale. In soggetti con sintomatologia clinica sfumata o poco chiara, può restare il dubbio che parte dei disturbi non sia di origine vascolare; in particolare il soggetto anziano, scarsamente collaborante o clinicamente poco valutabile, per esempio per edemi importanti da cardiopatia o flebopatia o per patologia del disco vertebrale. La diagnosi differenziale va posta soprattutto con le seguenti forme cliniche: - insufficienza venosa: oltre al reperto abituale di edema, di solito il disturbo è riferito come senso di peso, che non recede facilmente e migliora con la deambulazione; ponendo l’arto in postura anti-declive il sintomo migliora nettamente. Vero e proprio dolore durante la deambulazione si ha nelle forme avanzate d’insufficienza venosa cronica (sindrome post-flebitica, claudicatio venosa), per l’importante stimolazione nocicettiva determinata dalla distensione parietale venosa (ipertensione venosa), aggravata dall’aumento del flusso arterioso; - claudicatio neurogenica: si manifesta più in forma di astenia muscolare (“arti che si stancano mentre si cammina”) o come un dolore irritativo con parestesie, soprattutto della faccia postero-laterale dell’arto, e paresi transitorie segmentarie. Il dolore ha una diffusione cranio-caudale. Nella sindrome ischialgica acuta, i dolori di solito non sono da sforzo, non scompaiono con il riposo e tendono ad esacerbarsi durante la notte. Sono in genere più intensi (“stilettate”, “coltellate”) che nelle flebopatie e vengono riferiti anche a carico dei muscoli lombari e della colonna. - claudicatio articolare: le malattie flogistico-degenerative dell’anca o del ginocchio vanno incontro solitamente ad un miglioramento dei disturbi dopo 46 Capitolo 4 un breve percorso. Si riacutizzano dopo prolungato riposo e spesso inducono ad assumere posture di difesa antalgica. Diagnosi strumentale Dopo la clinica, la diagnostica strumentale è la seconda tappa fondamentale nella valutazione del paziente arteriopatico. Parte integrante dell’esame obiettivo del paziente vascolare è l’utilizzo del Doppler Continuous Wave (C.W.), di semplice ed immediata esecuzione al letto del paziente ed in ambulatorio, che può fornire indicazioni sull’entità e sulla localizzazione delle lesioni. La rilevazione Doppler dei segnali di flusso può essere solo acustica od associata ad un grafico. Generalmente, le arterie esplorate in un esame Doppler standard della circolazione degli arti inferiori sono: l’aorta addominale, gli assi iliaci, le femorali, le poplitee, le tibiali posteriori, le pedidie e le peroniere. Nel soggetto sano, a livello delle arterie degli arti inferiori è udibile un suono caratteristicamente trifasico, tipico di tutte le arterie che irrorano distretti ad alta resistenza come quelli muscolari (Fig. 3). Figura 3: Schema della curva ultrasonografica rilevata a livello di arterie sane che irrorano territori ad alte resistenze: (1) prima onda positiva, o sfigmica, in stretta relazione alla spinta sistolica; (2) onda negativa, o onda reverse, in relazione alla chiusura delle valvole aortiche; (3) seconda onda positiva in relazione alla compliance di parete; (4) ritorno alla linea di base. Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori 47 In caso di lesioni stenosanti del distretto iliaco-femorale, a livello della femorale comune è udibile un segnale demodulato, bifasico o, nei casi più avanzati, monofasico olosistolico. L’immagine analogica acquisterà una morfologia sempre più arrotondata, con visualizzazione di un’incisura dicrota e con la progressiva attenuazione delle altre due onde fino alla loro completa scomparsa. Nelle ostruzioni il suono sarà monofasico, distribuito non solo durante la sistole ma anche nella diastole con una costante sopraelevazione della curva rispetto alla linea di base (Fig. 4). Questo genere di suono e di curva è caratteristico di un vaso riperfuso attraverso il circolo collaterale o posto a valle di una lesione importante. Essi riflettono la caduta delle resistenze periferiche nel territorio a valle di una lesione importante. Il segnale che si rileva nel punto della stenosi è un segnale da flusso accelerato, di frequenza elevata, con rumore “a raspa”, con tracciato caratterizzato da un’onda sistolica estremamente rapida ed elevata con scomparsa delle onde aggiunte. Figura 4: Esempi di flusso demodulato: dalla A alla H curva ultrasonografica con alterazioni ingravescenti in relazione alla gravità dell’arteriopatia. 48 Capitolo 4 In caso di lesioni del distretto femoro-popliteo le caratteristiche del suono, così come la modificazione della morfologia dell’onda, sono simili a quelle del distretto iliaco-femorale. Importante è in ogni caso anche la valutazione dell’arteria femorale profonda. Oltre all’esplorazione diretta è possibile effettuare una valutazione funzionale mediante compressione della loggia posteriore della coscia, mantenendo la sonda sull’arteria poplitea: se il segnale rimane invariato, la femorale superficiale è perfettamente funzionante; se si assiste invece ad una riduzione (o addirittura alla scomparsa) del segnale la femorale profonda partecipa attivamente alla rivascolarizzazione poplitea, costituendo un vero e proprio by-pass spontaneo. A livello delle arterie tibiali in caso di ostruzione nei segmenti superiori il segnale è monofasico, di ampiezza variabile. Nelle condizioni cliniche più avanzate possono non essere rilevabili segnali in periferia. L’assenza di una delle due tibiali può essere riscontrabile anche in pazienti assolutamente sani. Si tratta soltanto di una particolarità anatomica osservabile in un’apprezzabile percentuale di popolazione (10-20%) normale. Anche a livello del piede è possibile effettuare una valutazione funzionale della circolazione collaterale con le manovre di compressione delle tibiali anteriore o posteriore con la sonda posta alternativamente sulla tibiale posteriore o sulla pedidia. Un’applicazione importante del Doppler C.W. è la possibilità di misurare la pressione arteriosa a diversi livelli dell’arto inferiore gonfiando il manicotto di uno sfigmomanometro, posto al terzo distale della coscia od al terzo prossimale ed a quello distale della gamba, fino a valori superiori alla PA sistemica o fino alla scomparsa del segnale monitorizzato (Fig. 5). Sgonfiando il manicotto, si registra il valore pressorio al quale ricompare il segnale, con la sonda posta a livello dell’arteria subito a valle del manicotto (arterie Figura 5: Misurazione delle pressioni segmentarie a livello della caviglia. Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori 49 poplitea, tibiale posteriore, tibiale anteriore e peroniera). Il rapporto tra la pressione rilevata alla caviglia e quella omerale è definito come Indice di Winsor o anche indice caviglia-braccio (I.W. o A.B.I.) ed è normalmente maggiore o uguale a 1. Esso offre una stima indiretta del flusso periferico attuale ed è più utile della misurazione isolata della pressione periferica. Non vi è una chiara correlazione fra il grado delle lesioni aterosclorotiche degli assi periferici e la diminuzione dell’indice di Winsor. Tuttavia possiamo stimare che con valori superiori a 0,7-0,8 il paziente sia in una fase clinica iniziale, fra 0,5 e 0,7 vi sia un discreto compenso, mentre con valori inferiori a 0,5 il paziente si avvicini progressivamente allo stadio dell’ischemia critica (che di solito presenta valori di 0,2-0,3). L’indice di Winsor non è ritenuto attendibile nel diabetico o in qualunque altro paziente con calcificazioni parietali, perché le arterie non sono comprimibili dallo sfigmomanometro: il flusso distale è apprezzato come rumore continuo. Un’altra tecnica d’indagine è il cosiddetto Treadmill Test (o Test di Strandness). Esso permette di valutare il grado di compenso della circolazione collaterale in condizioni di sforzo o di slatentizzare patologie arteriose non evidenziabili a riposo (pazienti con tutti i polsi palpabili e che riferiscono claudicatio). Dopo aver tenuto il paziente a riposo per 20 minuti ed aver rilevato i valori pressori di base, lo si invita a camminare sul tapis roulant alla velocità di 3 Km/h, con pendenza del 10% per 5 minuti o finché non compare claudicatio. Se non si dispone del tapis roulant o di un cicloergometro sarà sufficiente far effettuare al paziente flesso-estensioni del piede per circa 2 minuti e mezzo (Test di Carter). Si misurano le pressioni di occlusione alla caviglia dopo che il paziente ha eseguito il test e fino al ritorno dei valori di base, ogni minuto per 10 minuti. Nel soggetto normale lo sforzo comporta una vasodilatazione periferica massimale con riduzione delle resistenze periferiche e un cospicuo aumento del flusso muscolare. La pressione non si modifica rispetto ai valori preesercizio oppure mostra solo una lievissima riduzione con rapido recupero. Nel soggetto arteriopatico l’esercizio riproduce le condizioni che provocano la claudicatio. Si osserva quindi una riduzione dei valori pressori che, nei casi più gravi, può essere notevole rispetto ai valori basali. Il tempo di recupero dei valori pressori di base alla caviglia sarà tanto maggiore quanto più grave e meno compensata è la lesione arteriosa. Una diagnostica strumentale non invasiva più completa viene attualmente effettuata con l’Eco-Color-Doppler (ECD) che, facilitando l’identificazione del vaso e del flusso al suo interno, permette lo studio delle caratteristiche morfologiche delle lesioni steno-ostruttive consentendo, nel contempo, la valutazione emodinamica mirata ed in tempo reale del flusso in punti prescelti e la ricostruzione di una vera e propria mappa dell’intero albero 50 Capitolo 4 arterioso periferico. La caratteristica peculiare della metodica, infatti, è rappresentata dalla coesistenza di un’apparecchio ecografico e di un’apparecchio Doppler: ciò consente di effettuare non solo valutazioni di tipo flussimetrico ma anche di tipo ecografico e quindi morfologico (Fig. 6). Mediante l’utilizzzo del codice colore è possibile effettuare valutazioni morfologiche ed emodinamiche contemporaneamente ed è possibile scegliere all’interno del vaso un punto, detto volume campione, sul quale è possibile eseguire selettivamente delle misurazioni di tipo flussimetrico. In generale, l’esame comprende un’attenta valutazione morfologica in senso longitudinale e trasversale dell’asse iliaco, della femorale comune e delle origini della femorale superficiale e della femorale profonda. Si procede quindi in senso distale, seguendo il decorso della femorale superficiale. I 2/3 prossimali non presentano particolari difficoltà di studio, mentre maggiori problemi di visualizzazione potranno aversi a livello del canale di Hunter, sede elettiva di comparsa di lesioni ostruttive. Importante indicatore indiretto della presenza di lesioni stenosanti può essere la presenza di grossi rami collaterali a livello dell’arteria poplitea sovragenicolare. Figura 6: Immagine eco-color-doppler in un paziente con stenosi dell’arteria femorale superficiale. Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori 51 Si procede quindi con l’esame dell’arteria poplitea e della sua biforcazione alla ricerca di lesioni stenosanti o di placche calcifiche. L’esame viene completato dalla visualizzazione delle arterie tibiali. Alla valutazione puramente ecografia viene associata la valutazione con color; quest’ultima consente di individuare lesioni aterosclerotiche di tipo “ipoecogeno”, cioè scarsamente visibili all’ecografia, come difetti di riempimento del vaso e, attraverso il codice colore (che prevede variazioni di colore a seconda della velocità e delle caratteristiche di laminarità o turbolenza del flusso), consente di effettuare una prima valutazione di tipo emodinamico. Il rilevamento delle curve di flusso a tutti i livelli sopraelencati completa l’esame e consente una dettagliata valutazione del significato emodinamico delle lesioni visualizzate. Apparecchiature sofisticate possono ottenere immagini estremamente definite, anche riguardo alle caratteristiche strutturali della parete oltre che delle pacche, e negli apparecchi di ultima generazione la capacità di visualizzazione dei vasi e delle lesioni aterosclerotiche è stata ulteriormente migliorata dall’introduzione di software computerizzati che rendono possibile l’utilizzo di mezzi di contrasto dedicati, con ulteriore maggiore risoluzione. Ovviamente è molto importante, a prescindere dalle possibilità delle apparecchiature a disposizione, l’abilità dell’operatore nel reperire immagini e curve di flusso adeguate e nell’interpretare in maniera corretta quanto visualizzato, soprattutto in condizioni sfavorevoli (una coscia edematosa o di dimensioni abbondanti) e a livello di alcuni distretti (ad es., l’iliaca per la relativa profondità e per gli artefatti da gas intestinale, la femorale superficiale all’Hunter, i rami sottopoplitei generalmente profondi e vicini a strutture ossee, ecc.). Certamente l’Eco-Color-Doppler per la notevole diffusione sul territorio, per i costi relativamente contenuti ma soprattutto per l’elevata sensibilità e specificità, oggi rappresenta l’esame di primo livello da eseguire in tutti i pazienti in cui esista un sospetto fondato di arteriopatia periferica. In genere, se eseguito da un operatore esperto, edotto circa tutte le problematiche legate alla presenza di aterosclerosi periferica, offre non solo una notevole attendibilità diagnostica, che talora rende superfluo qualunque altro esame diagnostico di secondo livello, ma anche una valutazione morfologica e funzionale tale da consentire già di impostare un programma terapeutico, farmacologico o chirurgico. In generale il chirurgo vascolare utilizza ormai routinariamente l’ECD nella pratica clinica quotidiana e l’accuratezza diagnostica della metodica nelle sue mani è tale da non richiedere, in alcuni casi, ulteriori approfondimenti 52 Capitolo 4 strumentali sia per una corretta definizione diagnostica che per la pianificazione terapeutica. Ottimale è l’uso dell’ECD nel follow-up degli arteriopatici, sia sottoposti ad intervento di rivascolarizzazione che a trattamenti farmacologici. In questi casi il controllo non invasivo è facilmente ripetibile e garantisce una buona qualità d’informazione senza la necessità di ulteriori indagini diagnostiche. Molto si discute attualmente sull’uso dell’ECD come metodica di screening di massa. In generale, una buona visita vascolare consente di identificare senza dubbio i pazienti con arteriopatia periferica rispetto ai pazienti sani e consente anche di definire con un certo dettaglio la gravità della patologia. Per questo motivo non è ragionevole utilizzare l’ECD come screening su tutti i pazienti, ma è preferibile utilizzarlo in una popolazione di pazienti selezionata dopo la visita vascolare. L’arteriografia digitalizzata è l’esame che, dal punto di vista anatomico, fornisce il maggior numero di dettagli circa la sede e l’estensione della malattia, la presenza e la validità del circolo collaterale e lo stato dell’arto. L’esame è invasivo poiché consiste nella somministrazione di mezzo di contrasto iodato nelle arterie mediante posizionamento di cateteri intraarteriosi con tecnica di Seldinger. La sua invasività comporta un rischio di complicanze più o meno gravi che vanno dalla formazione di lesioni arteriose nel sito di introduzione dei cateteri o in distretti lontani, alla tossicità renale da mezzo di contrasto. La via d’accesso preferenziale è inguinale (femorale comune); in alternativa si può accedere per via trans-omerale o transascellare. Quest’ultima comporta maggiori difficoltà perché l’arteria ascellare è più mobile e più profonda e vi è un maggior rischio di complicanze neurologiche a carico del plesso brachiale in caso di ematoma ascellare. La visualizzazione delle immagini oggi avviene mediante tecnica digitalizzata, con sottrazione delle immagini di fondo (Fig. 7). L’angiografia andrebbe eseguita in proiezione antero-posteriore e, nei casi dubbi o in particolari sedi, in proiezione obliqua per valutare al meglio lesioni che altrimenti potrebbero rimanere misconosciute. L’esame angiografico rimane ancora la tecnica di riferimento per ottenere una visualizzazione diretta e completa dell’albero arterioso, anche se per molti Autori non è irrinunciabile per una corretta programmazione dell’intervento chirurgico di rivascolarizzazione sia convenzionale che endovascolare. Infatti, la grande evoluzione delle tecniche diagnostiche non invasive sta mettendo in discussione il ruolo di tecnica diagnostica di scelta sinora ricoperto dall’angiografia, soprattutto nella valutazione di quadri di arteriopatia focalizzata con dimostrazione di un valido circolo arterioso a monte e a valle. Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori 53 Tra le tecniche emergenti che si propongono come alternative o complementari all’angiografia è utile ricordare l’Angio-Risonanza Magnetica (Angio-RM) e l’Angio-TC. L’Angio-RM è in grado di fornire una visualizzazione dell’albero arterioso simile all’angiografia tradizionale senza però la somministrazione di un mezzo di contrasto iodato e senza l’introduzione di cateteri nell’albero arterioso. È inoltre possibile misurare il grado di significatività emodinamica di una stenosi utilizzando una mappa a velocità di fase perpendicolare al vaso a monte ed a valle del segmento interessato. L’angio-RM tuttavia non è in grado di visualizzare le calcificazioni a livello delle lesioni ed è tuttora una metodica di difficile reperibilità e di elevato costo. L’Angio-TC, come l’Angio-RM, non utilizza cateteri intra-arteriosi, ma necessita di mezzo di contrasto iodato e utilizza radiazioni ionizzanti. L’attendibilità diagnostica nel distretto periferico è in generale sovrapponibile a quella dell’Angio-RM, anche se non sono stati condotti attendibili studi comparativi, e consente una valutazione delle calcificazioni parietali (Fig. 8). Anche l’Angio-TC grazie alle apparecchiature multi-detettori consente di effettuare, partendo da sezioni eseguite sul piano coronale, ricostruzioni tridimensionali dell’albero arterioso sul piano sagittale che offrono una visione “panoramica” molto simile a quella di un’angiografia tradizionale. Figura 7: Angiografia digitalizzata degli arti inferiori. (A): stenosi multiple a livello della femorale superficiale ed il circolo collaterale di compenso; (B): la circolazione del piede è sostenuta dalla tibiale anteriore. 54 Capitolo 4 Figura 8: Esame angio-TC (ricostruzione volume rendering) che mostra l’occlusione dell’arteria iliaca comune sinistra; b) l’esame angio-RM (ricostruzione MIP) mostra lo stesso caso di a; c) esame angio-TC (ricostruzione MPR su piano coronale) che mostra le diffuse calcificazioni dell’aorta addomianale e delle arterie iliache e la concomitante stenosi sub-ostruttiva dell’arteria renale di sinistra all’origine. 5. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca Epidemiologia e storia naturale Nel mondo occidentale l’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca nei pazienti di età media e negli anziani è una causa comune di sintomi ischemici a livello degli arti inferiori. I soggetti affetti da questa patologia risultano avere un’età media di 10 anni inferiore rispetto a quelli che riferiscono sintomi attribuibili ad arteriopatia femoro-poplitea. La malattia aorto-iliaca è meno comune dell’arteriopatia ostruttiva del distretto femoro-popliteo con la quale, però, alle volte risulta associata. I pazienti con ischemia a riposo dovuta alla contemporanea presenza di arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca e femoro-poplitea sono in genere nella settima decade di vita e non sono molto più giovani di quelli che presentano dolore a riposo da arteriopatia femoro-poplitea. I fattori di rischio per l’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca sono quelli della arteriosclerosi: fumo di sigaretta, ipertensione, ipercolesterolemia e diabete. Il coinvolgimento ateromasico dell’aorta addominale e delle arterie iliache si verifica nel 25-30% dei casi di aterosclerosi periferica. La sede maggiormente interessata è rappresentata dal tratto distale dell’aorta e dall’origine delle arterie iliache comuni. La stenosi isolata dell’aorta sottorenale è relativamente rara ma è tipica delle donne fumatrici, di età anche relativamente giovane; in questo caso si possono notare grosse lesioni di aspetto fibro-calcifico localizzate nel tratto medio-distale del vaso. La biforcazione aortica costituisce una sede prediletta delle lesioni ostruttive aterosclerotiche. I maschi sono più colpiti, con un rapporto da 4:1 a 20:1 rispetto alle donne. Sono frequenti soprattutto lesioni ulcerative associate alle calcificazioni della tonaca media. Tali modificazioni strutturali della parete diminuiscono progressivamente in senso prossimale, fino all’emergenza delle arterie renali. Nel tratto compreso fra le arterie renali e la mesenterica inferiore, le alterazioni parietali sono in genere modeste. Si riconoscono ulteriori varianti topografiche: I tipo - steno-ostruzione limitata alla biforcazione, o sindrome di Lériche (Fig. 1), che comprende l’origine delle arterie iliache comuni (frequenza > 50%); II tipo – lesione limitata a un breve segmento dell’aorta terminale (comprese o meno le arterie pelviche), con frequenza attorno al 40%; III tipo - lesione trombotica dell’aorta che si estende fino all’origine delle renali (trombosi ascendente dell’aorta addominale), per lo più a partenza da un tipo I (Lériche), con frequenza del 5-10% 55 56 Capitolo 5 Il carattere segmentario del secondo tipo è, in realtà, non frequentissimo, poiché alterazioni parietali possono essere già presenti e significative a valle o a monte della zona interessata. In oltre il 50% dei casi la localizzazione è bilaterale e in oltre l’80% dei casi coesistono steno-ostruzioni più distali (arterie di coscia e gamba). Lo sviluppo di circoli collaterali nella malattia ostruttiva aorto-iliaca permette in genere un valido compenso, tale che la fenomenologia clinica si sviluppa molto tardivamente e raramente raggiunge gli stadi più avanzati. Ciò è in relazione all’ampiezza di distribuzione dei circoli addominali e pelvici, al calibro dei singoli componenti e alla loro rilevanza funzionale (Fig. 2). In casi particolarmente favorevoli è possibile addirittura apprezzare la ricomparsa dei polsi più periferici, per esempio il pedidio o il tibiale posteriore. Per maggiori dettagli sui circoli collaterali si rimanda al Capitolo 1. Le lesioni iniziali dell’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca sembrano presentarsi quasi sempre a livello dell’aorta terminale e della porzione prossimale delle arterie iliache comuni e/o a livello della biforcazione delle arterie iliache comuni. Le lesioni progrediscono, quindi, distalmente. Circa un terzo dei soggetti con arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca presenta lesioni all’origine dell’arteria femorale profonda e più del 40% presenta un’ostruzione dell’arteria femorale superficiale. La storia naturale dell’arteriopatia Figura 1: Angiografie di sindrome di Lériche: a Sn l’esame mostra l’ostruzione del carrefour aortico con trombo che riduce il lume dell’aorta addominale; a Dx l’ostruzione aortica è estesa dal carrefour fino all’origine dell’arteria mesenterica inferiore. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 57 ostruttiva aorto-iliaca è ovviamente una lenta progressione che può portare verso l’ostruzione dell’aorta addominale distale, anche con progressione del trombo fino a livello delle arterie renali. A questo proposito è stato osservato che un terzo dei soggetti con arteriopatia aorto-iliaca in un periodo di 5-10 anni presenta trombosi delle arterie renali. Bisogna anche ricordare che la malattia aorto-iliaca si trova spesso associata a patologia ostruttiva dell’origine dei principali rami viscerali e delle arterie renali. Figura 2: Sindrome di Lériche: i circoli collaterali assicurano la riabitazione dell’arteria iliaca esterna sinistra e dell’arteria femorale destra. 58 Capitolo 5 Diagnosi clinica Il quadro clinico può essere sfumato o molto importante, in relazione ai grandi circoli collaterali ed alla quantità di gruppi muscolari sottoposti ad una ridotta perfusione. I sintomi iniziali sono rappresentati dalla claudicatio intermittens a carico dei muscoli del polpaccio, della coscia, dell’anca e glutei essendo interessata l’aorta distale e/o le arterie iliache. La claudicatio che interessa anche i gruppi muscolari più prossimali può orientare nella diagnosi differenziale tra arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca e quella femoropoplitea, anche se può accadere che un soggetto affetto da tale patologia riferisca soltanto una claudicatio surale. Un altro segno che può portare a sospettare un’arteriopatia aorto-iliaca può essere, nei maschi, una difficoltà nell’ottenere e mantenere l’erezione a causa dell’inadeguata perfusione delle arterie pudende interne. Nella malattia aorto-iliaca isolata la claudicatio è, di solito, a lunga autonomia di marcia (anche 1 km), il tempo di recupero non è molto prolungato ed il paziente, spesso anziano, non vive il sintomo come particolarmente invalidante. L’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca causa raramente ischemia a riposo o perdita tessutale, per la presenza di un ricco circolo collaterale sufficiente ad irrorare gli arti inferiori con quantità di sangue adeguate ad assicurare una buona perfusione tessutale a riposo. Bisogna tuttavia ricordare che le placche aterosclerotiche nell’aorta e nelle arterie iliache possono portare alla sindrome del dito blu (blue toe) dovuta alla microembolizzazione di frammenti arteriosclerotici nei vasi terminali del piede (Fig. 3). Quando l’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca è unita ad un’arteriopatia ostruttiva femoro-poplitea, fatto comune negli anziani, può essere presente una ischemia a riposo. Figura 3: Lesioni puntiformi da microembolizzazione alle dita del piede. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 59 Bisogna sempre prendere in considerazione, nella diagnosi differenziale, i sintomi da irritazione delle radici nervose causata da restringimenti degli spazi spinali o da ernia del disco intervertebrale. In alcuni pazienti questi sintomi possono essere associati all’attività fisica, alleviati dalla posizione seduta o sdraiata ed esacerbati più dalla stazione eretta che dalla marcia. Molto importante è anche la tipica distribuzione del dolore nel territorio d’innervazione del nervo sciatico. Per quanto riguarda l’esame obiettivo, all’ispezione un paziente con claudicatio intermittens per arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca ha, di solito, arti inferiori apparentemente sani e ben perfusi, anche se è possibile riscontrare un’ipotrofia muscolare. Alla palpazione è indicativa di arteriopatia aorto-iliaca l’ipopulsatilità o l’assenza dei polsi femorali. All’auscultazione vi possono essere soffi aspri a livello inguinale, anche se bisogna ricordare che soffi femorali possono essere dovuti anche a lesioni stenotiche all’origine dell’arteria femorale superficiale e dell’arteria femorale profonda. Le pressioni segmentarie registrate con il Doppler a tutti i livelli degli arti inferiori sono di solito più basse della pressione omerale e, in assenza di una concomitante arteriopatia interessante il settore femoro-popliteo o distale, non vi è un gradiente significativo tra la pressione registrata a livello della parte distale della coscia e quella registrata alla caviglia. Quando vi è una discrepanza tra un indice caviglia-braccio quasi normale e sintomi importanti risulta opportuna la misurazione delle pressioni dopo un test da sforzo (treadmill test). Indicazioni terapeutiche La terapia dell’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca può essere medica o chirurgica. La terapia medica, indicata in tutti gli stadi della malattia, si basa sull’uso di antiaggreganti piastrinici e di vasodilatatori. Il trattamento farmacologico e la correzione dai fattori di rischio sono finalizzati a migliorare i sintomi, ma anche a prevenire altri eventi vascolari (infarto miocardico, ictus cerebrale) che insorgono in notevole misura in tali pazienti, con una mortalità del 30% entro 5 anni; tale mortalità risulta essere 3 volte maggiore che nella popolazione generale di uguale età. In caso di persistenza o peggioramento delle manifestazioni cliniche, con claudicatio intermittens severa od ischemia critica, vi è indicazione ad un trattamento di rivascolarizzazione chirurgica. 60 Capitolo 5 La tromboendoarterectomia (TEA) è stata la prima procedura di ricostruzione arteriosa diretta utilizzata, con buoni risultati nelle steno-ostruzioni limitate all’aorta sottorenale ed alle arterie iliache comuni. Con l’avvento dei materiali protesici negli anni ‘60, il by-pass aorto-femorale, monolaterale o più spesso bilaterale, è stato per decenni la procedura più comunemente effettuata in tale area. La mortalità operatoria di questo tipo di intervento è, oggi, inferiore al 3% ed è influenzata dall’età e dalle patologie concomitanti; la pervietà del by-pass è superiore al 75% a 10 anni. Risultati meno validi in termini di pervietà a distanza si riscontrano nei pazienti d’età inferiore a 50 anni per la progressione accelerata e la plurisegmentarietà della malattia. Nei pazienti ad alto rischio, con controindicazioni all’anestesia generale od alla laparotomia, trovano a volte indicazione le tecniche extra-anatomiche, quali il by-pass femoro-femorale cross-over (pervietà primaria a 5 anni: 80%) od il by-pass axillo-femorale che, per minor durata (pervietà primaria a 3 anni: 50%) e maggior rischio d’infezione (4-12%), ha attualmente indicazioni limitate a casi di ischemia critica o nei reinterventi. Negli ultimi anni, lo sviluppo delle procedure endovascolari ha rivoluzionato il trattamento di questa patologia ed attualmente l’angioplastica percutanea (PTA) e lo stenting rappresentano un’alternativa all’intervento chirurgico tradizionale, con incremento rilevante del numero dei pazienti trattati, per la minore invasività e per la riduzione della morbilita e mortalità correlate; inoltre i risultati a distanza sono sovrapponibili, anche se il follow-up è necessariamente più breve. Il TransAtlantic Inter-Society Consensus ha messo a punto una classificazione (TASC) che permette di dividere le lesioni in base alla loro suscettibilità al trattamento percutaneo o chirurgico (Tab. 1): - Lesioni focali di tipo A: ideali per l’approccio precutaneo; - Lesioni di tipo B: l’approccio percutaneo è ancora la tecnica da preferire; - Lesioni di tipo C: dovrebbe essere preferito l’approccio chirurgico tradizionale; - Lesioni di tipo D: l’intervento chirurgico tradizionale è l’opzione di scelta. Le lesioni iliache, quali le stenosi singole, sia mono- che bilaterali, di lunghezza inferiore a 3 cm, sia dell’arteria iliaca comune sia dell’arteria iliaca esterna, sono classificate come lesioni di tipo A. Le stenosi singole di 3-10 cm (che non interessano la femorale comune), le stenosi consecutive, non più lunghe di 5 cm ciascuna, e le occlusioni unilaterali dell’iliaca comune sono classificate come lesioni di tipo B. Le stenosi lunghe (5-10 cm) bilaterali, le occlusioni unilaterali dell’arteria iliaca esterna che si estendono all’arteria femorale comune e le stenosi unilaterali dell’arteria iliaca esterna che si estendono nell’arteria femorale comune sono classificate come tipo C. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 61 Tabella 1: classificazione TASC delle lesioni iliache Lesioni iliache TASC-A • Stenosi singole dell’iliaca comune o dell’iliaca esterna (unilaterali o bilaterali) di lunghezza inferiore ai 3 cm Lesioni iliache TASC-B • Stenosi iliache singole di 3-10 cm di lunghezza senza coinvolgimento della femorale comune • Due stenosi dell’iliaca comune o dell’iliaca esterna di lunghezza inferiore ai 5 cm senza coinvolgimento della femorale comune • Occlusione monolaterale dell’iliaca comune Lesioni iliache TASC-C • Stenosi bilaterali dell’iliaca comune e/o dell’iliaca esterna di lunghezza di 5-10 cm senza coinvolgimento della femorale comune • Occlusioni monolaterali dell’iliaca esterna senza coinvolgimento della femorale comune • Stenosi monolaterali dell’iliaca esterna con estensione alla femorale comune • Occlusioni bilaterali dell’iliaca comune Lesioni iliache TASC-D • Stenosi estese all’interna lunghezza dell’asse iliaco-femorale di lunghezza maggiore di 10 cm • Occlusione monolaterale dell’iliaca comune e dell’iliaca esterna • Occlusione bilaterale dell’iliaca esterna • Stenosi iliache adiacenti ad aneurismi dell’aorta addominale o dell’iliaca Le lesioni più estese sono classificate come tipo D. Sulla base di questo sistema di classificazione, molte lesioni iliache soddisfano i criteri per i tipi A e B, aprendo un potenziale campo di applicazione alle procedure endovascolari in presenza di una claudicatio lieve o di moderata entità. In casi selezionati è possibile trattare anche lesioni di tipo C come ad esempio le occlusioni dell’arteria iliaca esterna che non si estendono all’arteria femorale comune. In caso di lesioni multiple, la chirurgia tradizionale e le procedure endovascolari potranno essere combinate. Ad esempio, in caso di ostruzione iliaca estesa monolaterale e stenosi dell’arteria controlaterale, quest’ultima potrà 62 Capitolo 5 essere utilizzata come vaso donatore, dopo trattamento endovascolare (PTA, stent) della lesione stenotica, per il confezionamento di un by-pass femorofemorale cross-over. Contemporaneamente, nuovi scenari sono andati delineandosi per il trattamento chirurgico convenzionale mediante minilaparotomia o metodiche laparoscopiche, per via transperitoneale o retroperitoneale, con riduzione del dolore post-operatorio, più rapida risoluzione dell’ileo paralitico, riduzione dell’ospedalizzazione e più pronta ripresa dell’attività fisica e lavorativa. La scelta tra le diverse opzioni terapeutiche oggi disponibili, ed in continua evoluzione, sarà dettata dalla valutazione delle condizioni generali del paziente, della sintomatologia, della morfologia ed estensione delle lesioni steno-ostruttive dell’asse aorto-iliaco, al fine di ottenere la risoluzione delle manifestazioni cliniche con una migliore qualità di vita. Terapia chirurgica tradizionale La laparotomia mediana transperitoneale è la via d’accesso di scelta all’aorta addominale ed alle arterie iliache, mediante incisione xifo-sottombelicale di diversa estensione in rapporto al segmento da preparare. Meno utilizzate sono la via sotto-ombelicale trasversa e la via paramediana sinistra. L’accesso extraperitoneale, pur presentando il vantaggio di una riduzione del dolore postoperatorio, di una minore disidratazione e di una più rapida ripresa della peristalsi intestinale, di minori ripercussioni sulla ventilazione, trova indicazione meno frequente nelle ostruzioni aortiche perché per questa via non si può controllare lo stato degli organi endoaddominali e, talvolta, è più difficile il passaggio retroperitoneale della branca protesica controlaterale durante il confezionamento di un by-pass aorto-bifemorale; rimane, viceversa, la via più idonea per le ricostruzioni isolate dell’asse iliaco. Tromboendoarterectomia aorto-iliaca (TEA) La TEA dell’asse aorto-iliaco, un tempo ampiamente praticata, è attualmente limitata ad una esigua percentuale di pazienti che presenta una stenoostruzione localizzata all’aorta terminale ed alle arterie iliache comuni, non trattabile mediante procedure endovascolari. L’intervento viene eseguito mediante isolamento dell’aorta sottorenale e delle arterie iliache; dopo anticoagulazione (eparina 100 mg/kg peso corporeo, e.v.) si effettua il clampaggio prossimale e distale dei vasi. L’aortotomia longitudinale viene praticata medialmente all’origine dell’arteria mesenterica inferiore e prolungata a livello della biforcazione delle arterie iliache. S’individua il piano di Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 63 clivaggio idoneo e, mediante apposita spatola, si scolla il cilindro ateromasico, in alto fino a livello dell’angiostato, ove viene sezionato, ed in basso fino alla biforcazione iliaca, disobliterando gli osti dell’arteria mesenterica inferiore e delle arterie ipogastriche (Fig. 4). In caso di estensione prossimale della placca, la TEA andrà estesa verso l’alto, liberando gli osti dell’arterie renali. La riparazione dell’arteriotomia viene solitamente praticata mediante applicazione di un patch, preferibilmente biologico, autologo od eterologo (pericardio bovino), ed opportunamente modellato (angioplastica a trifoglio). Per le lesioni isolate dell’arteria iliaca comune od esterna, non estese all’aorta, tale procedura può essere eseguita mediante tecnica semichiusa attraverso una arteriotomia longitudinale di circa 3 cm della arteria femorale comune; dopo aver scollato, per via smussa, alcuni centimetri del cilindro ateromasico, questo viene sezionato per permettere l’introduzione di un ring stripper di Vollmar o di Moll che viene fatto avanzare prossimalmente sotto controllo fluoroscopico mediante delicati movimenti di rotazione, senza oltrepassare la biforcazione aorto-iliaca. Ottenuto il distacco dell’intera placca ateromasica o dopo la sua sezione, si procede alla sua asportazione ritirando progressivamente l’anello. Materiale residuo può essere asportato mediante irrigazione di soluzione fisiologica addizionata di eparina od utilizzando un catetere di Fogarty da embolectomia. Se necessario, la procedura Figura 4: Tromboendoarterectomia aorto-iliaca. 64 Capitolo 5 verrà completata mediante TEA a cielo aperto della femorale comune ed eventuale profundoplastica, con chiusura dell’arteriotomia con patch. Un controllo angiografico intraoperatorio evidenzierà eventuali flap intimali, attualmente trattabili mediante posizionamento di uno stent. Raramente è richiesta un’incisione retroperitoneale, per completare la disostruzione attraverso un’arteriotomia iliaca o per il confezionamento di un by-pass iliaco-femorale. Con tale procedura si può raggiungere una pervietà primaria a 3 anni di oltre il 60% ed una pervietà secondaria superiore al 90%, sovrapponibile ai risultati ottenuti mediante by-pass iliaco-femorale o trattamento endovascolare. By-pass aorto-bifemorale Il by-pass aorto-bifemorale ha rappresentato a lungo il gold standard per il trattamento della malattia ostruttiva aorto-iliaca. Il principio ispiratore per il confezionamento del by-pass è che i vasi d’accoglimento sui quali si dovranno confezionare le anastomosi distali siano idonei. L’intervento inizia quindi con la preparazione bilaterale dei vasi femorali. Mediante incisione longitudinale curvilinea e spostamento mediale dei linfonodi inguinali per evitarne la lesione (causa di linforrea, di ritardo alla guarigione della ferita chirurgica e di aumentato rischio di infezione protesica) vengono preparate l’arteria femorale comune, l’arteria femorale superficiale e l’arteria femorale profonda. Avendo a disposizione vasi femorali idonei, si prosegue con la preparazione dell’aorta addominale. Poiché l’indicazione all’intervento chirurgico è stata posta per arteriopatia ostruttiva la preparazione e l’isolamento dell’aorta addominale possono essere limitati al tratto necessario per il clampaggio e per il confezionamento dell’anastomosi prossimale. Nella maggior parte dei casi quest’ultima sarà un’anastomosi latero-terminale tra aorta e protesi (Fig. 5). Figura 5: Anastomosi latero-terminale tra aorta e protesi. Da notare la limitata preparazione dell’aorta. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 65 In questo caso si può anche eseguire un clampaggio tangenziale dell’aorta che consente il confezionamento dell’anastomosi mantenendo un certo grado di perfusione distale perché non ostruisce completamente il lume aortico. Dopo l’isolamento, preferibilmente per via mediana transperitoneale, ed il clampaggio dell’aorta addominale viene effettuata un’aortotomia longitudinale a monte dell’origine dell’arteria mesenterica inferiore. Si seziona obliquamente il corpo di una protesi biforcata di diametro congruo alle dimensioni dell’aorta e dei vasi femorali. Si confeziona, quindi, l’anastomosi. L’anastomosi prossimale latero-terminale ha il vantaggio di conservare il flusso arterioso nei vasi nativi ancora pervi ed in particolare nelle arterie ipogastriche. L’anastomosi prossimale termino-terminale viene preferita in caso di occlusione dell’aorta distale e delle arterie ipogastriche, per una maggiore validità emodinamica, un minor rischio tardivo di aneurisma anastomotico e di fistola aorto-enterica, senza però sostanziali differenze di pervietà a distanza (Fig. 6). Completata la sutura, si chiude manualmente la protesi a valle dell’anastomosi, si declampa l’aorta per verificare la tenuta dell’anastomosi e si eliminano eventuali residui ateromasici o di materiale trombotico. Si sposta quindi l’angiostato sul corpo protesico. Il momento successivo è la tunnellizzazione delle branche proteiche nel retroperitoneo, fino agli inguini (Fig. 7). Dopo aver portato a termine questa manovra, si procede alle anastomosi termino-laterali con le arterie femorali comuni. Nel caso in cui la sede ritenuta idonea per l’anastomosi sia, come più spesso accade, la femorale comune poco al di sopra della sua biforcazione, dopo aver clampato i vasi femorali (arteria femorale comune, superficiale e profonda) si esegue un’arteriotomia longitudinale della lunghezza di circa 2 cm sulla faccia superiore del vaso. Nel caso in cui solo l’arteria femorale profonda sia pervia mentre l’arteria femorale superficiale è ostruita all’origine, l’arteriotomia longitudinale, iniziata sempre sulla femorale comune, verrà orientata verso l’origine della femorale profonda. Declampando in successione i vasi femorali si controlla la qualità del flusso ematico proveniente da monte (arteria femorale comune) e da valle (arteria femorale superficiale e profonda). Prima del clampaggio definitivo è bene infondere nei vasi distali una soluzione eparinata che contribuisce al mantenimento della pervietà e contrasta la formazione di coaguli, soprattutto in arterie sede di lesioni ateromasiche anche critiche. Si controlla poi il lume vasale sede di anastomosi e, se opportuno, si esegue un’endoarterectomia. Anche a livello femorale l’anastomosi deve essere eseguita dopo aver tagliato la branca 66 Capitolo 5 Figura 6: Anastomosi termino-terminale tra aorta addominale e protesi. Figura 7: Schema ed immagini intraoperatorie della tunnellizzazione delle branche protesiche nello spazio retroperitoneale. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 67 protesica di lunghezza adeguata ed aver modellato a “becco di flauto” la sua estremità (Fig.8). Prima di completare l’anastomosi si esegue un breve declampaggio della protesi per far fuoriuscire eventuali coaguli formatisi al suo interno. Dopo aver controllato la tenuta dell’anastomosi e la pulsatilità dei vasi a valle di questa, si procede nello stesso modo per la branca protesica e l’anastomosi controlaterale. Una volta completata la seconda anastomosi femorale e ripristinato il flusso arterioso si controlla, a livello addominale, che non vi siano stillicidi ematici importanti od altre raccolte (linfa, urina, etc…). Si sutura il retroperitoneo in modo che non vi siano contatti tra il contenuto endoperitoneale e la protesi; si riposizionano le anse intestinali nella cavità addominale e si procede alla chiusura a strati della laparotomia. Successivamente si controlla l’emostasi a livello inguinale, si applica un drenaggio, di solito in aspirazione, per evacuare eventuali raccolte siero-ematiche e si sutura la ferita chirurgica a strati. In caso di ostruzione unilaterale estesa dell’asse iliaco, può trovare indicazione il by-pass aorto-femorale monolaterale. Esso può essere eseguito mediante accesso extraperitoneale, ma viene preferito l’accesso trans-peritoneale per controllare più adeguatamente la pervietà dell’iliaca controlaterale e, in caso di necessità, poter praticare più agevolmente una rivascolarizzazione aorto-bifemorale. Figura 8: Anastomosi termino-laterale tra protesi e vasi femorali all’inguine. 68 Capitolo 5 By-pass iliaco-femorale Tale procedura rappresenta tuttora una valida opzione in caso di ostruzione monolaterale estesa dell’asse iliaco-femorale, qualora vi siano condizioni anatomiche che ne consentano l’esecuzione. La via d’accesso preferita è quella extraperitoneale. Dopo la preparazione dei vasi femorali e dopo averne verificato l’idoneità, si pratica un’incisione cutanea che inizia a livello del bordo costale, sulla linea ascellare anteriore, discende verticalmente e passa 3 cm all’interno della spina iliaca anteriorsuperiore per poi curvare lungo un piano parallelo all’arcata crurale, 2 cm al di sopra di questa. Al di sotto del piano muscolare si reperta il sacco peritoneale che viene scollato per via smussa spingendolo all’interno ed in alto. Si deve identificare l’uretere che viene caricato, assieme al sacco peritoneale, su una valva. Si scopre l’asse vascolare la cui preparazione prevede un’accurata dissezione dei gangli linfatici che lo contornano. Dopo eparinizzazione sistemica e clampaggio dei vasi iliaci (arterie iliaca comune, ipogastrica ed esterna distale) si pratica un’arteriotomia longitudinale della lunghezza di circa 2 cm sulla faccia anteriore del tratto di iliaca comune scelto per l’anastomosi prossimale; declampando alternativamente l’arteria iliaca comune, l’ipogastrica e l’iliaca esterna, si controlla la qualità del flusso proveniente da monte e quella del flusso refluo, sia dal territorio ipogastrico che dall’arto inferiore. Si modella, quindi, a becco di flauto l’estremità prossimale di una protesi di calibro adeguato ai vasi e si confeziona un’anastomosi latero-terminale. Successivamente si tunnellizza la protesi e si confeziona l’anastomosi distale a livello dei vasi femorali. Le manovre di spurgo del sangue dalla protesi e per il controllo della pervietà dei vasi ripercorrono le tappe descritte per il by-pass aorto-bifemorale. L’estensione del processo ateromasico può richiedere in alcuni casi, prima di effettuare le anastomosi, una TEA prossimale e/o distale. Dopo aver controllato accuratamente l’emostasi e l’integrità del sacco peritoneale entrambe le incisioni chirurgiche vengono ricostruite a strati. By-pass extra-anatomici I by-pass extra-anatomici decorrono in sede diversa da quella dei vasi nativi e trovano indicazione in pazienti con situazioni locali sfavorevoli o ad alto rischio chirurgico generale, tali da non consentire un’accesso laparotomico. I by-pass extra-anatomici più utilizzati per rivascolarizzare gli arti inferiori sono quelli che sfruttano come vaso donatore l’arteria femorale controlaterale all’arto da rivascolarizzare (by-pass femoro-femorale cross-over) o l’arteria ascellare (by-pass axillo-femorale) omo- o controlaterale. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 69 By-pass femoro-femorale cross-over Si preparano i vasi femorali dell’arto da rivascolarizzare. Dopo aver verificato la loro idoneità, si preparano i vasi femorali controlaterali come descritto in precedenza. Si clampano i vasi femorali dell’arto donatore (previa eparinizzazione sistemica del paziente) e si esegue un’arteriotomia longitudinale della lunghezza di circa 2 cm sull’arteria femorale comune, poco a monte della biforcazione. Attraverso il declampaggio sequenziale della femorale comune, della femorale superficiale e della profonda, si verifica la qualità del flusso proveniente da monte e del flusso refluo. Si modella a becco di flauto un’estremità della protesi sintetica, preferibilmente con supporto esterno, di calibro adeguato alle dimensioni dei vasi femorali. Si confeziona un’anastomosi latero-terminale tra arteria femorale e protesi. Al termine dell’anastomosi, si clampa manualmente la protesi e si verifica la tenuta dell’anastomosi declampando l’arteria femorale comune. Se l’emostasi è accettabile si sposta l’angiostato sulla protesi e si ristabilisce il flusso nell’arto donatore. Si tunnellizza successivamente la protesi, generalmente per via sovrapubica, mediante un tunnellizzatore introdotto dall’inguine dell’arto ricevente e fatto progredire nel tessuto adiposo sovrapubico fino all’inguine controlaterale. Retraendo il tunnellizzatore si porta la protesi fino all’inguine dell’arto ricevente, facendo attenzione ad evitare torsioni della protesi stessa sull’asse longitudinale. A questo punto si clampano i vasi femorali dell’arto ricevente e si esegue l’anastomosi tra protesi ed arteria femorale. Prima di completare l’anastomosi si controlla il flusso refluo declampando sequenzialmente l’arteria femorale comune, la superficiale e la profonda; si controlla anche il flusso proveniente dalla protesi rilasciando momentaneamente l’angiostato posizionato a livello dell’inguine controlaterale. Successivamente si irriga abbondantemente la protesi con soluzione fisiologica eparinata per asportare completamente il sangue al suo interno. Al termine dell’anastomosi si declampano i vasi femorali e la protesi crossover (Fig. 9). Si controlla la buona pulsatilità sia dei vasi dell’arto donatore che dei vasi di quello ricevente e, conseguentemente, la buona pervietà del by-pass. Dopo aver controllato accuratamente l’emostasi sia a livello inguinale che nel tunnel sovrapubico, si applicano i drenaggi in aspirazione a livello inguinale e si chiudono a strati le incisioni chirurgiche. In presenza di una stenosi dell’asse iliaco-femorale donatore, un’angioplastica percutanea eseguita prima del confezionamento del by-pass, eventualmente associata all’impianto di uno stent, consente di avere a disposizione un 70 Capitolo 5 buon flusso da monte che assicura una pervietà a distanza del by-pass femoro-femorale cross-over non differente dai casi con arteria iliaca donatrice indenne da lesioni. By-pass axillo femorale La fattibilità di un by-pass axillo-femorale necessita dell’integrità dell’arteria ascellare donatrice, di solito omolaterale. Si procede prima all’esplorazione dei vasi femorali dell’arto da rivascolarizzare e, se appaiono idonei, si procede alla preparazione dell’arteria ascellare donatrice. La via d’accesso all’arteria ascellare generalmente utilizzata è quella sottoclaveare. L’incisione cutanea viene effettuata parallelamente al margine inferiore della clavicola. Nella preparazione dell’arteria ascellare bisogna fare particolare attenzione ai rami del plesso brachiale per evitare lesioni nervose anche temporanee. Dopo aver eparinizzato il paziente, si clampa l’arteria ascellare a monte ed a valle della sede prescelta per l’anastomosi e si pratica un’arteriotomia longitudinale di circa 1,5 cm. Dopo aver controllato sia il flusso da monte che il flusso refluo dell’arteria ascellare, si modella l’estremità della protesi, preferibilmente con supporto esterno, trasversalmente o a becco di flauto corto; si confeziona, quindi un’anastomosi latero-terminale. Completata l’anastomosi si rimuovono gli angiostati, si controlla la tenuta dell’anastomosi stessa e si clampa la protesi subito al di sotto dell’anastomosi. Figura 9: By-pass femoro-femorale cross-over in protesi sintetica con rinforzo esterno. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 71 Si tunnellizza la protesi per via sottocutanea, lungo la parete laterale del torace e dell’addome, fino all’inguine (Fig. 10). Per agevolare tale manovra conviene praticare delle controincisioni lungo il decorso che dovrà seguire la protesi ed utilizzare un tunnellizatore per confezionare un tunnel libero da eventuali briglie o strutture muscolo-tendinee che potrebbero comprimere o angolare la protesi. Dopo aver tagliato la protesi ad una lunghezza idonea a che i movimenti dell’arto superiore non mettano a rischio di lacerazione l’anastomosi, si completa l’intervento confezionando l’anastomosi distale, termino-laterale o termino-terminale. Al termine dell’anastomosi distale si declampano i vasi femorali ed il by-pass, si controlla la buona tenuta delle anastomosi, si controlla l’emostasi e si chiudono le incisioni chiururgiche sottoclaveare ed inguinale a strati, dopo applicazione di drenaggi in aspirazione. Le incisioni cutanee praticate lungo le pareti toracica ed addominale vanno chiuse in modo da non sottoporre la protesi a compressioni lungo il suo decorso. Si eseguono raramente anche by-pass axillo-femorale controlaterale, axillobifemorale e axillo-popliteo. Data la scarsa pervietà a lungo termine di tali rivascolarizzazioni, essi trovano indicazione di necessità in pazienti ad alto Figura 10: Decorso della protesi sintetica in un by-pass axillo-femorale. 72 Capitolo 5 rischio, con ridotta spettanza di vita, per il salvataggio di arti altrimenti destinati all’amputazione e nei reinterventi, specie per infezione protesica. Chirurgia mini-invasiva e laparoscopica Pur essendo ormai le procedure chirurgiche tradizionali del distretto aortoiliaco standardizzate e notevolmente sicure, le lunghe incisioni mediane o laterali dell’addome comportano una notevole perdita di liquidi, un prolungato ileo paralitico, un significativo dolore post-operatorio ed una incidenza di laparocele in oltre il 10% delle laparotomie mediane. Per ridurre tali problemi, sono stati realizzati approcci mini-invasivi, con incisioni più brevi (~10 cm), praticabili anche in anestesia peridurale e con indicazioni legate alla morfologia ed all’estensione delle lesioni. La mini-laparotomia mediana transperitoneale viene effettuata mediante incisione in regione epigastrica, al di sopra dell’ombelico; essa può essere estesa, quando necessario, e consente un accesso alle arterie iliache più agevole rispetto all’esposizione retroperitoneale. Incisioni più lunghe (10-15 cm) possono essere usate in pazienti obesi, senza perderne i vantaggi, compresa la prevenzione dell’ileo paralitico. È possibile anche un accesso trasversale paramediano sopra-ombelicale. L’intestino rimane in cavità peritoneale e viene spostato verso destra mediante apposito divaricatore autostatico a 3 branche; in questo modo si ottiene l’accesso all’aorta addominale sottorenale; dopo l’applicazione di un endoclamp, si confeziona l’anastomosi prossimale secondo la tecnica tradizionale e, dopo tunnellizzazione, le branche protesiche vengono anastomizzate alle arterie femorali, preparate secondo le tecniche convenzionali. Nella via retroperitoneale si esegue un’incisione obliqua di circa 6-10 cm, dalla X o XI costa verso il basso e medialmente in direzione dell’ombelico, riducendo il danno del nervo intercostale e l’atrofia dei muscoli addominali. Sono fattibili tutti gli interventi chirurgici indicati nella patologia ostruttiva aorto-iliaca, dalla tromboendoarterectomia al by-pass aorto-iliaco, incluso il by-pass aorto-bifemorale. Con tale incisione di ridotta lunghezza, l’anastomosi prossimale del by-pass aorto-bifemorale viene effettuata sul versante sinistro dell’aorta addominale, tunnellizzando la branca destra mediante dissezione digitale, spostando l’uretere in alto ed evitando di lederlo durante il passaggio della protesi. In caso di difficoltà nella tunnellizzazione di tale branca, può esser praticato un by-pass aorto-femorale sinistro e poi un bypass femoro-femorale cross-over sinistro-destro per rivascolarizzare l’arto inferiore destro. Tale incisione può essere estesa verso il torace per l’accesso all’aorta soprarenale o in caso di emorragia intra-operatoria. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 73 I risultati si comparano favorevolmente, per morbilità, mortalità e durata dell’ospedalizzazione, con quelli riportati in letteratura per la chirurgia convenzionale. L’applicazione delle tecniche laparoscopiche è andata estendendosi anche alle procedure vascolari, dopo una lunga evoluzione e la realizzazione di un adeguato strumentario. Sono state elaborate dapprima tecniche di chirurgia aortica laparoscopica assistita; anche in questa procedura. Si preparano i vasi femorali e se ne controlla l’idoneità per il confezionamento di un by-pass. La posizione degli strumenti endoscopici e delle porte di accesso è standardizzata. Dopo aver indotto il pneumoperitoneo mediante insufflazione di anidride carbonica a pressione di 8-15 mm Hg, si introduce un laparoscopio, angolato di 30°, sotto l’ombelico. Dopo aver esplorato la cavità addominale, si introducono i restanti trocar sotto controllo video. Il paziente viene quindi posto in posizione di Trendelemburg moderata ed in decubito laterale destro; questo determina lo spostamento dell’intestino verso destra; si applica poi un retrattore intestinale per laparoscopia e si introduce una rete metallica per il contenimento dell’intestino che viene retratto verso destra. Questa rete viene fissata alla parete addominale esterna con punti staccati. A questo punto si procede alla dissezione del peritoneo posteriore, all’isolamento dell’aorta (dalla vena renale sinistra fino a valle dell’ostio dell’arteria mesenterica inferiore) ed all’applicazione di un endoclamp speciale laparoscopica in sede distale. Attraverso un’incisione in regione epigastrica si introduce un endoclamp prossimale che più spesso viene posizionata al di sotto delle arterie renali, ma talvolta anche al di sopra di queste. Dopo asportazione dei trocar, viene praticata una mini-laparotomia mediana a livello dell’ombelico, della lunghezza di 5-8 cm o più, nei pazienti obesi od in caso di clampaggio aortico soprarenale. Lasciando in sede il retrattore intestinale, viene applicato poi un divaricatore addominale autostatico e, dopo posizionamento di altro endoclamp laparoscopico in prossimità dell’origine dell’arteria mesenterica inferiore, si procede all’anastomosi prossimale, termino-laterale della protesi, sotto visione diretta, secondo la tecnica convenzionale. Dopo aver declampato l’aorta e controllato l’emostasi si procede al posizionamento retroperitoneale delle branche proteiche. La loro tunnellizzazione fino all’inguine avviene come nella chirurgia tradizionale. Anche le anastomosi distali a livello femorale ricalcano quanto descritto nella tecnica chirurgica tradizionale di confezionamento di un by-pass aorto-bifemorale. Al termine dell’intervento si chiude il retroperitoneo con sutura continua, la minilaparotomia e le ferite inguinali a strati. Si tratta di una tecnica ancora molto indaginosa, con tempi operatori più lunghi, proposta recentemente per le lesioni TASC C o D, nella quale l’iso- 74 Capitolo 5 lamento dell’aorta viene fatto per via laparoscopica ed il confezionamento del by-pass con tecnica “open”. La chirurgia aortica totalmente laparoscopica viene eseguita secondo gli stessi principi di quella laparoscopica assistita, senza minilaparotomia associata. Un’ulteriore evoluzione della chirurgia aortica laparoscopica è costituita dall’ausilio della robotica con la quale il chirurgo, posto di fronte ad un sistema di visualizzazione, aziona i bracci del sistema introdotti attraverso dei trocar in cavità addominale e forniti degli strumenti necessari per l’esecuzione dell’intervento, con la possibilità di effettuare tutte le manovre e la sutura sotto visione tridimensionale come nella chirurgia convenzionale. Terapia chirurgica endovascolare Le procedure endovascolari si sono progressivamente affermate come metodiche poco invasive ed efficaci nel trattamento delle lesioni stenoostruttive aorto-iliache, modificandone profondamente, negli ultimi 10 anni, le indicazioni e la prognosi. In aggiunta alle altre tecniche di imaging (ecocolorDoppler, TC spirale o angio-RM), l’aortografia conserva ancora oggi un ruolo significativo nella valutazione morfologica delle lesioni e nell’indicazione al trattamento endovascolare. Quest’ultimo viene effettuato subito dopo l’indagine angiografica diagnostica, una volta stabilita la sua praticabilità. Le indicazioni della chirurgia endovascolare nell’arteriopatia ostruttiva aortica dipendono essenzialmente dalla localizzazione, dall’estensione e dalla morfologia della lesione. Importante è anche l’esordio della sintomatologia (acuta o cronica). Le indicazioni alla sola angioplastica transluminale percutanea (PTA) sono le stenosi segmentarie concentriche e le stenosi brevi della biforcazione aortica. La PTA può essere seguita dall’applicazione di uno stent quando la dilatazione arteriosa ottenuta non è soddisfacente o in seguito a dissecazioni postprocedurali. Le stenosi focali della biforcazione aortica possono essere trattate con la PTA adottando la tecnica del kissing balloon per dilatare sia il segmento aortico distale che gli orifici iliaci. Sempre più spesso, dopo la PTA della biforcazione aortica e dell’origine delle iliache, si posizionano stent a questi livelli; ciò garantisce il mantenimento nel tempo del risultato ottenuto con la PTA. Le controindicazioni alla PTA a livello aorto-iliaco sono costituite dalla presenza di calcificazioni circonferenziali (causa, talvolta, di rottura arteriosa) e di lesioni diffuse sia dell’aorta che delle arterie iliache. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 75 La terapia endovascolare a livello iliaco, soprattutto la PTA, si è dimostrata efficace nel trattamento delle lesioni stenotiche; le indicazioni al posizionamento di uno stent dovrebbero essere limitate a lesioni che non possono essere trattate primariamente con la sola PTA od a quei casi nei quali la PTA non abbia dato risultati soddisfacenti. Lesioni quali stenosi lunghe con superficie irregolare, placche ulcerate, stenosi eccentriche e lesioni ostiali estese alla biforcazione aortica non rispondono bene alla sola PTA; in questi casi trova specifica indicazione l’applicazione di uno stent. In caso di ostruzione cronica dell’asse iliaco, gli attuali stent metallici, e le endoprotesi auto-espansibili in particolare, offrono una nuova possibilità di rivascolarizzazione. Via d’accesso La via femorale omolaterale retrograda è la più seguita (oltre l’80% delle procedure aorto-iliache). L’arteria femorale comune è la sede più idonea per la puntura; il posizionamento di un introduttore da 7 od 8 F permette di eseguire procedure di diverso tipo, compreso l’impianto di alcuni tipi di stent. Una guida idrofila da 0,035 Inch viene fatta passare nell’aorta; in caso di mancata progressione, un catetere angiografico montato sulla guida potrà agevolare il superamento della lesione. Nelle lesioni steno-ostruttive estese, in particolar modo se interessano l’arteria ipogastrica o l’arteria iliaca esterna, si sceglierà la via femorale controlaterale, introducendo un catetere curvo od angolato che, sotto controllo fluoroscopico, verrà fatto progredire fino all’ostio dell’arteria iliaca comune omolaterale per poi oltrepassare “a cavaliere” la biforcazione aortica ed impegnarsi nell’asse iliaco controlaterale. Un accesso femorale bilaterale è indicato nelle lesioni aorto-iliache o in caso di stenosi della biforcazione dell’arteria iliaca comune estesa all’esterna ed all’ipogastrica, condizioni che richiedono il trattamento mediante la tecnica dei kissing balloon. In alternativa, specie in caso di ostruzione iliaca bilaterale o di concomitanti lesioni del tronco celiaco, della mesenterica superiore o delle arterie renali, si può utilizzare la via omerale. Questa è da preferire alla via ascellare per il rischio di complicanze neurologiche a carico del plesso brachiale; va però ricordato che la via omerale comporta alcuni limiti costituiti dal calibro dell’arteria e dalla lunghezza di guide e cateteri che comporta maggiori difficoltà di manovra. È preferibile l’accesso omerale sinistro per un più agevole cateterismo dell’aorta discendente e per evitare il rischio potenziale di embolizzazione cerebrale. In caso di procedure che richiedano introduttori di grosso calibro si potrà ricorrere alla preparazione chirurgica dell’arteria omerale. 76 Capitolo 5 Angioplastica transluminale percutanea (PTA) Tale procedura è volta a ripristinare il calibro dell’arteria lesa, ristabilendo un flusso ematico normale. Dopo l’individuazione della lesione, mediante iniezione di mezzo di contrasto attraverso l’introduttore od il catetere angiografico, il livello della lesione viene delimitato mediante una riga millimetrata radio-opaca o si memorizza l’immagine mediante road-mapping. Dopo il corretto posizionamento del catetere da angioplastica, facendo corrispondere i marker radio-opachi con la lesione, viene gonfiato il palloncino con un liquido composto in parte da soluzione fisiologica ed in parte da mezzo di contrasto, in modo da renderlo visibile e poterne controllare la corretta espansione. Solitamente, a livello delle arterie iliache comuni sono indicati palloncini da 7-10 mm, a livello delle arterie iliache esterne da 5-7 mm, mentre a livello dell’aorta occorre una valutazione preprocedurale più precisa, anche mediante TC spirale. È preferibile che le stenosi calcifiche vengano dilatate inizialmente ad una pressione inferiore a quella nominale del catetere, aumentando poi progressivamente la pressione di insufflazione in caso di stenosi residua. Il ritorno elastico (elastic recoil) e la dissecazione sotto-intimale sono fattori che limitano il successo della procedura, determinando stenosi residue, irregolarità parietali o flap che possono esitare nell’occlusione arteriosa. A distanza, la sovradilatazione può determinare dilatazione aneurismatica o restenosi, mediante un meccanismo di rimodellamento o d’iperplasia miointimale particolarmente intenso. Nei pazienti affetti da claudicatio intermittens e sottoposti a PTA iliaca, la pervietà primaria a 5 anni è superiore all’80% in caso di stenosi breve, mentre è del 60% nelle occlusioni; risultati meno favorevoli si hanno in caso d’ischemia critica. Le lesioni ostiali bilaterali delle iliache comuni, così come della biforcazione iliaca o dell’origine dell’iliaca esterna, rendono necessario il ricorso alla tecnica del kissing balloon (con accesso femorale bilaterale retrogrado) per realizzare l’angioplastica contemporanea delle due arterie ed evitare una stenosi residua o l’occlusione del vaso non trattato, per rottura e dislocazione della placca ateromasica durante l’insufflazione del palloncino (Fig. 11). Stenting L’impianto di uno stent segue solitamente un’angioplastica percutanea dal risultato non ideale (PTA con stenting secondario), ma può esser effettuato direttamente (stenting primario), senza angioplastica preliminare, in caso di Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 77 occlusione arteriosa, di ulcera parietale sintomatica e di lesioni multisegmentarie, specie se calcifiche. Nelle lesioni calcifiche verrà data la preferenza a stent metallici premontati gonfiabili con palloncino, per l’alta forza radiale e per la possibilità di un posizionamento più preciso dovuto anche alla scarsa tendenza all’accorciamento. Questi stent sono utilizzabili particolarmente nelle lesioni ostiali. L’espansione dello stent deve avvenire in modo uniforme, con la medesima pressione su tutta la superficie del palloncino, mediante insufflazione progressiva a partire da livelli bassi di pressione (6-8 atm) (Fig. 12). Pur rimanendo lo stent di Palmaz largamente utilizzato nelle lesioni iliache, modificazioni successive hanno aumentato la flessibilità degli stent metallici, rendendoli impiantabili anche per via controlaterale e lasciandone immodificata la forza radiale. Gli stent autoespandibili sono dotati di notevole flessibilità, che facilita il posizionamento per via controlaterale od in vasi iliaci molto tortuosi ma, a causa di una forza radiale più bassa, il loro uso è poco indicato nelle lesioni calcifiche. Gli stent di prima generazione, dopo il rilascio, presentavano un notevole accorciamento (fino ad un terzo della lunghezza iniziale) per cui il loro impianto non era raccomandabile per lesioni ostiali o in prossimità di vasi laterali. Per l’evoluzione dei materiali, gli stent più recenti non presentano più tali limitazioni. In condizioni d’incompleto dispiegamento dello stent, è necessaria un’angioplastica complementare per ottenere un calibro omogeneo in tutta Figura 11: Tecnica del kissing balloon: dilatazione contemporanea del palloncino a livello delle arterie iliache. A: angiografia pre-trattamento; B: PTA delle arterie iliache; C: quadro angiografico post-trattamento. 78 Capitolo 5 la sua lunghezza, anche se trattasi di stent autoespandibile che può raggiungere l’apertura completa dopo diverse ore. In caso di lesione di lunghezza tale da rendere necessario l’impianto di più stent, bisogna posizionare dap- B A C D E Figura 12: Applicazione di stent in un paziente con lesione iliaca destra. A: stenosi dell’arteria iliaca; B: PTA della lesione; C: dissecazione post-PTA; D: applicazione di stent a livello della dissecazione; E: risultato finale. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 79 prima lo stent più distale per evitare che il passaggio ripetuto dei cateteri possa provocarne lo spostamento. A 5 e 10 anni, la pervietà primaria dello stenting primario iliaco è del 66% e 46%, rispettivamente, e la pervietà secondaria del 79% e 55%, mentre il 16% dei pazienti ha necessità di un trattamento chirurgico tradizionale. I risultati sono nettamente meno validi nelle lesioni estese alle arterie iliache esterne, con una pervietà primaria ad 1 anno del 30% e secondaria del 53%. Per le lesioni iliache TASC-B e TASC-C, la pervietà primaria ad 1, 3 e 5 anni è risultata essere dell’85%, del 72% e del 64% dopo stenting iliaco versus l’89%, l’86% e l’86%, rispettivamente, dopo rivascolarizzazione chirurgica. Le indicazioni codificate dalla TASC hanno negli anni, con l’evoluzione dei materiali e delle tecniche, subito delle modificazioni, essendo oggi possibile trattare per via endovascolare lesioni di tipo occlusivo, considerate prima di pertinenza chirurgica. Anche nell’applicazione di stent in caso di lesioni bilaterali dell’arteria iliaca comune si adotta la tecnica del kissing stent (Fig. 13) che ricalca le modalità di quella dei kissing balloon. In questo caso gli stent saranno debordanti (2 mm) in aorta, dato che la placca ateromasica iliaca ha origine dall’aorta ed un posizionamento limitato all’ostio delle arterie iliache lascerebbe una Figura 13: Tecnica del kissing stent iliaco. 80 Capitolo 5 stenosi residua. Dopo predilatazione delle stenosi iliache di alto grado, mediante gonfiaggio simultaneo di palloni posti bilateralmente, vengono posizionati contemporaneamente gli stent, dando la preferenza a quelli metallici nelle lesioni ostiali di arterie iliache comuni molto calcifiche. I risultati a breve termine sono sovrapponibili a quelli della chirurgia tradizionale, con minor morbilità e mortalità; la pervietà primaria varia dal 65% a 2 anni al 90% a 3 anni, in rapporto al tipo di lesione ed alla lunghezza. Anche le stenosi localizzate dell’aorta addominale sottorenale possono essere trattate mediante procedure endovascolari. Impianto di endoprotesi In pazienti ad alto rischio per una rivascolarizzazione chirurgica tradizionale aorto-femorale, l’impianto di un’endoprotesi aorto-iliaca in caso di estesa lesione steno-ostruttiva (TASC C e D), realizza concettualmente un intervento di by-pass endoluminale con i vantaggi della minor invasività. Le prime esperienze, effettuate con endoprotesi “home-made”, riportano una pervietà primaria del 66% ed un salvataggio d’arto dell’89% a 4 anni. L’evoluzione successiva dei dispositivi ha consentito di praticare tale procedura per via percutanea (Figg. 14 e 15). Nonostante tale possibilità, un approccio chirurgico della via d’accesso tradizionale ha numerosi vantaggi; è infatti possibile il trattamento simultaneo di lesioni estese alla femorale comune e profonda od una rivascolarizzazione chirurgica infra-inguinale. Figura 14: Impianto di endoprotesi in un paziente con lesione iliaca. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 81 Inoltre, nei pazienti nei quali la lesione dell’arteria iliaca esterna si estende fin sotto il legamento inguinale, l’arteriotomia può esser praticata sull’arteria femorale superficiale, consentendo di posizionare l’endoprotesi attraverso un accesso omolaterale. Nel caso di ostruzione dell’iliaca esterna si può utilizzare un accesso femorale controlaterale. Recentemente è stata riportata una pervietà maggiore dell’endoprotesi rispetto all’impianto di stent (pervietà primaria ad 1 anno: 100% vs 92,5%). Una pervietà primaria a 2 anni dell’83% può essere attribuita al miglioramento del circolo di accoglimento per effetto del trattamento delle lesioni femorali concomitanti. Le controindicazioni a tale tipo di trattamento sono costituite dall’occlusione aortica iuxtarenale, dalla presenza di un’arteria iliaca esterna di piccolo calibro, non dilatabile oltre 6 mm, e da occlusioni estese che non possono essere superate da una guida sia per via femorale omolaterale che controlaterale. A B C D Figura 15: Impianto per via percutanea di endoprotesi in una lesione dell’asse iliaco sinistro (A). Dopo un’iniziale PTA (B) si è verificata una dissecazione del vaso (C) corretta con l’applicazione di un’endoprotesi (D). 82 Capitolo 5 Confronto fra trattamento endovascolare e trattamento chirurgico La terapia endovascolare è considerata la forma meno invasiva di terapia chirurgica, associata ad un buon successo tecnico e ad una discreta pervietà globale. Per l’angioplastica transluminale percutanea (PTA) delle lesioni iliache sono state riportate una frequenza media di complicanze del 3,6%, una percentuale di successo iniziale del 95% e percentuali di pervietà a 5 anni del 61%. I risultati del posizionamento di stent per stenosi iliache risultano lievemente migliori, con un 99% di successo tecnico immediato e un 72% di pervietà a 5 anni. La media ponderata del tasso di complicanze è del 6,3%. La chirurgia offre un tasso di pevietà a 5 anni del 91% per il by-pass aortobifemorale. La mortalità media ponderata è del 3,3%. Il rischio combinato di mortalità e amputazione si aggira intorno al 2,2% per le ricostruzioni aortobifemorali. Controllo post-operatorio e follow-up Complicanze immediate della chirurgia tradizionale Il trattamento chirurgico delle steno-ostruzioni aorto-iliache consente buoni risultati a lungo termine, con mortalità perioperatoria bassa (< 3%) e morbilità del 5-8%. Le complicanze immediate della chirurgia tradizionale possono essere strettamente correlate all’intervento o possono riguardare organi ed apparati messi sotto stress dall’atto operatorio (polmoni, reni, fegato, pancreas). Le complicanze correlate all’intervento comprendono: Ischemia acuta degli arti Tale complicanza, con incidenza limitata (1-3%), può manifestarsi immediatamente dopo l’intervento chirurgico o nelle ore successive e può essere causata da un’embolia, dall’ostruzione della protesi o da una trombosi acuta dei vasi distali per effetto della caduta di flusso durante il clampaggio. L’embolia, oltre che di origine cardiaca o derivante da placche situate a monte dell’anastomosi prossimale, è dovuta più frequentemente alla migrazione di detriti ateromasici o materiale trombotico formatosi nella protesi durante il clampaggio e non adeguatamente allontanati prima del completamento dell’intervento. L’ostruzione acuta della protesi, oltre che da un difetto tecnico dell’anastomosi prossimale e/o distale, può esser causata da torsione, angolazione o Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 83 compressione esterna della protesi, o ancora da una scelta non corretta del tipo di procedura chirurgica. L’evenienza più frequente è quella di un’anastomosi distale confezionata su un vaso di accoglimento che si dimostra non idoneo a mantenere un flusso nella protesi, più spesso per la presenza di lesioni nel suo tratto distale che assumono un valore emodinamico di fronte ad un flusso ematico aumentato. Se il fattore causale è un difetto tecnico a livello dell’anastomosi distale od un flap intimale, il trattamento più comunemente eseguito consiste nel disfacimento dell’anastomosi distale, nell’asportazione o fissazione del lembo parietale (mediante punti di Kunlin) e nella disostruzione della protesi e dei vasi distali mediante catetere di Fogarty. In caso di torsione o angolazione, si deve correggere il difetto disfacendo l’anastomosi distale, riposizionando la protesi ed eseguendo una nuova anastomosi. Un’alternativa può essere quella di sezionare la branca protesica, correggere il difetto ed anastomizzare le due estremità protesiche. Qualunque sia la modalità adottata, va comunque ripristinata la pervietà protesica e quella dei vasi a valle. Più raramente un difetto dell’anastomosi aortica da segno di sé nel post-operatorio. Dato che tra il declampaggio aortico ed il declampaggio definitivo successivo al confezionamento della anastomosi distale vi è un certo lasso di tempo, un difetto grossolano a carico dell’anastomosi aortica si evidenzia, in genere, durante l’intervento. Qualora si verifichi un’ostruzione protesica più tardiva estesa fino all’anastomosi prossimale, vanno attentamente valutate le possibilità del paziente di superare una nuova laparotomia. Se non è possibile rioperare il paziente per via anatomica e se le condizioni cliniche degli arti sono critiche è indicato il confezionamento di un by-pass extraanatomico per rivascolarizzare l’arto o gli arti ischemici. L’ischemia dell’arto può essere anche dovuta ad ostruzione dell’arteria femorale superficiale, in precedenza pervia, con un circolo collaterale che non riesce a garantire una perfusione sufficiente. In questo caso, se un tentativo di disostruzione del vaso con cateteri di Fogarty non va a buon esito, è necessario confezionare un by-pass femoro-popliteo sequenziale utilizzando il materiale protesico più idoneo (più spesso la vena safena). Le trombosi acute dei vasi distali sede di stenosi critiche verificatesi intraoperatoriamente potranno essere immediatamente trattate anche con terapia trombolitica intra-arteriosa, eventualmente seguita dal trattamento endovascolare della lesione sottostante, dopo attenta valutazione e controllo del rischio d’emorragia. Emorragia Le emorragie post-operatorie immediate, anch’esse infrequenti (1-2%), possono essere favorite da turbe della coagulazione preesistenti, da eccessiva 84 Capitolo 5 somministrazione intraoperatoria di eparina o da coagulopatia da consumo secondaria a cospicue perdite ematiche. La somministrazione di plasma fresco congelato e di concentrati piastrinici sarà utile a correggere le turbe della coagulazione. La fonte emorragica può essere costituita da lesioni arteriose o venose intraoperatorie così come, raramente, da lacerazioni del fegato o della milza per effetto della trazione dei divaricatori. Queste fonti possono passare inosservate durante l’intervento a causa di uno stato ipotensivo e, dopo ripristino della volemia, daranno luogo ad emorragie anche imponenti. L’emorragia, però, più frequentemente proviene da una sutura non perfettamente a tenuta, da una lacerazione della parete arteriosa troppo sottile per trazione da parte del materiale protesico in tensione eccessiva (materiale biologico o PTFE, principalmente). Ischemia intestinale È una complicanza che interessa prevalentemente la regione colo-rettale (13%) e raramente il tenue; nella forma infartuale, costituisce la principale causa di morte dopo rivascolarizzazione aorto-iliaca. Più frequenti, asintomatiche o paucisintomatiche, sono le lesioni da ischemia relativa (coliti ischemiche) a prognosi meno grave. Le principali cause si possono ricondurre all’esclusione emodinamica da legatura o da trombosi acuta di vie collaterali (favorita da ipotensione intraoperatoria o compressione-trazione da parte dei divaricatori), all’embolizzazione di materiale ateromasico durante l’isolamento o le manovre di clampaggio-declampaggio aortico. La rivascolarizzazione dell’arteria mesenterica inferiore e/o di almeno una delle arterie ipogastriche, preferibilmente la sinistra, costituiscono la principale prevenzione di tale temibile complicanza. La diagnosi intraoperatoria immediata non è agevole. La sintomatologia post-operatoria, costituita da diarrea precoce, dolenzia e distensione addominale, decorre in maniera subdola; uno stato di agitazione psicomotoria, di ipotensione e tachicardia non risolvibili con infusioni generose di liquidi devono però ingenerare il sospetto e spingere a praticare una colonscopia, che può evidenziare pallore ed edema della mucosa. In caso d’infarto intestinale il trattamento è costituito da una resezione ampia del tratto necrotico, senza ripristino della continuità (colostomia ed affondamento del moncone), che comporta comunque una mortalità molto elevata, dal 50% al 90%, per sindrome da insufficienza multi-organo. Le forme meno gravi di colite ischemica, nel tempo, possono evolvere in stenosi cicatriziale del segmento interessato che può richiedere, successivamente, la resezione segmentaria con ripristino della continuità intestinale. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 85 Lesioni linfatiche Durante la preparazione e l’isolamento delle arterie, possono determinarsi, con incidenza compresa tra lo 0,5% ed il 2%, lesioni dei collettori linfatici e/o dei linfonodi. Tale complicanza si verifica più frequentemente in regione inguinale che nel retroperitoneo, specie durante dissezioni estese, e nei reinterventi; l’incidenza sale fino al 4,5% nell’esposizione dell’arteria femorale attraverso incisione obliqua. La linforrea (fuoriuscita di linfa dalla ferita inguinale o dal drenaggio) si manifesta nei primi giorni dopo l’intervento, con rischio di deiscenza della ferita od infezione tardiva della protesi; il linfocele (raccolta chiusa nel contesto della sede di intervento) più spesso viene rilevato alla prima visita di controllo dopo la dimissione e si presenta come una tumefazione cistica, non pulsante e non dolente, in corrispondenza della ferita chirurgica con edema dell’arto. L’ecografia, cosi come la TC e la RM, rilevano la presenza di una raccolta liquida, escludendo la formazione di un ematoma, di un aneurisma falso o di un ascesso della ferita. Una tecnica chirurgica meticolosa costituisce la principale misura di prevenzione. L’incisione verticale laterale, leggermente arcuata verso l’esterno, a livello del triangolo di Scarpa, con spostamento in senso mediale del pacchetto linfoghiandolare, può ridurre l’incidenza di tali lesioni, così come la legatura minuziosa dei collettori linfatici lesi, ma non elimina del tutto il rischio di linforrea. Il riposo a letto, l’elevazione dell’arto, le medicazioni compressive, la profilassi antibiotica costituiscono i cardini della terapia conservativa. L’aspirazione del linfocele, se di qualche utilità per confermare la diagnosi, non favorisce la sua guarigione, che di solito si verifica spontaneamente dopo alcune settimane, agevolata dalla compressione locale. In caso di persistenza, l’esplorazione chirurgica e la legatura dei linfatici lesi può essere risolutiva; nel trattamento del linfocele, va evitata l’asportazione della capsula, che potrebbe esser causa di ulteriori lesioni a carico dei linfatici limitrofi e di esposizione ed infezione della protesi, situata in un piano più profondo. Complicanze immediate della chirurgia endovascolare Le complicanze non sono diverse da quelle riscontrate in altri distretti vascolari con la differenza che vi può essere un impatto clinico potenzialmente maggiore. Mentre la grave dissecazione, l’occlusione acuta o la stenosi residua sono trattabili semplicemente con l’impianto di un ulteriore stent, la rottura dell’aorta, anche se rara, è potenzialmente mortale e può richiedere una terapia chirurgica immediata. L’embolia distale si verifica in meno dell’1% dei casi. Le complicanze subacute comprendono la trombosi. Nella 86 Capitolo 5 tecnica del kissing stent, l’ostruzione può essere causata dall’iperplasia neointimale; tali ostruzioni sono trattabili con una nuova dilatazione, con l’aterectomia o con il posizionamento di un’endoprotesi. Con il miglioramento dei materiali e la maggiore esperienza nell’esecuzione delle procedure endovascolari, l’incidenza di complicanze è andata progressivamente riducendosi; esse vengono in maggioranza trattate mediante tecniche endovascolari e solo in circa il 3% dei casi è richiesta una conversione chirurgica d’emergenza. Pertanto, la chirurgia endovascolare deve essere effettuata in ambiente chirurgico. Rottura e perforazione dell’arteria Seppur rara (< 1%), la rottura dell’arteria è la complicanza più grave che può verificarsi a livello aorto-iliaco durante una procedura endovascolare ed è favorita dalla sovradilatazione del pallone da angioplastica, in genere in corrispondenza di una lesione calcifica che compromette l’elasticità della parete. Il paziente viene colto da dolore particolarmente intenso, al quale possono seguire ipotensione ed anemizzazione rapida. Il controllo angiografico evidenzierà la fuoriuscita di mezzo di contrasto nel retroperitoneo; trattandosi di una lesione senza alcuna tendenza all’emostasi spontanea, può esser utile il rigonfiamento del palloncino da angioplastica a monte della lesione per ottenere un’emostasi temporanea, ma con il rischio di un’ulteriore estensione della lacerazione. Il posizionamento immediato di un’endoprotesi può costituire un trattamento idoneo; in caso contrario, s’impone la conversione chirurgica immediata, finalizzata innanzitutto al controllo dell’emorragia ma anche alla contemporanea rivascolarizzazione chirurgica. Di minor gravità può essere la perforazione arteriosa causata dalla guida che, dopo avere determinato una dissecazione della parete, può oltrepassarla; se minima, essa tende alla risoluzione spontanea, altrimenti richiede un trattamento endovascolare o chirurgico al pari della rottura arteriosa. Dissecazione dell’arteria È un’evenienza frequente, determinata, a livello della sede della puntura arteriosa o in corrispondenza della lesione, dall’introduttore, dalle guide o dai cateteri che possono scollare anche estesamente la placca ateromasica. In caso di difficoltà di progressione degli strumenti angiografici, l’iniezione di mezzo di contrasto ne chiarirà la posizione. Una dissecazione di lieve entità, provocata per via retrograda, come accade quando si utilizza ad esempio l’arteria femorale per aggiungere l’aorta, raramente determina occlusione del Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 87 vaso. Infatti, al termine della procedura e dopo la rimozione del catetere angiografico, il ripristino del flusso ematico proveniente da monte comporterà facilmente l’accollamento del lembo di dissecazione alla parete arteriosa. Qualora la dissecazione sia particolarmente estesa e possa far sorgere il sospetto di una ripercussione emodinamica sul flusso a valle, oggi è possibile praticare una correzione endovascolare mediante il posizionamento di uno stent od adottare il trattamento chirurgico convenzionale. Trombosi arteriosa acuta ed embolia periferica Il rischio di trombosi acuta nel sito di accesso od a livello della lesione stenoostruttiva sottoposta a trattamento endovascolare richiede una prevenzione mediante anticoagulazione con eparina nel corso delle procedure e, successivamente, nel decorso post-operatorio. La migrazione di frammenti di materiale trombotico o di placca ateromasica è causa di embolia distale con frequenza direttamente proporzionale alla lunghezza della lesione e crescente nelle lesioni occlusive. È necessario, mediante controllo arteriografico, definire la localizzazione e la natura dell’embolo: nel caso in cui si tratti di un trombo recente, la trombolisi intra-arteriosa farmacologica può determinarne agevolmente la lisi mentre, in caso di embolia di materiale ateromasico, sono indicate l’aspirazione o, più frequentemente, l’asportazione chirurgica. Il danno parietale, quando presente, richiede spesso la conversione chirurgica urgente (trombectomia con patch, by-pass). Ematoma e pseudoaneurisma nel sito di puntura Nella sede di puntura, un piccolo ematoma od un’ecchimosi circoscritta sono da considerarsi pressoché inevitabili, mentre raccolte voluminose che richiedono emotrasfusioni o che evolvono verso un aneurisma falso costituiscono una complicanza di rilievo. L’insorgenza di tali lesioni è influenzata oltre che da una compressione inadeguata, anche dal calibro dell’introduttore, dalla somministrazione di farmaci anticoagulanti, antiaggreganti e/o trombolitici, dalla durata della procedura e dall’entità delle alterazioni parietali in sede di puntura, specie in caso di errato accesso attraverso l’arteria femorale profonda o superficiale, più difficili da comprimere per l’assenza di un piano osseo sottostante. Un esame eco-color-Doppler preliminare sarà utile per scegliere il segmento più idoneo alla puntura o, in caso d’alterazione estesa, per porre indicazione ad un accesso chirurgico. Una compressione manuale adeguata per 10-20 minuti seguita da una medicazione compressiva per circa 24 ore, riducono ulteriormente l’incidenza 88 Capitolo 5 di tale complicanza (< 2%). Per la valutazione della raccolta ematica e dell’eventuale pseudoaneurisma potrà risultare utile l’eco-color Doppler. In alcuni casi la metodica ultrasonografica può risultare vantaggiosa nell’esecuzione di una compressione ecoguidata che, nel caso di ematomi di piccole dimensioni o di sacche pseudoaneurismatiche con scarso rifornimento, può portare all’arresto del flusso; se di dimensioni cospicue, con segni di compressione nervosa, lo svuotamento della raccolta ematica e la sutura chirurgica diretta o mediante l’applicazione di un patch, costituiranno la procedura risolutiva. Complicanze tardive della chirurgia tradizionale Le lesioni steno-ostruttive, le lesioni dilatative e l’infezione rappresentano le complicanze tardive più frequenti della chirurgia arteriosa convenzionale. La comparsa di una di queste complicanze può essere causa sia del fallimento tardivo di un intervento di chirurgia arteriosa che del decesso del paziente. Generalmente, lo sviluppo e l’evoluzione di tali complicanze appaiono lenti ma progressivi; ciò significa che dall’insorgenza della complicanza al fallimento dell’intervento chirurgico vi è un intervallo di tempo nel quale è possibile diagnosticare e trattare la complicanza scongiurando, quindi, l’insuccesso dell’intervento di chirurgia arteriosa. Le complicanze tardive della chirurgia del distretto aorto-iliaco-femorale possono essere estremamente variegate e correlate sia alla malattia di base sia alla tecnica chirurgica adottata. Possono, inoltre, essere distinte in complicanze proprie dell’innesto protesico o in complicanze del distretto arterioso contiguo alle sedi di anastomosi. In realtà, sulla base dell’impatto clinico, possiamo distinguere tre fondamentali tipi di complicanza: la trombosi protesica, l’aneurisma para-anastomotico, l’infezione protesica. Trombosi protesica Sono passati più di 50 anni dall’introduzione delle protesi vascolari nel trattamento degli aneurismi e delle occlusioni aorto-iliache. Nonostante il perfezionamento dei materiali protesici, le protesi possono andare incontro a trombosi. Le trombosi protesiche tardive costituiscono, quindi, una tipica complicanza delle rivascolarizzazioni aorto-iliaco-femorali per patologia steno-ostruttiva. Benché risulti variabile, l’incidenza di questa complicanza subisce un incremento nel corso del follow-up, attestandosi al 5-10% a 5 anni ed al 15-30% a 10 anni. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 89 Sulla base dell’intervallo temporale dall’intervento chirurgico, l’evento trombotico può essere distinto in precoce (entro 30 giorni), intermedio (da 30 giorni a 18 mesi) e tardivo (oltre i 18 mesi). Nel periodo intermedio la causa più frequente d’insuccesso è legata a fenomeni d’iperplasia miointimale che interessano generalmente le anastomosi distali. Nelle fasi tardive la causa di trombosi è invece più spesso la progressione della malattia aterosclerotica, in sede prossimale (aorta) o, più frequentemente, distale. Condizioni favorenti la trombosi protesica sono rappresentate da stati di ipercoagulabilità, ipotensioni prolungate e deficit della pompa cardiaca. L’espressione clinica della trombosi protesica è, nella maggior parte dei casi, l’ischemia acuta dell’arto interessato. Il grado di ischemia varia in rapporto al fattore causale. In presenza di una stenosi anastomotica il fenomeno acuto è preceduto dalla comparsa di un quadro clinico di claudicatio che deve essere considerato il campanello d’allarme riguardo all’evoluzione della patologia. Cause più rare di trombosi protesica tardiva sono le torsioni e gli inginocchiamenti della protesi. Tali situazioni dipendono generalmente da errori di valutazione intraoperatoria quali un’inadeguata definizione della posizione e della lunghezza della protesi. Infine, non bisogna dimenticare che la trombosi protesica può essere espressione di un’infezione. È evidente come un follow-up clinico-strumentale adeguato sia determinante per individuare precocemente lesioni che possano causare, se non corrette, una trombosi protesica. La valutazione clinica è incentrata sul controllo di polsi e soffi periferici. L’indagine strumentale di primo livello è l’eco-colorDoppler con cui si valutano protesi ed anastomosi. Il primo controllo clinico-strumentale deve essere effettuato dopo 3-6 mesi dall’intervento e, se non emergono complicanze, successivamente dopo 12 mesi dall’intervento chirurgico; a tali controlli, se negativi, devono seguire valutazioni annuali. Le trombosi protesiche tardive possono essere trattate sia chirurgicamente sia ricorrendo all’uso di farmaci trombolitici. La scelta del tipo di trattamento è condizionata dalla situazione clinica del paziente (alto rischio chirurgico, controindicazioni alla terapia trombolitica), dalla presumibile causa dell’occlusione, dall’intervallo di tempo intercorso tra la trombosi e l’osservazione del paziente e dall’entità ed estensione della trombosi. La terapia chirurgica di un trombosi protesica recente prevede la trombectomia con catetere di Fogarty con o senza l’ausilio di anelli di Vollmar (indicati nelle trombosi più datate): tale metodica permette di asportare il trombo fresco adeso alla protesi, ricanalizzando l’asse protesico. A questo punto può essere utile eseguire un controllo angiografico intra-operatorio per verificare 90 Capitolo 5 la completa rimozione del trombo e la presenza di lesioni concomitanti (stenosi anastomotiche, inginocchiamenti della protesi) responsabili della trombosi. Naturalmente, individuata la causa scatenante, questa deve essere corretta contestualmente. Nel caso non sia possibile disostruire la protesi con il catetere di Fogarty, si dovrà ricorrere ad una nuova rivascolarizzazione protesica, in sede anatomica o in sede extra-anatomica (by-pass femorofemorale cross-over, by-pass axillo-femorale). La terapia trombolitica prevede il posizionamento di un catetere percutaneo portato a livello del trombo così da permettere l’infusione loco-regionale del farmaco. I farmaci comunemente utilizzati sono l’Urochinasi e l’rt-PA. L’infusione del trombolitico, associata a somministrazione di eparina per via sistemica, non dovrebbe essere protratta oltre le 72 ore, per evitare complicanze emorragiche. Durante la fase terapeutica il paziente deve essere tenuto in stretto monitoraggio clinico, laboratoristico e strumentale (ecodoppler, angiografia), per valutare l’efficacia del trattamento. Una volta ristabilita la pervietà della protesi, prima di rimuovere il catetere endoarterioso, è necessario eseguire uno studio angiografico diagnostico per documentare l’eventuale lesione responsabile della trombosi, che potrà essere corretta chirurgicamente o con metodica endovascolare (PTA, Stent). Aneurisma para-anastomotico È difficile stabilire la reale incidenza di questa complicanza tardiva. Nelle prime serie valutate retrospettivamente veniva riportata un’incidenza globale di aneurismi para-anastomotici inferiore all’1%. Tuttavia, nelle casistiche seguite con un programma di sorveglianza periodica, questa complicanza compare con un’incidenza sensibilmente maggiore. In letteratura si riporta, a 8 anni di follow-up, un’incidenza di aneurismi para-anastomotici aortici veri e falsi del 5%; a 15 anni la complicanza riguarda circa un terzo dei casi trattati. Questi dati sono confermati da altre esperienze con follow-up a lungo termine, con un’incidenza a 15 e 20 anni dall’intervento rispettivamente dell’8% e del 28%. È importante notare come gli aneurismi para-anastomotici possano realizzarsi in qualunque fase del decorso post-operatorio, con una crescita nelle fasi più avanzate del follow-up (Fig. 16). I falsi aneurismi hanno frequenza maggiore rispetto alle forme vere. In una casistica, a 15 anni, gli pseudoaneurismi hanno un’incidenza del 20% verso il 9% degli aneurismi veri. L’etiologia di questi aneurismi riguarda la degenerazione della parete aortica o del materiale protesico con aspetti diversi nelle forme false rispetto a quelle vere. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 91 I falsi aneurismi sono causati da una soluzione di continuità nella sede anastomotica. Tale situazione può essere favorita da condizioni sistemiche (come ipertensione, progressione della malattia aterosclerotica, alterato metabolismo del collagene), dal deterioramento (dilatazione o sezione) del materiale protesico, dalla rottura del filo di sutura o dall’alterata compliance in sede di anastomosi. A questo proposito, numerosi Autori ritengono che la degenerazione della parete arteriosa svolga un ruolo predominante rispetto alla degradazione nei materiali sintetici nell’etiologia di questi pseudoaneurismi. I fattori meccanici svolgono certamente un ruolo determinante e questo è confermato dal fatto che tali pseudoaneurismi sono più frequenti nelle anastomosi termino-laterali che non nelle anastomosi termino-terminali. Non bisogna dimenticare, inoltre, che uno pseudoaneurisma para-anastomotico può essere l’espressione di un’infezione protesica. È riportato, infatti, che nel 2040% circa dei distacchi protesici vi sia una concomitante infezione. Gli aneurismi para-anastomotici veri solitamente sono una complicanza tardiva di interventi effettuati per malattia aneurismatica piuttosto che per patologia steno-ostruttiva. Gli aneurismi para-anastomotici del distretto iliaco riconoscono sostanzialmente la stessa incidenza ed etiologia delle forme aortiche. Riguardo, invece, alla localizzazione femorale, gli pseudoaneurismi sono decisamente più frequenti degli aneurismi veri; circa il 70% degli aneurismi para-anastomotici si sviluppa in tale sede. Un altro aspetto peculiare degli aneurismi para-anastomotici è la plurifocalità; in circa il 40% dei pazienti coesistono aneurismi para-anastomotici multipli. È bene, quindi, tenere sempre in considerazione questa tendenza in fase diagnostica, così da estendere le indagini a tutte le sedi di anastomosi. Figura 16: Pseudo-aneurisma anastomotico aortico. 92 Capitolo 5 Come gli aneurismi primitivi, le forme para-anastomotiche vanno incontro a complicanza. In particolare la rottura è un evento non infrequente se si considera che viene riportato con una incidenza che varia dal 15 al 55%. Tutto ciò giustifica la necessità di un programma di follow-up che permetta di evidenziare l’insorgenza di un aneurisma para-anastomotico e che tenga conto della possibile plurifocalità e della possibile coesistenza di un’infezione protesica. L’esame clinico e l’eco-color-Doppler sono le metodiche di base per il follow-up della chirurgia del distretto aorto-iliaco-femorale. L’esame clinico è nella maggior parte dei casi sufficiente per porre il sospetto di aneurisma para-anastomotico femorale; l’eco-color-Doppler permette di definire con precisione le dimensioni, le caratteristiche emodinamiche e la presenza di raccolte peri-anastomotiche e peri-protesiche. A livello aortico ed iliaco la semplice esplorazione clinica perde affidabilità diagnostica; è quindi indispensabile il ricorso alla metodica ultrasonografica. Nei casi difficilmente esplorabili con eco-color-Doppler (pazienti obesi, lesioni pelviche) si renderà necessario un approfondimento mediante angioTC od Angio-RM. Anche nei casi in cui all’eco-color-Doppler emerga la presenza di un aneurisma anastomotico aortico ed iliaco è opportuno un approfondimento diagnostico con TC multistrato per meglio definire le caratteristiche della lesione e per valutare la concomitante presenza di reperti suggestivi di infezione protesica; questa ipotesi giustifica il ricorso anche ad una scintigrafia con leucociti marcati. Riguardo agli intervalli temporali del follow-up, non vi è in letteratura uniformità di atteggiamento. Certamente è necessario un primo controllo post-operatorio (3-6 mesi) ed un controllo ad un anno, per escludere complicanze precoci. Sulla base dei dati relativi alla storia naturale di questa complicanza, alcuni autori suggeriscono che, dopo il controllo al primo anno, sia sufficiente un controllo a 5 anni dall’intervento e quindi controlli ogni due anni. Tuttavia, l’opportunità di una diagnosi precoce e la possibile associazione con infezione protesica possono giustificare un atteggiamento più aggressivo, con controlli periodici ogni anno. In base alla sede e alle caratteristiche dell’aneurisma, il trattamento può essere chirurgico o endovascolare. A livello dell’anastomosi aortica prossimale, soprattutto nei casi di vero aneurisma para-anastomotico, il trattamento è prevalentemente chirurgico. Sulla base delle caratteristiche di estensione dell’aneurisma e di coinvolgimento dei rami viscerali, si può optare per un accesso mediano transperitoneale o per un accesso extraperitoneale sinistro. Quest’ultimo deve essere pianificato in base alla sede del clampaggio prossimale. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 93 L’intervento consiste nella sostituzione della lesione aneurismatica con un nuovo innesto protesico tra l’aorta non aneurismatica e la vecchia protesi. La possibilità di una correzione endovascolare è subordinata alla presenza di un adeguato colletto aortico sottorenale, condizione che si verifica più facilmente nei casi di pseudoaneurisma. Negli aneurismi para-anastomotici iliaci, l’esclusione mediante endoprotesi può rappresentare il trattamento di scelta. In questo distretto i limiti di tale trattamento sono rappresentati dalla tortuosità degli assi iliaci e dal coinvolgimento delle arterie ipogastriche. Infine, riguardo agli aneurismi para-anastomotici in sede femorale, il trattamento chirurgico prevede l’interposizione di un nuovo segmento protesico tra la vecchia protesi e la biforcazione femorale. Infezione protesica L’infezione protesica rappresenta attualmente la complicanza più grave poiché, nonostante la terapia antibiotica, la miglior qualità dei materiali protesici e l’affinarsi delle tecniche chirurgiche, la percentuale di mortalità-morbilità è ancora estremamente elevata. L’incidenza dell’infezione in chirurgia aortica addominale varia tra l’1% ed il 6%; le infezioni che si manifestano entro quattro mesi dall’intervento, definite precoci, sono di solito sostenute da agenti patogeni molto virulenti come lo Stafilococco Aureus ed altri germi Gram-negativi come il Proteus, lo Pseudomonas, la Klebsiella, l’Enterobacter. Le infezioni tardive sono di solito provocate da batteri meno virulenti, quali lo Stafilococco Epidermidis ed altri Stafilococchi coagulasi-negativi. L’infezione di una protesi si può verificare durante un intervento chirurgico o nell’immediato periodo post-operatorio. Nella contaminazione intraoperatoria, le infezioni sono provocate più frequentemente dal contatto tra protesi e cute, da germi localizzati in vasi linfatici e linfonodi, da una insufficiente sterilizzazione della protesi o dello strumentario chirurgico o da germi localizzati in altri organi (intestino, vie biliari) quando vengono proposti interventi chirurgici associati. Nel periodo post-operatorio la causa può essere un’infezione delle ferite chirurgiche, un reintervento, l’uso di procedure invasive (angiografia post-operatoria, cateterismi endovasali o cateterismi vescicali prolungati) o una batteriemia la cui origine sia nell’apparato respiratorio od urinario o in lesioni trofiche infette. Le rivascolarizzazioni protesiche a maggior rischio di infezione sono quelle che prevedono un accesso chirurgico dei vasi femorali. L’inguine, infatti, sia per la contaminazione cutanea che per la presenza di importanti stazioni linfonodali, può essere sede di batteri che possono con- 94 Capitolo 5 taminare la ferita e la protesi; ciò si rende ancora più evidente in presenza di necrosi cutanea, ematoma e linfocele. Clinicamente, l’infezione protesica si presenta con sintomatologia iniziale spesso vaga e aspecifica (astenia, febbre, calo ponderale, alterazione degli indici umorali di flogosi). Successivamente si presentano segni tardivi d’infezione generalmente connessi alla sede ed al tipo di agente patogeno. Un’infezione protesica limitata all’addome può manifestarsi solo con uno stato settico. Nelle infezioni protesiche aorto-femorali i segni clinici sono caratterizzati da eritema e tumefazioni inguinali, eventualmente associati a fistole cutanee. Se l’infezione causa una deiscenza anastomotica, la sintomatologia clinica è caratterizzata da uno pseudoaneurisma, di solito a localizzazione inguinale. Le infezioni complicate da comunicazioni enteriche possono esordire brutalmente con un sanguinamento gastro-intestinale; per tale motivo, tutti i pazienti che presentano un sanguinamento gastro-enterico ed una protesi aortica devono essere studiati rapidamente per escludere un’infezione protesica con fistola intestinale. Le metodiche diagnostiche utilizzate a tale scopo sono: l’eco-color-Doppler, la TC con mezzo di contrasto, la RM, l’endoscopia digestiva, la scintigrafia e l’arteriografia. L’eco-Doppler, utile per identificare la presenza di una raccolta periprotesica o di uno pseudoaneurisma, non è in grado di differenziare raccolte sterili da raccolte ascessuali specie in sede addominale in pazienti obesi o con meteorismo. La TC con mezzo di contrasto è utile per individuare raccolte periprotesiche retroperitoneali, bolle gassose per presenza di germi produttori di gas (Fig. 17), pseudoaneurismi, occlusioni protesiche, eventuali comunicazioni prote- Figura 17: Angio-TC in un caso di infezione protesica aortica. Si evidenzia una raccolta periprotesica con due bolle gassose al suo interno. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 95 si-intestino. La presenza di gas in sede periprotesica nel periodo post-operatorio precoce deve essere considerato un reperto normale. La specificità e la sensibilità di tale metodica nei casi d’infezione in stadio avanzato sono pari al 100%, mentre in pazienti con segni e sintomi clinici aspecifici e con infezioni in stadio iniziale l’accuratezza è significativamente ridotta. La RM, rispetto alla TC, ha un migliore potere risolutivo per i tessuti e per i fluidi e non ha le controindicazioni delle metodiche che utilizzano mezzo di contrasto iodato; inoltre, la valutazione delle immagini nelle diverse sequenze rende possibile la diagnosi differenziale tra ematomi subacuti e cronici, raccolte fluide non emorragiche, ascessi e materiale necrotico. Qualora si sospetti la presenza di una fistola enterica, localizzata prevalentemente a livello della terza e quarta porzione duodenale, l’unica indagine che permette di evidenziarne la sede è l’endoscopia digestiva. Nella pratica clinica e diagnostica vengono utilizzate attualmente anche metodiche scintigrafiche che, utilizzando radionuclidi, permettono di valutare le infezioni protesiche in tutti gli stadi, anche quando i segni d’infezione non sono evidenti alla TC. Queste indagini strumentali hanno una scarsa attendibilità nel periodo post-operatorio precoce poiché i radionuclidi vengono captati dai tessuti periprotesici (flogosi da reazione al trauma chirurgico ed all’impianto protesico) indipendentemente dalla presenza di un’infezione; risultano invece più sensibili nelle infezioni tardive. Attualmente la tecnica scintigrafica più utilizzata è quella con leucociti marcati con Tecnezio 99-HMPAO con un’elevata specificità e sensibilità diagnostica (Fig. 18). Figura 18: Scintigrafia con leucociti marcati con TC99m. Si evidenzia una zona di accumulo a livello del tronco comune di una protesi aorto-bisiliaca. 96 Capitolo 5 L’arteriografia permette di ottenere solo informazioni aspecifiche sull’infezione protesica, ad eccezione dei casi in cui si siano verificate ulteriori complicanze. È comunque un’indagine utile per la valutazione preoperatoria dei vasi prossimali e distali alla protesi in previsione della rivascolarizzazione. Il trattamento più efficace dell’infezione protesica è la rimozione completa della protesi infetta e la successiva rivascolarizzazione periferica extraanatomica od anatomica. La rivascolarizzazione extra-anatomica, che di solito consiste nel by-pass axillo-bifemorale, è la metodica tradizionalmente utilizzata nella chirurgia delle infezioni di protesi aortiche, motivata dalla necessità di posizionare la nuova protesi lontano dal focolaio di infezione. Tale tecnica presenta, nelle esperienze più recenti, un miglioramento dei risultati, verosimilmente in rapporto ai progressi della terapia antibiotica ed al miglioramento della assistenza pre- e post-operatoria. Altri elementi favorenti derivano dall’affinarsi delle tecniche chirurgiche e dal miglioramento del materiale protesico, più resistente alla contaminazione. Elementi a sfavore di tale tecnica sono rappresentati da un’elevata incidenza di amputazioni, legata alla extra-anatomicità della rivascolarizzazione, e dal rischio di recidive infettive correlato alla presenza di materiale protesico sintetico contaminato. La persistenza dell’infezione può inoltre essere causa di deiscenza o di nuova fistolizzazione o rottura del moncone aortico. Allo scopo di semplificare, accelerare e migliorare le caratteristiche emodinamiche della rivascolarizzazione è stata proposta la rivascolarizzazione in situ mediante innesti arteriosi omologhi, innesti venosi autologhi o protesi sintetiche impregnate di antibiotico o rivestite da una lamina d’argento, che sembrano più resistenti alla contaminazione. L’utilizzazione di trapianti arteriosi omologhi, introdotta negli anni ‘80, è stata una metodica riproposta da vari Autori nel trattamento delle infezioni protesiche. I vasi arteriosi omologhi, provenienti da donatori multi-organo, inizialmente utilizzati “a fresco”, sono attualmente crioconservati. I vantaggi teorici dell’omoinnesto arterioso riguardano sia la relativa semplicità ed il corretto assetto emodinamico di una rivascolarizzazione “in situ”, sia l’impiego di una protesi biologica più resistente rispetto ad un materiale sintetico nei confronti di una reinfezione. Gli svantaggi derivano da complicanze immediate provocate da errori tecnici che possono verificarsi durante il prelievo, la preparazione, la crioconservazione, lo scongelamento degli homograft e da errori di tecnica chirurgica quali una maldestra manipolazione, lesioni da angiostato, lacerazioni della parete durante le suture, che possono inficiare il risultato. Un aspetto estremamente importante ed ancora ampiamente discusso riguarda le complicanze tardive da rigetto nei confronti degli antigeni di istocompatibilità, responsabili di lesioni steno-ostruttive o di degenerazione aneurismatica degli Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca 97 omoinnesti. Per ovviare a tali complicanze immunologiche è stata proposta la rivascolarizzazione in situ con innesti venosi autologhi, utilizzando anche le vene profonde. I casi riportati in letteratura sebbene supportati da eccellenti risultati, sono tuttavia sporadici perché le tecniche di realizzazione sono lunghe, difficili e spesso non applicabili quando l’anastomosi tra protesi e aorta è termino-laterale. Il fattore più importante che condiziona il risultato del trattamento chirurgico delle infezioni protesiche è rappresentato dalla eventuale presenza di comunicazioni tra protesi ed intestino. La riparazione della lesione intestinale rappresenta, quindi, una fase estremamente importante e delicata in relazione al rischio di deiscenza della sutura intestinale che può essere causa di recidiva della fistola. Dal punto di vista topografico, la sede più critica è rappresentata dalla terza porzione duodenale; in questa sede anche le manovre di isolamento possono essere responsabili di lesioni ischemizzanti. In linea generale per lesioni di pochi centimetri si può procedere ad una sutura diretta della breccia intestinale, mentre per erosioni di entità superiore si può rendere necessaria una resezione, per evitare complicanze stenosanti. Nella scelta del tipo di ricostruzione da effettuare bisogna tenere conto delle condizioni della parete duodenale residua che può presentare zone di necrosi e di macerazione sulle quali non è affidabile effettuare una sutura. I risultati della chirurgia delle infezioni protesiche sono ancora oggi gravati da un’alta incidenza di mortalità e di complicanze maggiori, indipendentemente dalle tecniche adottate. In letteratura, le rivascolarizzazioni extra-anatomiche presentano percentuali di mortalità variabili dal 13 al 29%, con una media del 22,5% e con un tasso di amputazione compreso tra il 6 e il 29%, con una media del 18%. Nell’utilizzo di omoinnesti la mortalità è compresa tra il 12,5 ed il 33,4%, con una media del 21,5%; il tasso d’amputazione varia da 0 al 7,8% (media 1,9%). La presenza di fistole enteriche aumenta il rischio di mortalità in maniera significativa, variando dal 38 all’83%, con una media del 45,4%. Altri fattori prognostici sfavorevoli, che condizionano una mortalità statisticamente più elevata, sono rappresentati dalle infezioni tardive versus le infezioni precoci, dalla presenza di infezioni di alto grado versus infezioni a basso grado, dall’intervento effettuato in urgenza versus l’intervento programmato. Esaminando globalmente i risultati delle diverse tecniche terapeutiche ancora oggi non è possibile stabilire con sicurezza quale sia la scelta terapeutica ideale in corso di infezione protesica. La rimozione parziale della protesi o la sua sostituzione con altro materiale protesico in situ rappresentano trattamenti da effettuare solo nel caso in cui le condizioni generali del paziente non consentono un trattamento radicale poiché la persistenza del materiale protesico non può garantire la guarigione dell’infezione. Problema comune 98 Capitolo 5 alle tecniche tradizionali e innovative è quello relativo alla terapia chirurgica delle fistole aorto-enteriche, la cui presenza inficia grandemente il risultato chirurgico, con qualsiasi tecnica chirurgia. Complicanze tardive del trattamento endovascolare Restenosi Si tratta della complicanza più discussa. In effetti, a prescindere dai miglioramenti forniti dall’angioplastica transluminale e dai trattamenti adiuvanti studiati, sembra non si possa scendere al di sotto di un tasso del 20-25% di restenosi a distanza in rapporto alla natura della lesione, alla sede trattata ed alle condizioni del letto a valle. La maggior parte delle restenosi risulta accessibile ad un nuovo procedimento endoluminale. Studi istologici hanno messo in evidenza un meccanismo di iperplasia miointimale quale reazione della parete all’aggressione. Rimane però inspiegato come il tasso di restenosi dopo angioplastica sia nettamente superiore a quello osservato dopo tromboendoarterecotmia chirurgica. Il miglioramento delle tecniche di diagnostica per immagini ha permesso di ridurre la percentuale di incidenza reale dell’iperplasia mio-intimale, che compare di regola 3-6 mesi dopo la procedura iniziale. Pseudoaneurisma Sono stati descritti casi isolati di pseudoaneurismi nella sede di accesso dopo angioplastica che giustificano l’esecuzione di controlli regolari con ecocolordoppler dei siti trattati. Altre complicanze possono essere la migrazione dello stent, la rottura dello stent e l’infezione. 6. Malattia femoro-poplitea Epidemiologia e storia naturale Il processo aterosclerotico può interessare solo le arterie femorali, l’arteria poplitea, ciascuna delle arterie infrapoplitee, compresi i loro rami terminali o arterie in diverse associazioni tra loro. Il processo inizia precocemente in età adulta e avanza progressivamente e lentamente arrivando a quadri che danno stenosi emodinamicamente significative od ostruzioni in una o più arterie al di sotto del legamento inguinale. Nell’80-90% dei pazienti con arteriopatia aterosclerotica periferica è coinvolto l’asse femoro-popliteo; circa il 50% delle occlusioni arteriose si verifica nel segmento femoro-popliteo. Nel 50% dei pazienti le steno-ostruzioni delle arterie si verificano a livello della coscia. In oltre il 60% dei casi si associano lesioni dei vasi sottopoplitei e del settore prossimale aorto-iliaco. Nettamente superiore l’incidenza nel maschio (da 10:1 a 30:1 e oltre), con frequente interessamento bilaterale. Le arterie interessate sono la femorale comune, con i suoi rami di biforcazione, e più distalmente anche l’arteria poplitea. La femorale comune è sede meno frequente di lesioni ischemizzanti rispetto ai suoi rami di biforcazione, ma la sua ostruzione, in ragione della contemporanea ripercussione emodinamica sia sulla femorale superficiale sia sulla femorale profonda, si presenta spesso con quadri clinici più severi. La femorale superficiale è l’arteria più interessata dall’aterosclerosi, con nettissima prevalenza sulla femorale comune. I tipi morfologici di stenoostruzione della femorale superficiale comprendono: l’ostruzione segmentaria, breve; la stenosi multipla (a rosario) o prolungata per un tratto cospicuo; forme intermedie (20% dei casi). L’arteria femorale profonda distribuisce sangue ai muscoli della coscia, ma diventa il vero asse portante di tutto l’arto inferiore in caso di ostruzione della femorale superficiale. In presenza di occlusione del circolo della femorale superficiale, la femorale profonda può quasi raddoppiare di calibro, aumentando di oltre il 50% la sua portata. Quando interessata da aterosclerosi, l’arteria femorale profonda presenta per lo più steno-ostruzioni ostiali, raramente estese a tutta la sua lunghezza. Nel tratto distale della coscia la femorale superficiale diventa arteria poplitea e rilascia importanti collaterali genicolari. Questo punto rappresenta una sede frequente di aterosclerosi, spesso in associazione con l’interessamento della parte più prossimale della femorale superficiale, ed è il tratto più spesso interessato dalla riabitazione da parte del circolo collaterale. Quando la poplitea è coinvolta da processi fortemente stenosanti o ostruttivi, il circolo 99 100 Capitolo 6 collaterale sorpassa l’ostacolo portandosi, attraverso le genicolate, direttamente ai vasi tibiali. Quadro clinico L’arteriopatia ostruttiva cronica femoro-poplitea può dare quadri clinici diversi in relazione al tipo di lesione ed al grado di steno-ostruzione. A livello dell’albero arterioso infrainguinale possono esservi stenosi emodinamicamente significative od ostruzioni di un’arteria principale con sintomi scarsi od assenti se esiste un circolo collaterale ben sviluppato (Fig. 1) o se il livello di attività fisica del paziente è limitato da altri fattori (es. coronaropatia o altro processo patologico). La manifestazione clinica più comune di un’ostruzione segmentaria breve dell’arteria femorale superficiale è una claudicatio intermittens lieve. Figura 1: Ostruzione dell’arteria femorale superficiale al terzo medio di coscia con ricco circolo collaterale che riabita l’arteria a valle della lesione. Malattia femoro-poplitea 101 L’arteriopatia ostruttiva può essere del tutto asintomatica, come accade nel caso in cui siano ostruite solo una o due arterie tibiali, senza altre lesioni. Un paziente, invece, che arriva all’osservazione con claudicatio intermittens invalidante o necrosi tessutale ha ostruzioni sequenziali multiple o la cosiddetta arteriopatia segmentaria combinata, con lesioni emodinamicamente significative a livello aorto-iliaco e della femorale superficiale/poplitea o una di queste od entrambe unite ad una grave arteriopatia infra-poplitea (Fig. 2). Il coinvolgimento ateromasico dei vasi della biforcazione poplitea è frequente nella patologia aorto-iliaca o femoro-poplitea ed è tipico nell’arteriopatia diabetica. In generale, circa il 18% delle occlusioni delle arterie degli arti inferiori è costituito da lesioni isolate di arterie sottopoplitee. Quando l’asse femoro-popliteo risulta indenne, le lesioni dei vasi tibioperoneali isolate raramente sono fonte di sintomatologia che va oltre il II stadio. È anche molto raro riscontrare una steno-ostruzione di tutti e tre i ra- A B C Figura 2: Arteriopatia ostruttiva infrainguinale con ostruzione dell’arteria femorale superficiale nel canale degli adduttori (B) e di tutta l’arteria poplitea; il circolo collaterale è scarso e riabita solo un ramo tibiale visibile per un breve tratto (C). 102 Capitolo 6 mi, che possa impedire attraverso collateralizzazioni prossimali un flusso di compenso all’arcata plantare e dorsale del piede. Invece, in presenza di lesioni associate multi-segmentarie che comprendano anche i tronchi sottopoplitei, i pazienti lamentano spesso i segni e i sintomi dell’ischemia critica. L’arteriopatia ostruttiva cronica riguarda isolatamente le arterie delle gambe (poplitea sotto-articolare, tronco tibio-peroniero, tibiale anteriore e posteriore, peroniera) solo in una piccola parte dei pazienti aterosclerotici che non risultino affetti da diabete mellito. Invece è nota da tempo la predominanza di lesioni a questo livello nel paziente diabetico. Nei pazienti non diabetici, nel 60-70% dei casi il coinvolgimento è plurivasale. L’arteria peroniera è il vaso percentualmente più risparmiato e che spesso finisce per diventare l’unico di tutta la gamba. A questo livello, le vie di compenso sono meno efficaci di quelle più prossimali, poiché i segmenti sottopopolitei funzionalmente si comportano come sistemi d’irrorazione terminale, con rami anastomotici numericamente scarsi e assai ridotti di calibro. Nell’evenienza di un’ostruzione a questo livello, pertanto, sono solo i rami muscolari a raggiungere i tratti più distali dei vasi tibiali e peroneali o l’arcata plantare. L’ostruzione delle arcate plantari e dei rami arteriosi metatarsali e digitali è frequente nel diabetico, tipicamente con risparmio dell’albero vascolare più prossimale; è abbastanza comune (dal 20 al 40% dei casi) reperire una normale pulsatilità del polso popliteo ed anche dei polsi distali in presenza, per esempio, di ulcera o gangrena distrettuale del piede. La sindrome del piede diabetico comprende un complesso di alterazioni trofiche, che si presentano maggiormente dopo una lunga storia di diabete e, diversamente dalle localizzazioni aterosclerotiche, riconoscono come elementi aggiuntivi alla degenerazione ateromasica altri due importanti fattori: la neuropatia e il sovrapporsi saltuario di infezioni (anche subcliniche) che precipitano la sofferenza tessutale. La neuropatia può di per sé causare distrofie o rendere il piede più vulnerabile dopo un fatto traumatico anche minimo, tenuto soprattutto conto che l’alterazione della sensibilità in questi pazienti rende ragione del ritardato riconoscimento di una sintomatologia ischemica già in atto. Soprattutto se il diabete è scompensato, il piede è facilmente preda di processi infettivi a esordio insidioso e andamento piuttosto lento, che obbligano a frequenti ospedalizzazioni (1/5 dei diabetici viene ricoverato per patologia podalica). I pazienti con arteriopatia femoro-popliteo-tibiale possono essere compresi in 5 stadi in relazione al quadro clinico (Tab. 1). I pazienti compresi negli stadi III e IV sono da considerare a rischio imminente di perdita di arto anche se il loro quadro clinico può rimanere stabile per anni. Malattia femoro-poplitea 103 Tabella 1: Classificazione dell’arteriosclerosi infra-inguinale con stenosi emodinamicamente significativa od ostruzioni 0 I II III IV Non segni o sintomi Claudicatio intermittens (> 1 isolato). Non alterazioni obiettive Claudicatio grave (< ½ isolato). Cianosi declive. Ipotermia Dolore a riposo. Atrofia. Cianosi. Cianosi declive Ulcera o gangrena ischemica che non guariscono Diagnosi differenziale La claudicatio intermittens è un sintomo guida di arteriopatia ostruttiva arteriosclerotica. Possiamo avere una claudicatio lieve di polpaccio dovuta ad una stenosi significativa a livello delle arterie iliaca, femorale superficiale o poplitea. La claudicatio è descritta dal paziente come un senso di pesantezza, debolezza o fatica a livello della gamba ed in questi pazienti si può porre una diagnosi sbagliata di alterazioni neuromuscolari. Talvolta sintomi simil-claudicatio possono essere dovuti a compressioni della parte inferiore del midollo spinale o della cauda equina. Questa claudicatio può essere sospettata quando i polsi arteriosi periferici sono normali. Un’altra diagnosi differenziale importante riguarda la causa delle ulcere a livello della caviglia e del piede. La tipica ulcera venosa si forma nell’ambito di una patologia venosa cronica, è associata ad alterazioni da stasi e polsi arteriosi normali, di solito guarisce con il sollevamento dell’arto e misure compressive ed è indolore. La tipica ulcera arteriosa o ischemica è più dolente ed è associata ad altri segni d’ischemia; di solito ha un fondo necrotico ed è situata in una zona sottoposta cronicamente a pressione od a trauma, come al di sopra dei malleoli o nella sede di un callo (Fig. 3). In presenza di una lesione gangrenosa o pregangrenosa di un dito, si devono prendere in considerazione diverse cause oltre alla progressione dell’arteriopatia ostruttiva arteriosclerotica. L’infezione locale può essere la sola o la principale causa della lesione digitale, in particolare nei diabetici. Dita nere o blu possono essere anche la conseguenza di processi embolici a partenza dal cuore, da un aneurisma prossimale o da una qualsiasi lesione arteriosclerotica prossimale. 104 Capitolo 6 Indicazioni al trattamento L’ischemia funzionale al secondo stadio rappresenta oggi un’indicazione relativa all’intervento chirurgico. Elementi quali l’entità della claudicatio, l’età, lo stile di vita, le condizioni generali e la presenza o meno di circolo collaterale condizionano le indicazioni terapeutiche. Queste prevedono esclusivamente il controllo dei fattori di rischio e l’adozione di una terapia farmacologia antitrombotica e vasoattiva nel caso di una claudicatio lieve o moderata, di natura ostruttiva, sottoinguinale, soprattutto in pazienti anziani. Per contro, la presenza di una claudicatio severa causata da un deficit arterioso, sopra- o sottoinguinale, oltre al miglioramento dello stile di vita ed alla terapia farmacologica, si può avvalere della rivascolarizzazione chirurgica o endovascolare. L’ischemia critica costituisce un’indicazione assoluta ad un intervento terapeutico invasivo, sempre che esistano le condizioni anatomiche per una ragionevole probabilità di successo e che le condizioni generali del paziente lo permettano. Nell’ambito del quarto stadio, una considerazione a parte meritano i pazienti portatori di lesioni gangrenose estese all’avampiede ed al tallone, tali Figura 3: Lesione trofica plantare in una zona sottoposta a pressione; il fondo appare sanioso ed i margini non sono granuleggianti. Malattia femoro-poplitea 105 Tabella 2: Classificazione TASC delle lesioni femoro-poplitee Lesioni femoro-poplitee TASC-A • Stenosi singole, localizzate, di lunghezza inferiore ai 3 cm Lesioni femoro-poplitee TASC-B • Stenosi singole della femorale superficiale di lunghezza di 3-10 cm • Lesioni altamente calcifiche o stenosi multiple di lunghezza inferiore ai 3 cm Lesioni femoro-poplitee TASC-C • Stenosi singole o occlusioni di lunghezza maggiore ai 5 cm • Stenosi multiple ognuna di lunghezza di 3-5 cm Lesioni femoro-poplitee TASC-D • Occlusioni della femorale superficiale in tutta la sua estensione o dell’arteria poplitea da non aver ancora compromesso irrimediabilmente le funzioni di appoggio del piede. Queste situazioni necessitano di un intervento terapeutico particolarmente rapido ed efficace dal punto di vista emodinamico. Nella maggior parte di questi pazienti, solo una chirurgia diretta di rivascolarizzazione distale può assicurare una riperfusione emodinamicamente efficace tale da consentire una rapida demarcazione della necrosi e la guarigione dei tessuti residui dopo amputazione parcellare ed asportazione delle zone necrotiche. Il trattamento dell’ischemia cronica si è basato nel tempo sull’esecuzione di un’ampia varietà di by-pass tradizionali e di tecniche di disostruzione a cui recentemente si è aggiunta l’opzione della terapia endovascolare. La scelta di queste diverse metodiche è influenzata da numerosi fattori, quali la topografia delle lesioni (soprainguinale o sottoinguinale), la loro natura (obliterante o emboligena), il tipo di lesione (stenosi o occlusione). La TASC stabilisce i criteri secondo i quali le lesioni arteriose degli arti inferiori sono trattabili con metodica endovascolare (Tab. 2). La metodica endovascolare ha permesso di affrontare in maniera poco invasiva sia lesioni arteriose potenzialmente evolutive (stenosi, placche ateromasiche friabili che possono compromettere irreversibilmente il letto a valle anche in condizioni di ischemia funzionale moderata, soprattutto se a carico del distretto femoropopliteo) sia lesioni consolidate (occlusioni). Secondo la classificazione TASC, le stenosi singole di lunghezza inferiore a 3 cm, che non interessano il tratto prossimale della femorale superficiale e la parte distale dell’arteria poplitea sono considerate lesioni di tipo A. 106 Capitolo 6 Le stenosi di 3-5 cm di lunghezza, le stenosi fortemente calcifiche, le lesioni multiple (ciascuna massimo 3 cm) e le lesioni con run-off tibiale insufficiente (queste raramente soddisfano i criteri della claudicatio lieve o moderata) sono considerate lesioni di tipo B. Le stenosi o le occlusioni più lunghe di 5 cm e le lesioni multiple di media lunghezza (3-5 cm) sono comprese nelle lesioni di tipo C. Le occlusioni di tutta la femorale comune, della femorale superficiale e le occlusioni poplitee sono classificate come lesioni di tipo D. Sia nell’ambito della chirurgia tradizionale che in quella endovascolare ulteriori condizioni modificano la strategia chirurgica; in particolar modo, per la tecnica convenzionale, il circolo a monte ed a valle e la disponibilità del materiale protesico. La strategia endovascolare è influenzata dalla sede e dalla lunghezza della lesione, dal tipo e dalla morfologia dell’ostacolo al flusso, dalla condizione del circolo a valle. In generale, vi è indicazione ad un intervento di by-pass femoro-popliteo sopra-articolare se i vasi distali sono integri; in caso di necessità si può prolungare un by-pass femoro-popliteo in sede sottoarticolare in presenza di pervietà del vaso a questo livello. Un by-pass distale va effettuato quando vi è un’occlusione completa della poplitea sottoarticolare e vi è la presenza di almeno un vaso di gamba pervio. La scelta del vaso di gamba a livello del quale anastomizzare il by-pass, nel caso ve ne sia più di uno pervio, viene effettuata in base alla sede della lesione trofica ed alla qualità del circolo distale, stabilita in base alla continuità con le arcate plantari. La chirurgia offre, per la ricostruzione femoro-poplitea, un tasso di pervietà a 5 anni dell’80% per il by-pass in vena e del 65-75% per quelli in politetrafluoroetilene espanso (ePTFE). Il rischio combinato di mortalità e amputazione si aggira intorno all’1,4% per le ricostruzioni femoro-poplitee. Gli interventi endovascolari femoro-poplitei riportano una media di successi tecnici del 90%, una percentuale di complicanze del 4,3% e una pervietà a 3 anni del 51%. Gli stent nel tratto femoro-popliteo non sembrano migliorare la pervietà che a 3 anni è del 58%. Nel tratto femoro-popliteo, il successo globale e l’efficacia a lungo termine del trattamento endovascolare sono minori rispetto al tratto iliaco-femorale e il fattore determinante è il tipo di lesione. Contrariamente a quelle dell’asse iliaco, ben poche lesioni dell’arteria femorale soddisfano i criteri per i tipi A o B, specialmente se limitate a 5 cm di lunghezza. Di conseguenza, pochi pazienti con claudicatio lieve o moderata causata da lesioni femoro-poplitee saranno ritenuti candidati ideali per il trattamento percutaneo. Malattia femoro-poplitea 107 Terapia chirurgica tradizionale La chirurgia tradizionale prevede tre opzioni terapeutiche: il by-pass femoropopiteo o distale, la tromboendoarterectomia e la profundoplastica. Qualunque sia il tipo di rivascolarizzazione da effettuare, il momento iniziale dell’intervento chirurgico consiste nella preparazione dei vasi arteriosi. Per la preparazione dei vasi femorali all’inguine l’incisione cutanea generalmente preferita segue una linea arciforme a concavità mediale che parte dalla linea di proiezione cutanea del legamento inguinale e scende obliqua medialmente, in direzione del condilo mediale del femore. Dopo la sezione del tessuto sottocutaneo, facendo attenzione a non ledere i vasi linfatici o, comunque, legandoli accuratamente per evitare complicanze post-operatorie (formazione di linfoceli e linforragie), si accede ai vasi femorali aprendo la fascia fibrosa. Si preparano, quindi, e si repertano l’arteria femorale comune, l’arteria femorale superficiale e l’arteria femorale profonda nel loro primo tratto (Fig. 4). Dal punto di vista anatomo-chirurgico l’arteria poplitea si suddivide in tre segmenti. Il primo segmento, detto sopra-articolare o sopragenicolare, si localizza nella metà superiore del cavo popliteo; il secondo segmento dell’arteria poplitea, detto intra-articolare, è localizzato nella profondità del cavo popliteo a cavallo dell’articolazione del ginocchio; il terzo segmento, detto sottoarticolare o infragenicolare, è localizzato nella metà inferiore del cavo popliteo e termina, a livello dell’anello del soleo, con i suoi rami di biforcazione. L’accesso all’arteria poplitea può essere effettuato, a seconda dei casi, seguendo una via mediale, una via posteriore, una via combinata mediale e posteriore o una via laterale. Figura 4: Preparazione dei vasi femorali all’inguine. 108 Capitolo 6 L’accesso per via mediale è quello comunemente praticato; esso permette un’agevole esposizione del primo e del terzo segmento del vaso e, in alcuni casi, dell’intero segmento popliteo. Per la preparazione dell’arteria poplitea sopra-articolare l’incisione cutanea segue una linea che parte dal punto di passaggio tra il terzo medio ed il terzo distale della coscia, segue il margine anteriore del muscolo sartorio e termina circa 2 cm a monte del margine superiore del condilo mediale del femore. Durante la sezione del tessuto sottocutaneo è necessario prestare la massima attenzione alla vena safena interna, che va preservata. L’arteria poplitea viene agevolmente preparata procedendo inferiormente al tendine del muscolo grande adduttore, lateralmente al quale essa decorre, o sezionandolo (Fig. 5). Per la preparazione dell’arteria poplitea sottoarticolare l’incisione cutanea segue una linea leggermente arciforme che parte circa 1 cm posteriormente al condilo mediale del femore, decorre circa 2 cm inferiormente al margine mediale della tibia e termina al passaggio tra il terzo prossimale ed il terzo medio della gamba. Occorre, anche in questo caso, prestare la massima attenzione alla safena interna, che viene reperita nel contesto della fascia superficiale della gamba. Si apre l’aponeurosi della gamba, si scolla il gemello mediale dalla faccia posteriore della tibia e si accede alla parte inferiore del cavo popliteo, ripiena di tessuto cellulo-adiposo lasso. Nel contesto di questo tessuto si reperisce l’arteria poplitea sottoarticolare. I vasi poplitei sono Figura 5: Preparazione della poplitea sopra-articolare. Malattia femoro-poplitea 109 avvolti da una guaina connettivale ed abitualmente disposti in modo che l’arteria sia accompagnata da due vene satelliti, una mediale e l’altra laterale (Fig. 6). A causa dell’intimo contatto avventiziale tra l’arteria e le vene satelliti, la preparazione di questo vaso richiede delicatezza. Questa via d’accesso permette inoltre la preparazione del tratto prossimale dell’arteria tibiale anteriore e del tronco tibio-peroniero. La prima origina in corrispondenza dell’arcata del soleo, si dirige verso la loggia antero-laterale della gamba, dopo aver attraversato la membrana interossea. La sua preparazione richiede spesso la sezione tra legature di un ramo satellite venoso. Incidendo prima l’arcata del soleo, poi le sue fibre muscolari in modo da deconnetterlo dalla faccia posteriore del corpo della tibia, è possibile preparare anche l’intero tronco tibio-peroniero. Per la preparazione contemporanea dell’arteria poplitea sia sopra- che sottoarticolare si può praticare un accesso mediale allargato, la cui incisione cutanea rappresenta la somma delle incisioni usate per la preparazione sopra e sottoarticolare, o più frequentemente un accesso posteriore con incisione a baionetta con paziente posizionato sul tavolo operatorio in decubito prono. L’incisione, nell’accesso posteriore, è orientata lungo l’asse longitudinale del cavo popliteo e sagomata a baionetta in modo da evitare la formazione di cicatrici retraenti (Fig. 7). Il tessuto sottocutaneo e la fascia poplitea vengono sezionati seguendo la stessa direzione dell’incisione cutanea. Nella parte inferiore dell’apertura fasciale occorre prestare attenzione alla safena esterna ed al suo nervo satellite che decorrono entro uno sdoppiamento della fascia della gamba. La vena safena esterna viene seguita come repere per la vena poplitea. In questa operazione bisogna evitare di ledere il nervo per il muscolo soleo, il quale, in prossimità della crosse safeno-poplitea, decorre in stretta vicinanza alla vena. In prossimità della crosse, la safena esterna incrocia posteriormente il nervo tibiale prima di confluire nella vena poplitea, abitualmente 2 cm superiormente all’interlinea articolare. Reperito il nervo tibiale e, al di sotto di questo, la vena poplitea, l’arteria decorre anteromedialmente alla vena e può essere esposta mediante la divaricazione delle formazioni muscolari che delimitano la losanga poplitea. Nella parte inferiore del campo operatorio il fascio vascolo-nervoso popliteo viene generalmente incrociato posteriormente dal muscolo plantare. Nei casi in cui sia necessaria la preparazione della parte inferiore dell’arteria poplitea o, addirittura del tronco tibio-peroniero, è necessario procedere alla sezione del tendine di questo muscolo. Esiste la possibilità, per la preparazione dell’arteria poplitea, di un accesso combinato, che associa la via d’accesso sia sopra che sottoarticolare a quella posteriore, e un accesso per via laterale che non viene usato quasi mai. 110 Capitolo 6 By-pass in vena autologa Il materiale migliore per il confezionamento di un by-pass è la vena autologa, per il basso rischio di infezione, per la presenza di uno strato endoteliale vitale sulla superficie di flusso che, unito alla componente elastica, riduce sensibilmente la trombogenicità, soprattutto in vicinanza delle sedi di anastomosi. Un posto di rilievo tra le vene è occupato dalla vena grande safena o vena safena interna. Questa vena decorrendo lungo tutto l’arto infe- Figura 6: Preparazione della poplitea distale e dei suoi rami di biforcazione. Figura 7: Via d’accesso posteriore all’arteria poplitea (schema). Malattia femoro-poplitea 111 riore, può essere utilizzata in due diverse maniere per il confezionamento di un by-pass, invertita o lasciata nella sua sede naturale. Vena safena invertita Quando si deve prelevare la vena grande safena per fare un by-pass in vena invertita, bisogna praticare un’incisione cutanea lungo tutto il decorso della vena (Fig. 8) repertata in precedenza o prevedere brevi incisioni cutanee. In questo caso il prelievo della vena è più difficoltoso, ma la guarigione della ferita è migliore. L’isolamento deve essere il meno traumatico possibile con una minima manipolazione e trazione della vena, soprattutto in corrispondenza dei vasi collaterali. L’emostasi delle collaterali viene assicurata mediante clip metalliche o legature in filo non riassorbibile 3/0 poste abbastanza vicino alla vena da non lasciare fondi ciechi ma non rasenti ad essa per non rischiare di determinare stenosi nel momento in cui la vena sarà distesa dalla pressione arteriosa. Dopo avere eseguito legatura e sezione delle collaterali della crosse safenofemorale, la vena viene prelevata e conservata in una soluzione fisiologica eparinizzata. Successivamente si clampano i vasi arteriosi. Prima del clampaggio della biforcazione femorale è necessaria un’eparinizzazione sistemica. L’arteriotomia longitudinale viene eseguita sulla faccia anteriore dell’arteria femorale comune subito a monte delle biforcazione. Quando si usa la vena invertita l’estremità venosa utilizzata per l’anastomosi prossimale è quella più lontana all’inguine (con le valvole a favore di flusso). L’estremità della vena, preparata a becco di flauto, viene anastomiz- Figura 8: Preparazione della vena grande safena a livello della coscia (Sn) e del terzo superiore di gamba (Dx). Da notare, a destra, la preparazione della poplitea e dei rami di biforcazione. 112 Capitolo 6 zata in modo latero-terminale alla femorale comune (Fig. 9). Successivamente si tunnellizza la vena con un decorso anatomico fino al III inferiore di coscia nel caso di debba eseguire un’anastomosi sull’arteria poplitea soprarticolare. Se bisogna confezionare un by-pass sottoarticolare la vena verrà portata fino al 1/3 superiore di gamba, nella sede dell’anastomosi. Si esegue l’anastomosi distale; prima di passare gli ultimi punti vanno eseguiti dei lavaggi verificando il flusso refluo nell’arteria utilizzata come sede d’anastomosi ed il flusso nel by-pass, permettendo anche l’espulsione dell’aria residua. Vena grande safena in situ Nella preparazione della vena da lasciare in situ si deve evitare una eccessiva scheletrizzazione, per non compromettere l’irrorazione parietale e per evitare accidentali lesioni del vaso. La preparazione della vena va dalla giunzione safeno-femorale fino ad un punto più a valle rispetto alla prevista sede anastomotica distale. Si controlla che la vena abbia un calibro adeguato lungo tutto il suo decorso (> 2 mm di diametro) e che non vi siano zone dilatate o fibrosclerotiche e si seziona la giunzione safeno-femorale. Dopo eparinizzazione sistemica si clampano i vasi femorali, si pratica l’arteriotomia, si modella l’estremità della vena a becco di flauto e si effettua l’anastomosi prossimale. Figura 9: Anastomosi prossimale tra arteria femorale e vena grande safena invertita. Malattia femoro-poplitea 113 Se la vena appare non sufficientemente lunga tra arteria femorale e vena si può interporre un tratto di protesi sintetica praticando le necessarie anastomosi (Fig. 10). Dopo aver confezionato l’anastomosi prossimale ed averne verificato la tenuta si procede alla devalvulazione della vena grande safena con apposito valvulotomo. Il confezionamento dell’anastomosi distale prevede che l’ultimo tratto della vena safena preparata venga portato sul piano arterioso, facendo attenzione ad evitare angolazioni di 90° o più della vena (Fig.11). Figura 10: Tratto di protesi sintetica interposta, a livello dell’anastomosi prossimale, tra l’arteria femorale e la vena grande safena la cui lunghezza è insufficiente per l’anastomosi diretta. Figura 11: Approfondimento della parte terminale della vena grande safena in situ per eseguire l’anastomosi distale. 114 Capitolo 6 Prima di completare l’anastomosi distale si verifica la qualità del flusso refluo e del flusso proveniente dalla protesi venosa. Al declampaggio si verifica la buona tenuta delle anastomosi e delle legature delle collaterali venose. Si procede poi a verificare la buona pulsatilità dei vasi femorali, della vena safena in situ e dei vasi a valle. Se la vena grande safena non è disponibile (pregresso stripping, by-pass aorto-coronarici, calibro non adeguato) si può utilizzare un altro materiale autologo come le vene degli arti superiori o la vena piccola safena; più raramente si prende in considerazione l’uso di vene del circolo profondo. Per ovviare alla carenza di materiale venoso autologo vi sono tecniche che prevedono l’uso combinato di materiale sintetico e vena autologa in modi diversi. Una possibilità consiste nel combinare questi due materiali (by-pass composito) per ottenerne uno di lunghezza adeguata per eseguire una rivascolarizzazione. Questo tipo di by-pass va preparato utilizzando la protesi sintetica per la parte prossimale, riservando il materiale venoso per quella più distale. In alternativa, una soluzione, preferibile in presenza di un’arteria poplitea “sospesa”, è quella di eseguire un by-pass femoro-popliteo in protesi sintetica (preferibilmente PTFE) ed impiantare sulla poplitea, in modo lateroterminale, il segmento venoso diretto al vaso distale prescelto (by-pass composito sequenziale). I risultati ottenuti mostrano percentuali di pervietà del 70% circa a 2 anni e del 50% a 3 anni. By-pass in protesi sintetica Viene realizzato quando non è disponibile materiale autologo per le ricostruzioni sottopoplitee o come prima scelta nel distretto femoro-popliteo soprarticolare (Fig. 12). Molti chirurghi preferiscono questa opzione come prima scelta perché ritengono che vi siano tassi di pervietà quasi sovrapponibili alle ricostruzioni in vena, che rimane sempre disponibile per un ulteriore intervento, e per la presenza di vantaggi quali la riduzione dei tempi operatori ed una minore invasività. Le protesi non autologhe, si distinguono in biologiche e sintetiche. Tra le protesi biologiche si annoverano le protesi omologhe arteriose e venose (segmenti vasali, freschi o conservati, prelevati da cadavere). I principali svantaggi di questi materiali sono rappresentati dal basso tasso di pervietà a distanza (< 20% di pervietà primaria e < 30% di pervietà secondaria a 5 anni) e dalla frequente degenerazione aneurismatica. Bisogna anche ricordare l’esistenza di materiale biologico usato per la composizione di protesi eterologhe, vasi o tessuti di altre specie animali modificati in laboratorio, come ad esempio l’arteria carotide bovina fissata con gluteraldeide. Queste non presentano, nel tempo, una significativa perdita di stabilità strutturale e mostrano risultati di pervietà buoni nel distretto Malattia femoro-poplitea 115 sopragenicolato (80% a 2 anni) ma insufficienti a livello sottogenicolare (26% a 2 anni). Un altro tipo di protesi sintetica è rappresentato dalle protesi tessute (Dacron) e non tessute (Teflon espanso, ePTFE). Al di sotto dell’articolazione del ginocchio vi è una netta preferenza per le protesi non tessute per la maggiore impermeabilità, la biocompatibilità, l’assenza di necessità di preclotting, ecc. Il limite maggiore di questi materiali è costituito dalla quasi totale assenza di compliance che invece è ben presente nei vasi; questa differenza di compliance tra protesi ed arteria comporta problemi emodinamici che possono causare iperplasia perianastomotica che nel distretto sottopopliteo si presenta con maggior frequenza. Il calibro protesico usato per il confezionamento di un by-pass femoropopliteo in protesi è di 7-8 mm. La tecnica di impianto differisce da quella di un innesto venoso: la sezione della protesi viene eseguita a mò di paletta, arrotondandone l’apice ed il tallone per evitare il rischio di stenosi a livello degli angoli dell’arteriotomia. La lunghezza della paletta deve essere di circa 2 volte il diametro della protesi, corrispondendo ad un angolo di circa 60°. Si confeziona prima l’anastomosi prossimale; la sutura tra la protesi (materiale rigido) e l’arteria deve essere precisa, dato che la rigidità della protesi non tollera imperfezioni nella sutura, in particolar modo a livello degli angoli. La tunnellizzazione può avvenire seguendo un percorso sottocutaneo o anatomico; il tragitto sottocutaneo esterno sembra ridurre il rischio di plicatura alla flessione del ginocchio quando il by-pass viene por- Figura 12: Immagine intraoperatoria di un by-pass femoro-popliteo sopragenicolato in protesi. 116 Capitolo 6 tato sulla poplitea distale. La realizzazione dell’anastomosi inferiore è analoga a quella del by-pass in vena. Il clampaggio della protesi a ridosso dell’anastomosi prossimale dovrà essere atraumatico. Tromboendoarterectomia Oggi trova indicazione molto limitata vista anche l’affermazione della tecnica endovascolare. Ha un razionale in presenza di lesioni segmentarie brevi e comporta la disobliterazione del tratto interessato, principalmente femorale o popliteo. La femorale comune è il segmento solitamente meno interessato dalla presenza di una lesione aterosclerotica localizzata, ma quando ciò avviene e si rende utile un intervento di endoarterectomia a cielo aperto, la pervietà a distanza risulta ottimale (oltre il 90% a 10 anni). Un intervento limitato a lesioni segmentarie della femorale superficiale mostra risultati di pervietà di oltre il 60% a 5 anni e del 50% circa a 10 anni. La tecnica semichiusa (Fig. 13) a livello della femorale superficiale trova indicazione nel tentativo di ottenere un buon vaso d’inflow per la ricostruzione distale quando il materiale venoso autologo disponibile non è sufficientemente lungo o in caso di lesioni diffuse delle femorale superficiale. Questa tecnica inizia con un’incisione inguinale per esporre la biforcazione femorale ed al terzo inferiore di coscia per esporre la femorale superficiale distale; dopo aver eseguito l’eparinizzazione sistemica del paziente ed aver valutato l’estensione della placca, a vasi clampati, si esegue la prima arteriotomia che può essere effettuata sulla femorale comune o sulla femorale Figura 13: Schema della tromboendoarterectomia con tecnica semichiusa. Malattia femoro-poplitea 117 superficiale; il corretto piano di dissezione si trova tra l’intima e la media ove la placca si scolla con facilità, con l’aiuto di un dissettore. Dopo aver separato la placca dalla media, si procede al posizionamento di un ring stripper di calibro adeguato all’interno dell’arteria. Imprimendo al ring stripper una delicata rotazione, questo viene diretto prossimalmente se la prima arteriotomia è stata eseguita sulla femorale superficiale o distalmente se la prima arteriotomia è stata effettuata sulla femorale comune; a questo punto si procede con l’asportazione in blocco dell’ateroma e si fissa l’estremità distale dell’intima con punti transfissi, per prevenirne la dissecazione da parte del flusso ematico. Viene successivamente eseguita la seconda arteriotomia che permette di valutare il punto terminale dell’endoarterectomia; anche in questo caso, se necessario, si fissa il lembo intimale con punti transfissi. Al termine si esegue un accurato lavaggio con soluzione eparinata. Si chiudono le arteriotomie con segmenti di vena safena interna di coscia e si esegue un controllo angiografico per individuare eventuali frammenti residui o flap intimali. I risultati ottenuti in caso di lesioni diffuse a carico della femorale superficiale (30 cm di arteria interessata in media) mostrano una pervietà a 5 anni del 40% circa. Profundoplastica L’indicazione più frequente è l’associazione ad un intervento di ricostruzione prossimale (by-pass aorto-femorale, axillo-femorale, femoro-femorale crossover) allo scopo di assicurare un soddisfacente accoglimento distale mentre resta controverso il suo utilizzo come tecnica isolata. La tecnica prevede la preparazione dei vasi femorali all’inguine, ma in questo caso bisogna eseguire la dissezione di un lungo tratto della femorale profonda. Dopo l’eparinizzazione sistemica ed il clampaggio dei vasi, si procede all’arteriotomia che interessa la parte terminale della femorale comune e la femorale profonda fino a che non viene individuato un lume adeguato; si esegue, quindi, l’endoarterectomia secondo la tecnica classica. Quando la profundoplastica è la sola terapia chirurgica adottata, l’arteriotomia viene chiusa con un patch d’allargamento (Fig. 14) che può essere costituito da un tratto di arteria femorale superficiale ostruita (dopo endoarterectomia), da materiale venoso (un ramo della vena safena interna) o da materiale sintetico (Dacron o PTFE). Dopo aver rilasciato gli angiostati, si controllano la tenuta dell’anastomosi (o del patch), la buona pulsatilità dei vasi a monte e a valle e si procede alla chiusura della ferita chirurgica. Nel caso in cui questa procedura venga effettuata per aumentare l’efflusso di un by-pass a destinazione femorale, la branca protesica viene suturata sull’arteriotomia (Fig. 15). 118 Capitolo 6 Terapia chirurgica endovascolare Il trattamento endovascolare delle lesioni femoro-poplitee nei claudicanti mostra più problemi rispetto al trattamento delle lesioni iliache, principalmente a causa del basso tasso di successo tecnico, del maggior tasso di complicanze e del più modesto successo a lungo termine. Le lesioni femoro-poplitee soddisfano meno facilmente i criteri che le rendono suscettibili al trattamento endovascolare. Le lesioni femoro-poplitee più adatte al trattamento endovascolare appartengono ai gruppi TASC A e B. Il trattamento endovascolare delle occlusioni femoro-poplitee può essere difficile, soprattutto per quelle di recente insorgenza. La semplice PTA può causare l’embolizzazione distale dei residui trombotici, evento che può aggravare i sintomi o determinare una condizione di arto a rischio. Figura 14: Profundoplastica. Dopo la TEA della femorale profonda, l’arteriotomia viene chiusa con un patch. Figura 15: Profundoplastica eseguita prima dell’anastomosi della branca protesica di un by-pass a partenza addominale. Malattia femoro-poplitea 119 Persino nelle occlusioni brevi, la PTA può non risultare sufficiente per ottenere un risultato soddisfacente e può essere necessario il posizionamento di un’endoprotesi. È anche difficile trattare con la sola PTA una stenosi calcifica eccentrica. La tecnica dello stenting per il trattamento di queste lesioni è una soluzione possibile anche se con risultati a lungo termine a volte non ottimali. Il gruppo di lavoro TASC ha mostrato che, su un totale di 1469 procedure endovascolari effettuate sul segmento femoro-popliteo, il successo tecnico è stato ottenuto nel 90% dei casi, le complicanze si sono avute nel 4,3% e la pervietà a 3 anni è stata del 51%. I risultati vengono influenzati dal tipo di lesione (stenosi o occlusione) e dalla qualità del run-off; uno studio ha riportato il 62% di pervietà a 5 anni in pazienti con stenosi e con un buon run-off, contro il 48% in quelli con occlusione; in caso di scarso run-off la pervietà è stata del 43% per le stenosi e del 27% per l’occlusione. Un altro studio conferma l’importanza del run-off e mostra che dopo angioplastica per lesioni < 5 cm in presenza di due o tre vasi tibiali pervi, il tasso di pervietà è stato del 78% a 3 anni, contro il 25% in presenza di un solo vaso tibiale presente. Importante è anche la lunghezza della lesione: lesioni di lunghezza minore di 5 cm presentano, in varie casistiche, tassi di pervietà ad un anno sempre superiori al 60%. Bisogna distinguere le stenosi dalle occlusioni: stenosi di lunghezza inferiore a 2 cm hanno una percentuale di pervietà primaria a 5 anni del 77%; stenosi di lunghezza superiore a 5 cm del 54%; occlusioni di lunghezza inferiore a 3 cm presentano una pervietà ad un anno del 93% contro il 50% per le occlusioni di lunghezza superiore a 3 cm. Angioplastica percutanea transluminale e sottointimale L’angioplastica percutanea transluminale prevede, attraverso l’espansione del pallone da angioplastica all’interno del lume vasle, la rottura della placca aterosclerotica e lo stiramento della media e dell’avventizia. La procedura viene eseguita in anestesia locale con monitorizzazione cardiaca e pressoria; la via d’accesso femorale, mediante cateterismo anterogrado, è la più utilizzata; vengono impiegati palloni di diametro di 4,5 e 6 mm per il segmento femoro-popliteo e palloni di 2-3 mm per i vasi distali (Fig. 16). Una corretta valutazione del diametro del vaso permette di evitare una sovradilatazione con il conseguente rischio di dissecazione. La complicanza più frequente è la dissecazione dell’intima. In caso di dissecazioni maggiori, si dovrebbe eseguire una nuova dilatazione per 4-5 120 Capitolo 6 minuti circa; se la dissecazione persiste è utile inserire uno stent di misura adeguata. L’angioplastica sottointimale per il trattamento delle lesioni occlusive femoropoplitee prevede, attraverso un accesso retrogrado controlaterale alla sede della procedura di angioplastica o anterogrado omolaterale, la formazione di un canale sottointimale mediante una guida idrofila ed un catetere rigido angolato 5 F; dopo aver superato l’occlusione, la guida viene fatta rientrare nel lume arterioso vero e, previa eparinizzazione sistemica, viene eseguita la dilatazione del tratto occluso mediante palloncini di 5 o 6 mm. I risultati di pervietà sono spesso sovrapponibili a quelli dell’angioplastica transluminale e mostrano un miglioramento della sintomatologia nel 42,3% dei pazienti trattati per ischemia critica (Fig. 17). Per il trattamento transluminale o sottointimale dei vasi sottopoplitei disponiamo, al momento, solo di risultati riguardanti il successo tecnico e la pervietà precoce che sfiora il 100%. Un’opzione particolare di angioplastica prevede l’uso di palloni su cui sono premontati microtomi chirurgici (cutting balloon). Questa tecnica permette di trattare stenosi refrattarie, ostiali o restenosi su stent. Figura 16: Ostruzione breve dell’arteria femorale superficiale che viene ripermeabilizzata con PTA. Malattia femoro-poplitea 121 I cutting balloon possono essere anche di ausilio nel trattamento di stenosi su by-pass in vena o in protesi sintetica. Stent Gli stent utilizzati nelle procedure endovascolari possono essere premontati su pallone o autoespansibili; il limite dei primi, sia nel segmento femoropopliteo che in quello distale è rappresentato dal rischio di deformazione traumatica o per compressione esterna. L’utilizzo degli stent che può essere sistematico (primario) o selettivo (secondario, per stenosi refrattarie, dissecazioni) è molto dibattuto. L’uso degli stent per le lesioni femoro-poplitee dovrebbe essere limitato ai casi in cui la PTA, in tutte le sue varianti, non ha ottenuto un risultato sufficiente (Fig. 18). Questo è vero particolarmente per l’occlusione da dissecazione. Il libero impiego degli stent non può essere raccomandato. Se il suo uso è necessario, lo stent deve essere il più corto possibile. Nel trattamento delle lesioni femoro-poplitee si cominciano ad usare anche gli stent ricoperti (Fig. 19). Figura 17: Angioplastica sottointimale. Attraverso un accesso retrogrado controlaterale alla sede di angioplastica o anterogrado omolaterale, si crea un canale sottointimale; dopo aver superato l’occlusione, la guida viene fatta rientrare nel lume arterioso vero e si esegue la dilatazione del tratto occluso. 122 Capitolo 6 Controllo post-operatorio e follow-up Il controllo post-operatorio nel trattamento chirurgico tradizionale, è focalizzato sia al monitoraggio dei principali parametri vitali sia alla verifica della corretta funzionalità della procedura eseguita. Figura 18: La PTA della stenosi dell’arteria femorale superficiale ha provocato la dissecazione del vaso; dopo posizionamento di uno stent si è ottenuta la completa ricanalizzazione del vaso con un buon risultato sia morfologico che emodinamico. Figura 19: Posizionamento di endoprotesi in arteria femorale superficiale. Malattia femoro-poplitea 123 S’imposta un monitoraggio dei parametri ematochimici e della pressione arteriosa. Data la frequente coesistenza di una cardiopatia ischemica e della malattia diabetica, si può rendere utile un controllo cardiologico e diabetologico; infatti l’intervento chirurgico può scompensare l’equilibrio glicemico e rendere necessario un momentaneo cambiamento della terapia precedentemente praticata. Nell’immediato post-operatorio il trattamento anticoagulante per via iniettiva viene preferito a quello antiaggregante per l’istantanea risposta farmacologia e per un minor rischio di sanguinamento in caso di reintervento. La scelta tra eparina standard (non frazionata) ed eparina a basso peso molecolare (frazionata) è controversa; il vantaggio nell’utilizzo di quella standard è quello di poter monitorizzare in maniera precisa i suoi effetti sulla coagulazione (PTT). In caso di procedura endovascolare con impianto di stent a livello femoropopliteo, l’associazione dell’eparina frazionata con l’aspirina sembra offrire risultati migliori rispetto all’associazione aspirina-clopidrogel e soprattutto rispetto all’impiego della sola aspirina. Dibattuto è anche l’utilizzo dei farmaci vasoattivi, soprattutto dei prostanoidi. La profilassi antibiotica varia a seconda della procedura chirurgica e del materiale protesico utilizzato. I primi due giorni dopo l’intervento è opportuno il mantenimento di una posizione clinostatica per evitare l’edema distale post-rivascolarizzazione e per favorire una più rapida cicatrizzazione delle ferite chirurgiche. Successivamente, il paziente può riprendere prudentemente la posizione ortostatica. Nel caso di procedura endovascolare, l’assunzione di una postura ortostatica avverrà il giorno successivo alla procedura, dopo la rimozione della medicazione compressiva. La verifica della corretta funzionalità della procedura chirurgica eseguita viene effettuata mediante controllo clinico, strumentale (eco-color-Doppler) e con una radiografia diretta del segmento di arto interessato (se è stato posizionato uno stent) per controllare la posizione e la corretta espansione dello stent. Complicanze immediate della chirurgia tradizionale Le complicanze cardiologiche sono le maggiori responsabili della mortalità precoce in pazienti sottoposti ad intervento di rivascolarizzazione; a queste seguono le complicanze respiratorie e renali. È importante una valutazione preoperatoria attenta e scrupolosa per definire il protocollo diagnostico e terapeutico da seguire nella prevenzione di queste complicanze. La monitorizzazione cardiologica postoperatoria può individuare anomalie fino a quel momento misconosciute e che devono essere corrette o controllate farmacologicamente. 124 Capitolo 6 Le complicanze respiratorie in pazienti a rischio possono essere evitate mediante fisioterapia preoperatoria, utilizzo di bronco-dilatatori e con la mobilizzazione precoce del paziente. La perdita di liquidi se associata ad una situazione preesistente d’insufficienza renale può aggravare quest’ultima e pertanto va scrupolosamente reintegrata. La stenosi o la trombosi precoce del by-pass riconoscono come causa precipua l’errore tecnico; situazioni favorenti sono rappresentate dalla trombogenicità del materiale protesico utilizzato, dallo scarso in-flow o out-flow, da sindromi di ipercoagulabilità. Il controllo angiografico intraoperatorio, quello Doppler post-operatorio, il monitoraggio emodinamico per evitare l’ipotensione, una terapia farmacologia anticoagulante appropriata rappresentano utili metodiche di prevenzione. Un reintervento immediato di correzione chirurgica del difetto tecnico e di asportazione o dissoluzione farmacologica del trombo trova indicazione in caso di trombosi del by-pass. Le infezioni protesiche precoci hanno una stretta correlazione con l’utilizzo di protesi sintetiche e con una situazione di preesistente infezione o scarse risposte immunitarie dell’ospite. La virulenza microbiologica si può manifestare per impianto diretto al momento dell’intervento o attraverso la deiscenza di una ferita, o per via ematica o linfatica da sorgenti di infezione a distanza. Le misure preventive comprendono la somministrazione profilattica di antibiotici, un ambiente ed una procedura asettica ed una chiusura a più strati delle ferite chirurgiche, con particolare attenzione all’inguine. Le opzioni terapeutiche variano: nel caso di un’infezione limitata si può ricorrere alla terapia antibiotica e ad un’asportazione dell’intera protesi con sostituzione in territorio asettico. L’emorragia perioperatoria e la formazione di ematomi vengono prevenute intraoperatoriamente con un’attenta dissezione ed un’accurata emostasi intraoperatoria. In situazioni di fondato rischio di sanguinamento postoperatorio, l’utilizzo di un drenaggio nella sede più declive dell’incisione evita un ematoma, che può compromettere la funzionalità del by-pass, e consente di monitorizzare le perdite ematiche. La preservazione del tessuto linfatico riduce al minimo l’edema post-rivascolarizzazione e l’insorgenza del linfocele o della fistola linfatica che, anche se poco temuti da un punto di vista generale, possono comportare un’infezione della ferita o della protesi. Un’accurata legatura dei linfatici durante la fase di preparazione ed un’adeguata sutura in più strati della ferita chirurgica possono limitarne fortemente l’insorgenza. Una linforragia di scarsa entità può essere trattata in maniera conservativa, vista la propensione al riassorbimento. Malattia femoro-poplitea 125 Complicanze immediate della chirurgia endovascolare Le complicanze che possono insorgere in seguito ad una procedura endovascolare vengono distinte in quelle che si verificano nella sede della puntura, nella sede della dilatazione, a distanza e quelle generali legate alla somministrazione di mezzo di contrasto. Le maggiori complicanze nella sede d’introduzione del catetere sono l’ematoma, lo pseudoaneurisma, la fistola artero-venosa, la trombosi. Raramente gli ematomi costringono ad un intervento chirurgico (0,5-2%) poiché vanno incontro a riassorbimento spontaneo; in presenza di pseudoaneurismi (1%), una compressione eco-guidata può comportare una risoluzione; l’uso dei sistemi di occlusione percutanei può prevenire queste complicanze. La trombosi dell’arteria a valle in corso di cateterismo ha un’incidenza dell’1% ed è solitamente conseguenza delle grandi dimensioni del catetere rispetto a quelle dell’arteria incannulata. La più comune complicanza nella sede della dilatazione è rappresentata dall’occlusione acuta che si verifica nel 4-7% dei casi ed è correlata ad una trombosi o ad una dissecazione. In caso di trombosi le opzioni terapeutiche sono l’infusione intra-arteriosa di un fibrinolitico o la tromboaspirazione percutanea. Solo eccezionalmente si può procedere, con particolare cautela, ad un’embolectomia aperta con catetere di Fogarty. Dopo la perforazione con la guida o con il catetere, nella maggior parte dei casi non si verificano conseguenze cliniche. Tuttavia, in caso di spandimento ematico particolarmente importante può essere utile il posizionamento di uno stent ricoperto. Le complicanze dell’insufflazione del pallone da dilatazione comprendono la dissecazione arteriosa e la rottura; nel primo caso, il meccanismo di dilatazione può comportare la formazione di flap intimali che possono essere trattati con una nuova dilatazione associata all’applicazione di uno stent per ottenerne l’adesione sulla parete arteriosa. La rottura arteriosa è molto rara, ma quando si verifica è utile mantenere in situ un palloncino gonfiato in modo da ottenere una momentanea emostasi in attesa di procedure chirurgiche. Nel caso di embolizzazione a distanza (1%), vi sono diverse procedure eseguibili; la tromboaspirazione consiste nel posizionamento di un catetere in prossimità dell’embolo che viene aspirato; un’altra metodica è la cosiddetta “push and park” che consiste nello spingere l’embolo in un vaso non dominante; infine l’embolo può essere modellato sulla parete arteriosa mediante un pallone da angioplastica. 126 Capitolo 6 Complicanze tardive della chirurgia tradizionale Il follow-up delle rivascolarizzazioni femoro-distali ha lo scopo di diagnosticare la comparsa di complicanze steno-ostruttive che possano minare la funzionalità del by-pass favorendo l’insorgenza di un nuovo stato di ischemia dell’arto; infatti, tali complicanze spesso si sviluppano in maniera asintomatica e determinano un’improvvisa occlusione del by-pass. Meno frequenti sono le complicanze aneurismatiche che possono svilupparsi in sede anastomotica o le complicanze infettive lungo il decorso di protesi non biologiche. Le lesioni steno-ostruttive che possono svilupparsi nella storia di un by-pass femoro-distale possono interessare le arterie a monte ed a valle del by-pass (patologia determinata dall’evoluzione della malattia aterosclerotica), il decorso o le anastomosi del by-pass. Poiché risulta difficile poter diagnosticare tali complicanze con una semplice valutazione clinica, il follow-up di una rivascolarizzazione d’arto mediante by-pass deve essere condotto con una valutazione clinico-strumentale che permetta di definire adeguatamente il circolo a monte ed a valle del by-pass nonché l’anastomosi prossimale, la protesi e l’anastomosi distale. A tale fine, attualmente, viene utilizzato come prima scelta l’eco-color-Doppler; tale metodica permette di studiare adeguatamente, in maniera incruenta, ambulatorialmente ed a basso costo sia i by-pass con decorso sottocutaneo che quelli che decorrono in sede anatomica. Nei by-pass confezionati con vena autologa la complicanza più frequente è quella steno-ostruttiva. Una lesione stenosante interessa il 15-37% dei by-pass e si può sviluppare in sede di anastomosi (20%) o lungo il decorso del by-pass (60-65%). La stenosi anastomotica è generalmente determinata da un’iperplasia miointimale; istologicamente questa è caratterizzata da una proliferazione di cellule muscolari lisce e da deposizione di matrice connettivale. La stenosi che si sviluppa lungo il decorso della protesi coinvolge generalmente le strutture valvolari ed ha la stessa composizione istologica di quella anastomotica. Nel 65-75% dei casi l’iperplasia miointimale si sviluppa nei primi 6-12 mesi mostrando una particolare aggressività nei primi 3-6 mesi post-operatori. Dovunque essa insorga, può essere causa di un fallimento tardivo del by-pass ovvero di una trombosi; l’incidenza di tale complicanza, ad un follow-up medio di 5 anni, varia tra il 25% ed il 70%. La sintomatologia di una stenosi emodinamicamente significativa sviluppatasi lungo il decorso del by-pass o nelle arterie native poste a monte o a valle varia in rapporto al quadro clinico pre-rivascolarizzazione. Nei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione dell’arto per ischemia critica, la stenosi Malattia femoro-poplitea 127 determina la ricomparsa di una sintomatologia ischemica (dolore a riposo, lesioni trofiche); al contrario, nei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione per una lesione trofica di origine traumatica o infettiva ed affetti da una arteriopatia steno-ostruttiva periferica silente (spesso si tratta di pazienti diabetici) la stenosi può risultare completamente asintomatica e può lentamente evolvere verso una trombosi del by-pass. Quest’ultimo gruppo di pazienti giustifica a pieno l’uso routinario dell’eco-color-Doppler nel followup dei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione; con tale metodica si possono diagnosticare precocemente e seguire nel tempo stenosi non emodinamiche, smascherare stenosi emodinamiche clinicamente asintomatiche o diagnosticare stenosi sintomatiche. L’eco-color-Doppler permette una valutazione morfologica ed emodinamica del by-pass. Attraverso la valutazione morfologica possiamo definire presenza ed entità di una stenosi, attraverso la valutazione emodinamica possiamo definire le alterazioni di flusso che essa determina. Il trattamento della stenosi in pazienti portatori di by-pass viene proposto, generalmente, in presenza di lesioni che determinano alterazioni emodinamiche ovvero una riduzione del lume del vaso superiore al 70%. Riguardo la frequenza con cui effettuare il controllo eco-color-Doppler di un by-pass in vena autologa vi è discussione in Letteratura. Alcuni Autori sostengono che i by-pass in vena vadano seguiti assiduamente per i primi 6 mesi (6 settimane, 3 mesi e 6 mesi) e che la frequenza dei controlli successivi vada programmata in rapporto al risultato del primo semestre; secondo tale metodo di sorveglianza i pazienti che non presentano lesioni stenosanti nei primi sei mesi non hanno necessità di effettuare controlli successivi, mentre i by-pass con sviluppo di stenosi devono essere sottoposti a controlli ravvicinati per 6 mesi; in questi ultimi casi se la lesione resta stabile si programmano controlli annuali, se tende ad evolvere se ne programma il trattamento. Altri autori sostengono un approccio diverso al follow-up dei bypass in vena. A loro parere il periodo di maggior sorveglianza dei by-pass deve essere esteso ai primi 12 mesi e per i due anni successivi è necessario, in assenza di lesioni stenosanti, effettuare controlli semestrali al termine dei quali, se non si apprezzano patologie stenosanti, si programmano controlli annuali a vita. Il razionale della sorveglianza clinico-strumentale annuale ed a vita è dato dal rischio annuo di stenosi di un by-pass in vena che oscilla tra il 2% ed il 4%. Se nel follow-up clinico-eco-Doppler si riscontra una stenosi del by-pass con rischio basso o medio di trombosi, gli autori ritengono che l’intervallo tra i controlli debba essere modificato riducendolo a 2-3 mesi. Per comprendere l’importanza della sorveglianza dei by-pass in vena è sufficiente sottolineare i risultati ottenuti in uno studio di confronto tra pervietà primaria assistita dei by-pass sottoposti a controllo clinico e a 128 Capitolo 6 controllo clinico-eco-Doppler o i risultati pubblicati riguardo il confronto tra pervietà secondaria dei by-pass sottoposti a controllo clinico e quelli sottoposti a controllo clinico-eco-Doppler. In entrambi gli studi i by-pass controllati con eco-color-Doppler hanno mostrato dal 15 al 25% di pervietà in più rispetto ai by-pass sottoposti a semplice controllo clinico; ovviamente a tale incremento di pervietà corrisponde un incremento della percentuale di salvataggio d’arto. Pertanto la sorveglianza eco-color-Doppler di un by-pass in vena previene la trombosi e garantisce il salvataggio dell’arto sottoposto a rivascolarizzazione. Entrambi questi aspetti sono particolarmente importanti nei by-pass con anastomosi distale su arterie della caviglia e del piede ovvero in by-pass estremi in cui il fallimento, spesso, non permette una distalizzazione del by-pass. Anche nei by-pass confezionati con protesi sintetiche la complicanza più frequente è la lesione steno-ostruttiva. Infrequente è la complicanza infettiva che generalmente si sviluppa in pazienti con lesioni trofiche periferiche ed ipertrofia dei linfonodi inguinali o nei pazienti che presentano una complicanza (deiscenza, infezione, linforragia) delle ferite chirurgiche. A differenza dei by-pass in vena autologa, l’incidenza della complicanza stenosante (stenosi anastomotica prossimale e/o distale + stenosi lungo il decorso del by-pass) è bassa. Essa risulta, infatti, inferiore all’8% e si sviluppa generalmente in sede di anastomosi distale. Uno studio non ha mostrato differenze significative nella percentuale di pervietà primaria assistita tra by-pass controllati clinicamente e by-pass controllati anche con eco-color-Doppler. Ciò induce ad affermare, al contrario di quello che si sostiene per i by-pass in vena autologa, che il follow-up eco-colorDoppler dei by-pass femoro-distali in protesi sintetica è inefficace nell’incrementare la pervietà primaria assistita e, quindi, che il suo costo è ingiustificato. In presenza di una stenosi di grado severo o di una stenosi di media entità lungo il decorso di un by-pass in vena, di una stenosi emodinamica in sede di anastomosi prossimale e/o distale o di lesioni steno-ostruttive severe delle arterie native a monte ed a valle del by-pass è necessario un approccio terapeutico aggressivo. La scelta del trattamento (endovascolare o chirurgico) varia in rapporto all’estensione della lesione ed alla sua causa. Le lesioni segmentarie di origine aterosclerotica lungo le arterie native (sia a monte che a valle), da iperplasia miointimale in sede anastomotica o lungo il decorso del by-pass o da ipertrofia di strutture valvolari lungo il decorso del by-pass in vena devono essere trattate per via endovascolare mentre le lesioni estese necessitano di terapia chirurgica (by-pass o angioplastica chirurgica). Malattia femoro-poplitea 129 Complicanze tardive del trattamento endovascolare Il tasso di fallimento tardivo delle procedure endovascolari non è trascurabile ed è essenzialmente caratterizzato dalla restenosi e dalla trombosi. Le stenosi e le occlusioni arteriose femoro-poplitee sono più comuni rispetto a quelle iliache. Sono lesioni tipicamente lunghe, multiple ed ulcerate. Il successo tecnico in tale distretto è del 90% nel trattamento delle stenosi e varia dall’80 al 93% per le occlusioni lunghe. Tuttavia l’elevato tasso di restenosi (fino al 78% dopo un anno) ed i risultati contrastanti riportati in letteratura lasciano aperto il dibattito sulla validità di tale trattamento. In considerazione dell’alto tasso di restenosi che grava sulle procedure endovascolari per il trattamento delle arteriopatie periferiche, è raccomandabile eseguire un attento follow-up clinico e con eco-color-Doppler a scadenza regolare. I protocolli più seguiti propongono un primo controllo ad un mese e poi a 3, 6, 12 mesi e con successiva scadenza semestrale, riservando l’utilizzo dell’arteriografia nei casi di evidenza ecografica di restenosi. 130 Capitolo 6 Letture consigliate D’Addato M., Bracale G.C., Odero A., Spartera C, Stella A: Il follow-up in Chirurgia Vascolare Edizioni Minerva Medica, Torino 1998 D’Amico D.F., Manuale di chirurgia McGRAW-HILL, 2000 Dionigi R., Chirurgia, basi teoriche e chirurgia generale Masson, 2002 Vol I e II Enciclopedie Medico-Chirurgicale: Angeiologie Editions Scientifiques ed Medicales Elsevier SAS Parigi Enciclopedie Medico-Chirurgicale: Tecniche Vascolare SAS Roma-Parigi, Vol. I e II Chirurgiche-Chirurgia Hallett J.W.: Compendio di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare Elselvier 2005 Lambertini G., Mezzogiorno V.: Anatomia dell’uomo Piccin, 1985 Vol I Moore Wesley S.: Compendio di Chirurgia Vascolare Antonio Delfino Editore, 2000 Pratesi C., Pulli R. Arteriopatie obliteranti femoro-poplitee Edizioni Minerva Medica, Torino 2002 Rabbia C., Matricardi L.: Eco-color-doppler vascolare Edizioni Minerva Medica, 2005 Rutherford Robert B.: Atlante di chirurgia vascolare, Verducci Editore Rutherford Robert B.: Chirurgia Vascolare Antonio Delfino Editore, 1998 Vol. I e II Schneider Peter A.: Endovascular Skills Marcel Dekker, Inc. Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare: Chirurgia Vascolare: patologia, diagnosi e trattamento delle malattie vascolari di interesse chirurgico Edizioni Minerva Medica, Torino 2001 Spartera C.: Chirurgia delle arterie Masson Editore, 2005 131 132 QUADERNI DI CHIRURGIA VASCOLARE (di prossima pubblicazione) 5. Insufficienza cerebro-vascolare Finito di stampare nel mese di settembre del dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.» Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma