QUADERNI DI CHIRURGIA VASCOLARE
04
Collana della Scuola
di Specializzazione in Chirurgia Vascolare
dell’Università degli Studi di L’Aquila
diretta da Carlo Spartera
Carla Petrassi / Raffaele D’Adamo
Federico Accrocca / Alessandro Mastromarino
Arteripoatia ostruttiva
cronica degli arti inferiori
Copyright © MMVII
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www.aracneeditrice.it
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00173 Roma
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
(06) 93781065
ISBN 978–88–548–1189–8
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
I edizione: giugno 2007
Indice
Prefazione ……………………………..……………………..........
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Capitolo 1
Patologia ostruttiva degli arti inferiori…………………….…
9
Capitolo 2
Fisiopatologia ed anatomia patologica ……………………...
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Capitolo 3
Classificazione ed inquadramento clinico ……………….…
31
Capitolo 4
Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori…….
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Capitolo 5
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca………….………
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Capitolo 6
Malattia femoro-poplitea……………....................................
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Letture consigliate ……………………………………………..
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Prefazione
L’arteriopatia ostruttiva cronica degli arti inferiori è, forse, la patologia che
più spesso porta il paziente dal chirurgo vascolare.
La sua importanza dal punto di vista epidemiologico e le sue implicazioni
socio-economiche sono ben codificate da tempo.
Il coinvolgimento delle arterie degli arti inferiori da parte della malattia arteriosclerotica ha sempre costituito uno dei grandi capitoli della chirurgia vascolare. L’arteriosclerosi a livello dell’aorta addominale e delle arterie degli
arti inferiori può assumere aspetti che, se clinicamente possono sembrare simili tra loro, dal punto di vista anatomico, fisiopatologico, terapeutico e prognostico possono essere estremamente diversi.
La chirurgia di queste lesioni è andata incontro, nel tempo, ad un’importante
evoluzione soprattutto concettuale. Negli anni Settanta i chirurghi vascolari
ritenevano che tutte le lesioni delle arterie degli arti inferiori dovessero, ove
possibile, essere corrette con un by-pass. Dopo anni nei quali ci si è dovuti
confrontare con risultati non brillanti dal punto di vista della durata nel tempo
e del vantaggio clinico per il paziente, si è giunti oggi alla consapevolezza
che ogni paziente va valutato come un caso unico e che, soprattutto per le arterie al di sotto dell’inguine, vi sono situazioni nelle quali l’atteggiamento
migliore è quello di instaurare una terapia medica mirata che può ottenere,
insieme all’adozione di uno stile di vita adeguato, risultati identici, se non migliori, rispetto alla chirurgia.
L’avvento della chirurgia endovascolare, poi, ha fatto scoprire nuove prospettive terapeutiche per questo genere di lesioni. In alcuni distretti, oggi, la terapia endovascolare delle lesioni arteriose è diventata la terapia di scelta, per la
sua scarsa aggressività ed i buoni risultati ottenuti. In altri distretti le sue indicazioni non sono ancora così ampie, ma le limitazioni si riducono proporzionalmente ai progressi delle tecnologie in questo settore.
Tutti questi aspetti, da quelli più semplicemente clinico-diagnostici, alle ultime novità in campo terapeutico sono illustrate in questo libro che, certamente, risulterà utile sia agli “addetti ai lavori” sia a coloro che vogliono conoscere i progressi della scienza medica in questo settore.
Carlo Spartera
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1. Patologia ostruttiva degli arti inferiori
Cenni di anatomia
L’aorta addominale (Fig. 1) si estende dalla XII vertebra toracica, a livello
dello iato aortico del diaframma, fino allo spazio tra IV e V vertebra lombare,
dove si biforca nelle due arterie iliache comuni (carrefour aortico). Ha una
lunghezza di 12,5-13,5 cm ed un calibro che oscilla da 1,5 a 2,3 cm a seconda
della costituzione individuale, del sesso e dell’età del soggetto. Decorre nello
spazio retroperitoneale sulla superficie anteriore dei corpi vertebrali, in stretto
rapporto a destra con la vena cava e con il dotto toracico, in avanti con il
fegato, lo stomaco, il duodeno, il pancreas, la vena renale sinistra e con il
mesentere, a sinistra con la vena mesenterica inferiore, i vasi genitali e
l’uretere. Inoltre nel tessuto cellulare lasso che la ricopre, nello spazio
retroperitoneale, sono presenti elementi linfatici e nervosi. Nel suo decorso
emette alcuni rami parietali, le arterie freniche e le lombari, ed importanti
Figura 1: Aorta addominale e suoi rami principali (in rosso).
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Capitolo 1
rami viscerali: il tripode celiaco, l’arteria mesenterica superiore, le arterie
renali, le arterie genitali e l’arteria mesenterica inferiore. I rami parietali, ma
soprattutto quelli viscerali, svolgono un ruolo importante nei processi di
formazione del circolo collaterale.
Il tripode celiaco origina poco al di sotto dell’orifizio aortico del diaframma e
si divide in 3 rami: le arterie gastrica sinistra, splenica ed epatica. L’arteria
mesenterica superiore nasce circa 1 cm al di sotto del tronco celiaco, irrora
principalmente l’intestino tenue, il colon ascendente e il colon trasverso.
Le arterie renali, pari e simmetriche, originano in corrispondenza della I
vertebra lombare, la sinistra leggermente più in alto della destra. L’arteria
mesenterica inferiore nasce in prossimità della biforcazione aortica a livello
della III vertebra lombare; provvede all’irrorazione del colon discendente e
del sigma attraverso l’arteria colica sinistra, le arterie sigmoidee e le
emorroidarie superiori, suoi rami terminali. Questi rami formano una vasta
rete di collegamento anastomizzandosi non solo tra loro ma anche con i rami
dell’arteria mesenterica superiore, del tronco celiaco e dell’arteria
ipogastrica.
Le arterie iliache comuni decorrono obliquamente in basso e lateralmente,
fino a livello della base della V vertebra lombare, in corrispondenza del
margine superiore dell’ala del sacro dove si biforcano nei loro rami terminali.
Hanno una lunghezza media di 4,5-7 cm ed un calibro di circa 6,5-7 mm. In
avanti sono ricoperte dal peritoneo parietale, incrociate dai rami del simpatico
e dalle linfoghiandole iliache. L’arteria iliaca comune di sinistra è incrociata,
nella sua porzione terminale, dall’uretere. A destra la vena iliaca comune
decorre postero-lateralmente all’arteria del suo lato e posteriormente a
quest’ultima arteria decorre il tratto terminale della vena iliaca comune di
sinistra. Medialmente, l’arteria iliaca comune di sinistra è costeggiata dalla
vena iliaca comune di sinistra.
Raggiunta l’articolazione sacro-iliaca ogni arteria iliaca comune si divide nei
due rami terminali, l’uno mediale, l’arteria ipogastrica, l’altro laterale,
l’arteria iliaca esterna. L’arteria ipogastrica, oltre a provvedere all’irrorazione
degli organi pelvici, dei genitali e della parte postero-mediale della coscia,
partecipa alla formazione dei sistemi anastomotici lombare, mesenterico ed
iliaco-femorale.
L’arteria iliaca esterna decorre lateralmente in basso fino all’anello femorale,
sotto il legamento inguinale, dove diviene arteria femorale comune. La
lunghezza media dell’arteria è di 10 cm, il suo calibro nell’uomo è di 7 mm,
6,5 mm nella donna. Ricoperta dal peritoneo, anteriormente è in rapporto con
l’uretere, il dotto deferente nell’uomo, l’ileo ed il cieco a destra ed il sigma a
sinistra. Medialmente è presente la vena omonima, mentre posterolateralmente è in rapporto con il muscolo psoas.
Patologia ostruttiva degli arti inferiori
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L’arteria femorale comune, continuazione diretta dell’iliaca esterna, è lunga
circa 4 cm (Fig. 2). Essa termina nel canale femorale dove si biforca in arteria
femorale superficiale e arteria femorale profonda. È ricoperta dalla fascia
lata; lateralmente è in rapporto con lo psoas ed il nervo femorale,
medialmente con la vena omonima e con i vasi linfatici, mentre posteriormente riposa sui muscoli pettineo e ileopsoas. Si continua direttamente
nell’arteria femorale superficiale, che decorre nel canale femorale delimitato
anteriormente dal muscolo sartorio, mediamente e posteriormente dagli
adduttori e lateralmente dal femore. Il calibro della femorale superficiale
tende a ridursi, in senso cranio-caudale, dai 9 ai 5 mm. Essa termina al canale
degli adduttori, detto anche canale di Hunter, dove si continua con l’arteria
poplitea. La vena femorale decorre medialmente all’arteria nel tratto
prossimale, mentre verso il basso tende a portarsi postero-lateralmente ad
essa.
L’arteria femorale profonda nasce dalla faccia postero-laterale dell’arteria
femorale comune, si insinua nell’interstizio fra i muscoli adduttore lungo ed
adduttore breve, inviando numerosi e cospicui rami per i muscoli della coscia. Quest’arteria è molto importante poiché, in caso di ostruzione della femorale superficiale, essa diviene la fonte principale per il circolo collaterale
Figura 2: Principali arterie dell’arto inferiore.
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Capitolo 1
che garantisce la perfusione della gamba e del piede grazie al grande numero
di rami collaterali anastomotici esistenti tra questo vaso e i rami genicolari.
L’arteria poplitea, prosecuzione della femorale superficiale, si estende
dall’anello degli adduttori a quello del soleo. Essa diviene posteriore ed
occupa il piano profondo del cavo popliteo. Anteriormente poggia sul piano
fibroso dell’articolazione del ginocchio, è costeggiata dalle vene poplitee,
solitamente due, e postero-lateralmente presenta il nervo ischiatico. Ha un
calibro variabile dai 6 ai 4 mm. Presenta molti rami collaterali che costituiscono la rete perirotulea.
Oltrepassato l’anello del soleo l’arteria poplitea si biforca nei suoi rami terminali: l’arteria tibiale anteriore ed il tronco tibio-peroniero.
L’arteria tibiale anteriore, subito dopo la sua origine, attraversa lo spazio
interosseo per giungere nella regione anteriore della gamba. Discende fino al
legamento anulare anteriore del tarso e si continua nell’arteria pedidia che
partecipa alla formazione delle arcate dorsali e plantari del piede.
Il tronco tibio-peroniero discende sulla faccia dorsale della gamba e, dopo un
breve tratto, termina biforcandosi nelle arterie tibiale posteriore e interossea o
peroniera.
L’arteria tibiale posteriore, ramo mediale di biforcazione, discende lungo la
faccia posteriore della gamba fino al margine dorsale del malleolo mediale
dove si biforca nelle arterie plantare laterale e mediale. L’arteria plantare
laterale si anastomizza con il ramo plantare profondo della pedidia, formando
l’arcata plantare profonda.
L’arteria interossea si porta obliquamente, in basso e lateralmente, decorrendo caudalmente a ridosso della fibula fino al malleolo laterale ove si risolve nei suoi rami terminali, i rami calcaneari.
Circoli collaterali
Lo sviluppo di circoli collaterali (Fig. 3) nella malattia ostruttiva aorto-iliaca
permette in genere un valido compenso, tale che la fenomenologia clinica si
sviluppa molto tardivamente e raramente raggiunge gli stadi più avanzati. Ciò
è in relazione all’ampia distribuzione dei circoli addominali e pelvici, al
calibro dei singoli componenti e alla loro rilevanza funzionale.
Le principali vie collaterali sono, in senso cranio-caudale:
- la via epigastrica che inizia dall’arteria epigastrica superiore, passa per
l’arteria epigastrica inferiore e si raccorda all’arteria femorale comune;
- la via lombare, con inizio dalle arterie lombari e raccordo all’arteria iliaca
interna (o ipogastrica), attraverso l’arteria ilio-lombare, nonché all’arteria
femorale comune attraverso l’arteria circonflessa dell’ilio;
Patologia ostruttiva degli arti inferiori
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- la via mesenterica, con inizio dall’arteria mesenterica superiore e raccordo
con l’arteria mesenterica inferiore, oppure con inizio dall’arteria mesenterica
inferiore e raccordo all’arteria iliaca interna attraverso il sistema emorroidario
supero-inferiore;
- la via otturatoria, con inizio dall’arteria ipogastrica e raccordo con l’arteria
femorale comune attraverso l’arteria circonflessa mediale del femore.
Sistemi collaterali di minore importanza sono quelli fra i rami delle due
arterie iliache interne (o ipogastriche), specialmente nella steno-ostruzione
dell’iliaca comune di un solo lato.
A livello del distretto arterioso sottoinguinale i circoli collaterali più costanti
(Fig. 4) sono sostenuti dall’arteria circonflessa iliaca superficiale e dall’arteria
epigastrica. L’arteria femorale profonda dà origine all’arteria circonflessa
mediale del femore, all’arteria circonflessa laterale del femore (che spesso
origina insieme all’arteria del quadricipite con un tronco comune), a 3-4 rami
perforanti per i muscoli posteriori della coscia, a 1-4 arterie quadricipitali e alle
arterie degli adduttori. Tutti questi rami costituiscono l’elemento fondamentale
del circolo collaterale nella parte più prossimale dell’arto inferiore. L’arteria
poplitea decorrendo nella losanga poplitea fornisce le arterie articolari superiori
mediale e laterale, le arterie gemellari mediale e laterale, l’arteria articolare
Figura 3: Circoli collaterali intermesenterici e con i rami delle arterie
ipogastriche.
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Capitolo 1
media e le arterie articolari inferiori mediale e laterale. Le arterie articolari
superiori ed inferiori circondano l’articolazione del ginocchio ed in avanti si
anastomizzano tra loro, con la suprema del ginocchio e con la ricorrente
tibiale anteriore.
L’arteria tibiale anteriore, lungo il suo decorso, fornisce l’arteria ricorrente
tibiale anteriore, la ricorrente tibiale posteriore (incostante), rami muscolari
per i muscoli anteriori della gamba e le arterie malleolari anteriori mediale e
laterale.
I rami collaterali della tibiale posteriore sono i rami muscolari per i muscoli
posteriori della gamba, un ramo che entra a far parte del circolo perimalleolare, un ramo anastomotico con l’arteria peroniera e rami calcaneari che donano un’altra arcata anastomotica con la peroniera.
I rami collaterali dell’arteria peroniera sono rami muscolari, un ramo perforante che si anastomizza con la tibiale anteriore, un ramo anastomotico con la
tibiale posteriore e un ramo malleolare posteriore.
È necessario sottolineare che la quantità e la qualità del circolo collaterale
sono strettamente correlate al livello della patologia steno-ostruttiva; più
prossimale sarà la patologia, maggiori saranno le possibilità di circolo
collaterale; quanto più distale è la lesione steno-ostruttiva tanto minore sarà
l’entità del circolo collaterale.
Figura 4: Circoli collaterali a livello femoro-popliteo.
Patologia ostruttiva degli arti inferiori
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Emodinamica
Per parlare della fisiologia della circolazione arteriosa si devono prendere in
considerazione sia i vasi sanguigni (intesi tanto come “tubi” all’interno dei quali
scorre un liquido il cui movimento è regolato da alcune leggi, quanto come
apparato che può modificare il proprio stato in funzione di numerose variabili),
sia il sangue contenuto nei vasi stessi, prendendo in considerazione la sua
composizione ed il suo comportamento all’interno del sistema vasale. Vasi e
sangue entrano poi nel complesso meccanismo della coagulazione.
Il meccanismo della circolazione è regolato dalle leggi fisiche dell’idrodinamica. Peraltro bisogna tener presente che, contrariamente ai postulati
idrodinamici, i vasi sanguigni non sono tubi rigidi, il sangue è un liquido con
caratteristiche particolari ed il flusso sanguigno è pulsante nella maggiore
parte del letto vasale.
Il moto dei fluidi è oggetto di studio sia della cinetica che della cinematica.
La prima scienza studia le forze che determinano il movimento, le grandezze
che lo definiscono (pressione, flusso, resistenza) e le leggi che legano queste
grandezze; la cinematica studia la geometria del moto (laminare, turbolento).
Per viscosità di un fluido si intende la resistenza al flusso opposta dal fluido
stesso; è pertanto la proprietà che esprime l’opposizione al moto relativo di
parti adiacenti del fluido. La viscosità viene comunemente espressa con la
lettera ŋ (coefficiente di viscosità) ed il suo inverso, la fluidità, con il
rapporto 1/ŋ.
Il sangue è un liquido reale con molte peculiarità che lo allontanano da altri
fluidi reali sui quali vengono comunemente applicati gli studi dell’idrodinamica. Esso è un liquido viscoso, costituito da una sospensione di eritrociti,
leucociti, piastrine e lipidi in una soluzione colloidale di proteine. Il volume
percentuale di sangue costituito da cellule viene definito ematocrito; normalmente il valore dell’ematocrito si aggira intorno al 42% nell’uomo e al
38% nella donna. Tanto maggiore è la percentuale di cellule nel sangue, tanto
più elevato sarà l’ematocrito e tanto maggiore l’attrito tra i vari strati del
sangue all’interno dei vasi.
L’aumento dell’ematocrito determina, quindi, un aumento notevole della
viscosità.
Per flusso ematico s’intende la quantità di sangue che passa per un determinato segmento vasale del sistema circolatorio in un definito periodo di tempo.
Esso può essere espresso in millilitri al secondo (ml/sec) o litri al minuto
(l/min).
Il flusso ematico complessivo di un organismo umano adulto corrisponde alla
gittata cardiaca: rappresenta, infatti, la quantità di sangue che ciascuno dei
ventricoli pompa nell’unità di tempo. Il flusso arterioso, infatti, è determinato
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Capitolo 1
dal cuore che fornisce una certa energia alla massa ematica circolante. Il
flusso arterioso è pulsante e sincrono con la sistole cardiaca. Più precisamente, il sangue scorre nelle arterie e subisce accelerazioni durante la sistole; la
continuità del flusso è garantita dall’energia immagazzinata in fase sistolica
dalle pareti delle grandi e medie arterie che si dilatano: tale energia viene restituita, sotto forma di spinta alla massa ematica, durante la diastole allorché
le arterie ritornano al loro calibro basale.
L’energia totale fornita dal cuore è costituita da una parte di energia potenziale e da una parte di energia cinetica. L’energia potenziale è composta da:
- pressione intravascolare, conseguenza diretta dalla spinta fornita alla massa
ematica dal cuore;
- pressione idrostatica, strettamente correlata all’altezza della colonna
ematica in un vaso;
- energia potenziale gravitazionale: tale grandezza rappresenta l’opposto della
pressione idrostatica.
L’energia potenziale si estrinseca come tensione laterale sulle pareti vasali.
L’energia cinetica è rappresentata dalla velocità di scorrimento del sangue nei
vasi.
Il principio fisico che regola i rapporti tra energia potenziale ed energia
cinetica di un fluido ideale è il principio di Bernoulli. Secondo tale teorema
l’energia totale di un fluido, data dalla somma dell’energia potenziale,
dell’energia cinetica e dell’energia di gravità, resta costante in ogni punto del
condotto in cui il fluido scorre.
Le altre leggi dell’idrodinamica applicabili alla circolazione ematica sono le
seguenti.
Teorema di Venturi: diretta conseguenza del Teorema di Bernoulli, il
Teorema di Venturi si applica nel caso in cui vi siano variazioni di calibro del
condotto. Fermo restando che la portata del condotto e l’energia totale del
fluido devono rimanere costanti, la riduzione di calibro viene compensata da
un aumento di velocità del liquido stesso (cioè da un aumento dell’energia
cinetica) e da una riduzione direttamente proporzionale della pressione che il
liquido esercita sulle pareti del condotto (energia potenziale). Questa legge
trova la sua applicazione pratica nel caso in cui il diametro di un vaso venga
ridotto dalla presenza di una placca arteriosclerotica (ATS); fino a quando la
portata ematica nell’unità di tempo resta costante, la riduzione del diametro
vasale non ha ripercussioni sulla vascolarizzazione né evidenziazioni
cliniche; quando la progressione della placca ATS comporta una riduzione
del lume vasale del 70% o più (placca emodinamicamente efficiente) si ha
una riduzione del flusso nel territorio a valle.
Patologia ostruttiva degli arti inferiori
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Legge di Poiseuille: questa legge afferma che, in condizioni di flusso
laminare, il moto di un fluido è garantito da una differenza di pressione tra i
due estremi del condotto considerato.
È noto a tutti che, affinché il sangue possa distribuirsi a tutto l’albero
arterioso, è necessario che in segmenti successivi del letto vascolare vi siano
regimi tensivi diversi; in particolare il sangue si muove da un distretto a
pressione maggiore verso uno a pressione inferiore. Inoltre la maggior
quantità di flusso si dirigerà verso il territorio che oppone le resistenze
minori.
Legge di Leonardo: l’assunto di questa legge è che la portata del condotto è
costante in ogni suo punto e che dipende dalla superficie di sezione del
condotto e dalla velocità di scorrimento del fluido. Essendo questi fattori in
proporzione diretta tra loro è ovvio che, affinché il prodotto rimanga costante,
la variazione di uno di essi determina la variazione uguale e contraria
dell’altro; la riduzione della sezione vasale comporterà un incremento di
velocità del sangue, mentre un suo aumento determinerà un rallentamento del
flusso.
Coagulazione
La coagulazione è un meccanismo fisiologico molto complesso nel quale
interagiscono, in perfetto equilibrio, le attività coagulanti, anticoagulanti,
fibrinolitiche ed antifibrinolitiche proprie dell’organismo. L’alterazione di
questo delicato equilibrio, in qualunque senso si verifichi, determina l’attivazione di meccanismi patologici che possono provocare danni come, ad
esempio, trombosi vasali con conseguenze ipo-anossiche per il territorio
interessato.
Allo scopo di ostacolare le potenzialità trombogene del sangue sono presenti,
nel torrente circolatorio, delle sostanze ad azione anticoagulante ed esiste,
inoltre, il processo fibrinolitico governato dalla plasmina che, però, a sua
volta, può venir ostacolata dalla presenza di potenti antiplasmine. Da tutto ciò
si capisce facilmente come solo un giusto equilibrio tra i diversi processi,
dettato e governato dalle esigenze del momento, possa assicurare il corretto
funzionamento di un meccanismo tanto delicato.
Un aspetto importante da ricordare, per le sue implicazioni fisiopatologiche, è
che il sistema coagulativo è in attività continua, seppure ad un livello
minimo, per cui quando si crea la necessità di formare un trombo, il sistema
coagulativo non si trova a partire da zero, ma aumenta solamente il suo
livello di attività. Tale continua attività implica necessariamente la presenza
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Capitolo 1
di una serie di meccanismi che modulano il potenziale coagulativo impedendo l’eccessiva formazione di fibrina.
La conoscenza di tutti i meccanismi implicati nel processo coagulativo
assume importanza nella pratica clinica quando ci si trovi di fronte a situazioni in cui l’equilibrio esistente fra i sistemi sia sbilanciato in senso trombotico o, al contrario, emorragico.
La malattia arteriosclerotica, per le alterazioni sue proprie e per la sua storia
naturale ed evoluzione, è una di quelle situazioni che si possono definire in
equilibrio instabile, in cui molti fattori possono far volgere l’ago della
bilancia verso la trombosi. Proprio in quest’ottica è doveroso applicare, una
terapia preventiva di questo fenomeno usufruendo dei farmaci che la moderna tecnologia mette a disposizione e che possono agire sull’aggregazione
piastrinica o sui fattori plasmatici della coagulazione.
In questa sede vale la pena ricordare che l’azione antiaggregante piastrinica si
può esplicare a diversi livelli: rendendo indisponibile il Ca++ (indispensabile
in molte fasi del processo aggregativo), inibendo l’azione degli enzimi
(ciclossigenasi, fosfodiesterasi) che favoriscono la produzione di sostanze ad
azione aggregante, potenziando l’azione di enzimi (adenilciclasi) che
catalizzano la produzione di sostanze antiaggreganti. L’azione delle sostanze
che agiscono sui fattori della coagulazione si esplica in alcuni casi con
l’opposizione alla loro azione (eparina), in altri mediante l’inibizione del
metabolismo di sostanze Vit. K-dipendenti indispensabili alla loro sintesi
(dicumarolici).
2. Fisiopatologia ed anatomia patologica
Fisiopatologia dell’ostruzione arteriosa
Normalmente il flusso muscolare è compreso tra 1,5 e 6 ml/100g/min con
grande variabilità nell’ambito dello stesso muscolo e tra un muscolo e l’altro.
Durante l’attività muscolare il flusso aumenta fino a 80-100 ml/100 g/min. Il
problema chiave della circolazione muscolare è rappresentato dalla
possibilità di incrementare il flusso ematico durante l’attività e fornire la
maggior quantità di O2 richiesta. La possibilità di soddisfare tale esigenza è
strettamente legata alla capacità di vasodilatazione e di utilizzazione del letto
capillare normalmente non funzionante. In condizioni normali la vasodilatazione inizia con la contrazione muscolare ed è sottoposta ad un controllo
nervoso, metabolico ed ormonale. La regolazione nervosa è prevalentemente
di pertinenza del sistema simpatico che svolge un’azione vasocostrittrice
responsabile del normale tono vasale. Anche se esistono fibre vasodilatatrici,
la vasodilatazione è prevalentemente legata alla riduzione degli stimoli
vasocostrittori. La dilatazione nervosa permane per circa un minuto dopo la
fine dell’esercizio muscolare. La regolazione metabolica è dovuta alla produzione locale di sostanze provenienti dal metabolismo muscolare nelle
condizioni di ischemia relativa che qualunque sforzo muscolare determina. In
tale condizione si verifica, a livello muscolare, una diminuzione dell’O2 e del
pH con aumento della CO2, dell’acido lattico, del K+, dell’osmolalità,
dell’adenosina e dei nucleotidi adenilici. Tutto ciò si esplica in un effetto
vasodilatatore. La vasodilatazione metabolica termina quando è stato ripagato
tutto il debito di O2 e di substrati contratto con l’esercizio fisico. La
regolazione ormonale è in relazione ad ormoni vasomotori tendenti a mantenere normali la pressione arteriosa sistemica, la temperatura corporea e
l’omeostasi e rendere possibile la risposta agli stress. La risposta ormonale
all’attività muscolare può essere sistemica (adrenalina e noradrenalina) o
prevalentemente locale (prostaglandine PGA e PGE). Le prostaglandine,
peraltro, vengono prodotte ubiquitariamente nelle cellule endoteliali, a partenza dai fosfolipidi di membrana. Tutti questi meccanismi agiscono provocando il rilasciamento delle fibrocellule muscolari lisce arteriolari e degli
sfinteri precapillari, con conseguente reclutamento di quella parte di letto
capillare normalmente non utilizzata. Tale effetto è molto rapido poiché gli
sfinteri precapillari ed il letto capillare si dilatano di circa 1 µ/sec e quando il
diametro raggiunge i 3 micron i globuli rossi possono passare liberamente. La
vasodilatazione provoca una riduzione delle resistenze con conseguente
aumento del gradiente pressorio e della velocità di flusso che però, oltre un
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20
Capitolo 2
certo limite, produce una riduzione degli scambi metabolici. Il reclutamento
del letto capillare inattivo consente di superare questo scoglio attraverso
l’aumento esponenziale della sezione complessiva del letto vasale, con
proporzionale riduzione della velocità di flusso. Il vantaggio che ne deriva è
duplice: da una parte la maggiore permanenza del sangue nel letto capillare
migliora gli scambi metabolici mentre, dall’altra, la maggior quantità di vasi
perfusi consente una migliore distribuzione di ossigeno alle cellule muscolari
evitando che vi siano cellule muscolari in maggior debito di ossigeno rispetto
ad altre.
La vasodilatazione conseguente all’esercizio muscolare, oltre alle ripercussioni emodinamico-metaboliche descritte sopra, condiziona le modalità di
flusso anche a livello di tutti i vasi dell’arto inferiore, sia in condizioni normali che in presenza di arteriopatia ostruttiva.
In un distretto arterioso normale le resistenze al flusso sono da ascrivere
prevalentemente ai vasi di distribuzione (arteriole, sfinteri precapillari e letto
capillare) ed in minor grado alle grosse arterie.
Per meglio comprendere le modificazioni emodinamiche dell’arto
inferiore ne possiamo assimilare la circolazione ad un modello idraulico
in cui viene immesso del liquido a pressione costante e nel quale le
resistenze opposte dai vasi di conduzione sono rappresentate da un tubo
comprimibile al quale può essere applicato un agente stenosante (morsetto), gli sfinteri precapillari sono rappresentati da una valvola (triangolo) mentre l’insieme del letto capillare è raffigurato da un serbatoio. La
pressione vigente nei vasi di distribuzione è rappresentata dal livello che
il liquido raggiunge in un tubo comunicante con il sistema nel tratto
compreso tra il morsetto e la valvola.
In condizioni normali (assenza di stenosi), a riposo, l’apporto ematico ai
tessuti è assicurato anche se le resistenze del letto vasale sono alte (valvola
chiusa). In questo caso la caduta pressoria tra punto di immissione e vasi di
distribuzione è minima. Durante l’esercizio muscolare, per i fenomeni
sopradescritti, si ha il rilasciamento degli sfinteri precapillari (valvola aperta)
con conseguente aumento del letto capillare e del flusso ematico al suo
interno (aumento del livello del liquido nel serbatoio) che soddisfa
completamente le esigenze funzionali. Tutto questo si verifica senza una
significativa riduzione pressoria a livello dei vasi di distribuzione (Fig 1).
La situazione si modifica sostanzialmente in presenza di lesioni arteriosclerotiche emodinamicamente efficienti a livello dei vasi di conduzione (Fig. 2).
Ricordiamo che per “emodinamicamente efficiente” s’intende una lesione in
grado di ridurre il flusso di sangue nel territorio a valle. Questa situazione,
rappresentata dal restringimento parziale del condotto per l’azione del
morsetto, rende significative le resistenze opposte dai vasi di conduzio-
Fisiopatologia ed anatomia patologica
21
Figura 1: Rappresentazione schematica degli eventi che, in un soggetto con
albero arterioso integro, assicurano un adeguato apporto ematico ai gruppi
muscolari tributari, sia in condizioni di riposo che durante l’esercizio.
Figura 2: Rappresentazione schematica della situazione emodinamica che si
verifica nel caso di una stenosi a carico dei vasi di maggior calibro, sia a
riposo che durante l’esercizio muscolare.
22
Capitolo 2
ne provocando una significativa riduzione pressoria nei vasi di distribuzione
(tubo comunicante). Perché il flusso nel letto capillare possa mantenersi
normale si determina un parziale rilasciamento degli sfinteri precapillari con
arruolomanto del letto capillare, aumento del gradiente pressorio (parziale
innalzamento del triangolo) e riduzione delle resistenze. L’esercizio
muscolare evidenzia la precarietà di questa situazione. Infatti, le maggiori
richieste periferiche, non possono venir soddisfatte completamente perché, da
una parte la capacità di vasodilatazione è stata già parzialmente sfruttata in
condizioni di riposo e dall’altra, per vincere le maggiori resistenze dei vasi di
conduzione, una parte dell’energia cinetica del sangue viene persa con
conseguente ulteriore riduzione della pressione nei vasi di distribuzione (tubo
comunicante). Quindi, alla totale apertura della valvola non si associa un
sufficiente riempimento del serbatoio. Questo tipo di ischemia viene definita
“relativa” proprio perché evidenziata da una situazione di maggiore richiesta
di flusso periferico provocata dalla contrazione muscolare che non può essere
soddisfatta a causa della presenza della lesione. Questo comporta l’accumulo
di cataboliti a livello muscolare che si estrinseca, clinicamente, con la
comparsa di dolore da sforzo o “claudicatio intermittens”.
L’accentuarsi della lesione nel vaso di conduzione (stenosi maggiormente
serrata) ed in quelli di distribuzione determina già a riposo una riduzione di
pressione nei vasi di distribuzione (tubo comunicante) ed il conseguente
progressivo rilasciamento degli sfinteri precapillari (valvola). Si arriva ad una
situazione in cui anche a riposo il flusso capillare (serbatoio) è insufficiente
al normale metabolismo. In questo caso non possono venire soddisfatte
neanche le esigenze di base (Fig. 3). È questa una situazione di ischemia
“assoluta” caratterizzata clinicamente dalla comparsa di dolore anche a
riposo.
La presenza di lesioni arteriose in serie (lesioni tandem) aggrava la
situazione emodinamica. Infatti la circolazione periferica subisce le conseguenze di un duplice calo pressorio (tubi comunicanti). Se per mantenere normale il flusso nel letto capillare a valle della prima lesione (serbatoio) è sufficiente una parziale dilatazione degli sfinteri precapillari
(valvola) di questo distretto, per garantire un flusso sufficiente nel
distretto capillare a valle della seconda stenosi può essere necessaria, già
a riposo, la quasi totale apertura degli sfinteri precapillari locali (valvola)
(Fig. 4). Ovviamente l’esercizio muscolare comporterà la comparsa di
sintomatologia (claudicatio intermittens) prima laddove la riserva
funzionale è pressoché esaurita, cioè nel distretto più distale. Le lesioni
ostruttive possono essere di entità tale da non garantire, nel distretto più
distale, un flusso ematico sufficiente neanche in condizioni di base;
comparirà allora il dolore a riposo.
Fisiopatologia ed anatomia patologica
23
Figura 3: Rappresentazione schematica della situazione emodinamica
esistente in un caso di ischemia assoluta (III, IV stadio di Fontaine).
Figura 4: Rappresentazione schematica della situazione emodinamica vigente
nel caso in cui una lesione delle arterie di maggior calibro si associ ad una
lesione delle arterie più distali.
24
Capitolo 2
Circolo collaterale
La presenza di una lesione arteriosa ostruttiva, oltre ad essere responsabile
delle modificazioni del flusso periferico sopra descritte, stimola lo sviluppo
di un circolo di supplenza nel tentativo di controbilanciare il più possibile la
riduzione di pressione provocata dalla lesione stessa e migliorare, quindi, il
flusso periferico.
Il sistema arterioso può essere paragonato ad una rete le cui maglie, diverse
per dimensione e numero nei vari distretti, sono variamente legate tra loro e
sono proprio questi punti di giunzione che consentono l’instaurarsi di una
circolazione collaterale in caso di ostruzione del vaso principale (Fig. 5).
Classicamente il circolo collaterale può essere:
a) preformato o primario: costituito da rami arteriosi che si anastomizzano
sia direttamente (a pieno canale) sia attraverso ramificazioni minori con rami
provenienti dalla stessa arteria da cui traggono origine o da arterie che
irrorano territori diversi. A livello degli arti inferiori un sistema di questo ti
po è costituito dalle anastomosi tra i rami dell’arteria femorale profonda e
quelli dell’arteria poplitea;
b) neoformato o secondario: è costituito da arteriole e capillari che, per poter
svolgere questo ruolo, devono prima andare incontro ad una progressiva
ipertrofia e dilatazione. Di solito si tratta di arteriole muscolari.
Figura 5: Rappresentazione schematica di circolo collaterale.
Fisiopatologia ed anatomia patologica
25
I vasi che costituiscono il circolo collaterale subiscono nel tempo delle modificazioni strutturali: la parete arteriosa si ispessisce in risposta all’aumento
pressorio del flusso, aumentano le fibre muscolari e le cellule endoteliali
mentre si distendono le fibre elastiche e collagene. Ne consegue che il calibro
dei vasi collaterali aumenta ed essi diventano tortuosi (Fig. 6). Non va
dimenticato che per quanto sviluppato il circolo collaterale possa essere esso
non riesce mai a compensare completamente la lesione del vaso principale.
Bisogna, inoltre, ricordare che il circolo collaterale si sviluppa e mantiene la
sua funzione fin quando permane l’ostacolo nel vaso principale; una vola
trattata la lesione causale esso torna a svolgere le sue funzioni originali.
Diversi fattori entrano in gioco nello sviluppo del circolo collaterale:
Fattori emodinamici: l’ostruzione di un segmento arterioso provoca la caduta
della pressione a valle dell’ostacolo e la contemporanea diminuzione delle
resistenze periferiche accentua tale gradiente pressorio. Dato che il flusso
tende a dirigersi verso i territori a minore resistenza, l’unica via percorribile
Figura 6: Immagine angiografica di un’ostruzione dell’arteria femorale
superficiale con circolo collaterale di compenso. I vasi del circolo collaterale
appaiono tortuosi.
26
Capitolo 2
per superare l’ostacolo costituito dall’ostruzione è quella dei rami collaterali
che collegano il vaso a monte dell’ostruzione con il territorio a valle, nel
quale le resistenze sono ridotte.
Fattori metabolici: nel territorio ischemico prevale un metabolismo di tipo
anaerobico che dà luogo alla produzione di metaboliti ad azione
prevalentemente vasodilatatrice; questo mantiene il gradiente pressorio.
Fattori nervosi: la risposta ad una ostruzione può essere inizialmente una
vasocostrizione da ipertono simpatico. Ad essa fa sempre seguito una vasodilatazione da riduzione del tono simpatico che si protrae più a lungo nel
tempo e che contribuisce alla riduzione delle resistenze.
Esistono poi altri fattori che influenzano la “qualità” del circolo collaterale,
cioè la capacità di supplire più o meno adeguatamente ad una ostruzione
arteriosa; essi sono:
Sede ed estensione dell’ostruzione: è ben noto che quanto più prossimale è
una lesione nell’albero arterioso dell’arto inferiore, tanto maggiori sono le
possibilità di compenso. Inoltre è importante che il processo ostruttivo non
coinvolga l’ostio dei rami collaterali sia a monte che a valle della lesione.
Stato vasomotorio: l’integrità anatomo-funzionale alla base della vasodilatazione favorisce l’instaurarsi di un buon circolo collaterale.
Trofismo dei muscoli: è importante soprattutto per lo sviluppo del circolo
collaterale neoformato.
Efficienza cardiaca: l’insufficienza cardiaca può compromettere l’efficienza
di un circolo collaterale anche ben sviluppato.
Gradualità dell’ostruzione: il fattore “tempo” è molto importante nello sviluppo del circolo di supplenza. Infatti, nelle ostruzioni croniche, a differenza
di quelle acute, il circolo collaterale ha il tempo di svilupparsi prima che
intervenga un’ischemia assoluta.
Deflusso venoso: l’ipertensione venosa aggrava la situazione in quanto la
stasi venosa diminuisce il gradiente arteriolo-capillare con ripercussione sul
gradiente pressorio provocato dalla lesione.
A livello degli arti inferiori i circoli collaterali più importanti si sviluppano
tra:
- l’arteria femorale profonda e l’arteria poplitea;
- l’arteria femorale profonda, le arterie genicolate e i rami di biforcazione
della poplitea;
- l’arteria femorale superficiale e i rami di biforcazione della poplitea;
- le arterie tibiali e l’arteria peroniera tra loro.
L’aterosclerosi parietale è la condizione necessaria ma non sufficiente per lo
sviluppo di sintomi ischemici. A questi ultimi si giunge per aggravamento
progressivo della stenosi fino all’ostruzione che può verificarsi per trombosi
sovrapposta a una stenosi “critica” (> 90% del lume) o per complicazioni
Fisiopatologia ed anatomia patologica
27
all’interno della placca stessa quali un’emorragia od una necrosi colliquativa.
Quest’ultima è in grado di provocare un rigonfiamento acuto della placca con
improvvisa riduzione critica del lume o trombosi.
In assenza di complicanze acute, quali una trombosi o un’embolia, il paziente
con arteriopatia cronica ostruttiva degenerativa degli arti inferiori non
manifesta sintomi per lungo tempo, acquisendo accettabili gradi di compenso
metabolico. La lenta progressione delle lesioni consente un compenso
adeguato alla riduzione del flusso grazie all’attivazione dei circoli collaterali.
Un’altra modalità evolutiva dell’arteriopatia cronica ostruttiva è
l’embolizzazione periferica per rottura della placca complicata. Detriti
ateromasici e migrazione di trombi sovrapposti sulla placca ulcerata possono
occludere rami più periferici nel territorio di distribuzione, dove il compenso
attraverso circoli collaterali è meno sviluppato.
È fondamentale, per il verificarsi della sintomatologia ischemica, la
concomitanza di steno-ostruzioni e di insufficiente circolo collaterale. A
livello periferico il flusso è regolato dalle piccole arterie terminali e dagli
sfinteri precapillari (tono simpatico e catecolamine). Nell’ischemia cronica
esiste, già in condizioni basali, una vasodilatazione arteriolare mediata
dall’abbassamento della tensione di ossigeno; con l’esercizio muscolare la
vasodilatazione aumenta, ma rimane elevata la resistenza totale al flusso a
causa della presenza della o delle stenosi. In conseguenza di ciò, anche
l’eventuale aumento del flusso non può soddisfare le aumentate richieste
metaboliche dei tessuti periferici durante l’esercizio.
Anatomia patologica
Dal punto di vista anatomo-patologico l’elemento caratterizzante della patologia aterosclerotica è la placca. La lesione aterosclerotica origina
nell’ambito degli strati della parete arteriosa, ad opera di un accumulo di lipidi e di una trasformazione delle cellule costituenti, si accresce aggettando
nel lume del vaso fino a determinarne la completa occlusione. Il fenomeno di
formazione e di estensione della placca può realizzarsi lentamente o velocemente, a seconda delle caratteristiche anatomiche ed emodinamiche del
soggetto e della presenza o meno dei fattori di rischio. Dal punto di vista
morfologico le lesioni aterosclerotiche sono caratterizzate da un’estrema variabilità. Esse possono essere rappresentate da piccoli ateromi, localizzati e
lievemente aggettanti nel lume del vaso, con superficie liscia ed estensione
limitata, oppure da ateromi molto estesi, coinvolgenti segmenti vascolari
molto ampi, con superficie estremamente irregolare e che provocano stenosi
vasali importanti od occlusioni complete.
28
Capitolo 2
Anche dal punto di vista strutturale le lesioni sono caratterizzate da un’estrema variabilità. Il contenuto della placca, infatti, può essere prevalentemente fibroso o calcifico oppure le due diverse componenti possono essere
diffusamente presenti nel contesto della placca (Fig. 7). Inoltre, è possibile la
presenza di un “core” fibroso contornato da uno strato superficiale di tipo
calcifico o viceversa; è possibile anche la presenza, nell’ambito della placca,
di zone fortemente calcifiche e zone prevalentemente a contenuto fibroso.
Infine, il contenuto lipidico della placca può essere localizzato in accumuli
ben distinti nel core della lesione o diffusamente e omogeneamente
distribuito nel suo contesto.
Spesso nel contesto della placca, all’esame morfologico, è possibile riscontrare veri e propri aspetti di emorragia intraplacca con coaguli e aggregati
piastrinici frammisti a materiale di tipo lipidico. In alcuni casi, aggregati
piastrinici possono essere rinvenuti anche in corrispondenza della superficie
della lesione: ciò avviene soprattutto in presenza di placche con superficie
irregolare e frastagliata o addirittura su placche in cui si sono realizzati
fenomeni di ulcerazione dello strato superficiale. Spesso queste formazioni
trombotiche superficiali o i fenomeni di emorragia intraplacca sono alla base
di complicanze importanti e di ischemia improvvisa e grave dell’arto; in
particolare, possono dare luogo a fenomeni di embolizzazione periferica di
frammenti di trombo o del materiale contenuto all’interno della placca,
possono essere responsabili dell’improvviso aumento di volume della placca
con occlusione del lume vasale o dell’improvvisa trombosi vasale.
Figura 7: Reperto intraoperatorio di placca ATS fibrocalcifica: è evidente
all’apertura della placca la presenza di materiale ateromasico al suo interno.
Fisiopatologia ed anatomia patologica
29
Questa notevole variabilità morfo-strutturale è ascrivibile, in prima istanza,
all’anatomia dei segmenti vascolari interessati, alle caratteristiche del flusso a
tale livello e alla risposta locale e individuale a numerosi fattori di rischio che
contribuiscono in maniera significativa alla genesi e alla progressione della
malattia.
30
Capitolo 2
3. Classificazione ed inquadramento clinico
Classificazione
Per insufficienza vascolare degli arti inferiori (IVAI) od arteriopatia ostruttiva cronica periferica (AOCP) si intende l’insieme di quelle affezioni delle
arterie degli arti che hanno un andamento cronico e che comportano una
riduzione del lume vasale fino all’ostruzione, con conseguente ischemia
cronica degli arti di entità e quadro clinico diversi.
Etiologia
Arteriosclerosi
L’arteriosclerosi è la causa principale dell’IVAI. La sua incidenza varia nelle
diverse parti del mondo a causa di fattori razziali, ambientali, igienici, alimentari e comportamentali. Nei paesi occidentali ed in particolare in Italia,
l’arteriosclerosi incide nell’IVAI almeno per il 90%, lasciando a tutte le altre
cause il 10%. Va subito precisato che nel gruppo “arteriosclerotico” vanno
incluse tutte le arteriopatie di tale natura che insorgono nei soggetti diabetici,
nei quali assumono spesso, come verrà precisato in seguito, connotazioni
morfologiche e cliniche alquanto peculiari. Non è da trascurare, inoltre, il
fatto che vasculopatia diabetica e lesioni arteriosclerotiche, soprattutto nei
segmenti periferici, talora coesistono, rendendo difficile e di scarsa utilità ai
fini clinici e terapeutici ogni tentativo di distinzione. L’arteriosclerosi è una
malattia sistemica. Il termine arteriosclerosi fu coniato nel 1829 da Lobstein
per definire un aspetto macroscopico di indurimento parietale delle arterie ed
è stato in seguito utilizzato estensivamente da numerosi Autori per definire
diverse patologie vascolari caratterizzate dalla deposizione di sostanze
lipidiche e dalla sclerosi di arterie e di arteriole muscolari. Nel termine
“arteriosclerosi” veniva così a essere compresa anche “l’aterosclerosi”.
L’arteriosclerosi è un termine generico per diverse malattie caratterizzate da
ispessimento e perdita di elasticità della parete arteriosa. L’aterosclerosi è una
forma di arteriosclerosi caratterizzata da un ispessimento subintimale
localizzato (ateroma) delle arterie di medio e grosso calibro, che può ridurre o
impedire del tutto il flusso ematico. L’aterosclerosi si caratterizza per la sua
poliditrettualità interessando in modo variabile cervello, cuore, reni, altri
organi vitali e arti e per questa sua caratteristica rappresenta ancora oggi la
principale causa di morbilità e mortalità negli USA e nella maggior parte dei
31
32
Capitolo 3
infatti, negli USA si sono verificate quasi 1 milione di morti dovute a
vasculopatia (il doppio che per cancro e 10 volte di più che per incidenti).
Nonostante la prevenzione e la terapia della malattia coronarica abbiano portato
a una riduzione del 28,6% del tasso di mortalità correlata per età fra il 1984 e il
1994, la malattia coronarica e l’ictus ischemico insieme costituiscono la prima
causa di morte nei paesi industrializzati dell’Occidente e la loro prevalenza nel
resto del mondo è in aumento.
La placca aterosclerotica è costituita da un accumulo di lipidi intra- ed
extracellulare, di cellule muscolari lisce, tessuto connettivo e glicosaminoglicani. La lesione aterosclerotica più precocemente rilevabile è la stria
lipidica (formata da cellule schiumose cariche di lipidi) che si trasforma
successivamente in placca fibrosa (costituita di cellule muscolari lisce intimali circondate da tessuto connettivo e da lipidi intracellulari ed extracellulari) che rappresenta la lesione aterosclerotica vera e propria. La placca
fibrosa presenta una notevole variabilità di forma, contenuto ed estensione;
da questa variabilità dipendono particolari implicazioni di tipo emodinamico
e di conseguenza tutti i caratteristici sintomi e segni di tale patologia. I vasi
aterosclerotici hanno un’espansione sistolica ridotta e un’onda di propagazione anormalmente rapida. Anche le arterie arteriosclerotiche dei soggetti ipertesi hanno una ridotta elasticità, che si riduce ulteriormente quando
si sviluppa aterosclerosi.
Sono state proposte due ipotesi principali per spiegare la patogenesi dell’aterosclerosi: l’ipotesi lipidica e l’ipotesi del danno endoteliale cronico,
probabilmente correlate.
L’ipotesi lipidica postula che un aumento delle lipoproteine plasmatiche a
bassa densità (LDL) provoca il loro ingresso nella parete arteriosa, con
conseguente accumulo di lipidi nelle cellule muscolari lisce e nei macrofagi
(cellule schiumose). Le LDL contribuiscono anche all’iperplasia delle cellule
muscolari liscie e alla loro migrazione verso le regioni intimali e sottointimali
in risposta a fattori di crescita. In tale ambiente le LDL vengono modificate
od ossidate diventando così più aterogene. Mano a mano che le strie lipidiche
e le placche fibrose si accrescono e sporgono nel lume, lo strato
sottoendoteliale risulta esposto alla corrente ematica nelle sedi di danno
endoteliale e si formano aggregati piastrinici e trombi murali. Il rilascio di
fattori di crescita da parte di piastrine aggregate può aumentare la
proliferazione della muscolatura liscia a livello dell’intima. Alternativamente,
l’organizzazione e l’incorporazione all’interno della placca aterosclerotica
possono contribuire alla sua crescita.
L’ipotesi del danno endoteliale cronico postula che il danno endoteliale dovuto a diversi meccanismi provoca una perdita di endotelio, con adesione
delle piastrine allo strato sottoendoteliale, aggregazione piastrinica, chemio-
Classificazione ed inquadramento clinico
33
tassi di monociti e linfociti T e rilascio di fattori di crescita derivati dalle
piastrine e dai monociti, che inducono la migrazione delle cellule muscolari
lisce dalla media nell’intima dove si replicano e sintetizzano tessuto connettivo e proteoglicani e formano una placca fibrosa. Anche altre cellule (per
esempio macrofagi, cellule endoteliali, cellule muscolari lisce arteriose)
producono fattori di crescita che possono contribuire all’iperplasia delle cellule muscolari lisce e alla produzione di matrice extracellulare. Queste due
ipotesi sono strettamente collegate e non si escludono a vicenda.
Fattori di rischio arteriosclerotico
I fattori di rischio per l’aterosclerosi possono essere suddivisi in non modificabili e modificabili. I principali fattori di rischio non modificabili
comprendono l’età, il sesso maschile e una storia familiare di aterosclerosi
prematura; i fattori modificabili comprendono alcuni stati patologici come
l’ipertensione, l’obesità e il diabete o alcuni particolari stili di vita come
l’abitudine al fumo. Vi è anche una forte evidenza che l’inattività fisica sia
associata con un aumentato rischio di malattia aterosclerotica (Fig. 1).
Figura 1: Principali fattori di rischio dell’arteriopatia ostruttiva periferica.
34
Capitolo 3
Elevati livelli di lipoproteine a bassa densità (LDL) e ridotti livelli di lipoproteine ad alta densità (HDL) predispongono all’aterosclerosi. Vi è una
diretta associazione tra i livelli di colesterolo totale e di LDL e il rischio di
coronaropatia. I livelli di HDL sono inversamente correlati con il rischio di
arteriopatia. Le principali cause della riduzione delle HDL sono il fumo di
sigaretta, l’obesità e l’inattività fisica. Un ridotto livello di HDL è anche
associato con l’uso di steroidi androgeni e composti correlati (inclusi gli
anabolizzanti), β-bloccanti, con l’ipertrigliceridemia e con fattori genetici. Il
livello di colesterolo e la prevalenza di arteriopatia sono influenzati da fattori
genetici e ambientali (inclusa la dieta).
Una pressione arteriosa diastolica o sistolica elevata è un fattore di rischio
per ictus, IMA e insufficienza cardiaca e renale oltre che per arteriopatia
periferica. Il rischio associato con l’ipertensione è inferiore nelle società con
bassi livelli medi di colesterolo.
Il fumo aumenta il rischio di arteriopatia periferica, coronaropatia, vasculopatia cerebrale e di insuccesso a distanza della chirurgia arteriosa ricostruttiva. Il fumo è particolarmente pericoloso nelle persone che già hanno un
aumentato rischio di patologie cardiovascolari. Esiste una relazione doserisposta tra il numero di sigarette fumate al giorno e il rischio di malattia
coronarica ed arteriopatia periferica. Anche il fumo passivo può aumentate il
rischio di patologia vascolare. Uomini e donne sono entrambi suscettibili, ma
il rischio può essere maggiore nelle donne. La nicotina e le altre sostanze
chimiche derivate dal tabacco sono tossiche per l’endotelio vascolare. Il fumo
di sigaretta aumenta le LDL e riduce le HDL, aumenta il monossido di
carbonio ematico (e può quindi produrre un’ipossia endoteliale) e favorisce la
vasocostrizione delle arterie già ristrette a causa della patologia aterosclerotica; aumenta anche la reattività piastrinica (ciò può favorire la formazione
di un trombo piastrinico), la concentrazione ematica di fibrinogeno e
l’ematocrito, con un conseguente aumento della viscosità ematica.
Sia il diabete insulino-dipendente che quello non insulino-dipendente sono
associati con fenomeni aterosclerotici più diffusi e ad insorgenza più precoce,
come parte di un diffuso squilibrio metabolico che comprende la dislipidemia
e la glicosilazione del tessuto connettivo. L’iperinsulinemia danneggia
l’endotelio vasale. Il diabete è un fattore di rischio particolarmente
importante nelle donne e annulla l’effetto protettivo degli ormoni femminili.
Alcuni studi hanno rilevato che l’obesità, in modo particolare l’obesità del
tronco negli uomini, è un fattore di rischio indipendente per arteriopatia
periferica e coronaropatia.
L’ipertrigliceridemia è comunemente associata con l’obesità, il diabete mellito e
l’insulino-resistenza e sembra essere un importante fattore di rischio indipendente
nelle persone con bassi livelli di LDL o HDL e nelle persone più giovani.
Classificazione ed inquadramento clinico
35
Diversi studi hanno associato uno stile di vita sedentario con un aumentato
rischio di arteriopatia e altri studi hanno dimostrato che l’esercizio fisico
regolare può essere protettivo.
Elevati livelli ematici di omocisteina, dovuti a una riduzione del suo
metabolismo geneticamente determinata, possono causare un danno all’endotelio vascolare che rende i vasi predisposti all’aterosclerosi.
Altre cause di arteriopatia ostruttiva
La malattia di Buerger, nota anche come tromboangioite obliterante, è certamente una forma flogistica che però va tenuta distinta dalle altre forme di
arterite sia per l’etiologia, non del tutto nota e con caratteristiche simili alle
malattie autoimmunitarie, sia perché colpisce oltre alle arterie anche vene,
linfatici e nervi. Il quadro clinico, inoltre, è specifico, con frequente coinvolgimento anche degli arti superiori. La sua incidenza viene riportata negli
studi più numerosi intorno al 3-5% di tutte le IVAI.
Le arteriti costituiscono una famiglia eterogenea per etiologia e per
sintomatologia. Oltre alla natura flogistica, hanno in comune il fatto di colpire soggetti giovani o relativamente più giovani rispetto a quelli portatori
delle forme aterosclerotiche. In un recente studio è stato notato che in
pazienti al di sotto dei 50 anni con IVAI di tipo segmentario a diversi stadi
clinici, si poteva porre un fondato sospetto di infezione da Rickettsie. Talora
il nesso con la malattia di base è evidente per l’insorgenza rapida, coincidente
o immediatamente successiva all’infezione, mentre altre volte tale relazione
risulta più difficile da identificare e rimane incerta sia perché la
manifestazione morbosa generale passa inosservata, sottovalutata o non
esattamente diagnosticata, sia per la comparsa dei sintomi ischemici a
distanza di mesi o anni.
L’IVAI dovuta a compressione sull’arteria da parte di strutture anatomiche è
un’entità nosologica nota anche se rara; la più osservata, descritta e trattata è la
sindrome da “entrapment” (intrappolamento) dell’arteria poplitea.
Gli esiti di trauma, sia aperto che chiuso, possono dare origine a quadri
ostruttivi con ischemia cronica. Si tratta spesso della conseguenza di lesioni
traumatiche che nelle immediatezze dell’evento non hanno dato luogo né ad
emorragie imponenti né ad ischemia acuta e che per questo sono passate
inosservate. L’ostruzione arteriosa del segmento leso è avvenuta lentamente
ed a distanza di tempo dal trauma e, essendoci stato il tempo necessario allo
sviluppo di un buon circolo collaterale, si manifesta con ischemia cronica.
La “sindrome dell’aorta piccola” (small aorta syndrome) rappresenta un
quadro anatomico e clinico piuttosto che un’entità nosologica a sé stante.
Viene osservata in donne relativamente giovani, forti fumatrici, che presen-
36
Capitolo 3
tano l’aorta, e spesso anche le arterie iliache, di calibro ridotto rispetto alla
norma. Non si tratta di un’ipoplasia, perché non ne ha le caratteristiche, e
meno ancora di una coartazione e non è una forma flogistica perché tutti i
parametri ematochimici dell’infiammazione sono nella norma. È caratteristico un cercine di stenosi fibrosa dell’aorta addominale sottorenale esteso
per 1-3 cm e senza dilatazione post-stenotica. La presenza di lesioni similari a
quelle aterosclerotiche e l’episodica associazione con un’arteriopatia
ostruttiva segmentaria femoro-poplitea hanno fatto ipotizzare che si tratti di
una variante aterosclerotica.
Una coartazione aortica può manifestarsi in età adulta con sintomi tipici della
claudicatio, cioè come un’IVAI associata ad un’ipertensione arteriosa
sistemica della metà superiore del corpo. Si può trattare di una coartazione
istmica tipica, compensata da un ricco circolo collaterale, o di una
coartazione atipica, addominale o toraco-addominale, che soltanto gli esami
istologici sono in grado di distinguere con certezza da forme flogistiche.
Le lesioni da displasia sono più frequenti in altri distretti rispetto agli arti
inferiori; le arterie renali e le carotidi ne sono colpite con relativa frequenza.
Tuttavia una patologia di questo genere, in tutte le sue varianti, può presentarsi
anche a livello degli arti inferiori e soprattutto delle iliache esterne.
La degenerazione cistica avventiziale determina stenosi e ostruzione dell’arteria per l’aumento volumetrico della cisti intraparietale; è di pertinenza
quasi esclusiva dell’arteria poplitea. Ciò ha fatto supporre un ruolo etiologico
del microtrauma cronico dovuto alla flesso-estensione del ginocchio e ad
altre strutture muscolo-tendinee e legamentose.
Un’entità nosologica a parte è rappresentata dall’endofibrosi dell’arteria
iliaca esterna. Questa costituisce una patologia tipica di giovani atleti che
svolgono alcuni sport a livello agonistico (ciclismo, maratona, raramente
altri). Durante l’attività sportiva il movimento ripetuto di flesso-estensione
degli arti inferiori determina uno stress meccanico a carico dell’arteria iliaca
esterna, provocando una fibrosi endoluminale in assenza di patologie
aterosclerotiche. I sintomi insorgono solo per sforzi massimali e sono assenti
nella normale attività quotidiana.
Inquadramento clinico
L’ischemia cronica periferica è oggi classificata come “relativa” e “critica”.
L’ischemia relativa si manifesta con la cosiddetta claudicatio intermittens,
cioè la comparsa di dolore durante lo sforzo muscolare. Tale sintomo ha delle
caratteristiche precise: si manifesta a carico di un determinato gruppo
muscolare, è facilmente riproducibile con un adeguato e costante esercizio
Classificazione ed inquadramento clinico
37
fisico e cessa più o meno rapidamente con il riposo. La claudicatio intermittens è tipicamente un dolore da sforzo riferito come crampiforme, solitamente
localizzato a livello del polpaccio o della coscia o dei glutei o a tutti questi
livelli a seconda della localizzazione e della distribuzione delle stenosi e/o
delle ostruzioni arteriose; esso ha un precursore clinico nella “sensazione di
pesantezza” o di “stiramento” dei gruppi muscolari.
L’ischemia critica è caratterizzata dalla presenza di dolore a riposo e/o di
lesioni trofiche o gangrena alle estremità; il dolore a riposo viene definito
come un dolore persistente da almeno due settimane e che richiede un trattamento analgesico continuo; la pressione arteriosa misurabile alla caviglia è
uguale o inferiore a 50 mmHg e la pressione digitale è di 30 mmHg.
Nonostante questa classificazione sia di più recente concezione e fondi il suo
razionale sulla necessità di individuare i pazienti che hanno bisogno di un
intervento tempestivo di rivascolarizzazione a causa dell’elevato rischio di
perdita dell’arto (ischemia critica), nella pratica clinica è ancora utile
rapportarsi alla vecchia classificazione di Lériche-Fontaine che individua 4
stadi clinici:
- I stadio: asintomatico o pauci-sintomatico (senso di freddo, parestesie) in
presenza di lesioni ateromasiche;
- II stadio: claudicatio intermittens. Viene a sua volta suddiviso in IIa quando
il dolore si manifesta dopo un percorso di circa 200 m o più e IIb quando il
dolore si manifesta prima di 200 m;
- III stadio: dolore a riposo;
- IV stadio: ulcere o gangrena, limitate all’avampiede (IVa) o più prossimali
(IVb).
In effetti i primi due stadi sono tipici dell’ischemia relativa, mentre il III e il
IV possono essere assimilabili al quadro clinico di ischemia critica.
La claudicatio intermittens riveste una diversa importanza in relazione
all’entità (distanza percorsa dal paziente prima della comparsa del dolore),
all’età del paziente e alle sue occupazioni. Una sotto-stadiazione del II stadio
di Lériche-Fontaine può essere utile perché, in base a una diversa gravità
della claudicatio, è possibile impostare un programma diagnostico e
terapeutico più o meno aggressivo:
- una claudicatio che compare dopo 200 m, salvo casi particolari, è trattabile
con terapia medica;
- una claudicatio che compare fra 100 e 200 metri può essere invalidante se il
soggetto è relativamente giovane e ha occupazioni dinamiche, mentre può
essere assolutamente ben tollerata da un soggetto anziano; l’indicazione
terapeutica dovrà tener conto di questi aspetti;
- una claudicatio che compare prima di 50 m è invalidante per qualunque
paziente e va affrontata in modo aggressivo.
38
Capitolo 3
L’associazione di disturbi soggettivi e sintomi obiettivi può variare in
rapporto alla sede delle lesioni.
Il tempo di recupero, cioè il tempo necessario a che il dolore scompaia, è
indice indiretto del compenso da parte del circolo collaterale; quando
quest’ultimo è valido, il tempo di recupero in genere si attesta sui 2-3 minuti.
Quando supera questi valori è lecito sospettare uno scarso compenso e/o la
presenza di altre cause, per esempio neurologiche. Dopo un intervallo di
riposo più o meno prolungato, il paziente può riprendere a deambulare,
percorrendo la stessa distanza o qualche metro di più (fenomeno del
“riscaldamento” o “messa in moto” dei circoli collaterali, che “a freddo” sono
meno efficaci).
Il dolore a riposo inizia a comparire quando l’apporto ematico non è più
sufficiente per le necessità metaboliche tessutali in condizioni basali. È
spesso riferito l’aumento della sintomatologia dolorosa durante la notte per
effetto del clinostatismo, con necessità di mantenere l’arto a “penzoloni”
fuori dal letto per alleviare il dolore. L’intensità del dolore è parzialmente
dipendente dalla postura, a causa dell’effetto diretto della pressione
idrostatica sulla pressione endovasale: se la pressione di perfusione è molto
bassa, il semplice aumento della pressione idrostatica, con la posizione
declive dell’arto può essere relativamente importante. A differenza della
claudicatio, il dolore a riposo non riguarda le parti muscolari, ma i segmenti
acrali dell’arto (piede, tallone, dita). L’intensità del disturbo può essere
variabile: da saltuari, vaghi dolori crampiformi fino a una qualità di vita
gravemente minata e scandita da algie che rendono invalido il paziente.
Lesioni trofiche, ulcere e/o gangrena, compaiono quando l’apporto ematico
non è più sufficiente a garantire neanche la vitalità dei tessuti periferici. Sono
prediletti i segmenti più distali dell’arto, ove è meno efficace l’energia
cinetica residua del circolo a valle dell’occlusione. Particolarmente
minacciate sono le zone di maggiore sollecitazione meccanica, come i talloni,
ove può agire anche il decubito durante il riposo, o le articolazioni metatarsofalangee o inter-falangee delle dita, per la massima pressione d’appoggio
durante la deambulazione (Fig. 2).
Le ulcere ischemiche sono dolenti, con fondo torpido e spesso infetto. Sul
tallone, il punto di partenza di una necrosi calcaneare può essere un’iniziale
fissurazione (ragade) trascurata o qualsiasi evento traumatico sub-clinico.
Nel diabetico è frequente la necrosi parcellare di un dito, senza
compromissioni prossimali del trofismo.
Se non vi è sovrapposizione infettiva, la gangrena è di tipo secco, con
mummificazione dei tessuti, che appaiono di colore nerastro, compatti e duri,
essiccati, senza segni di flogosi dei tessuti sani adiacenti, che appaiono
nettamente demarcati dal tessuto necrotico (Fig. 3).
Classificazione ed inquadramento clinico
39
La sovrainfeizione batterica porta al quadro di gangrena umida. In questo
caso, all’esplorazione, si ritrovano secrezioni siero-purulente o franche colliquazioni purulente di una parte più o meno estesa dei tessuti molli del piede,
associate a osteomielite, specie delle articolazioni metatarso-falangee e
Figura 2: Lesione trofica in una zona di intensa sollecitazione meccanica.
Figura 3: Gangrena secca delle dita del piede.
40
Capitolo 3
del segmento distale dei metatarsi (Fig. 4). I germi che s’impiantano sulla
necrosi possono rapidamente estendersi al resto dell’arto e, in particolare se
anaerobi, provocare una rapida diffusione dell’infezione, a volte con i
caratteri della gangrena gassosa, che minaccia la vitalità dell’arto e la sopravvivenza stessa del paziente.
Arteriopatia diabetica
In passato l’attenzione nei pazienti diabetici era rivolta verso la microangiopatia diabetica per la quale si riteneva impossibile apportare miglioramenti
alla vascolarizzazione del piede diabetico attraverso interventi chirurgici di
rivascolarizzazione o terapie disostruttive endovascolari per la presenza di
lesioni occlusive diffuse a carico del microcircolo del piede. Successivamente
si è dimostrata la presenza di anormalità del microcircolo di natura non
occlusiva come l’ispessimento e le calcificazioni a livello della membrana
vasale che non consentirebbero il passaggio dell’ossigeno. La presenza di una
macroangiopatia con riduzione della perfusione ematica al piede sarebbe la
vera responsabile del “piede diabetico vascolare” caratterizzato da una
condizione d’ischemia cronica del piede che presenta una spiccata
suscettibilità all’ulcerazione e alle infezioni.
Figura 4: Gangrena umida in sede interdigitale.
Classificazione ed inquadramento clinico
41
L’arteriopatia diabetica, contrariamente a quanto accade nei soggetti
aterosclerotici, è caratteristicamente localizzata a livello delle arterie
tibiali, che appaiono fortemente sclerotiche e calcifiche, spesso associata
a pervietà dei vasi a monte. Non è infrequente in questi pazienti, infatti, la
presenza dei polsi poplitei con quadri d’ischemia del piede piuttosto gravi
caratterizzati da dolore a riposo e gangrena delle dita. Spesso
l’arteriopatia diabetica decorre asintomatica fino all’insorgenza della
lesione trofica. Il dolore, infatti, è presente solo in un quarto dei pazienti
per la presenza della neuropatia sensoriale che toglie la sensibilità alle
estremità facilitando l’insorgenza accidentale di lesioni cutanee che
sfociano facilmente in necrosi.
La contemporanea presenza di vasculopatia e neuropatia rende ragione anche
della facile insorgenza di infezioni superficiali anche a seguito di traumi di
modesta entità. Tali infezioni possono manifestarsi sotto forma di celluliti,
necrosi umide dei tessuti molli e osteomieliti che interessano il piede. L’arto
sede d’ischemia da arteriopatia diabetica presenta aspetti particolari che si
differenziano dalla normale sintomatologia dell’arteriopatia periferica. La
sintomatologia è condizionata della presenza della neuropatia. La
denervazione simpatica dei vasi periferici è responsabile di un aumento di
flusso a riposo con apertura delle anastomosi artero-venose con conseguente
edema del piede che appare caldo al termotatto. La denervazione vascolare è
responsabile anche della particolare rarefazione ossea del piede diabetico,
con suscettibilità alle fratture, e della angiosclerosi diffusa. All’aumento della
temperatura cutanea si associa la presenza di lesioni trofiche. Significative
sono le alterazioni del trofismo cutaneo del piede caratterizzate da pelle
secca, squamosa e iperpigmentata anche a livello di gamba. I talloni
presentano spesso soluzioni di continuo e flittene con aree di necrosi cutanea.
Le lesioni trofiche sono caratteristicamente localizzate a livello metatarsale,
lateralmente e negli spazi interdigitali, o a livello del tallone e sono in genere
profonde con fondo sanioso. Sono da differenziare dalle ulcere neuropatiche
che sono caratteristicamente localizzate a livello plantare in corrispondenza
delle teste metatarsali con aspetto ipercheratosico e con bordi irregolari e
sottominati.
Quando presente, la gangrena può essere secca o con superinfezione batterica
(gangrena umida). In caso di gangrena umida si possono formare rapidamente
raccolte ascessuali che si espandono attraverso le fasce tendinee verso la
gamba (Fig. 5). Molto importante nei pazienti diabetici con arteriopatia
periferica è la diagnosi precoce e il controllo dei valori glicemici. La pulizia
del piede e l’uso di calzature comode sono gli elementi che consentono la
prevenzione delle lesioni cutanee che rappresentano il prodromo
dell’infezione e della gangrena.
42
Capitolo 3
Storia naturale
L’evoluzione clinica dell’arteriopatia cronica ostruttiva degli arti inferiori
varia in rapporto a numerosi fattori. Normalmente la malattia decorre
asintomatica o paucisintomatica per un periodo più o meno lungo e la
scoperta avviene quando i sintomi diventano così importanti da richiedere il
parere del medico.
Al momento della diagnosi, a parità di entità sintomatologica, si possono
avere lesioni vascolari di gravità diversa, soprattutto in rapporto all’efficacia
del circolo di compenso. Pertanto, la prognosi di questi pazienti è molto variegata, non solo in rapporto alla stadio clinico della malattia, ma soprattutto
in rapporto alla localizzazione anatomica delle lesioni, alla loro entità e diffusione, alla loro stabilità, all’associazione con il diabete e alla persistenza
dei fattori di rischio per aterosclerosi. Se non intervengono modificazioni
terapeutiche o se il paziente non muore prima per altre cause (cardiache,
cerebro-vascolari, neoplastiche), il punto d’arrivo della malattia è la progressiva compromissione dell’irrorazione tessutale, passando per una fase
definita come ischemia critica, fino alla gangrena delle parti più distali dell’arto. Nei pazienti con arteriopatia in stadio precoce la storia naturale predice
una stabilità sintomatologica e un basso tasso di amputazione a 3-5 anni (~
5%). In pazienti che si presentano con caratteristiche cliniche d’ischemia
critica, il tasso di amputazione a 12 mesi sale al 30-50%.
Figura 5: Interessamento dei tendini e dei muscoli del piede in una gangrena
in paziente diabetico.
4. Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori
Diagnosi clinica
Di fondamentale importanza per una diagnosi accurata è la puntuale raccolta
dell’anamnesi. La descrizione del dolore, della sua localizzazione e irradiazione, delle sue caratteristiche, dell’autonomia di marcia in pianura e in
salita e del tempo di recupero sono informazioni indispensabili che già possono orientare l’esaminatore non solo verso una diagnosi di patologia ma
anche di sede. La presenza nell’anamnesi di importanti fattori di rischio
contribuisce ad orientare verso una diagnosi di aterosclerosi periferica.
Egualmente importante è l’esame obiettivo del paziente durante il quale
verrà ricercata una serie di segni fortemente indicativi di aterosclerosi
periferica.
Nella ricerca dei segni clinici dell’ischemia cronica degli arti inferiori,
particolare importanza assumono l’aspetto e la temperatura del piede e della
cute e la valutazione dei polsi arteriosi degli arti inferiori. Il piede appare di
solito pallido, soprattutto in posizione clinostatica. Le alterazioni degli
annessi cutanei abitualmente presenti nell’arteriopatia cronica ostruttiva sono
la scarsità o l’assenza di peli sulla superficie antero-esterna della gamba fino
ai settori più distali (Fig. 1).
Figura 1: Alterazioni degli annessi cutanei in un paziente con arteriopatia
periferica.
43
44
Capitolo 4
Spesso il paziente con importanti dolori a riposo tende ad assumere una posizione antalgica, con ginocchia flesse e gambe penzoloni. Il protrarsi nel
tempo della flessione, associata a fenomeni di retrazione ischemica dei muscoli
e tendini, può condurre all’anchilosi. Facendo assumere al paziente una
posizione emodinamicamente più vantaggiosa per il suo circolo distrettuale
(seduto o in piedi), le dita o l’avampiede potranno assumere un colorito rossoporpora o più francamente cianotico (eritrocianosi declive), traduzione clinica
del contributo della pressione idrostatica che aumenta, però, l’afflusso in un
territorio di prevalente vasoparalisi, già dilatato al massimo. L’iposfigmia o
asfigmia nelle sedi di palpazione dei polsi arteriosi indica sempre l’esistenza di
un’importante arteriopatia dei vasi a monte. A livello degli arti inferiori i polsi
sono reperibili alla piega dell’inguine (femorale), nel cavo popliteo (il polso
popliteo non è facilmente apprezzabile in quanto l’arteria è situata
profondamente, è preferibile allora fare flettere il ginocchio per detendere i
muscoli nel cavo popliteo; in ogni caso, la percezione di un polso popliteo
nettamente più valido del polso femorale a monte può essere indicativa della
presenza di una lesione della poplitea di tipo aneurismatico), dietro al malleolo
mediale, fra sperone osseo e tendine d’Achille (tibiale posteriore), sul dorso del
piede, fra I e II metatarso (pedidia). Il polso pedidio, pur se con vaso pervio e
senza stenosi significative a monte, può non essere palpabile in una percentuale
di casi non trascurabile (10-20%) per anomalie di decorso: l’assenza bilaterale
del polso è più indicativa di anomalia, l’assenza monolaterale è più
verosimilmente indice di ostruzione (Fig. 2).
Fig. 2: Sede di palpazione dei polsi arteriosi degli arti inferiori. A: arteria
femorale; B: arteria poplitea; C: arteria tibiale posteriore; D: arteria pedidia.
Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori
45
La differenza tra i polsi di uno stesso arto o tra i polsi dei due arti allo stesso
livello può essere suggestiva della localizzazione della malattia. L’assenza
del polso femorale di un lato è indice di un’ostruzione iliaca monolaterale.
Nello stesso arto, un valido polso femorale con mancanza del polso popliteo
e dei polsi periferici è l’espressione di una localizzazione femoro-poplitea
della malattia.
A livello degli arti inferiori l’auscultazione permette di riconoscere la presenza di soffi vascolari a livello delle arterie principali prossimali. La turbolenza ematica che produce il soffio è correlata non solo e non tanto
all’importanza emodinamica della lesione ma anche alle caratteristiche
istologiche della placca. In presenza di stenosi superiori al 30-50% in arterie
con parete non estremamente calcifica è possibile rilevare un soffio di entità e
caratteristiche variabili. Non va dimenticato peraltro che l’assenza di soffio
non equivale ad assenza di lesione ed il soffio può anche avere un’origine
sistemica (cuore, tiroide, anemia, etc.). Nelle fosse iliache è possibile
auscultare un soffio da stenosi dell’iliaca comune e/o esterna. A livello
inguinale si può rilevare un soffio femorale.
In soggetti con sintomatologia clinica sfumata o poco chiara, può restare il
dubbio che parte dei disturbi non sia di origine vascolare; in particolare il
soggetto anziano, scarsamente collaborante o clinicamente poco valutabile,
per esempio per edemi importanti da cardiopatia o flebopatia o per patologia
del disco vertebrale. La diagnosi differenziale va posta soprattutto con le
seguenti forme cliniche:
- insufficienza venosa: oltre al reperto abituale di edema, di solito il disturbo è
riferito come senso di peso, che non recede facilmente e migliora con la
deambulazione; ponendo l’arto in postura anti-declive il sintomo migliora
nettamente. Vero e proprio dolore durante la deambulazione si ha nelle forme
avanzate d’insufficienza venosa cronica (sindrome post-flebitica, claudicatio
venosa), per l’importante stimolazione nocicettiva determinata dalla
distensione parietale venosa (ipertensione venosa), aggravata dall’aumento
del flusso arterioso;
- claudicatio neurogenica: si manifesta più in forma di astenia muscolare
(“arti che si stancano mentre si cammina”) o come un dolore irritativo con
parestesie, soprattutto della faccia postero-laterale dell’arto, e paresi transitorie segmentarie. Il dolore ha una diffusione cranio-caudale. Nella sindrome
ischialgica acuta, i dolori di solito non sono da sforzo, non scompaiono con il
riposo e tendono ad esacerbarsi durante la notte. Sono in genere più intensi
(“stilettate”, “coltellate”) che nelle flebopatie e vengono riferiti anche a
carico dei muscoli lombari e della colonna.
- claudicatio articolare: le malattie flogistico-degenerative dell’anca o del
ginocchio vanno incontro solitamente ad un miglioramento dei disturbi dopo
46
Capitolo 4
un breve percorso. Si riacutizzano dopo prolungato riposo e spesso inducono
ad assumere posture di difesa antalgica.
Diagnosi strumentale
Dopo la clinica, la diagnostica strumentale è la seconda tappa fondamentale
nella valutazione del paziente arteriopatico.
Parte integrante dell’esame obiettivo del paziente vascolare è l’utilizzo del
Doppler Continuous Wave (C.W.), di semplice ed immediata esecuzione al
letto del paziente ed in ambulatorio, che può fornire indicazioni sull’entità e
sulla localizzazione delle lesioni. La rilevazione Doppler dei segnali di flusso
può essere solo acustica od associata ad un grafico.
Generalmente, le arterie esplorate in un esame Doppler standard della
circolazione degli arti inferiori sono: l’aorta addominale, gli assi iliaci, le
femorali, le poplitee, le tibiali posteriori, le pedidie e le peroniere.
Nel soggetto sano, a livello delle arterie degli arti inferiori è udibile un suono
caratteristicamente trifasico, tipico di tutte le arterie che irrorano distretti ad
alta resistenza come quelli muscolari (Fig. 3).
Figura 3: Schema della curva ultrasonografica rilevata a livello di arterie sane
che irrorano territori ad alte resistenze: (1) prima onda positiva, o sfigmica, in
stretta relazione alla spinta sistolica; (2) onda negativa, o onda reverse, in
relazione alla chiusura delle valvole aortiche; (3) seconda onda positiva in
relazione alla compliance di parete; (4) ritorno alla linea di base.
Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori
47
In caso di lesioni stenosanti del distretto iliaco-femorale, a livello della femorale comune è udibile un segnale demodulato, bifasico o, nei casi più avanzati, monofasico olosistolico. L’immagine analogica acquisterà una
morfologia sempre più arrotondata, con visualizzazione di un’incisura dicrota
e con la progressiva attenuazione delle altre due onde fino alla loro completa
scomparsa. Nelle ostruzioni il suono sarà monofasico, distribuito non solo
durante la sistole ma anche nella diastole con una costante sopraelevazione
della curva rispetto alla linea di base (Fig. 4). Questo genere di suono e di
curva è caratteristico di un vaso riperfuso attraverso il circolo collaterale o
posto a valle di una lesione importante. Essi riflettono la caduta delle
resistenze periferiche nel territorio a valle di una lesione importante.
Il segnale che si rileva nel punto della stenosi è un segnale da flusso accelerato, di frequenza elevata, con rumore “a raspa”, con tracciato caratterizzato
da un’onda sistolica estremamente rapida ed elevata con scomparsa delle
onde aggiunte.
Figura 4: Esempi di flusso demodulato: dalla A alla H curva ultrasonografica
con alterazioni ingravescenti in relazione alla gravità dell’arteriopatia.
48
Capitolo 4
In caso di lesioni del distretto femoro-popliteo le caratteristiche del suono,
così come la modificazione della morfologia dell’onda, sono simili a quelle
del distretto iliaco-femorale. Importante è in ogni caso anche la valutazione
dell’arteria femorale profonda. Oltre all’esplorazione diretta è possibile
effettuare una valutazione funzionale mediante compressione della loggia
posteriore della coscia, mantenendo la sonda sull’arteria poplitea: se il
segnale rimane invariato, la femorale superficiale è perfettamente funzionante; se si assiste invece ad una riduzione (o addirittura alla scomparsa) del
segnale la femorale profonda partecipa attivamente alla rivascolarizzazione
poplitea, costituendo un vero e proprio by-pass spontaneo. A livello delle
arterie tibiali in caso di ostruzione nei segmenti superiori il segnale è monofasico, di ampiezza variabile. Nelle condizioni cliniche più avanzate possono
non essere rilevabili segnali in periferia.
L’assenza di una delle due tibiali può essere riscontrabile anche in pazienti
assolutamente sani. Si tratta soltanto di una particolarità anatomica
osservabile in un’apprezzabile percentuale di popolazione (10-20%) normale.
Anche a livello del piede è possibile effettuare una valutazione funzionale
della circolazione collaterale con le manovre di compressione delle tibiali
anteriore o posteriore con la sonda posta alternativamente sulla tibiale
posteriore o sulla pedidia.
Un’applicazione importante del Doppler C.W. è la possibilità di misurare la
pressione arteriosa a diversi livelli dell’arto inferiore gonfiando il manicotto
di uno sfigmomanometro, posto al terzo distale della coscia od al terzo
prossimale ed a quello distale della gamba, fino a valori superiori alla PA sistemica o fino alla scomparsa del segnale monitorizzato (Fig. 5). Sgonfiando
il manicotto, si registra il valore pressorio al quale ricompare il segnale, con
la sonda posta a livello dell’arteria subito a valle del manicotto (arterie
Figura 5: Misurazione delle pressioni segmentarie a livello della caviglia.
Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori
49
poplitea, tibiale posteriore, tibiale anteriore e peroniera). Il rapporto tra la
pressione rilevata alla caviglia e quella omerale è definito come Indice di
Winsor o anche indice caviglia-braccio (I.W. o A.B.I.) ed è normalmente
maggiore o uguale a 1. Esso offre una stima indiretta del flusso periferico
attuale ed è più utile della misurazione isolata della pressione periferica. Non
vi è una chiara correlazione fra il grado delle lesioni aterosclorotiche degli
assi periferici e la diminuzione dell’indice di Winsor. Tuttavia possiamo
stimare che con valori superiori a 0,7-0,8 il paziente sia in una fase clinica
iniziale, fra 0,5 e 0,7 vi sia un discreto compenso, mentre con valori inferiori
a 0,5 il paziente si avvicini progressivamente allo stadio dell’ischemia critica
(che di solito presenta valori di 0,2-0,3). L’indice di Winsor non è ritenuto
attendibile nel diabetico o in qualunque altro paziente con calcificazioni
parietali, perché le arterie non sono comprimibili dallo sfigmomanometro: il
flusso distale è apprezzato come rumore continuo.
Un’altra tecnica d’indagine è il cosiddetto Treadmill Test (o Test di
Strandness). Esso permette di valutare il grado di compenso della circolazione collaterale in condizioni di sforzo o di slatentizzare patologie arteriose
non evidenziabili a riposo (pazienti con tutti i polsi palpabili e che riferiscono
claudicatio). Dopo aver tenuto il paziente a riposo per 20 minuti ed aver
rilevato i valori pressori di base, lo si invita a camminare sul tapis roulant alla
velocità di 3 Km/h, con pendenza del 10% per 5 minuti o finché non compare
claudicatio. Se non si dispone del tapis roulant o di un cicloergometro sarà
sufficiente far effettuare al paziente flesso-estensioni del piede per circa 2
minuti e mezzo (Test di Carter).
Si misurano le pressioni di occlusione alla caviglia dopo che il paziente ha
eseguito il test e fino al ritorno dei valori di base, ogni minuto per 10 minuti.
Nel soggetto normale lo sforzo comporta una vasodilatazione periferica
massimale con riduzione delle resistenze periferiche e un cospicuo aumento
del flusso muscolare. La pressione non si modifica rispetto ai valori preesercizio oppure mostra solo una lievissima riduzione con rapido recupero.
Nel soggetto arteriopatico l’esercizio riproduce le condizioni che provocano
la claudicatio. Si osserva quindi una riduzione dei valori pressori che, nei casi
più gravi, può essere notevole rispetto ai valori basali. Il tempo di recupero
dei valori pressori di base alla caviglia sarà tanto maggiore quanto più grave e
meno compensata è la lesione arteriosa.
Una diagnostica strumentale non invasiva più completa viene attualmente
effettuata con l’Eco-Color-Doppler (ECD) che, facilitando l’identificazione
del vaso e del flusso al suo interno, permette lo studio delle caratteristiche
morfologiche delle lesioni steno-ostruttive consentendo, nel contempo, la
valutazione emodinamica mirata ed in tempo reale del flusso in punti
prescelti e la ricostruzione di una vera e propria mappa dell’intero albero
50
Capitolo 4
arterioso periferico. La caratteristica peculiare della metodica, infatti, è
rappresentata dalla coesistenza di un’apparecchio ecografico e di
un’apparecchio Doppler: ciò consente di effettuare non solo valutazioni di
tipo flussimetrico ma anche di tipo ecografico e quindi morfologico (Fig. 6).
Mediante l’utilizzzo del codice colore è possibile effettuare valutazioni
morfologiche ed emodinamiche contemporaneamente ed è possibile scegliere
all’interno del vaso un punto, detto volume campione, sul quale è possibile
eseguire selettivamente delle misurazioni di tipo flussimetrico.
In generale, l’esame comprende un’attenta valutazione morfologica in senso
longitudinale e trasversale dell’asse iliaco, della femorale comune e delle
origini della femorale superficiale e della femorale profonda. Si procede
quindi in senso distale, seguendo il decorso della femorale superficiale. I 2/3
prossimali non presentano particolari difficoltà di studio, mentre maggiori
problemi di visualizzazione potranno aversi a livello del canale di Hunter,
sede elettiva di comparsa di lesioni ostruttive.
Importante indicatore indiretto della presenza di lesioni stenosanti può essere la
presenza di grossi rami collaterali a livello dell’arteria poplitea sovragenicolare.
Figura 6: Immagine eco-color-doppler in un paziente con stenosi dell’arteria
femorale superficiale.
Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori
51
Si procede quindi con l’esame dell’arteria poplitea e della sua biforcazione
alla ricerca di lesioni stenosanti o di placche calcifiche. L’esame viene completato dalla visualizzazione delle arterie tibiali.
Alla valutazione puramente ecografia viene associata la valutazione con
color; quest’ultima consente di individuare lesioni aterosclerotiche di tipo
“ipoecogeno”, cioè scarsamente visibili all’ecografia, come difetti di
riempimento del vaso e, attraverso il codice colore (che prevede variazioni di colore a seconda della velocità e delle caratteristiche di laminarità o turbolenza del flusso), consente di effettuare una prima valutazione di tipo emodinamico.
Il rilevamento delle curve di flusso a tutti i livelli sopraelencati completa
l’esame e consente una dettagliata valutazione del significato emodinamico
delle lesioni visualizzate.
Apparecchiature sofisticate possono ottenere immagini estremamente
definite, anche riguardo alle caratteristiche strutturali della parete oltre
che delle pacche, e negli apparecchi di ultima generazione la capacità di
visualizzazione dei vasi e delle lesioni aterosclerotiche è stata
ulteriormente migliorata dall’introduzione di software computerizzati che
rendono possibile l’utilizzo di mezzi di contrasto dedicati, con ulteriore
maggiore risoluzione.
Ovviamente è molto importante, a prescindere dalle possibilità delle
apparecchiature a disposizione, l’abilità dell’operatore nel reperire immagini
e curve di flusso adeguate e nell’interpretare in maniera corretta quanto
visualizzato, soprattutto in condizioni sfavorevoli (una coscia edematosa o di
dimensioni abbondanti) e a livello di alcuni distretti (ad es., l’iliaca per la
relativa profondità e per gli artefatti da gas intestinale, la femorale
superficiale all’Hunter, i rami sottopoplitei generalmente profondi e vicini a
strutture ossee, ecc.).
Certamente l’Eco-Color-Doppler per la notevole diffusione sul territorio, per
i costi relativamente contenuti ma soprattutto per l’elevata sensibilità e
specificità, oggi rappresenta l’esame di primo livello da eseguire in tutti i
pazienti in cui esista un sospetto fondato di arteriopatia periferica. In genere,
se eseguito da un operatore esperto, edotto circa tutte le problematiche legate
alla presenza di aterosclerosi periferica, offre non solo una notevole
attendibilità diagnostica, che talora rende superfluo qualunque altro esame
diagnostico di secondo livello, ma anche una valutazione morfologica e
funzionale tale da consentire già di impostare un programma terapeutico,
farmacologico o chirurgico.
In generale il chirurgo vascolare utilizza ormai routinariamente l’ECD nella
pratica clinica quotidiana e l’accuratezza diagnostica della metodica nelle sue
mani è tale da non richiedere, in alcuni casi, ulteriori approfondimenti
52
Capitolo 4
strumentali sia per una corretta definizione diagnostica che per la pianificazione terapeutica.
Ottimale è l’uso dell’ECD nel follow-up degli arteriopatici, sia sottoposti
ad intervento di rivascolarizzazione che a trattamenti farmacologici. In
questi casi il controllo non invasivo è facilmente ripetibile e garantisce
una buona qualità d’informazione senza la necessità di ulteriori indagini
diagnostiche.
Molto si discute attualmente sull’uso dell’ECD come metodica di screening
di massa. In generale, una buona visita vascolare consente di identificare
senza dubbio i pazienti con arteriopatia periferica rispetto ai pazienti sani e
consente anche di definire con un certo dettaglio la gravità della patologia.
Per questo motivo non è ragionevole utilizzare l’ECD come screening su tutti
i pazienti, ma è preferibile utilizzarlo in una popolazione di pazienti
selezionata dopo la visita vascolare.
L’arteriografia digitalizzata è l’esame che, dal punto di vista anatomico,
fornisce il maggior numero di dettagli circa la sede e l’estensione della
malattia, la presenza e la validità del circolo collaterale e lo stato dell’arto.
L’esame è invasivo poiché consiste nella somministrazione di mezzo di
contrasto iodato nelle arterie mediante posizionamento di cateteri intraarteriosi con tecnica di Seldinger. La sua invasività comporta un rischio di
complicanze più o meno gravi che vanno dalla formazione di lesioni arteriose
nel sito di introduzione dei cateteri o in distretti lontani, alla tossicità renale
da mezzo di contrasto. La via d’accesso preferenziale è inguinale (femorale
comune); in alternativa si può accedere per via trans-omerale o transascellare. Quest’ultima comporta maggiori difficoltà perché l’arteria ascellare
è più mobile e più profonda e vi è un maggior rischio di complicanze
neurologiche a carico del plesso brachiale in caso di ematoma ascellare. La
visualizzazione delle immagini oggi avviene mediante tecnica digitalizzata,
con sottrazione delle immagini di fondo (Fig. 7).
L’angiografia andrebbe eseguita in proiezione antero-posteriore e, nei casi
dubbi o in particolari sedi, in proiezione obliqua per valutare al meglio
lesioni che altrimenti potrebbero rimanere misconosciute.
L’esame angiografico rimane ancora la tecnica di riferimento per ottenere
una visualizzazione diretta e completa dell’albero arterioso, anche se per
molti Autori non è irrinunciabile per una corretta programmazione dell’intervento chirurgico di rivascolarizzazione sia convenzionale che endovascolare. Infatti, la grande evoluzione delle tecniche diagnostiche non invasive sta
mettendo in discussione il ruolo di tecnica diagnostica di scelta sinora
ricoperto dall’angiografia, soprattutto nella valutazione di quadri di
arteriopatia focalizzata con dimostrazione di un valido circolo arterioso a
monte e a valle.
Diagnosi dell’arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori
53
Tra le tecniche emergenti che si propongono come alternative o complementari all’angiografia è utile ricordare l’Angio-Risonanza Magnetica
(Angio-RM) e l’Angio-TC.
L’Angio-RM è in grado di fornire una visualizzazione dell’albero arterioso
simile all’angiografia tradizionale senza però la somministrazione di un
mezzo di contrasto iodato e senza l’introduzione di cateteri nell’albero
arterioso. È inoltre possibile misurare il grado di significatività emodinamica
di una stenosi utilizzando una mappa a velocità di fase perpendicolare al vaso
a monte ed a valle del segmento interessato. L’angio-RM tuttavia non è in
grado di visualizzare le calcificazioni a livello delle lesioni ed è tuttora una
metodica di difficile reperibilità e di elevato costo.
L’Angio-TC, come l’Angio-RM, non utilizza cateteri intra-arteriosi, ma necessita di mezzo di contrasto iodato e utilizza radiazioni ionizzanti. L’attendibilità diagnostica nel distretto periferico è in generale sovrapponibile a
quella dell’Angio-RM, anche se non sono stati condotti attendibili studi
comparativi, e consente una valutazione delle calcificazioni parietali (Fig. 8).
Anche l’Angio-TC grazie alle apparecchiature multi-detettori consente di
effettuare, partendo da sezioni eseguite sul piano coronale, ricostruzioni
tridimensionali dell’albero arterioso sul piano sagittale che offrono una
visione “panoramica” molto simile a quella di un’angiografia tradizionale.
Figura 7: Angiografia digitalizzata degli arti inferiori. (A): stenosi multiple a
livello della femorale superficiale ed il circolo collaterale di compenso; (B):
la circolazione del piede è sostenuta dalla tibiale anteriore.
54
Capitolo 4
Figura 8: Esame angio-TC (ricostruzione volume rendering) che mostra
l’occlusione dell’arteria iliaca comune sinistra; b) l’esame angio-RM (ricostruzione MIP) mostra lo stesso caso di a; c) esame angio-TC (ricostruzione
MPR su piano coronale) che mostra le diffuse calcificazioni dell’aorta
addomianale e delle arterie iliache e la concomitante stenosi sub-ostruttiva
dell’arteria renale di sinistra all’origine.
5. Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
Epidemiologia e storia naturale
Nel mondo occidentale l’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca nei pazienti di età
media e negli anziani è una causa comune di sintomi ischemici a livello degli
arti inferiori. I soggetti affetti da questa patologia risultano avere un’età
media di 10 anni inferiore rispetto a quelli che riferiscono sintomi attribuibili
ad arteriopatia femoro-poplitea. La malattia aorto-iliaca è meno comune
dell’arteriopatia ostruttiva del distretto femoro-popliteo con la quale, però,
alle volte risulta associata.
I pazienti con ischemia a riposo dovuta alla contemporanea presenza di arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca e femoro-poplitea sono in genere nella settima
decade di vita e non sono molto più giovani di quelli che presentano dolore a
riposo da arteriopatia femoro-poplitea.
I fattori di rischio per l’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca sono quelli della
arteriosclerosi: fumo di sigaretta, ipertensione, ipercolesterolemia e diabete.
Il coinvolgimento ateromasico dell’aorta addominale e delle arterie iliache si
verifica nel 25-30% dei casi di aterosclerosi periferica.
La sede maggiormente interessata è rappresentata dal tratto distale dell’aorta
e dall’origine delle arterie iliache comuni.
La stenosi isolata dell’aorta sottorenale è relativamente rara ma è tipica delle
donne fumatrici, di età anche relativamente giovane; in questo caso si
possono notare grosse lesioni di aspetto fibro-calcifico localizzate nel tratto
medio-distale del vaso.
La biforcazione aortica costituisce una sede prediletta delle lesioni ostruttive
aterosclerotiche. I maschi sono più colpiti, con un rapporto da 4:1 a 20:1
rispetto alle donne. Sono frequenti soprattutto lesioni ulcerative associate alle
calcificazioni della tonaca media. Tali modificazioni strutturali della parete
diminuiscono progressivamente in senso prossimale, fino all’emergenza delle
arterie renali. Nel tratto compreso fra le arterie renali e la mesenterica
inferiore, le alterazioni parietali sono in genere modeste.
Si riconoscono ulteriori varianti topografiche:
I tipo - steno-ostruzione limitata alla biforcazione, o sindrome di Lériche (Fig.
1), che comprende l’origine delle arterie iliache comuni (frequenza > 50%);
II tipo – lesione limitata a un breve segmento dell’aorta terminale (comprese
o meno le arterie pelviche), con frequenza attorno al 40%;
III tipo - lesione trombotica dell’aorta che si estende fino all’origine delle
renali (trombosi ascendente dell’aorta addominale), per lo più a partenza da
un tipo I (Lériche), con frequenza del 5-10%
55
56
Capitolo 5
Il carattere segmentario del secondo tipo è, in realtà, non frequentissimo,
poiché alterazioni parietali possono essere già presenti e significative a valle
o a monte della zona interessata. In oltre il 50% dei casi la localizzazione è
bilaterale e in oltre l’80% dei casi coesistono steno-ostruzioni più distali
(arterie di coscia e gamba).
Lo sviluppo di circoli collaterali nella malattia ostruttiva aorto-iliaca permette
in genere un valido compenso, tale che la fenomenologia clinica si sviluppa
molto tardivamente e raramente raggiunge gli stadi più avanzati.
Ciò è in relazione all’ampiezza di distribuzione dei circoli addominali e
pelvici, al calibro dei singoli componenti e alla loro rilevanza funzionale (Fig.
2). In casi particolarmente favorevoli è possibile addirittura apprezzare la
ricomparsa dei polsi più periferici, per esempio il pedidio o il tibiale
posteriore.
Per maggiori dettagli sui circoli collaterali si rimanda al Capitolo 1.
Le lesioni iniziali dell’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca sembrano presentarsi
quasi sempre a livello dell’aorta terminale e della porzione prossimale delle
arterie iliache comuni e/o a livello della biforcazione delle arterie iliache
comuni. Le lesioni progrediscono, quindi, distalmente.
Circa un terzo dei soggetti con arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca presenta lesioni all’origine dell’arteria femorale profonda e più del 40% presenta un’ostruzione dell’arteria femorale superficiale. La storia naturale dell’arteriopatia
Figura 1: Angiografie di sindrome di Lériche: a Sn l’esame mostra
l’ostruzione del carrefour aortico con trombo che riduce il lume dell’aorta
addominale; a Dx l’ostruzione aortica è estesa dal carrefour fino all’origine
dell’arteria mesenterica inferiore.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
57
ostruttiva aorto-iliaca è ovviamente una lenta progressione che può portare
verso l’ostruzione dell’aorta addominale distale, anche con progressione del
trombo fino a livello delle arterie renali.
A questo proposito è stato osservato che un terzo dei soggetti con arteriopatia
aorto-iliaca in un periodo di 5-10 anni presenta trombosi delle arterie renali.
Bisogna anche ricordare che la malattia aorto-iliaca si trova spesso associata
a patologia ostruttiva dell’origine dei principali rami viscerali e delle arterie
renali.
Figura 2: Sindrome di Lériche: i circoli collaterali assicurano la riabitazione
dell’arteria iliaca esterna sinistra e dell’arteria femorale destra.
58
Capitolo 5
Diagnosi clinica
Il quadro clinico può essere sfumato o molto importante, in relazione ai
grandi circoli collaterali ed alla quantità di gruppi muscolari sottoposti ad una
ridotta perfusione. I sintomi iniziali sono rappresentati dalla claudicatio
intermittens a carico dei muscoli del polpaccio, della coscia, dell’anca e
glutei essendo interessata l’aorta distale e/o le arterie iliache. La claudicatio
che interessa anche i gruppi muscolari più prossimali può orientare nella
diagnosi differenziale tra arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca e quella femoropoplitea, anche se può accadere che un soggetto affetto da tale patologia
riferisca soltanto una claudicatio surale. Un altro segno che può portare a
sospettare un’arteriopatia aorto-iliaca può essere, nei maschi, una difficoltà
nell’ottenere e mantenere l’erezione a causa dell’inadeguata perfusione delle
arterie pudende interne.
Nella malattia aorto-iliaca isolata la claudicatio è, di solito, a lunga autonomia
di marcia (anche 1 km), il tempo di recupero non è molto prolungato ed il
paziente, spesso anziano, non vive il sintomo come particolarmente invalidante.
L’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca causa raramente ischemia a riposo o
perdita tessutale, per la presenza di un ricco circolo collaterale sufficiente ad
irrorare gli arti inferiori con quantità di sangue adeguate ad assicurare una
buona perfusione tessutale a riposo. Bisogna tuttavia ricordare che le placche
aterosclerotiche nell’aorta e nelle arterie iliache possono portare alla sindrome
del dito blu (blue toe) dovuta alla microembolizzazione di frammenti
arteriosclerotici nei vasi terminali del piede (Fig. 3). Quando l’arteriopatia
ostruttiva aorto-iliaca è unita ad un’arteriopatia ostruttiva femoro-poplitea, fatto
comune negli anziani, può essere presente una ischemia a riposo.
Figura 3: Lesioni puntiformi da microembolizzazione alle dita del piede.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
59
Bisogna sempre prendere in considerazione, nella diagnosi differenziale, i
sintomi da irritazione delle radici nervose causata da restringimenti degli
spazi spinali o da ernia del disco intervertebrale. In alcuni pazienti questi
sintomi possono essere associati all’attività fisica, alleviati dalla posizione
seduta o sdraiata ed esacerbati più dalla stazione eretta che dalla marcia.
Molto importante è anche la tipica distribuzione del dolore nel territorio
d’innervazione del nervo sciatico.
Per quanto riguarda l’esame obiettivo, all’ispezione un paziente con
claudicatio intermittens per arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca ha, di
solito, arti inferiori apparentemente sani e ben perfusi, anche se è possibile riscontrare un’ipotrofia muscolare. Alla palpazione è indicativa di
arteriopatia aorto-iliaca l’ipopulsatilità o l’assenza dei polsi femorali.
All’auscultazione vi possono essere soffi aspri a livello inguinale, anche
se bisogna ricordare che soffi femorali possono essere dovuti anche a
lesioni stenotiche all’origine dell’arteria femorale superficiale e dell’arteria femorale profonda.
Le pressioni segmentarie registrate con il Doppler a tutti i livelli degli arti
inferiori sono di solito più basse della pressione omerale e, in assenza di una
concomitante arteriopatia interessante il settore femoro-popliteo o distale,
non vi è un gradiente significativo tra la pressione registrata a livello della
parte distale della coscia e quella registrata alla caviglia. Quando vi è una
discrepanza tra un indice caviglia-braccio quasi normale e sintomi importanti
risulta opportuna la misurazione delle pressioni dopo un test da sforzo
(treadmill test).
Indicazioni terapeutiche
La terapia dell’arteriopatia ostruttiva aorto-iliaca può essere medica o
chirurgica.
La terapia medica, indicata in tutti gli stadi della malattia, si basa
sull’uso di antiaggreganti piastrinici e di vasodilatatori. Il trattamento
farmacologico e la correzione dai fattori di rischio sono finalizzati a
migliorare i sintomi, ma anche a prevenire altri eventi vascolari
(infarto miocardico, ictus cerebrale) che insorgono in notevole misura
in tali pazienti, con una mortalità del 30% entro 5 anni; tale mortalità
risulta essere 3 volte maggiore che nella popolazione generale di
uguale età.
In caso di persistenza o peggioramento delle manifestazioni cliniche, con
claudicatio intermittens severa od ischemia critica, vi è indicazione ad un
trattamento di rivascolarizzazione chirurgica.
60
Capitolo 5
La tromboendoarterectomia (TEA) è stata la prima procedura di ricostruzione
arteriosa diretta utilizzata, con buoni risultati nelle steno-ostruzioni limitate
all’aorta sottorenale ed alle arterie iliache comuni.
Con l’avvento dei materiali protesici negli anni ‘60, il by-pass aorto-femorale, monolaterale o più spesso bilaterale, è stato per decenni la procedura più
comunemente effettuata in tale area. La mortalità operatoria di questo tipo di
intervento è, oggi, inferiore al 3% ed è influenzata dall’età e dalle patologie
concomitanti; la pervietà del by-pass è superiore al 75% a 10 anni. Risultati
meno validi in termini di pervietà a distanza si riscontrano nei pazienti d’età
inferiore a 50 anni per la progressione accelerata e la plurisegmentarietà della
malattia.
Nei pazienti ad alto rischio, con controindicazioni all’anestesia generale od
alla laparotomia, trovano a volte indicazione le tecniche extra-anatomiche,
quali il by-pass femoro-femorale cross-over (pervietà primaria a 5 anni: 80%)
od il by-pass axillo-femorale che, per minor durata (pervietà primaria a 3
anni: 50%) e maggior rischio d’infezione (4-12%), ha attualmente indicazioni
limitate a casi di ischemia critica o nei reinterventi.
Negli ultimi anni, lo sviluppo delle procedure endovascolari ha rivoluzionato
il trattamento di questa patologia ed attualmente l’angioplastica percutanea
(PTA) e lo stenting rappresentano un’alternativa all’intervento chirurgico
tradizionale, con incremento rilevante del numero dei pazienti trattati, per la
minore invasività e per la riduzione della morbilita e mortalità correlate;
inoltre i risultati a distanza sono sovrapponibili, anche se il follow-up è
necessariamente più breve.
Il TransAtlantic Inter-Society Consensus ha messo a punto una classificazione (TASC) che permette di dividere le lesioni in base alla loro
suscettibilità al trattamento percutaneo o chirurgico (Tab. 1):
- Lesioni focali di tipo A: ideali per l’approccio precutaneo;
- Lesioni di tipo B: l’approccio percutaneo è ancora la tecnica da preferire;
- Lesioni di tipo C: dovrebbe essere preferito l’approccio chirurgico tradizionale;
- Lesioni di tipo D: l’intervento chirurgico tradizionale è l’opzione di scelta.
Le lesioni iliache, quali le stenosi singole, sia mono- che bilaterali, di
lunghezza inferiore a 3 cm, sia dell’arteria iliaca comune sia dell’arteria iliaca
esterna, sono classificate come lesioni di tipo A.
Le stenosi singole di 3-10 cm (che non interessano la femorale comune), le
stenosi consecutive, non più lunghe di 5 cm ciascuna, e le occlusioni unilaterali dell’iliaca comune sono classificate come lesioni di tipo B.
Le stenosi lunghe (5-10 cm) bilaterali, le occlusioni unilaterali dell’arteria
iliaca esterna che si estendono all’arteria femorale comune e le stenosi
unilaterali dell’arteria iliaca esterna che si estendono nell’arteria femorale
comune sono classificate come tipo C.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
61
Tabella 1: classificazione TASC delle lesioni iliache
Lesioni iliache TASC-A
• Stenosi singole dell’iliaca comune o dell’iliaca esterna
(unilaterali o bilaterali) di lunghezza inferiore ai 3 cm
Lesioni iliache TASC-B
• Stenosi iliache singole di 3-10 cm di lunghezza senza
coinvolgimento della femorale comune
• Due stenosi dell’iliaca comune o dell’iliaca esterna di lunghezza
inferiore ai 5 cm senza coinvolgimento della femorale comune
• Occlusione monolaterale dell’iliaca comune
Lesioni iliache TASC-C
• Stenosi bilaterali dell’iliaca comune e/o dell’iliaca esterna di
lunghezza di 5-10 cm senza coinvolgimento della femorale
comune
• Occlusioni
monolaterali
dell’iliaca
esterna
senza
coinvolgimento della femorale comune
• Stenosi monolaterali dell’iliaca esterna con estensione alla
femorale comune
• Occlusioni bilaterali dell’iliaca comune
Lesioni iliache TASC-D
• Stenosi estese all’interna lunghezza dell’asse iliaco-femorale di
lunghezza maggiore di 10 cm
• Occlusione monolaterale dell’iliaca comune e dell’iliaca esterna
• Occlusione bilaterale dell’iliaca esterna
• Stenosi iliache adiacenti ad aneurismi dell’aorta addominale o
dell’iliaca
Le lesioni più estese sono classificate come tipo D.
Sulla base di questo sistema di classificazione, molte lesioni iliache
soddisfano i criteri per i tipi A e B, aprendo un potenziale campo di
applicazione alle procedure endovascolari in presenza di una claudicatio lieve
o di moderata entità.
In casi selezionati è possibile trattare anche lesioni di tipo C come ad esempio
le occlusioni dell’arteria iliaca esterna che non si estendono all’arteria
femorale comune.
In caso di lesioni multiple, la chirurgia tradizionale e le procedure endovascolari potranno essere combinate. Ad esempio, in caso di ostruzione iliaca
estesa monolaterale e stenosi dell’arteria controlaterale, quest’ultima potrà
62
Capitolo 5
essere utilizzata come vaso donatore, dopo trattamento endovascolare (PTA,
stent) della lesione stenotica, per il confezionamento di un by-pass femorofemorale cross-over.
Contemporaneamente, nuovi scenari sono andati delineandosi per il trattamento chirurgico convenzionale mediante minilaparotomia o metodiche laparoscopiche, per via transperitoneale o retroperitoneale, con riduzione del
dolore post-operatorio, più rapida risoluzione dell’ileo paralitico, riduzione
dell’ospedalizzazione e più pronta ripresa dell’attività fisica e lavorativa.
La scelta tra le diverse opzioni terapeutiche oggi disponibili, ed in continua
evoluzione, sarà dettata dalla valutazione delle condizioni generali del
paziente, della sintomatologia, della morfologia ed estensione delle lesioni
steno-ostruttive dell’asse aorto-iliaco, al fine di ottenere la risoluzione delle
manifestazioni cliniche con una migliore qualità di vita.
Terapia chirurgica tradizionale
La laparotomia mediana transperitoneale è la via d’accesso di scelta all’aorta
addominale ed alle arterie iliache, mediante incisione xifo-sottombelicale di
diversa estensione in rapporto al segmento da preparare. Meno utilizzate sono
la via sotto-ombelicale trasversa e la via paramediana sinistra. L’accesso
extraperitoneale, pur presentando il vantaggio di una riduzione del dolore postoperatorio, di una minore disidratazione e di una più rapida ripresa della
peristalsi intestinale, di minori ripercussioni sulla ventilazione, trova
indicazione meno frequente nelle ostruzioni aortiche perché per questa via non
si può controllare lo stato degli organi endoaddominali e, talvolta, è più difficile
il passaggio retroperitoneale della branca protesica controlaterale durante il
confezionamento di un by-pass aorto-bifemorale; rimane, viceversa, la via più
idonea per le ricostruzioni isolate dell’asse iliaco.
Tromboendoarterectomia aorto-iliaca (TEA)
La TEA dell’asse aorto-iliaco, un tempo ampiamente praticata, è attualmente
limitata ad una esigua percentuale di pazienti che presenta una stenoostruzione localizzata all’aorta terminale ed alle arterie iliache comuni, non
trattabile mediante procedure endovascolari.
L’intervento viene eseguito mediante isolamento dell’aorta sottorenale e delle
arterie iliache; dopo anticoagulazione (eparina 100 mg/kg peso corporeo, e.v.) si
effettua il clampaggio prossimale e distale dei vasi. L’aortotomia longitudinale
viene praticata medialmente all’origine dell’arteria mesenterica inferiore e
prolungata a livello della biforcazione delle arterie iliache. S’individua il piano di
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
63
clivaggio idoneo e, mediante apposita spatola, si scolla il cilindro ateromasico, in
alto fino a livello dell’angiostato, ove viene sezionato, ed in basso fino alla
biforcazione iliaca, disobliterando gli osti dell’arteria mesenterica inferiore e delle
arterie ipogastriche (Fig. 4). In caso di estensione prossimale della placca, la TEA
andrà estesa verso l’alto, liberando gli osti dell’arterie renali. La riparazione
dell’arteriotomia viene solitamente praticata mediante applicazione di un patch,
preferibilmente biologico, autologo od eterologo (pericardio bovino), ed
opportunamente modellato (angioplastica a trifoglio).
Per le lesioni isolate dell’arteria iliaca comune od esterna, non estese
all’aorta, tale procedura può essere eseguita mediante tecnica semichiusa
attraverso una arteriotomia longitudinale di circa 3 cm della arteria femorale
comune; dopo aver scollato, per via smussa, alcuni centimetri del cilindro
ateromasico, questo viene sezionato per permettere l’introduzione di un ring
stripper di Vollmar o di Moll che viene fatto avanzare prossimalmente sotto
controllo fluoroscopico mediante delicati movimenti di rotazione, senza
oltrepassare la biforcazione aorto-iliaca. Ottenuto il distacco dell’intera
placca ateromasica o dopo la sua sezione, si procede alla sua asportazione
ritirando progressivamente l’anello. Materiale residuo può essere asportato
mediante irrigazione di soluzione fisiologica addizionata di eparina od
utilizzando un catetere di Fogarty da embolectomia. Se necessario, la procedura
Figura 4: Tromboendoarterectomia aorto-iliaca.
64
Capitolo 5
verrà completata mediante TEA a cielo aperto della femorale comune ed
eventuale profundoplastica, con chiusura dell’arteriotomia con patch. Un
controllo angiografico intraoperatorio evidenzierà eventuali flap intimali,
attualmente trattabili mediante posizionamento di uno stent. Raramente è
richiesta un’incisione retroperitoneale, per completare la disostruzione attraverso
un’arteriotomia iliaca o per il confezionamento di un by-pass iliaco-femorale.
Con tale procedura si può raggiungere una pervietà primaria a 3 anni di oltre il
60% ed una pervietà secondaria superiore al 90%, sovrapponibile ai risultati
ottenuti mediante by-pass iliaco-femorale o trattamento endovascolare.
By-pass aorto-bifemorale
Il by-pass aorto-bifemorale ha rappresentato a lungo il gold standard per il
trattamento della malattia ostruttiva aorto-iliaca. Il principio ispiratore per il
confezionamento del by-pass è che i vasi d’accoglimento sui quali si dovranno
confezionare le anastomosi distali siano idonei. L’intervento inizia quindi con la
preparazione bilaterale dei vasi femorali. Mediante incisione longitudinale
curvilinea e spostamento mediale dei linfonodi inguinali per evitarne la lesione
(causa di linforrea, di ritardo alla guarigione della ferita chirurgica e di aumentato
rischio di infezione protesica) vengono preparate l’arteria femorale comune,
l’arteria femorale superficiale e l’arteria femorale profonda. Avendo a disposizione vasi femorali idonei, si prosegue con la preparazione dell’aorta addominale. Poiché l’indicazione all’intervento chirurgico è stata posta per
arteriopatia ostruttiva la preparazione e l’isolamento dell’aorta addominale
possono essere limitati al tratto necessario per il clampaggio e per il
confezionamento dell’anastomosi prossimale. Nella maggior parte dei casi
quest’ultima sarà un’anastomosi latero-terminale tra aorta e protesi (Fig. 5).
Figura 5: Anastomosi latero-terminale tra aorta e protesi. Da notare la
limitata preparazione dell’aorta.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
65
In questo caso si può anche eseguire un clampaggio tangenziale dell’aorta
che consente il confezionamento dell’anastomosi mantenendo un certo grado
di perfusione distale perché non ostruisce completamente il lume aortico.
Dopo l’isolamento, preferibilmente per via mediana transperitoneale, ed il
clampaggio dell’aorta addominale viene effettuata un’aortotomia longitudinale a monte dell’origine dell’arteria mesenterica inferiore. Si seziona obliquamente il corpo di una protesi biforcata di diametro congruo alle dimensioni dell’aorta e dei vasi femorali. Si confeziona, quindi, l’anastomosi.
L’anastomosi prossimale latero-terminale ha il vantaggio di conservare il
flusso arterioso nei vasi nativi ancora pervi ed in particolare nelle arterie
ipogastriche. L’anastomosi prossimale termino-terminale viene preferita in
caso di occlusione dell’aorta distale e delle arterie ipogastriche, per una
maggiore validità emodinamica, un minor rischio tardivo di aneurisma
anastomotico e di fistola aorto-enterica, senza però sostanziali differenze di
pervietà a distanza (Fig. 6).
Completata la sutura, si chiude manualmente la protesi a valle dell’anastomosi, si declampa l’aorta per verificare la tenuta dell’anastomosi e si
eliminano eventuali residui ateromasici o di materiale trombotico. Si sposta
quindi l’angiostato sul corpo protesico. Il momento successivo è la
tunnellizzazione delle branche proteiche nel retroperitoneo, fino agli inguini
(Fig. 7).
Dopo aver portato a termine questa manovra, si procede alle anastomosi
termino-laterali con le arterie femorali comuni. Nel caso in cui la sede
ritenuta idonea per l’anastomosi sia, come più spesso accade, la femorale
comune poco al di sopra della sua biforcazione, dopo aver clampato i vasi
femorali (arteria femorale comune, superficiale e profonda) si esegue
un’arteriotomia longitudinale della lunghezza di circa 2 cm sulla faccia
superiore del vaso.
Nel caso in cui solo l’arteria femorale profonda sia pervia mentre
l’arteria femorale superficiale è ostruita all’origine, l’arteriotomia
longitudinale, iniziata sempre sulla femorale comune, verrà orientata
verso l’origine della femorale profonda. Declampando in successione i
vasi femorali si controlla la qualità del flusso ematico proveniente da
monte (arteria femorale comune) e da valle (arteria femorale superficiale e profonda).
Prima del clampaggio definitivo è bene infondere nei vasi distali una
soluzione eparinata che contribuisce al mantenimento della pervietà e
contrasta la formazione di coaguli, soprattutto in arterie sede di lesioni
ateromasiche anche critiche. Si controlla poi il lume vasale sede di
anastomosi e, se opportuno, si esegue un’endoarterectomia. Anche a livello
femorale l’anastomosi deve essere eseguita dopo aver tagliato la branca
66
Capitolo 5
Figura 6: Anastomosi termino-terminale tra aorta addominale e protesi.
Figura 7: Schema ed immagini intraoperatorie della tunnellizzazione delle
branche protesiche nello spazio retroperitoneale.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
67
protesica di lunghezza adeguata ed aver modellato a “becco di flauto” la sua
estremità (Fig.8).
Prima di completare l’anastomosi si esegue un breve declampaggio della
protesi per far fuoriuscire eventuali coaguli formatisi al suo interno. Dopo
aver controllato la tenuta dell’anastomosi e la pulsatilità dei vasi a valle di
questa, si procede nello stesso modo per la branca protesica e l’anastomosi
controlaterale.
Una volta completata la seconda anastomosi femorale e ripristinato il flusso
arterioso si controlla, a livello addominale, che non vi siano stillicidi ematici
importanti od altre raccolte (linfa, urina, etc…). Si sutura il retroperitoneo in
modo che non vi siano contatti tra il contenuto endoperitoneale e la protesi; si
riposizionano le anse intestinali nella cavità addominale e si procede alla
chiusura a strati della laparotomia. Successivamente si controlla l’emostasi a
livello inguinale, si applica un drenaggio, di solito in aspirazione, per
evacuare eventuali raccolte siero-ematiche e si sutura la ferita chirurgica a
strati.
In caso di ostruzione unilaterale estesa dell’asse iliaco, può trovare
indicazione il by-pass aorto-femorale monolaterale. Esso può essere eseguito
mediante accesso extraperitoneale, ma viene preferito l’accesso trans-peritoneale per controllare più adeguatamente la pervietà dell’iliaca controlaterale e, in caso di necessità, poter praticare più agevolmente una rivascolarizzazione aorto-bifemorale.
Figura 8: Anastomosi termino-laterale tra protesi e vasi femorali all’inguine.
68
Capitolo 5
By-pass iliaco-femorale
Tale procedura rappresenta tuttora una valida opzione in caso di ostruzione
monolaterale estesa dell’asse iliaco-femorale, qualora vi siano condizioni
anatomiche che ne consentano l’esecuzione.
La via d’accesso preferita è quella extraperitoneale. Dopo la preparazione dei
vasi femorali e dopo averne verificato l’idoneità, si pratica un’incisione
cutanea che inizia a livello del bordo costale, sulla linea ascellare anteriore,
discende verticalmente e passa 3 cm all’interno della spina iliaca anteriorsuperiore per poi curvare lungo un piano parallelo all’arcata crurale, 2 cm al
di sopra di questa. Al di sotto del piano muscolare si reperta il sacco
peritoneale che viene scollato per via smussa spingendolo all’interno ed in
alto. Si deve identificare l’uretere che viene caricato, assieme al sacco
peritoneale, su una valva. Si scopre l’asse vascolare la cui preparazione
prevede un’accurata dissezione dei gangli linfatici che lo contornano. Dopo
eparinizzazione sistemica e clampaggio dei vasi iliaci (arterie iliaca comune,
ipogastrica ed esterna distale) si pratica un’arteriotomia longitudinale della
lunghezza di circa 2 cm sulla faccia anteriore del tratto di iliaca comune
scelto per l’anastomosi prossimale; declampando alternativamente l’arteria
iliaca comune, l’ipogastrica e l’iliaca esterna, si controlla la qualità del flusso
proveniente da monte e quella del flusso refluo, sia dal territorio ipogastrico
che dall’arto inferiore. Si modella, quindi, a becco di flauto l’estremità
prossimale di una protesi di calibro adeguato ai vasi e si confeziona
un’anastomosi latero-terminale. Successivamente si tunnellizza la protesi e si
confeziona l’anastomosi distale a livello dei vasi femorali. Le manovre di
spurgo del sangue dalla protesi e per il controllo della pervietà dei vasi
ripercorrono le tappe descritte per il by-pass aorto-bifemorale.
L’estensione del processo ateromasico può richiedere in alcuni casi, prima di
effettuare le anastomosi, una TEA prossimale e/o distale. Dopo aver controllato accuratamente l’emostasi e l’integrità del sacco peritoneale entrambe
le incisioni chirurgiche vengono ricostruite a strati.
By-pass extra-anatomici
I by-pass extra-anatomici decorrono in sede diversa da quella dei vasi nativi e
trovano indicazione in pazienti con situazioni locali sfavorevoli o ad alto
rischio chirurgico generale, tali da non consentire un’accesso laparotomico.
I by-pass extra-anatomici più utilizzati per rivascolarizzare gli arti inferiori
sono quelli che sfruttano come vaso donatore l’arteria femorale controlaterale
all’arto da rivascolarizzare (by-pass femoro-femorale cross-over) o l’arteria
ascellare (by-pass axillo-femorale) omo- o controlaterale.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
69
By-pass femoro-femorale cross-over
Si preparano i vasi femorali dell’arto da rivascolarizzare. Dopo aver
verificato la loro idoneità, si preparano i vasi femorali controlaterali come
descritto in precedenza. Si clampano i vasi femorali dell’arto donatore
(previa eparinizzazione sistemica del paziente) e si esegue
un’arteriotomia longitudinale della lunghezza di circa 2 cm sull’arteria
femorale comune, poco a monte della biforcazione. Attraverso il
declampaggio sequenziale della femorale comune, della femorale superficiale e della profonda, si verifica la qualità del flusso proveniente da
monte e del flusso refluo. Si modella a becco di flauto un’estremità della
protesi sintetica, preferibilmente con supporto esterno, di calibro
adeguato alle dimensioni dei vasi femorali. Si confeziona un’anastomosi
latero-terminale tra arteria femorale e protesi. Al termine dell’anastomosi,
si clampa manualmente la protesi e si verifica la tenuta dell’anastomosi
declampando l’arteria femorale comune. Se l’emostasi è accettabile si
sposta l’angiostato sulla protesi e si ristabilisce il flusso nell’arto
donatore. Si tunnellizza successivamente la protesi, generalmente per via
sovrapubica, mediante un tunnellizzatore introdotto dall’inguine dell’arto
ricevente e fatto progredire nel tessuto adiposo sovrapubico fino
all’inguine controlaterale. Retraendo il tunnellizzatore si porta la protesi
fino all’inguine dell’arto ricevente, facendo attenzione ad evitare torsioni
della protesi stessa sull’asse longitudinale. A questo punto si clampano i
vasi femorali dell’arto ricevente e si esegue l’anastomosi tra protesi ed
arteria femorale. Prima di completare l’anastomosi si controlla il flusso
refluo declampando sequenzialmente l’arteria femorale comune, la
superficiale e la profonda; si controlla anche il flusso proveniente dalla
protesi rilasciando momentaneamente l’angiostato posizionato a livello
dell’inguine controlaterale. Successivamente si irriga abbondantemente la
protesi con soluzione fisiologica eparinata per asportare completamente il
sangue al suo interno.
Al termine dell’anastomosi si declampano i vasi femorali e la protesi crossover (Fig. 9).
Si controlla la buona pulsatilità sia dei vasi dell’arto donatore che dei vasi di
quello ricevente e, conseguentemente, la buona pervietà del by-pass.
Dopo aver controllato accuratamente l’emostasi sia a livello inguinale che nel
tunnel sovrapubico, si applicano i drenaggi in aspirazione a livello inguinale
e si chiudono a strati le incisioni chirurgiche.
In presenza di una stenosi dell’asse iliaco-femorale donatore, un’angioplastica percutanea eseguita prima del confezionamento del by-pass, eventualmente associata all’impianto di uno stent, consente di avere a disposizione un
70
Capitolo 5
buon flusso da monte che assicura una pervietà a distanza del by-pass
femoro-femorale cross-over non differente dai casi con arteria iliaca donatrice indenne da lesioni.
By-pass axillo femorale
La fattibilità di un by-pass axillo-femorale necessita dell’integrità dell’arteria
ascellare donatrice, di solito omolaterale.
Si procede prima all’esplorazione dei vasi femorali dell’arto da rivascolarizzare e, se appaiono idonei, si procede alla preparazione dell’arteria ascellare
donatrice.
La via d’accesso all’arteria ascellare generalmente utilizzata è quella sottoclaveare. L’incisione cutanea viene effettuata parallelamente al margine
inferiore della clavicola. Nella preparazione dell’arteria ascellare bisogna fare
particolare attenzione ai rami del plesso brachiale per evitare lesioni nervose
anche temporanee.
Dopo aver eparinizzato il paziente, si clampa l’arteria ascellare a monte
ed a valle della sede prescelta per l’anastomosi e si pratica
un’arteriotomia longitudinale di circa 1,5 cm. Dopo aver controllato sia il
flusso da monte che il flusso refluo dell’arteria ascellare, si modella
l’estremità della protesi, preferibilmente con supporto esterno,
trasversalmente o a becco di flauto corto; si confeziona, quindi un’anastomosi latero-terminale. Completata l’anastomosi si rimuovono gli angiostati, si controlla la tenuta dell’anastomosi stessa e si clampa la protesi
subito al di sotto dell’anastomosi.
Figura 9: By-pass femoro-femorale cross-over in protesi sintetica con
rinforzo esterno.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
71
Si tunnellizza la protesi per via sottocutanea, lungo la parete laterale del
torace e dell’addome, fino all’inguine (Fig. 10). Per agevolare tale manovra
conviene praticare delle controincisioni lungo il decorso che dovrà seguire la
protesi ed utilizzare un tunnellizatore per confezionare un tunnel libero da
eventuali briglie o strutture muscolo-tendinee che potrebbero comprimere o
angolare la protesi. Dopo aver tagliato la protesi ad una lunghezza idonea a
che i movimenti dell’arto superiore non mettano a rischio di lacerazione
l’anastomosi, si completa l’intervento confezionando l’anastomosi distale,
termino-laterale o termino-terminale. Al termine dell’anastomosi distale si
declampano i vasi femorali ed il by-pass, si controlla la buona tenuta delle
anastomosi, si controlla l’emostasi e si chiudono le incisioni chiururgiche
sottoclaveare ed inguinale a strati, dopo applicazione di drenaggi in aspirazione. Le incisioni cutanee praticate lungo le pareti toracica ed addominale
vanno chiuse in modo da non sottoporre la protesi a compressioni lungo il
suo decorso.
Si eseguono raramente anche by-pass axillo-femorale controlaterale, axillobifemorale e axillo-popliteo. Data la scarsa pervietà a lungo termine di tali
rivascolarizzazioni, essi trovano indicazione di necessità in pazienti ad alto
Figura 10: Decorso della protesi sintetica in un by-pass axillo-femorale.
72
Capitolo 5
rischio, con ridotta spettanza di vita, per il salvataggio di arti altrimenti
destinati all’amputazione e nei reinterventi, specie per infezione protesica.
Chirurgia mini-invasiva e laparoscopica
Pur essendo ormai le procedure chirurgiche tradizionali del distretto aortoiliaco standardizzate e notevolmente sicure, le lunghe incisioni mediane o
laterali dell’addome comportano una notevole perdita di liquidi, un
prolungato ileo paralitico, un significativo dolore post-operatorio ed una
incidenza di laparocele in oltre il 10% delle laparotomie mediane.
Per ridurre tali problemi, sono stati realizzati approcci mini-invasivi, con
incisioni più brevi (~10 cm), praticabili anche in anestesia peridurale e con
indicazioni legate alla morfologia ed all’estensione delle lesioni.
La mini-laparotomia mediana transperitoneale viene effettuata mediante
incisione in regione epigastrica, al di sopra dell’ombelico; essa può essere
estesa, quando necessario, e consente un accesso alle arterie iliache più
agevole rispetto all’esposizione retroperitoneale. Incisioni più lunghe (10-15
cm) possono essere usate in pazienti obesi, senza perderne i vantaggi,
compresa la prevenzione dell’ileo paralitico. È possibile anche un accesso
trasversale paramediano sopra-ombelicale.
L’intestino rimane in cavità peritoneale e viene spostato verso destra
mediante apposito divaricatore autostatico a 3 branche; in questo modo si
ottiene l’accesso all’aorta addominale sottorenale; dopo l’applicazione di un
endoclamp, si confeziona l’anastomosi prossimale secondo la tecnica tradizionale e, dopo tunnellizzazione, le branche protesiche vengono anastomizzate alle arterie femorali, preparate secondo le tecniche convenzionali.
Nella via retroperitoneale si esegue un’incisione obliqua di circa 6-10 cm,
dalla X o XI costa verso il basso e medialmente in direzione dell’ombelico,
riducendo il danno del nervo intercostale e l’atrofia dei muscoli addominali.
Sono fattibili tutti gli interventi chirurgici indicati nella patologia ostruttiva
aorto-iliaca, dalla tromboendoarterectomia al by-pass aorto-iliaco, incluso il
by-pass aorto-bifemorale. Con tale incisione di ridotta lunghezza, l’anastomosi prossimale del by-pass aorto-bifemorale viene effettuata sul versante
sinistro dell’aorta addominale, tunnellizzando la branca destra mediante
dissezione digitale, spostando l’uretere in alto ed evitando di lederlo durante
il passaggio della protesi. In caso di difficoltà nella tunnellizzazione di tale
branca, può esser praticato un by-pass aorto-femorale sinistro e poi un bypass femoro-femorale cross-over sinistro-destro per rivascolarizzare l’arto
inferiore destro.
Tale incisione può essere estesa verso il torace per l’accesso all’aorta
soprarenale o in caso di emorragia intra-operatoria.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
73
I risultati si comparano favorevolmente, per morbilità, mortalità e durata
dell’ospedalizzazione, con quelli riportati in letteratura per la chirurgia
convenzionale.
L’applicazione delle tecniche laparoscopiche è andata estendendosi anche
alle procedure vascolari, dopo una lunga evoluzione e la realizzazione di un
adeguato strumentario.
Sono state elaborate dapprima tecniche di chirurgia aortica laparoscopica
assistita; anche in questa procedura. Si preparano i vasi femorali e se ne
controlla l’idoneità per il confezionamento di un by-pass. La posizione degli
strumenti endoscopici e delle porte di accesso è standardizzata. Dopo aver
indotto il pneumoperitoneo mediante insufflazione di anidride carbonica a
pressione di 8-15 mm Hg, si introduce un laparoscopio, angolato di 30°, sotto
l’ombelico. Dopo aver esplorato la cavità addominale, si introducono i
restanti trocar sotto controllo video. Il paziente viene quindi posto in posizione di Trendelemburg moderata ed in decubito laterale destro; questo
determina lo spostamento dell’intestino verso destra; si applica poi un
retrattore intestinale per laparoscopia e si introduce una rete metallica per il
contenimento dell’intestino che viene retratto verso destra. Questa rete viene
fissata alla parete addominale esterna con punti staccati. A questo punto si
procede alla dissezione del peritoneo posteriore, all’isolamento dell’aorta
(dalla vena renale sinistra fino a valle dell’ostio dell’arteria mesenterica
inferiore) ed all’applicazione di un endoclamp speciale laparoscopica in sede
distale. Attraverso un’incisione in regione epigastrica si introduce un
endoclamp prossimale che più spesso viene posizionata al di sotto delle arterie renali, ma talvolta anche al di sopra di queste. Dopo asportazione dei
trocar, viene praticata una mini-laparotomia mediana a livello dell’ombelico,
della lunghezza di 5-8 cm o più, nei pazienti obesi od in caso di clampaggio
aortico soprarenale. Lasciando in sede il retrattore intestinale, viene applicato
poi un divaricatore addominale autostatico e, dopo posizionamento di altro
endoclamp laparoscopico in prossimità dell’origine dell’arteria mesenterica
inferiore, si procede all’anastomosi prossimale, termino-laterale della protesi,
sotto visione diretta, secondo la tecnica convenzionale. Dopo aver
declampato l’aorta e controllato l’emostasi si procede al posizionamento
retroperitoneale delle branche proteiche. La loro tunnellizzazione fino
all’inguine avviene come nella chirurgia tradizionale. Anche le anastomosi
distali a livello femorale ricalcano quanto descritto nella tecnica chirurgica
tradizionale di confezionamento di un by-pass aorto-bifemorale. Al termine
dell’intervento si chiude il retroperitoneo con sutura continua, la minilaparotomia e le ferite inguinali a strati.
Si tratta di una tecnica ancora molto indaginosa, con tempi operatori più
lunghi, proposta recentemente per le lesioni TASC C o D, nella quale l’iso-
74
Capitolo 5
lamento dell’aorta viene fatto per via laparoscopica ed il confezionamento del
by-pass con tecnica “open”.
La chirurgia aortica totalmente laparoscopica viene eseguita secondo gli
stessi principi di quella laparoscopica assistita, senza minilaparotomia
associata. Un’ulteriore evoluzione della chirurgia aortica laparoscopica è
costituita dall’ausilio della robotica con la quale il chirurgo, posto di fronte
ad un sistema di visualizzazione, aziona i bracci del sistema introdotti
attraverso dei trocar in cavità addominale e forniti degli strumenti necessari
per l’esecuzione dell’intervento, con la possibilità di effettuare tutte le
manovre e la sutura sotto visione tridimensionale come nella chirurgia
convenzionale.
Terapia chirurgica endovascolare
Le procedure endovascolari si sono progressivamente affermate come
metodiche poco invasive ed efficaci nel trattamento delle lesioni stenoostruttive aorto-iliache, modificandone profondamente, negli ultimi 10 anni,
le indicazioni e la prognosi.
In aggiunta alle altre tecniche di imaging (ecocolorDoppler, TC spirale o
angio-RM), l’aortografia conserva ancora oggi un ruolo significativo nella
valutazione morfologica delle lesioni e nell’indicazione al trattamento
endovascolare. Quest’ultimo viene effettuato subito dopo l’indagine angiografica diagnostica, una volta stabilita la sua praticabilità.
Le indicazioni della chirurgia endovascolare nell’arteriopatia ostruttiva
aortica dipendono essenzialmente dalla localizzazione, dall’estensione e dalla
morfologia della lesione. Importante è anche l’esordio della sintomatologia
(acuta o cronica).
Le indicazioni alla sola angioplastica transluminale percutanea (PTA) sono le
stenosi segmentarie concentriche e le stenosi brevi della biforcazione aortica.
La PTA può essere seguita dall’applicazione di uno stent quando la
dilatazione arteriosa ottenuta non è soddisfacente o in seguito a dissecazioni
postprocedurali. Le stenosi focali della biforcazione aortica possono essere
trattate con la PTA adottando la tecnica del kissing balloon per dilatare sia il
segmento aortico distale che gli orifici iliaci.
Sempre più spesso, dopo la PTA della biforcazione aortica e dell’origine
delle iliache, si posizionano stent a questi livelli; ciò garantisce il mantenimento nel tempo del risultato ottenuto con la PTA.
Le controindicazioni alla PTA a livello aorto-iliaco sono costituite dalla presenza di calcificazioni circonferenziali (causa, talvolta, di rottura arteriosa) e
di lesioni diffuse sia dell’aorta che delle arterie iliache.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
75
La terapia endovascolare a livello iliaco, soprattutto la PTA, si è dimostrata
efficace nel trattamento delle lesioni stenotiche; le indicazioni al posizionamento di uno stent dovrebbero essere limitate a lesioni che non possono
essere trattate primariamente con la sola PTA od a quei casi nei quali la PTA
non abbia dato risultati soddisfacenti. Lesioni quali stenosi lunghe con
superficie irregolare, placche ulcerate, stenosi eccentriche e lesioni ostiali
estese alla biforcazione aortica non rispondono bene alla sola PTA; in questi
casi trova specifica indicazione l’applicazione di uno stent.
In caso di ostruzione cronica dell’asse iliaco, gli attuali stent metallici, e le
endoprotesi auto-espansibili in particolare, offrono una nuova possibilità di
rivascolarizzazione.
Via d’accesso
La via femorale omolaterale retrograda è la più seguita (oltre l’80% delle
procedure aorto-iliache). L’arteria femorale comune è la sede più idonea per
la puntura; il posizionamento di un introduttore da 7 od 8 F permette di
eseguire procedure di diverso tipo, compreso l’impianto di alcuni tipi di stent.
Una guida idrofila da 0,035 Inch viene fatta passare nell’aorta; in caso di
mancata progressione, un catetere angiografico montato sulla guida potrà
agevolare il superamento della lesione.
Nelle lesioni steno-ostruttive estese, in particolar modo se interessano
l’arteria ipogastrica o l’arteria iliaca esterna, si sceglierà la via femorale
controlaterale, introducendo un catetere curvo od angolato che, sotto controllo fluoroscopico, verrà fatto progredire fino all’ostio dell’arteria iliaca
comune omolaterale per poi oltrepassare “a cavaliere” la biforcazione aortica
ed impegnarsi nell’asse iliaco controlaterale.
Un accesso femorale bilaterale è indicato nelle lesioni aorto-iliache o in caso
di stenosi della biforcazione dell’arteria iliaca comune estesa all’esterna ed
all’ipogastrica, condizioni che richiedono il trattamento mediante la tecnica
dei kissing balloon.
In alternativa, specie in caso di ostruzione iliaca bilaterale o di concomitanti
lesioni del tronco celiaco, della mesenterica superiore o delle arterie renali, si può
utilizzare la via omerale. Questa è da preferire alla via ascellare per il rischio di
complicanze neurologiche a carico del plesso brachiale; va però ricordato che la
via omerale comporta alcuni limiti costituiti dal calibro dell’arteria e dalla
lunghezza di guide e cateteri che comporta maggiori difficoltà di manovra. È
preferibile l’accesso omerale sinistro per un più agevole cateterismo dell’aorta
discendente e per evitare il rischio potenziale di embolizzazione cerebrale. In
caso di procedure che richiedano introduttori di grosso calibro si potrà ricorrere
alla preparazione chirurgica dell’arteria omerale.
76
Capitolo 5
Angioplastica transluminale percutanea (PTA)
Tale procedura è volta a ripristinare il calibro dell’arteria lesa, ristabilendo un
flusso ematico normale. Dopo l’individuazione della lesione, mediante
iniezione di mezzo di contrasto attraverso l’introduttore od il catetere
angiografico, il livello della lesione viene delimitato mediante una riga
millimetrata radio-opaca o si memorizza l’immagine mediante road-mapping.
Dopo il corretto posizionamento del catetere da angioplastica, facendo
corrispondere i marker radio-opachi con la lesione, viene gonfiato il
palloncino con un liquido composto in parte da soluzione fisiologica ed in
parte da mezzo di contrasto, in modo da renderlo visibile e poterne
controllare la corretta espansione. Solitamente, a livello delle arterie iliache
comuni sono indicati palloncini da 7-10 mm, a livello delle arterie iliache
esterne da 5-7 mm, mentre a livello dell’aorta occorre una valutazione preprocedurale più precisa, anche mediante TC spirale.
È preferibile che le stenosi calcifiche vengano dilatate inizialmente ad una
pressione inferiore a quella nominale del catetere, aumentando poi progressivamente la pressione di insufflazione in caso di stenosi residua.
Il ritorno elastico (elastic recoil) e la dissecazione sotto-intimale sono fattori
che limitano il successo della procedura, determinando stenosi residue,
irregolarità parietali o flap che possono esitare nell’occlusione arteriosa. A
distanza, la sovradilatazione può determinare dilatazione aneurismatica o
restenosi, mediante un meccanismo di rimodellamento o d’iperplasia
miointimale particolarmente intenso.
Nei pazienti affetti da claudicatio intermittens e sottoposti a PTA iliaca, la
pervietà primaria a 5 anni è superiore all’80% in caso di stenosi breve,
mentre è del 60% nelle occlusioni; risultati meno favorevoli si hanno in caso
d’ischemia critica.
Le lesioni ostiali bilaterali delle iliache comuni, così come della biforcazione iliaca o dell’origine dell’iliaca esterna, rendono necessario il ricorso
alla tecnica del kissing balloon (con accesso femorale bilaterale retrogrado) per realizzare l’angioplastica contemporanea delle due arterie ed
evitare una stenosi residua o l’occlusione del vaso non trattato, per rottura
e dislocazione della placca ateromasica durante l’insufflazione del
palloncino (Fig. 11).
Stenting
L’impianto di uno stent segue solitamente un’angioplastica percutanea dal
risultato non ideale (PTA con stenting secondario), ma può esser effettuato
direttamente (stenting primario), senza angioplastica preliminare, in caso di
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
77
occlusione arteriosa, di ulcera parietale sintomatica e di lesioni multisegmentarie, specie se calcifiche.
Nelle lesioni calcifiche verrà data la preferenza a stent metallici
premontati gonfiabili con palloncino, per l’alta forza radiale e per la
possibilità di un posizionamento più preciso dovuto anche alla scarsa
tendenza all’accorciamento. Questi stent sono utilizzabili particolarmente
nelle lesioni ostiali.
L’espansione dello stent deve avvenire in modo uniforme, con la medesima
pressione su tutta la superficie del palloncino, mediante insufflazione
progressiva a partire da livelli bassi di pressione (6-8 atm) (Fig. 12). Pur
rimanendo lo stent di Palmaz largamente utilizzato nelle lesioni iliache,
modificazioni successive hanno aumentato la flessibilità degli stent metallici,
rendendoli impiantabili anche per via controlaterale e lasciandone
immodificata la forza radiale.
Gli stent autoespandibili sono dotati di notevole flessibilità, che facilita il
posizionamento per via controlaterale od in vasi iliaci molto tortuosi ma, a
causa di una forza radiale più bassa, il loro uso è poco indicato nelle lesioni
calcifiche. Gli stent di prima generazione, dopo il rilascio, presentavano un
notevole accorciamento (fino ad un terzo della lunghezza iniziale) per cui il
loro impianto non era raccomandabile per lesioni ostiali o in prossimità di
vasi laterali. Per l’evoluzione dei materiali, gli stent più recenti non
presentano più tali limitazioni.
In condizioni d’incompleto dispiegamento dello stent, è necessaria
un’angioplastica complementare per ottenere un calibro omogeneo in tutta
Figura 11: Tecnica del kissing balloon: dilatazione contemporanea del
palloncino a livello delle arterie iliache. A: angiografia pre-trattamento; B:
PTA delle arterie iliache; C: quadro angiografico post-trattamento.
78
Capitolo 5
la sua lunghezza, anche se trattasi di stent autoespandibile che può raggiungere l’apertura completa dopo diverse ore. In caso di lesione di lunghezza tale
da rendere necessario l’impianto di più stent, bisogna posizionare dap-
B
A
C
D
E
Figura 12: Applicazione di stent in un paziente con lesione iliaca destra. A:
stenosi dell’arteria iliaca; B: PTA della lesione; C: dissecazione post-PTA; D:
applicazione di stent a livello della dissecazione; E: risultato finale.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
79
prima lo stent più distale per evitare che il passaggio ripetuto dei cateteri
possa provocarne lo spostamento. A 5 e 10 anni, la pervietà primaria dello
stenting primario iliaco è del 66% e 46%, rispettivamente, e la pervietà
secondaria del 79% e 55%, mentre il 16% dei pazienti ha necessità di un
trattamento chirurgico tradizionale.
I risultati sono nettamente meno validi nelle lesioni estese alle arterie
iliache esterne, con una pervietà primaria ad 1 anno del 30% e secondaria
del 53%.
Per le lesioni iliache TASC-B e TASC-C, la pervietà primaria ad 1, 3 e 5
anni è risultata essere dell’85%, del 72% e del 64% dopo stenting iliaco
versus l’89%, l’86% e l’86%, rispettivamente, dopo rivascolarizzazione
chirurgica.
Le indicazioni codificate dalla TASC hanno negli anni, con l’evoluzione dei
materiali e delle tecniche, subito delle modificazioni, essendo oggi possibile
trattare per via endovascolare lesioni di tipo occlusivo, considerate prima di
pertinenza chirurgica.
Anche nell’applicazione di stent in caso di lesioni bilaterali dell’arteria iliaca
comune si adotta la tecnica del kissing stent (Fig. 13) che ricalca le modalità
di quella dei kissing balloon. In questo caso gli stent saranno debordanti (2
mm) in aorta, dato che la placca ateromasica iliaca ha origine dall’aorta ed
un posizionamento limitato all’ostio delle arterie iliache lascerebbe una
Figura 13: Tecnica del kissing stent iliaco.
80
Capitolo 5
stenosi residua. Dopo predilatazione delle stenosi iliache di alto grado,
mediante gonfiaggio simultaneo di palloni posti bilateralmente, vengono
posizionati contemporaneamente gli stent, dando la preferenza a quelli
metallici nelle lesioni ostiali di arterie iliache comuni molto calcifiche.
I risultati a breve termine sono sovrapponibili a quelli della chirurgia
tradizionale, con minor morbilità e mortalità; la pervietà primaria varia dal 65%
a 2 anni al 90% a 3 anni, in rapporto al tipo di lesione ed alla lunghezza.
Anche le stenosi localizzate dell’aorta addominale sottorenale possono essere
trattate mediante procedure endovascolari.
Impianto di endoprotesi
In pazienti ad alto rischio per una rivascolarizzazione chirurgica tradizionale
aorto-femorale, l’impianto di un’endoprotesi aorto-iliaca in caso di estesa
lesione steno-ostruttiva (TASC C e D), realizza concettualmente un
intervento di by-pass endoluminale con i vantaggi della minor invasività.
Le prime esperienze, effettuate con endoprotesi “home-made”, riportano una
pervietà primaria del 66% ed un salvataggio d’arto dell’89% a 4 anni.
L’evoluzione successiva dei dispositivi ha consentito di praticare tale
procedura per via percutanea (Figg. 14 e 15). Nonostante tale possibilità, un
approccio chirurgico della via d’accesso tradizionale ha numerosi vantaggi; è
infatti possibile il trattamento simultaneo di lesioni estese alla femorale
comune e profonda od una rivascolarizzazione chirurgica infra-inguinale.
Figura 14: Impianto di endoprotesi in un paziente con lesione iliaca.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
81
Inoltre, nei pazienti nei quali la lesione dell’arteria iliaca esterna si estende fin
sotto il legamento inguinale, l’arteriotomia può esser praticata sull’arteria
femorale superficiale, consentendo di posizionare l’endoprotesi attraverso un
accesso omolaterale. Nel caso di ostruzione dell’iliaca esterna si può utilizzare
un accesso femorale controlaterale. Recentemente è stata riportata una pervietà
maggiore dell’endoprotesi rispetto all’impianto di stent (pervietà primaria ad 1
anno: 100% vs 92,5%). Una pervietà primaria a 2 anni dell’83% può essere
attribuita al miglioramento del circolo di accoglimento per effetto del
trattamento delle lesioni femorali concomitanti. Le controindicazioni a tale tipo
di trattamento sono costituite dall’occlusione aortica iuxtarenale, dalla presenza
di un’arteria iliaca esterna di piccolo calibro, non dilatabile oltre 6 mm, e da
occlusioni estese che non possono essere superate da una guida sia per via
femorale omolaterale che controlaterale.
A
B
C
D
Figura 15: Impianto per via percutanea di endoprotesi in una lesione dell’asse
iliaco sinistro (A). Dopo un’iniziale PTA (B) si è verificata una dissecazione
del vaso (C) corretta con l’applicazione di un’endoprotesi (D).
82
Capitolo 5
Confronto fra trattamento endovascolare e trattamento chirurgico
La terapia endovascolare è considerata la forma meno invasiva di terapia
chirurgica, associata ad un buon successo tecnico e ad una discreta pervietà
globale. Per l’angioplastica transluminale percutanea (PTA) delle lesioni
iliache sono state riportate una frequenza media di complicanze del 3,6%, una
percentuale di successo iniziale del 95% e percentuali di pervietà a 5 anni del
61%. I risultati del posizionamento di stent per stenosi iliache risultano
lievemente migliori, con un 99% di successo tecnico immediato e un 72% di
pervietà a 5 anni. La media ponderata del tasso di complicanze è del 6,3%.
La chirurgia offre un tasso di pevietà a 5 anni del 91% per il by-pass aortobifemorale. La mortalità media ponderata è del 3,3%. Il rischio combinato di
mortalità e amputazione si aggira intorno al 2,2% per le ricostruzioni aortobifemorali.
Controllo post-operatorio e follow-up
Complicanze immediate della chirurgia tradizionale
Il trattamento chirurgico delle steno-ostruzioni aorto-iliache consente buoni
risultati a lungo termine, con mortalità perioperatoria bassa (< 3%) e morbilità del 5-8%.
Le complicanze immediate della chirurgia tradizionale possono essere
strettamente correlate all’intervento o possono riguardare organi ed apparati
messi sotto stress dall’atto operatorio (polmoni, reni, fegato, pancreas).
Le complicanze correlate all’intervento comprendono:
Ischemia acuta degli arti
Tale complicanza, con incidenza limitata (1-3%), può manifestarsi
immediatamente dopo l’intervento chirurgico o nelle ore successive e può
essere causata da un’embolia, dall’ostruzione della protesi o da una trombosi
acuta dei vasi distali per effetto della caduta di flusso durante il clampaggio.
L’embolia, oltre che di origine cardiaca o derivante da placche situate a
monte dell’anastomosi prossimale, è dovuta più frequentemente alla
migrazione di detriti ateromasici o materiale trombotico formatosi nella
protesi durante il clampaggio e non adeguatamente allontanati prima del
completamento dell’intervento.
L’ostruzione acuta della protesi, oltre che da un difetto tecnico dell’anastomosi prossimale e/o distale, può esser causata da torsione, angolazione o
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
83
compressione esterna della protesi, o ancora da una scelta non corretta del
tipo di procedura chirurgica. L’evenienza più frequente è quella di un’anastomosi distale confezionata su un vaso di accoglimento che si dimostra non
idoneo a mantenere un flusso nella protesi, più spesso per la presenza di
lesioni nel suo tratto distale che assumono un valore emodinamico di fronte
ad un flusso ematico aumentato.
Se il fattore causale è un difetto tecnico a livello dell’anastomosi distale od
un flap intimale, il trattamento più comunemente eseguito consiste nel disfacimento dell’anastomosi distale, nell’asportazione o fissazione del lembo
parietale (mediante punti di Kunlin) e nella disostruzione della protesi e dei
vasi distali mediante catetere di Fogarty.
In caso di torsione o angolazione, si deve correggere il difetto disfacendo
l’anastomosi distale, riposizionando la protesi ed eseguendo una nuova anastomosi. Un’alternativa può essere quella di sezionare la branca protesica,
correggere il difetto ed anastomizzare le due estremità protesiche. Qualunque
sia la modalità adottata, va comunque ripristinata la pervietà protesica e quella
dei vasi a valle. Più raramente un difetto dell’anastomosi aortica da segno di sé
nel post-operatorio. Dato che tra il declampaggio aortico ed il declampaggio
definitivo successivo al confezionamento della anastomosi distale vi è un certo
lasso di tempo, un difetto grossolano a carico dell’anastomosi aortica si
evidenzia, in genere, durante l’intervento. Qualora si verifichi un’ostruzione
protesica più tardiva estesa fino all’anastomosi prossimale, vanno attentamente
valutate le possibilità del paziente di superare una nuova laparotomia. Se non è
possibile rioperare il paziente per via anatomica e se le condizioni cliniche
degli arti sono critiche è indicato il confezionamento di un by-pass extraanatomico per rivascolarizzare l’arto o gli arti ischemici.
L’ischemia dell’arto può essere anche dovuta ad ostruzione dell’arteria femorale superficiale, in precedenza pervia, con un circolo collaterale che non
riesce a garantire una perfusione sufficiente. In questo caso, se un tentativo di
disostruzione del vaso con cateteri di Fogarty non va a buon esito, è necessario confezionare un by-pass femoro-popliteo sequenziale utilizzando il
materiale protesico più idoneo (più spesso la vena safena).
Le trombosi acute dei vasi distali sede di stenosi critiche verificatesi intraoperatoriamente potranno essere immediatamente trattate anche con terapia trombolitica intra-arteriosa, eventualmente seguita dal trattamento endovascolare della
lesione sottostante, dopo attenta valutazione e controllo del rischio d’emorragia.
Emorragia
Le emorragie post-operatorie immediate, anch’esse infrequenti (1-2%),
possono essere favorite da turbe della coagulazione preesistenti, da eccessiva
84
Capitolo 5
somministrazione intraoperatoria di eparina o da coagulopatia da consumo
secondaria a cospicue perdite ematiche. La somministrazione di plasma
fresco congelato e di concentrati piastrinici sarà utile a correggere le turbe
della coagulazione.
La fonte emorragica può essere costituita da lesioni arteriose o venose
intraoperatorie così come, raramente, da lacerazioni del fegato o della milza
per effetto della trazione dei divaricatori. Queste fonti possono passare inosservate durante l’intervento a causa di uno stato ipotensivo e, dopo ripristino
della volemia, daranno luogo ad emorragie anche imponenti.
L’emorragia, però, più frequentemente proviene da una sutura non perfettamente a tenuta, da una lacerazione della parete arteriosa troppo sottile per
trazione da parte del materiale protesico in tensione eccessiva (materiale
biologico o PTFE, principalmente).
Ischemia intestinale
È una complicanza che interessa prevalentemente la regione colo-rettale (13%) e raramente il tenue; nella forma infartuale, costituisce la principale
causa di morte dopo rivascolarizzazione aorto-iliaca. Più frequenti, asintomatiche o paucisintomatiche, sono le lesioni da ischemia relativa (coliti
ischemiche) a prognosi meno grave.
Le principali cause si possono ricondurre all’esclusione emodinamica da legatura o da trombosi acuta di vie collaterali (favorita da ipotensione intraoperatoria o compressione-trazione da parte dei divaricatori), all’embolizzazione di materiale ateromasico durante l’isolamento o le manovre di clampaggio-declampaggio aortico.
La rivascolarizzazione dell’arteria mesenterica inferiore e/o di almeno una delle
arterie ipogastriche, preferibilmente la sinistra, costituiscono la principale
prevenzione di tale temibile complicanza. La diagnosi intraoperatoria immediata
non è agevole. La sintomatologia post-operatoria, costituita da diarrea precoce,
dolenzia e distensione addominale, decorre in maniera subdola; uno stato di
agitazione psicomotoria, di ipotensione e tachicardia non risolvibili con infusioni
generose di liquidi devono però ingenerare il sospetto e spingere a praticare una
colonscopia, che può evidenziare pallore ed edema della mucosa.
In caso d’infarto intestinale il trattamento è costituito da una resezione ampia
del tratto necrotico, senza ripristino della continuità (colostomia ed
affondamento del moncone), che comporta comunque una mortalità molto
elevata, dal 50% al 90%, per sindrome da insufficienza multi-organo.
Le forme meno gravi di colite ischemica, nel tempo, possono evolvere in
stenosi cicatriziale del segmento interessato che può richiedere, successivamente, la resezione segmentaria con ripristino della continuità intestinale.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
85
Lesioni linfatiche
Durante la preparazione e l’isolamento delle arterie, possono determinarsi,
con incidenza compresa tra lo 0,5% ed il 2%, lesioni dei collettori linfatici e/o
dei linfonodi. Tale complicanza si verifica più frequentemente in regione
inguinale che nel retroperitoneo, specie durante dissezioni estese, e nei
reinterventi; l’incidenza sale fino al 4,5% nell’esposizione dell’arteria
femorale attraverso incisione obliqua.
La linforrea (fuoriuscita di linfa dalla ferita inguinale o dal drenaggio) si
manifesta nei primi giorni dopo l’intervento, con rischio di deiscenza della
ferita od infezione tardiva della protesi; il linfocele (raccolta chiusa nel
contesto della sede di intervento) più spesso viene rilevato alla prima visita di
controllo dopo la dimissione e si presenta come una tumefazione cistica, non
pulsante e non dolente, in corrispondenza della ferita chirurgica con edema
dell’arto. L’ecografia, cosi come la TC e la RM, rilevano la presenza di una
raccolta liquida, escludendo la formazione di un ematoma, di un aneurisma
falso o di un ascesso della ferita. Una tecnica chirurgica meticolosa
costituisce la principale misura di prevenzione. L’incisione verticale laterale,
leggermente arcuata verso l’esterno, a livello del triangolo di Scarpa, con
spostamento in senso mediale del pacchetto linfoghiandolare, può ridurre
l’incidenza di tali lesioni, così come la legatura minuziosa dei collettori
linfatici lesi, ma non elimina del tutto il rischio di linforrea.
Il riposo a letto, l’elevazione dell’arto, le medicazioni compressive, la profilassi antibiotica costituiscono i cardini della terapia conservativa. L’aspirazione del linfocele, se di qualche utilità per confermare la diagnosi, non
favorisce la sua guarigione, che di solito si verifica spontaneamente dopo
alcune settimane, agevolata dalla compressione locale. In caso di persistenza,
l’esplorazione chirurgica e la legatura dei linfatici lesi può essere risolutiva;
nel trattamento del linfocele, va evitata l’asportazione della capsula, che
potrebbe esser causa di ulteriori lesioni a carico dei linfatici limitrofi e di
esposizione ed infezione della protesi, situata in un piano più profondo.
Complicanze immediate della chirurgia endovascolare
Le complicanze non sono diverse da quelle riscontrate in altri distretti vascolari con la differenza che vi può essere un impatto clinico potenzialmente
maggiore. Mentre la grave dissecazione, l’occlusione acuta o la stenosi
residua sono trattabili semplicemente con l’impianto di un ulteriore stent, la
rottura dell’aorta, anche se rara, è potenzialmente mortale e può richiedere
una terapia chirurgica immediata. L’embolia distale si verifica in meno
dell’1% dei casi. Le complicanze subacute comprendono la trombosi. Nella
86
Capitolo 5
tecnica del kissing stent, l’ostruzione può essere causata dall’iperplasia
neointimale; tali ostruzioni sono trattabili con una nuova dilatazione, con
l’aterectomia o con il posizionamento di un’endoprotesi.
Con il miglioramento dei materiali e la maggiore esperienza nell’esecuzione
delle procedure endovascolari, l’incidenza di complicanze è andata progressivamente riducendosi; esse vengono in maggioranza trattate mediante
tecniche endovascolari e solo in circa il 3% dei casi è richiesta una conversione chirurgica d’emergenza. Pertanto, la chirurgia endovascolare deve
essere effettuata in ambiente chirurgico.
Rottura e perforazione dell’arteria
Seppur rara (< 1%), la rottura dell’arteria è la complicanza più grave che può
verificarsi a livello aorto-iliaco durante una procedura endovascolare ed è
favorita dalla sovradilatazione del pallone da angioplastica, in genere in
corrispondenza di una lesione calcifica che compromette l’elasticità della
parete. Il paziente viene colto da dolore particolarmente intenso, al quale
possono seguire ipotensione ed anemizzazione rapida.
Il controllo angiografico evidenzierà la fuoriuscita di mezzo di contrasto nel
retroperitoneo; trattandosi di una lesione senza alcuna tendenza all’emostasi
spontanea, può esser utile il rigonfiamento del palloncino da angioplastica a
monte della lesione per ottenere un’emostasi temporanea, ma con il rischio di
un’ulteriore estensione della lacerazione.
Il posizionamento immediato di un’endoprotesi può costituire un trattamento
idoneo; in caso contrario, s’impone la conversione chirurgica immediata,
finalizzata innanzitutto al controllo dell’emorragia ma anche alla contemporanea rivascolarizzazione chirurgica.
Di minor gravità può essere la perforazione arteriosa causata dalla guida che,
dopo avere determinato una dissecazione della parete, può oltrepassarla; se
minima, essa tende alla risoluzione spontanea, altrimenti richiede un
trattamento endovascolare o chirurgico al pari della rottura arteriosa.
Dissecazione dell’arteria
È un’evenienza frequente, determinata, a livello della sede della puntura
arteriosa o in corrispondenza della lesione, dall’introduttore, dalle guide o dai
cateteri che possono scollare anche estesamente la placca ateromasica. In
caso di difficoltà di progressione degli strumenti angiografici, l’iniezione di
mezzo di contrasto ne chiarirà la posizione. Una dissecazione di lieve entità,
provocata per via retrograda, come accade quando si utilizza ad esempio
l’arteria femorale per aggiungere l’aorta, raramente determina occlusione del
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
87
vaso. Infatti, al termine della procedura e dopo la rimozione del catetere
angiografico, il ripristino del flusso ematico proveniente da monte
comporterà facilmente l’accollamento del lembo di dissecazione alla parete
arteriosa. Qualora la dissecazione sia particolarmente estesa e possa far
sorgere il sospetto di una ripercussione emodinamica sul flusso a valle, oggi è
possibile praticare una correzione endovascolare mediante il posizionamento
di uno stent od adottare il trattamento chirurgico convenzionale.
Trombosi arteriosa acuta ed embolia periferica
Il rischio di trombosi acuta nel sito di accesso od a livello della lesione stenoostruttiva sottoposta a trattamento endovascolare richiede una prevenzione
mediante anticoagulazione con eparina nel corso delle procedure e,
successivamente, nel decorso post-operatorio.
La migrazione di frammenti di materiale trombotico o di placca ateromasica è
causa di embolia distale con frequenza direttamente proporzionale alla lunghezza
della lesione e crescente nelle lesioni occlusive. È necessario, mediante controllo
arteriografico, definire la localizzazione e la natura dell’embolo: nel caso in cui si
tratti di un trombo recente, la trombolisi intra-arteriosa farmacologica può
determinarne agevolmente la lisi mentre, in caso di embolia di materiale
ateromasico, sono indicate l’aspirazione o, più frequentemente, l’asportazione
chirurgica. Il danno parietale, quando presente, richiede spesso la conversione
chirurgica urgente (trombectomia con patch, by-pass).
Ematoma e pseudoaneurisma nel sito di puntura
Nella sede di puntura, un piccolo ematoma od un’ecchimosi circoscritta sono
da considerarsi pressoché inevitabili, mentre raccolte voluminose che richiedono emotrasfusioni o che evolvono verso un aneurisma falso costituiscono una complicanza di rilievo.
L’insorgenza di tali lesioni è influenzata oltre che da una compressione inadeguata, anche dal calibro dell’introduttore, dalla somministrazione di
farmaci anticoagulanti, antiaggreganti e/o trombolitici, dalla durata della
procedura e dall’entità delle alterazioni parietali in sede di puntura, specie in
caso di errato accesso attraverso l’arteria femorale profonda o superficiale,
più difficili da comprimere per l’assenza di un piano osseo sottostante.
Un esame eco-color-Doppler preliminare sarà utile per scegliere il segmento
più idoneo alla puntura o, in caso d’alterazione estesa, per porre indicazione
ad un accesso chirurgico.
Una compressione manuale adeguata per 10-20 minuti seguita da una
medicazione compressiva per circa 24 ore, riducono ulteriormente l’incidenza
88
Capitolo 5
di tale complicanza (< 2%). Per la valutazione della raccolta ematica e
dell’eventuale pseudoaneurisma potrà risultare utile l’eco-color Doppler. In
alcuni casi la metodica ultrasonografica può risultare vantaggiosa
nell’esecuzione di una compressione ecoguidata che, nel caso di ematomi di
piccole dimensioni o di sacche pseudoaneurismatiche con scarso rifornimento, può portare all’arresto del flusso; se di dimensioni cospicue, con segni
di compressione nervosa, lo svuotamento della raccolta ematica e la sutura
chirurgica diretta o mediante l’applicazione di un patch, costituiranno la
procedura risolutiva.
Complicanze tardive della chirurgia tradizionale
Le lesioni steno-ostruttive, le lesioni dilatative e l’infezione rappresentano le complicanze tardive più frequenti della chirurgia arteriosa convenzionale. La comparsa di una di queste complicanze può essere causa sia
del fallimento tardivo di un intervento di chirurgia arteriosa che del decesso del paziente.
Generalmente, lo sviluppo e l’evoluzione di tali complicanze appaiono lenti
ma progressivi; ciò significa che dall’insorgenza della complicanza al
fallimento dell’intervento chirurgico vi è un intervallo di tempo nel quale è
possibile diagnosticare e trattare la complicanza scongiurando, quindi,
l’insuccesso dell’intervento di chirurgia arteriosa.
Le complicanze tardive della chirurgia del distretto aorto-iliaco-femorale
possono essere estremamente variegate e correlate sia alla malattia di base sia
alla tecnica chirurgica adottata. Possono, inoltre, essere distinte in complicanze proprie dell’innesto protesico o in complicanze del distretto arterioso
contiguo alle sedi di anastomosi.
In realtà, sulla base dell’impatto clinico, possiamo distinguere tre fondamentali tipi di complicanza: la trombosi protesica, l’aneurisma para-anastomotico, l’infezione protesica.
Trombosi protesica
Sono passati più di 50 anni dall’introduzione delle protesi vascolari nel
trattamento degli aneurismi e delle occlusioni aorto-iliache. Nonostante il
perfezionamento dei materiali protesici, le protesi possono andare incontro a
trombosi. Le trombosi protesiche tardive costituiscono, quindi, una tipica
complicanza delle rivascolarizzazioni aorto-iliaco-femorali per patologia
steno-ostruttiva.
Benché risulti variabile, l’incidenza di questa complicanza subisce un incremento
nel corso del follow-up, attestandosi al 5-10% a 5 anni ed al 15-30% a 10 anni.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
89
Sulla base dell’intervallo temporale dall’intervento chirurgico, l’evento
trombotico può essere distinto in precoce (entro 30 giorni), intermedio (da 30
giorni a 18 mesi) e tardivo (oltre i 18 mesi).
Nel periodo intermedio la causa più frequente d’insuccesso è legata a
fenomeni d’iperplasia miointimale che interessano generalmente le anastomosi distali. Nelle fasi tardive la causa di trombosi è invece più spesso la
progressione della malattia aterosclerotica, in sede prossimale (aorta) o, più
frequentemente, distale. Condizioni favorenti la trombosi protesica sono
rappresentate da stati di ipercoagulabilità, ipotensioni prolungate e deficit
della pompa cardiaca.
L’espressione clinica della trombosi protesica è, nella maggior parte dei
casi, l’ischemia acuta dell’arto interessato. Il grado di ischemia varia in
rapporto al fattore causale. In presenza di una stenosi anastomotica il
fenomeno acuto è preceduto dalla comparsa di un quadro clinico di
claudicatio che deve essere considerato il campanello d’allarme riguardo
all’evoluzione della patologia.
Cause più rare di trombosi protesica tardiva sono le torsioni e gli inginocchiamenti della protesi. Tali situazioni dipendono generalmente da errori di
valutazione intraoperatoria quali un’inadeguata definizione della posizione e
della lunghezza della protesi. Infine, non bisogna dimenticare che la trombosi
protesica può essere espressione di un’infezione.
È evidente come un follow-up clinico-strumentale adeguato sia determinante
per individuare precocemente lesioni che possano causare, se non corrette,
una trombosi protesica. La valutazione clinica è incentrata sul controllo di
polsi e soffi periferici. L’indagine strumentale di primo livello è l’eco-colorDoppler con cui si valutano protesi ed anastomosi.
Il primo controllo clinico-strumentale deve essere effettuato dopo 3-6 mesi
dall’intervento e, se non emergono complicanze, successivamente dopo 12
mesi dall’intervento chirurgico; a tali controlli, se negativi, devono seguire
valutazioni annuali.
Le trombosi protesiche tardive possono essere trattate sia chirurgicamente sia
ricorrendo all’uso di farmaci trombolitici. La scelta del tipo di trattamento è
condizionata dalla situazione clinica del paziente (alto rischio chirurgico,
controindicazioni alla terapia trombolitica), dalla presumibile causa
dell’occlusione, dall’intervallo di tempo intercorso tra la trombosi e l’osservazione del paziente e dall’entità ed estensione della trombosi.
La terapia chirurgica di un trombosi protesica recente prevede la trombectomia con catetere di Fogarty con o senza l’ausilio di anelli di Vollmar (indicati
nelle trombosi più datate): tale metodica permette di asportare il trombo
fresco adeso alla protesi, ricanalizzando l’asse protesico. A questo punto può
essere utile eseguire un controllo angiografico intra-operatorio per verificare
90
Capitolo 5
la completa rimozione del trombo e la presenza di lesioni concomitanti
(stenosi anastomotiche, inginocchiamenti della protesi) responsabili della
trombosi. Naturalmente, individuata la causa scatenante, questa deve essere
corretta contestualmente. Nel caso non sia possibile disostruire la protesi con
il catetere di Fogarty, si dovrà ricorrere ad una nuova rivascolarizzazione
protesica, in sede anatomica o in sede extra-anatomica (by-pass femorofemorale cross-over, by-pass axillo-femorale).
La terapia trombolitica prevede il posizionamento di un catetere percutaneo
portato a livello del trombo così da permettere l’infusione loco-regionale del
farmaco.
I farmaci comunemente utilizzati sono l’Urochinasi e l’rt-PA. L’infusione del
trombolitico, associata a somministrazione di eparina per via sistemica, non
dovrebbe essere protratta oltre le 72 ore, per evitare complicanze emorragiche. Durante la fase terapeutica il paziente deve essere tenuto in stretto
monitoraggio clinico, laboratoristico e strumentale (ecodoppler, angiografia),
per valutare l’efficacia del trattamento. Una volta ristabilita la pervietà della
protesi, prima di rimuovere il catetere endoarterioso, è necessario eseguire
uno studio angiografico diagnostico per documentare l’eventuale lesione
responsabile della trombosi, che potrà essere corretta chirurgicamente o con
metodica endovascolare (PTA, Stent).
Aneurisma para-anastomotico
È difficile stabilire la reale incidenza di questa complicanza tardiva. Nelle
prime serie valutate retrospettivamente veniva riportata un’incidenza globale
di aneurismi para-anastomotici inferiore all’1%. Tuttavia, nelle casistiche
seguite con un programma di sorveglianza periodica, questa complicanza
compare con un’incidenza sensibilmente maggiore. In letteratura si riporta, a
8 anni di follow-up, un’incidenza di aneurismi para-anastomotici aortici veri
e falsi del 5%; a 15 anni la complicanza riguarda circa un terzo dei casi
trattati. Questi dati sono confermati da altre esperienze con follow-up a lungo
termine, con un’incidenza a 15 e 20 anni dall’intervento rispettivamente
dell’8% e del 28%. È importante notare come gli aneurismi para-anastomotici
possano realizzarsi in qualunque fase del decorso post-operatorio, con una
crescita nelle fasi più avanzate del follow-up (Fig. 16).
I falsi aneurismi hanno frequenza maggiore rispetto alle forme vere. In una
casistica, a 15 anni, gli pseudoaneurismi hanno un’incidenza del 20% verso il
9% degli aneurismi veri.
L’etiologia di questi aneurismi riguarda la degenerazione della parete aortica o
del materiale protesico con aspetti diversi nelle forme false rispetto a quelle
vere.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
91
I falsi aneurismi sono causati da una soluzione di continuità nella sede anastomotica. Tale situazione può essere favorita da condizioni sistemiche (come
ipertensione, progressione della malattia aterosclerotica, alterato metabolismo
del collagene), dal deterioramento (dilatazione o sezione) del materiale
protesico, dalla rottura del filo di sutura o dall’alterata compliance in sede di
anastomosi. A questo proposito, numerosi Autori ritengono che la degenerazione della parete arteriosa svolga un ruolo predominante rispetto alla
degradazione nei materiali sintetici nell’etiologia di questi pseudoaneurismi. I
fattori meccanici svolgono certamente un ruolo determinante e questo è
confermato dal fatto che tali pseudoaneurismi sono più frequenti nelle
anastomosi termino-laterali che non nelle anastomosi termino-terminali. Non
bisogna dimenticare, inoltre, che uno pseudoaneurisma para-anastomotico può
essere l’espressione di un’infezione protesica. È riportato, infatti, che nel 2040% circa dei distacchi protesici vi sia una concomitante infezione.
Gli aneurismi para-anastomotici veri solitamente sono una complicanza
tardiva di interventi effettuati per malattia aneurismatica piuttosto che per
patologia steno-ostruttiva.
Gli aneurismi para-anastomotici del distretto iliaco riconoscono sostanzialmente la stessa incidenza ed etiologia delle forme aortiche.
Riguardo, invece, alla localizzazione femorale, gli pseudoaneurismi sono
decisamente più frequenti degli aneurismi veri; circa il 70% degli aneurismi
para-anastomotici si sviluppa in tale sede.
Un altro aspetto peculiare degli aneurismi para-anastomotici è la plurifocalità; in circa il 40% dei pazienti coesistono aneurismi para-anastomotici multipli. È bene, quindi, tenere sempre in considerazione questa tendenza in fase
diagnostica, così da estendere le indagini a tutte le sedi di anastomosi.
Figura 16: Pseudo-aneurisma anastomotico aortico.
92
Capitolo 5
Come gli aneurismi primitivi, le forme para-anastomotiche vanno incontro a
complicanza. In particolare la rottura è un evento non infrequente se si
considera che viene riportato con una incidenza che varia dal 15 al 55%.
Tutto ciò giustifica la necessità di un programma di follow-up che permetta
di evidenziare l’insorgenza di un aneurisma para-anastomotico e che tenga
conto della possibile plurifocalità e della possibile coesistenza di un’infezione
protesica.
L’esame clinico e l’eco-color-Doppler sono le metodiche di base per il
follow-up della chirurgia del distretto aorto-iliaco-femorale. L’esame clinico
è nella maggior parte dei casi sufficiente per porre il sospetto di aneurisma
para-anastomotico femorale; l’eco-color-Doppler permette di definire con
precisione le dimensioni, le caratteristiche emodinamiche e la presenza di
raccolte peri-anastomotiche e peri-protesiche.
A livello aortico ed iliaco la semplice esplorazione clinica perde affidabilità
diagnostica; è quindi indispensabile il ricorso alla metodica ultrasonografica.
Nei casi difficilmente esplorabili con eco-color-Doppler (pazienti obesi,
lesioni pelviche) si renderà necessario un approfondimento mediante angioTC od Angio-RM. Anche nei casi in cui all’eco-color-Doppler emerga la
presenza di un aneurisma anastomotico aortico ed iliaco è opportuno un
approfondimento diagnostico con TC multistrato per meglio definire le
caratteristiche della lesione e per valutare la concomitante presenza di reperti
suggestivi di infezione protesica; questa ipotesi giustifica il ricorso anche ad
una scintigrafia con leucociti marcati.
Riguardo agli intervalli temporali del follow-up, non vi è in letteratura
uniformità di atteggiamento.
Certamente è necessario un primo controllo post-operatorio (3-6 mesi) ed un
controllo ad un anno, per escludere complicanze precoci. Sulla base dei dati
relativi alla storia naturale di questa complicanza, alcuni autori suggeriscono
che, dopo il controllo al primo anno, sia sufficiente un controllo a 5 anni
dall’intervento e quindi controlli ogni due anni. Tuttavia, l’opportunità di una
diagnosi precoce e la possibile associazione con infezione protesica possono
giustificare un atteggiamento più aggressivo, con controlli periodici ogni
anno.
In base alla sede e alle caratteristiche dell’aneurisma, il trattamento può essere chirurgico o endovascolare.
A livello dell’anastomosi aortica prossimale, soprattutto nei casi di vero
aneurisma para-anastomotico, il trattamento è prevalentemente chirurgico.
Sulla base delle caratteristiche di estensione dell’aneurisma e di coinvolgimento dei rami viscerali, si può optare per un accesso mediano transperitoneale o per un accesso extraperitoneale sinistro. Quest’ultimo deve essere
pianificato in base alla sede del clampaggio prossimale.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
93
L’intervento consiste nella sostituzione della lesione aneurismatica con un
nuovo innesto protesico tra l’aorta non aneurismatica e la vecchia protesi.
La possibilità di una correzione endovascolare è subordinata alla presenza di
un adeguato colletto aortico sottorenale, condizione che si verifica più
facilmente nei casi di pseudoaneurisma.
Negli aneurismi para-anastomotici iliaci, l’esclusione mediante endoprotesi
può rappresentare il trattamento di scelta. In questo distretto i limiti di tale
trattamento sono rappresentati dalla tortuosità degli assi iliaci e dal coinvolgimento delle arterie ipogastriche.
Infine, riguardo agli aneurismi para-anastomotici in sede femorale, il trattamento chirurgico prevede l’interposizione di un nuovo segmento protesico tra
la vecchia protesi e la biforcazione femorale.
Infezione protesica
L’infezione protesica rappresenta attualmente la complicanza più grave poiché, nonostante la terapia antibiotica, la miglior qualità dei materiali protesici
e l’affinarsi delle tecniche chirurgiche, la percentuale di mortalità-morbilità è
ancora estremamente elevata.
L’incidenza dell’infezione in chirurgia aortica addominale varia tra l’1% ed il
6%; le infezioni che si manifestano entro quattro mesi dall’intervento,
definite precoci, sono di solito sostenute da agenti patogeni molto virulenti
come lo Stafilococco Aureus ed altri germi Gram-negativi come il Proteus, lo
Pseudomonas, la Klebsiella, l’Enterobacter. Le infezioni tardive sono di
solito provocate da batteri meno virulenti, quali lo Stafilococco Epidermidis
ed altri Stafilococchi coagulasi-negativi.
L’infezione di una protesi si può verificare durante un intervento chirurgico o
nell’immediato periodo post-operatorio.
Nella contaminazione intraoperatoria, le infezioni sono provocate più
frequentemente dal contatto tra protesi e cute, da germi localizzati in vasi
linfatici e linfonodi, da una insufficiente sterilizzazione della protesi o dello
strumentario chirurgico o da germi localizzati in altri organi (intestino, vie
biliari) quando vengono proposti interventi chirurgici associati. Nel periodo
post-operatorio la causa può essere un’infezione delle ferite chirurgiche, un
reintervento, l’uso di procedure invasive (angiografia post-operatoria,
cateterismi endovasali o cateterismi vescicali prolungati) o una batteriemia la
cui origine sia nell’apparato respiratorio od urinario o in lesioni trofiche
infette. Le rivascolarizzazioni protesiche a maggior rischio di infezione sono
quelle che prevedono un accesso chirurgico dei vasi femorali.
L’inguine, infatti, sia per la contaminazione cutanea che per la presenza di
importanti stazioni linfonodali, può essere sede di batteri che possono con-
94
Capitolo 5
taminare la ferita e la protesi; ciò si rende ancora più evidente in presenza di
necrosi cutanea, ematoma e linfocele.
Clinicamente, l’infezione protesica si presenta con sintomatologia iniziale
spesso vaga e aspecifica (astenia, febbre, calo ponderale, alterazione degli
indici umorali di flogosi). Successivamente si presentano segni tardivi
d’infezione generalmente connessi alla sede ed al tipo di agente patogeno.
Un’infezione protesica limitata all’addome può manifestarsi solo con uno
stato settico. Nelle infezioni protesiche aorto-femorali i segni clinici sono
caratterizzati da eritema e tumefazioni inguinali, eventualmente associati a
fistole cutanee. Se l’infezione causa una deiscenza anastomotica, la sintomatologia clinica è caratterizzata da uno pseudoaneurisma, di solito a localizzazione inguinale.
Le infezioni complicate da comunicazioni enteriche possono esordire
brutalmente con un sanguinamento gastro-intestinale; per tale motivo, tutti i
pazienti che presentano un sanguinamento gastro-enterico ed una protesi
aortica devono essere studiati rapidamente per escludere un’infezione
protesica con fistola intestinale. Le metodiche diagnostiche utilizzate a tale
scopo sono: l’eco-color-Doppler, la TC con mezzo di contrasto, la RM,
l’endoscopia digestiva, la scintigrafia e l’arteriografia. L’eco-Doppler, utile
per identificare la presenza di una raccolta periprotesica o di uno pseudoaneurisma, non è in grado di differenziare raccolte sterili da raccolte
ascessuali specie in sede addominale in pazienti obesi o con meteorismo. La
TC con mezzo di contrasto è utile per individuare raccolte periprotesiche
retroperitoneali, bolle gassose per presenza di germi produttori di gas (Fig.
17), pseudoaneurismi, occlusioni protesiche, eventuali comunicazioni prote-
Figura 17: Angio-TC in un caso di infezione protesica aortica. Si evidenzia
una raccolta periprotesica con due bolle gassose al suo interno.
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
95
si-intestino. La presenza di gas in sede periprotesica nel periodo post-operatorio precoce deve essere considerato un reperto normale. La specificità e la
sensibilità di tale metodica nei casi d’infezione in stadio avanzato sono pari al
100%, mentre in pazienti con segni e sintomi clinici aspecifici e con infezioni
in stadio iniziale l’accuratezza è significativamente ridotta. La RM, rispetto
alla TC, ha un migliore potere risolutivo per i tessuti e per i fluidi e non ha le
controindicazioni delle metodiche che utilizzano mezzo di contrasto iodato;
inoltre, la valutazione delle immagini nelle diverse sequenze rende possibile
la diagnosi differenziale tra ematomi subacuti e cronici, raccolte fluide non
emorragiche, ascessi e materiale necrotico.
Qualora si sospetti la presenza di una fistola enterica, localizzata prevalentemente a livello della terza e quarta porzione duodenale, l’unica indagine che
permette di evidenziarne la sede è l’endoscopia digestiva. Nella pratica clinica e diagnostica vengono utilizzate attualmente anche metodiche scintigrafiche che, utilizzando radionuclidi, permettono di valutare le infezioni
protesiche in tutti gli stadi, anche quando i segni d’infezione non sono
evidenti alla TC. Queste indagini strumentali hanno una scarsa attendibilità
nel periodo post-operatorio precoce poiché i radionuclidi vengono captati dai
tessuti periprotesici (flogosi da reazione al trauma chirurgico ed all’impianto
protesico) indipendentemente dalla presenza di un’infezione; risultano invece
più sensibili nelle infezioni tardive. Attualmente la tecnica scintigrafica più
utilizzata è quella con leucociti marcati con Tecnezio 99-HMPAO con
un’elevata specificità e sensibilità diagnostica (Fig. 18).
Figura 18: Scintigrafia con leucociti marcati con TC99m. Si evidenzia una
zona di accumulo a livello del tronco comune di una protesi aorto-bisiliaca.
96
Capitolo 5
L’arteriografia permette di ottenere solo informazioni aspecifiche sull’infezione
protesica, ad eccezione dei casi in cui si siano verificate ulteriori complicanze.
È comunque un’indagine utile per la valutazione preoperatoria dei vasi
prossimali e distali alla protesi in previsione della rivascolarizzazione.
Il trattamento più efficace dell’infezione protesica è la rimozione completa
della protesi infetta e la successiva rivascolarizzazione periferica extraanatomica od anatomica.
La rivascolarizzazione extra-anatomica, che di solito consiste nel by-pass
axillo-bifemorale, è la metodica tradizionalmente utilizzata nella chirurgia
delle infezioni di protesi aortiche, motivata dalla necessità di posizionare la
nuova protesi lontano dal focolaio di infezione. Tale tecnica presenta, nelle
esperienze più recenti, un miglioramento dei risultati, verosimilmente in
rapporto ai progressi della terapia antibiotica ed al miglioramento della
assistenza pre- e post-operatoria. Altri elementi favorenti derivano dall’affinarsi delle tecniche chirurgiche e dal miglioramento del materiale protesico,
più resistente alla contaminazione.
Elementi a sfavore di tale tecnica sono rappresentati da un’elevata incidenza di
amputazioni, legata alla extra-anatomicità della rivascolarizzazione, e dal rischio
di recidive infettive correlato alla presenza di materiale protesico sintetico
contaminato. La persistenza dell’infezione può inoltre essere causa di deiscenza
o di nuova fistolizzazione o rottura del moncone aortico.
Allo scopo di semplificare, accelerare e migliorare le caratteristiche emodinamiche della rivascolarizzazione è stata proposta la rivascolarizzazione in situ
mediante innesti arteriosi omologhi, innesti venosi autologhi o protesi sintetiche
impregnate di antibiotico o rivestite da una lamina d’argento, che sembrano più
resistenti alla contaminazione.
L’utilizzazione di trapianti arteriosi omologhi, introdotta negli anni ‘80, è stata
una metodica riproposta da vari Autori nel trattamento delle infezioni protesiche.
I vasi arteriosi omologhi, provenienti da donatori multi-organo, inizialmente
utilizzati “a fresco”, sono attualmente crioconservati. I vantaggi teorici
dell’omoinnesto arterioso riguardano sia la relativa semplicità ed il corretto
assetto emodinamico di una rivascolarizzazione “in situ”, sia l’impiego di una
protesi biologica più resistente rispetto ad un materiale sintetico nei confronti di
una reinfezione. Gli svantaggi derivano da complicanze immediate provocate da
errori tecnici che possono verificarsi durante il prelievo, la preparazione, la
crioconservazione, lo scongelamento degli homograft e da errori di tecnica
chirurgica quali una maldestra manipolazione, lesioni da angiostato, lacerazioni
della parete durante le suture, che possono inficiare il risultato.
Un aspetto estremamente importante ed ancora ampiamente discusso riguarda le
complicanze tardive da rigetto nei confronti degli antigeni di istocompatibilità,
responsabili di lesioni steno-ostruttive o di degenerazione aneurismatica degli
Arteriopatia ostruttiva cronica aorto-iliaca
97
omoinnesti. Per ovviare a tali complicanze immunologiche è stata proposta la
rivascolarizzazione in situ con innesti venosi autologhi, utilizzando anche le
vene profonde. I casi riportati in letteratura sebbene supportati da eccellenti
risultati, sono tuttavia sporadici perché le tecniche di realizzazione sono lunghe,
difficili e spesso non applicabili quando l’anastomosi tra protesi e aorta è
termino-laterale.
Il fattore più importante che condiziona il risultato del trattamento chirurgico
delle infezioni protesiche è rappresentato dalla eventuale presenza di comunicazioni tra protesi ed intestino. La riparazione della lesione intestinale rappresenta, quindi, una fase estremamente importante e delicata in relazione al rischio
di deiscenza della sutura intestinale che può essere causa di recidiva della fistola.
Dal punto di vista topografico, la sede più critica è rappresentata dalla terza
porzione duodenale; in questa sede anche le manovre di isolamento possono
essere responsabili di lesioni ischemizzanti. In linea generale per lesioni di pochi
centimetri si può procedere ad una sutura diretta della breccia intestinale, mentre
per erosioni di entità superiore si può rendere necessaria una resezione, per
evitare complicanze stenosanti. Nella scelta del tipo di ricostruzione da
effettuare bisogna tenere conto delle condizioni della parete duodenale residua
che può presentare zone di necrosi e di macerazione sulle quali non è affidabile
effettuare una sutura.
I risultati della chirurgia delle infezioni protesiche sono ancora oggi gravati da
un’alta incidenza di mortalità e di complicanze maggiori, indipendentemente
dalle tecniche adottate. In letteratura, le rivascolarizzazioni extra-anatomiche
presentano percentuali di mortalità variabili dal 13 al 29%, con una media del
22,5% e con un tasso di amputazione compreso tra il 6 e il 29%, con una media
del 18%.
Nell’utilizzo di omoinnesti la mortalità è compresa tra il 12,5 ed il 33,4%, con
una media del 21,5%; il tasso d’amputazione varia da 0 al 7,8% (media 1,9%).
La presenza di fistole enteriche aumenta il rischio di mortalità in maniera
significativa, variando dal 38 all’83%, con una media del 45,4%.
Altri fattori prognostici sfavorevoli, che condizionano una mortalità statisticamente più elevata, sono rappresentati dalle infezioni tardive versus le infezioni
precoci, dalla presenza di infezioni di alto grado versus infezioni a basso grado,
dall’intervento effettuato in urgenza versus l’intervento programmato.
Esaminando globalmente i risultati delle diverse tecniche terapeutiche ancora
oggi non è possibile stabilire con sicurezza quale sia la scelta terapeutica
ideale in corso di infezione protesica. La rimozione parziale della protesi o la
sua sostituzione con altro materiale protesico in situ rappresentano trattamenti
da effettuare solo nel caso in cui le condizioni generali del paziente non
consentono un trattamento radicale poiché la persistenza del materiale
protesico non può garantire la guarigione dell’infezione. Problema comune
98
Capitolo 5
alle tecniche tradizionali e innovative è quello relativo alla terapia chirurgica
delle fistole aorto-enteriche, la cui presenza inficia grandemente il risultato
chirurgico, con qualsiasi tecnica chirurgia.
Complicanze tardive del trattamento endovascolare
Restenosi
Si tratta della complicanza più discussa. In effetti, a prescindere dai miglioramenti forniti dall’angioplastica transluminale e dai trattamenti adiuvanti
studiati, sembra non si possa scendere al di sotto di un tasso del 20-25% di
restenosi a distanza in rapporto alla natura della lesione, alla sede trattata ed
alle condizioni del letto a valle. La maggior parte delle restenosi risulta
accessibile ad un nuovo procedimento endoluminale.
Studi istologici hanno messo in evidenza un meccanismo di iperplasia miointimale quale reazione della parete all’aggressione. Rimane però inspiegato
come il tasso di restenosi dopo angioplastica sia nettamente superiore a
quello osservato dopo tromboendoarterecotmia chirurgica. Il miglioramento
delle tecniche di diagnostica per immagini ha permesso di ridurre la
percentuale di incidenza reale dell’iperplasia mio-intimale, che compare di
regola 3-6 mesi dopo la procedura iniziale.
Pseudoaneurisma
Sono stati descritti casi isolati di pseudoaneurismi nella sede di accesso dopo
angioplastica che giustificano l’esecuzione di controlli regolari con
ecocolordoppler dei siti trattati.
Altre complicanze possono essere la migrazione dello stent, la rottura dello
stent e l’infezione.
6. Malattia femoro-poplitea
Epidemiologia e storia naturale
Il processo aterosclerotico può interessare solo le arterie femorali, l’arteria
poplitea, ciascuna delle arterie infrapoplitee, compresi i loro rami terminali o
arterie in diverse associazioni tra loro. Il processo inizia precocemente in età
adulta e avanza progressivamente e lentamente arrivando a quadri che danno
stenosi emodinamicamente significative od ostruzioni in una o più arterie al
di sotto del legamento inguinale.
Nell’80-90% dei pazienti con arteriopatia aterosclerotica periferica è coinvolto l’asse femoro-popliteo; circa il 50% delle occlusioni arteriose si verifica
nel segmento femoro-popliteo. Nel 50% dei pazienti le steno-ostruzioni delle
arterie si verificano a livello della coscia. In oltre il 60% dei casi si associano
lesioni dei vasi sottopoplitei e del settore prossimale aorto-iliaco.
Nettamente superiore l’incidenza nel maschio (da 10:1 a 30:1 e oltre), con
frequente interessamento bilaterale. Le arterie interessate sono la femorale
comune, con i suoi rami di biforcazione, e più distalmente anche l’arteria
poplitea. La femorale comune è sede meno frequente di lesioni ischemizzanti
rispetto ai suoi rami di biforcazione, ma la sua ostruzione, in ragione della
contemporanea ripercussione emodinamica sia sulla femorale superficiale sia
sulla femorale profonda, si presenta spesso con quadri clinici più severi. La
femorale superficiale è l’arteria più interessata dall’aterosclerosi, con
nettissima prevalenza sulla femorale comune. I tipi morfologici di stenoostruzione della femorale superficiale comprendono: l’ostruzione
segmentaria, breve; la stenosi multipla (a rosario) o prolungata per un tratto
cospicuo; forme intermedie (20% dei casi).
L’arteria femorale profonda distribuisce sangue ai muscoli della coscia, ma
diventa il vero asse portante di tutto l’arto inferiore in caso di ostruzione della
femorale superficiale. In presenza di occlusione del circolo della femorale
superficiale, la femorale profonda può quasi raddoppiare di calibro,
aumentando di oltre il 50% la sua portata. Quando interessata da
aterosclerosi, l’arteria femorale profonda presenta per lo più steno-ostruzioni
ostiali, raramente estese a tutta la sua lunghezza.
Nel tratto distale della coscia la femorale superficiale diventa arteria poplitea
e rilascia importanti collaterali genicolari. Questo punto rappresenta una sede
frequente di aterosclerosi, spesso in associazione con l’interessamento della
parte più prossimale della femorale superficiale, ed è il tratto più spesso
interessato dalla riabitazione da parte del circolo collaterale. Quando la
poplitea è coinvolta da processi fortemente stenosanti o ostruttivi, il circolo
99
100
Capitolo 6
collaterale sorpassa l’ostacolo portandosi, attraverso le genicolate, direttamente ai vasi tibiali.
Quadro clinico
L’arteriopatia ostruttiva cronica femoro-poplitea può dare quadri clinici
diversi in relazione al tipo di lesione ed al grado di steno-ostruzione.
A livello dell’albero arterioso infrainguinale possono esservi stenosi
emodinamicamente significative od ostruzioni di un’arteria principale con
sintomi scarsi od assenti se esiste un circolo collaterale ben sviluppato (Fig.
1) o se il livello di attività fisica del paziente è limitato da altri fattori (es.
coronaropatia o altro processo patologico).
La manifestazione clinica più comune di un’ostruzione segmentaria breve
dell’arteria femorale superficiale è una claudicatio intermittens lieve.
Figura 1: Ostruzione dell’arteria femorale superficiale al terzo medio di
coscia con ricco circolo collaterale che riabita l’arteria a valle della lesione.
Malattia femoro-poplitea
101
L’arteriopatia ostruttiva può essere del tutto asintomatica, come accade nel caso
in cui siano ostruite solo una o due arterie tibiali, senza altre lesioni. Un
paziente, invece, che arriva all’osservazione con claudicatio intermittens
invalidante o necrosi tessutale ha ostruzioni sequenziali multiple o la cosiddetta
arteriopatia segmentaria combinata, con lesioni emodinamicamente
significative a livello aorto-iliaco e della femorale superficiale/poplitea o una di
queste od entrambe unite ad una grave arteriopatia infra-poplitea (Fig. 2).
Il coinvolgimento ateromasico dei vasi della biforcazione poplitea è frequente
nella patologia aorto-iliaca o femoro-poplitea ed è tipico nell’arteriopatia
diabetica. In generale, circa il 18% delle occlusioni delle arterie degli arti
inferiori è costituito da lesioni isolate di arterie sottopoplitee.
Quando l’asse femoro-popliteo risulta indenne, le lesioni dei vasi tibioperoneali isolate raramente sono fonte di sintomatologia che va oltre il II
stadio. È anche molto raro riscontrare una steno-ostruzione di tutti e tre i ra-
A
B
C
Figura 2: Arteriopatia ostruttiva infrainguinale con ostruzione dell’arteria
femorale superficiale nel canale degli adduttori (B) e di tutta l’arteria
poplitea; il circolo collaterale è scarso e riabita solo un ramo tibiale visibile
per un breve tratto (C).
102
Capitolo 6
mi, che possa impedire attraverso collateralizzazioni prossimali un flusso di
compenso all’arcata plantare e dorsale del piede. Invece, in presenza di
lesioni associate multi-segmentarie che comprendano anche i tronchi sottopoplitei, i pazienti lamentano spesso i segni e i sintomi dell’ischemia critica.
L’arteriopatia ostruttiva cronica riguarda isolatamente le arterie delle gambe
(poplitea sotto-articolare, tronco tibio-peroniero, tibiale anteriore e posteriore,
peroniera) solo in una piccola parte dei pazienti aterosclerotici che non
risultino affetti da diabete mellito. Invece è nota da tempo la predominanza di
lesioni a questo livello nel paziente diabetico. Nei pazienti non diabetici, nel
60-70% dei casi il coinvolgimento è plurivasale. L’arteria peroniera è il vaso
percentualmente più risparmiato e che spesso finisce per diventare l’unico di
tutta la gamba.
A questo livello, le vie di compenso sono meno efficaci di quelle più prossimali, poiché i segmenti sottopopolitei funzionalmente si comportano come
sistemi d’irrorazione terminale, con rami anastomotici numericamente scarsi
e assai ridotti di calibro. Nell’evenienza di un’ostruzione a questo livello,
pertanto, sono solo i rami muscolari a raggiungere i tratti più distali dei vasi
tibiali e peroneali o l’arcata plantare. L’ostruzione delle arcate plantari e dei
rami arteriosi metatarsali e digitali è frequente nel diabetico, tipicamente con
risparmio dell’albero vascolare più prossimale; è abbastanza comune (dal 20
al 40% dei casi) reperire una normale pulsatilità del polso popliteo ed anche
dei polsi distali in presenza, per esempio, di ulcera o gangrena distrettuale del
piede.
La sindrome del piede diabetico comprende un complesso di alterazioni
trofiche, che si presentano maggiormente dopo una lunga storia di diabete e,
diversamente dalle localizzazioni aterosclerotiche, riconoscono come elementi aggiuntivi alla degenerazione ateromasica altri due importanti fattori:
la neuropatia e il sovrapporsi saltuario di infezioni (anche subcliniche) che
precipitano la sofferenza tessutale.
La neuropatia può di per sé causare distrofie o rendere il piede più
vulnerabile dopo un fatto traumatico anche minimo, tenuto soprattutto
conto che l’alterazione della sensibilità in questi pazienti rende ragione
del ritardato riconoscimento di una sintomatologia ischemica già in atto.
Soprattutto se il diabete è scompensato, il piede è facilmente preda di
processi infettivi a esordio insidioso e andamento piuttosto lento, che
obbligano a frequenti ospedalizzazioni (1/5 dei diabetici viene ricoverato
per patologia podalica).
I pazienti con arteriopatia femoro-popliteo-tibiale possono essere compresi in
5 stadi in relazione al quadro clinico (Tab. 1). I pazienti compresi negli stadi
III e IV sono da considerare a rischio imminente di perdita di arto anche se il
loro quadro clinico può rimanere stabile per anni.
Malattia femoro-poplitea
103
Tabella 1: Classificazione dell’arteriosclerosi infra-inguinale con stenosi
emodinamicamente significativa od ostruzioni
0
I
II
III
IV
Non segni o sintomi
Claudicatio intermittens (> 1 isolato). Non alterazioni
obiettive
Claudicatio grave (< ½ isolato). Cianosi declive. Ipotermia
Dolore a riposo. Atrofia. Cianosi. Cianosi declive
Ulcera o gangrena ischemica che non guariscono
Diagnosi differenziale
La claudicatio intermittens è un sintomo guida di arteriopatia ostruttiva
arteriosclerotica. Possiamo avere una claudicatio lieve di polpaccio
dovuta ad una stenosi significativa a livello delle arterie iliaca, femorale
superficiale o poplitea. La claudicatio è descritta dal paziente come un
senso di pesantezza, debolezza o fatica a livello della gamba ed in questi
pazienti si può porre una diagnosi sbagliata di alterazioni neuromuscolari.
Talvolta sintomi simil-claudicatio possono essere dovuti a compressioni
della parte inferiore del midollo spinale o della cauda equina. Questa
claudicatio può essere sospettata quando i polsi arteriosi periferici sono
normali.
Un’altra diagnosi differenziale importante riguarda la causa delle ulcere a
livello della caviglia e del piede. La tipica ulcera venosa si forma nell’ambito
di una patologia venosa cronica, è associata ad alterazioni da stasi e polsi
arteriosi normali, di solito guarisce con il sollevamento dell’arto e misure
compressive ed è indolore.
La tipica ulcera arteriosa o ischemica è più dolente ed è associata ad altri segni d’ischemia; di solito ha un fondo necrotico ed è situata in una zona sottoposta cronicamente a pressione od a trauma, come al di sopra dei malleoli o
nella sede di un callo (Fig. 3).
In presenza di una lesione gangrenosa o pregangrenosa di un dito, si devono
prendere in considerazione diverse cause oltre alla progressione dell’arteriopatia ostruttiva arteriosclerotica.
L’infezione locale può essere la sola o la principale causa della lesione
digitale, in particolare nei diabetici. Dita nere o blu possono essere
anche la conseguenza di processi embolici a partenza dal cuore, da un
aneurisma prossimale o da una qualsiasi lesione arteriosclerotica
prossimale.
104
Capitolo 6
Indicazioni al trattamento
L’ischemia funzionale al secondo stadio rappresenta oggi un’indicazione
relativa all’intervento chirurgico. Elementi quali l’entità della claudicatio,
l’età, lo stile di vita, le condizioni generali e la presenza o meno di circolo
collaterale condizionano le indicazioni terapeutiche. Queste prevedono
esclusivamente il controllo dei fattori di rischio e l’adozione di una terapia
farmacologia antitrombotica e vasoattiva nel caso di una claudicatio lieve o
moderata, di natura ostruttiva, sottoinguinale, soprattutto in pazienti anziani.
Per contro, la presenza di una claudicatio severa causata da un deficit
arterioso, sopra- o sottoinguinale, oltre al miglioramento dello stile di vita ed
alla terapia farmacologica, si può avvalere della rivascolarizzazione chirurgica o endovascolare.
L’ischemia critica costituisce un’indicazione assoluta ad un intervento terapeutico invasivo, sempre che esistano le condizioni anatomiche per una ragionevole probabilità di successo e che le condizioni generali del paziente lo
permettano.
Nell’ambito del quarto stadio, una considerazione a parte meritano i pazienti
portatori di lesioni gangrenose estese all’avampiede ed al tallone, tali
Figura 3: Lesione trofica plantare in una zona sottoposta a pressione; il fondo
appare sanioso ed i margini non sono granuleggianti.
Malattia femoro-poplitea
105
Tabella 2: Classificazione TASC delle lesioni femoro-poplitee
Lesioni femoro-poplitee TASC-A
• Stenosi singole, localizzate, di lunghezza inferiore ai 3 cm
Lesioni femoro-poplitee TASC-B
• Stenosi singole della femorale superficiale di lunghezza di 3-10
cm
• Lesioni altamente calcifiche o stenosi multiple di lunghezza
inferiore ai 3 cm
Lesioni femoro-poplitee TASC-C
• Stenosi singole o occlusioni di lunghezza maggiore ai 5 cm
• Stenosi multiple ognuna di lunghezza di 3-5 cm
Lesioni femoro-poplitee TASC-D
• Occlusioni della femorale superficiale in tutta la sua estensione o
dell’arteria poplitea
da non aver ancora compromesso irrimediabilmente le funzioni di appoggio
del piede. Queste situazioni necessitano di un intervento terapeutico particolarmente rapido ed efficace dal punto di vista emodinamico. Nella maggior
parte di questi pazienti, solo una chirurgia diretta di rivascolarizzazione
distale può assicurare una riperfusione emodinamicamente efficace tale da
consentire una rapida demarcazione della necrosi e la guarigione dei tessuti
residui dopo amputazione parcellare ed asportazione delle zone necrotiche.
Il trattamento dell’ischemia cronica si è basato nel tempo sull’esecuzione di
un’ampia varietà di by-pass tradizionali e di tecniche di disostruzione a cui
recentemente si è aggiunta l’opzione della terapia endovascolare. La scelta di
queste diverse metodiche è influenzata da numerosi fattori, quali la topografia
delle lesioni (soprainguinale o sottoinguinale), la loro natura (obliterante o
emboligena), il tipo di lesione (stenosi o occlusione).
La TASC stabilisce i criteri secondo i quali le lesioni arteriose degli arti
inferiori sono trattabili con metodica endovascolare (Tab. 2). La metodica
endovascolare ha permesso di affrontare in maniera poco invasiva sia lesioni
arteriose potenzialmente evolutive (stenosi, placche ateromasiche friabili che
possono compromettere irreversibilmente il letto a valle anche in condizioni
di ischemia funzionale moderata, soprattutto se a carico del distretto femoropopliteo) sia lesioni consolidate (occlusioni).
Secondo la classificazione TASC, le stenosi singole di lunghezza inferiore a
3 cm, che non interessano il tratto prossimale della femorale superficiale e la
parte distale dell’arteria poplitea sono considerate lesioni di tipo A.
106
Capitolo 6
Le stenosi di 3-5 cm di lunghezza, le stenosi fortemente calcifiche, le lesioni
multiple (ciascuna massimo 3 cm) e le lesioni con run-off tibiale insufficiente
(queste raramente soddisfano i criteri della claudicatio lieve o moderata) sono
considerate lesioni di tipo B.
Le stenosi o le occlusioni più lunghe di 5 cm e le lesioni multiple di media
lunghezza (3-5 cm) sono comprese nelle lesioni di tipo C.
Le occlusioni di tutta la femorale comune, della femorale superficiale e le
occlusioni poplitee sono classificate come lesioni di tipo D.
Sia nell’ambito della chirurgia tradizionale che in quella endovascolare
ulteriori condizioni modificano la strategia chirurgica; in particolar modo, per
la tecnica convenzionale, il circolo a monte ed a valle e la disponibilità del
materiale protesico.
La strategia endovascolare è influenzata dalla sede e dalla lunghezza della
lesione, dal tipo e dalla morfologia dell’ostacolo al flusso, dalla condizione
del circolo a valle.
In generale, vi è indicazione ad un intervento di by-pass femoro-popliteo sopra-articolare se i vasi distali sono integri; in caso di necessità si può
prolungare un by-pass femoro-popliteo in sede sottoarticolare in presenza di
pervietà del vaso a questo livello.
Un by-pass distale va effettuato quando vi è un’occlusione completa della
poplitea sottoarticolare e vi è la presenza di almeno un vaso di gamba pervio.
La scelta del vaso di gamba a livello del quale anastomizzare il by-pass, nel
caso ve ne sia più di uno pervio, viene effettuata in base alla sede della
lesione trofica ed alla qualità del circolo distale, stabilita in base alla continuità con le arcate plantari.
La chirurgia offre, per la ricostruzione femoro-poplitea, un tasso di pervietà a
5 anni dell’80% per il by-pass in vena e del 65-75% per quelli in politetrafluoroetilene espanso (ePTFE). Il rischio combinato di mortalità e amputazione si aggira intorno all’1,4% per le ricostruzioni femoro-poplitee. Gli
interventi endovascolari femoro-poplitei riportano una media di successi
tecnici del 90%, una percentuale di complicanze del 4,3% e una pervietà a 3
anni del 51%. Gli stent nel tratto femoro-popliteo non sembrano migliorare la
pervietà che a 3 anni è del 58%.
Nel tratto femoro-popliteo, il successo globale e l’efficacia a lungo
termine del trattamento endovascolare sono minori rispetto al tratto
iliaco-femorale e il fattore determinante è il tipo di lesione.
Contrariamente a quelle dell’asse iliaco, ben poche lesioni dell’arteria
femorale soddisfano i criteri per i tipi A o B, specialmente se limitate a 5
cm di lunghezza. Di conseguenza, pochi pazienti con claudicatio lieve o
moderata causata da lesioni femoro-poplitee saranno ritenuti candidati
ideali per il trattamento percutaneo.
Malattia femoro-poplitea
107
Terapia chirurgica tradizionale
La chirurgia tradizionale prevede tre opzioni terapeutiche: il by-pass femoropopiteo o distale, la tromboendoarterectomia e la profundoplastica.
Qualunque sia il tipo di rivascolarizzazione da effettuare, il momento iniziale
dell’intervento chirurgico consiste nella preparazione dei vasi arteriosi. Per la
preparazione dei vasi femorali all’inguine l’incisione cutanea generalmente
preferita segue una linea arciforme a concavità mediale che parte dalla linea
di proiezione cutanea del legamento inguinale e scende obliqua medialmente,
in direzione del condilo mediale del femore. Dopo la sezione del tessuto
sottocutaneo, facendo attenzione a non ledere i vasi linfatici o, comunque,
legandoli accuratamente per evitare complicanze post-operatorie (formazione
di linfoceli e linforragie), si accede ai vasi femorali aprendo la fascia fibrosa.
Si preparano, quindi, e si repertano l’arteria femorale comune, l’arteria
femorale superficiale e l’arteria femorale profonda nel loro primo tratto (Fig.
4).
Dal punto di vista anatomo-chirurgico l’arteria poplitea si suddivide in tre
segmenti. Il primo segmento, detto sopra-articolare o sopragenicolare, si
localizza nella metà superiore del cavo popliteo; il secondo segmento
dell’arteria poplitea, detto intra-articolare, è localizzato nella profondità del
cavo popliteo a cavallo dell’articolazione del ginocchio; il terzo segmento,
detto sottoarticolare o infragenicolare, è localizzato nella metà inferiore del
cavo popliteo e termina, a livello dell’anello del soleo, con i suoi rami di
biforcazione. L’accesso all’arteria poplitea può essere effettuato, a seconda
dei casi, seguendo una via mediale, una via posteriore, una via combinata
mediale e posteriore o una via laterale.
Figura 4: Preparazione dei vasi femorali all’inguine.
108
Capitolo 6
L’accesso per via mediale è quello comunemente praticato; esso permette
un’agevole esposizione del primo e del terzo segmento del vaso e, in alcuni
casi, dell’intero segmento popliteo.
Per la preparazione dell’arteria poplitea sopra-articolare l’incisione cutanea
segue una linea che parte dal punto di passaggio tra il terzo medio ed il terzo
distale della coscia, segue il margine anteriore del muscolo sartorio e termina
circa 2 cm a monte del margine superiore del condilo mediale del femore.
Durante la sezione del tessuto sottocutaneo è necessario prestare la massima
attenzione alla vena safena interna, che va preservata. L’arteria poplitea viene
agevolmente preparata procedendo inferiormente al tendine del muscolo
grande adduttore, lateralmente al quale essa decorre, o sezionandolo (Fig. 5).
Per la preparazione dell’arteria poplitea sottoarticolare l’incisione cutanea
segue una linea leggermente arciforme che parte circa 1 cm posteriormente al
condilo mediale del femore, decorre circa 2 cm inferiormente al margine
mediale della tibia e termina al passaggio tra il terzo prossimale ed il terzo
medio della gamba. Occorre, anche in questo caso, prestare la massima
attenzione alla safena interna, che viene reperita nel contesto della fascia superficiale della gamba. Si apre l’aponeurosi della gamba, si scolla il gemello
mediale dalla faccia posteriore della tibia e si accede alla parte inferiore del
cavo popliteo, ripiena di tessuto cellulo-adiposo lasso. Nel contesto di questo
tessuto si reperisce l’arteria poplitea sottoarticolare. I vasi poplitei sono
Figura 5: Preparazione della poplitea sopra-articolare.
Malattia femoro-poplitea
109
avvolti da una guaina connettivale ed abitualmente disposti in modo che
l’arteria sia accompagnata da due vene satelliti, una mediale e l’altra laterale
(Fig. 6). A causa dell’intimo contatto avventiziale tra l’arteria e le vene satelliti, la preparazione di questo vaso richiede delicatezza.
Questa via d’accesso permette inoltre la preparazione del tratto prossimale
dell’arteria tibiale anteriore e del tronco tibio-peroniero. La prima origina in
corrispondenza dell’arcata del soleo, si dirige verso la loggia antero-laterale
della gamba, dopo aver attraversato la membrana interossea. La sua
preparazione richiede spesso la sezione tra legature di un ramo satellite
venoso. Incidendo prima l’arcata del soleo, poi le sue fibre muscolari in modo da deconnetterlo dalla faccia posteriore del corpo della tibia, è possibile
preparare anche l’intero tronco tibio-peroniero.
Per la preparazione contemporanea dell’arteria poplitea sia sopra- che sottoarticolare si può praticare un accesso mediale allargato, la cui incisione
cutanea rappresenta la somma delle incisioni usate per la preparazione sopra
e sottoarticolare, o più frequentemente un accesso posteriore con incisione a
baionetta con paziente posizionato sul tavolo operatorio in decubito prono.
L’incisione, nell’accesso posteriore, è orientata lungo l’asse longitudinale del
cavo popliteo e sagomata a baionetta in modo da evitare la formazione di
cicatrici retraenti (Fig. 7).
Il tessuto sottocutaneo e la fascia poplitea vengono sezionati seguendo la
stessa direzione dell’incisione cutanea. Nella parte inferiore dell’apertura
fasciale occorre prestare attenzione alla safena esterna ed al suo nervo
satellite che decorrono entro uno sdoppiamento della fascia della gamba.
La vena safena esterna viene seguita come repere per la vena poplitea. In
questa operazione bisogna evitare di ledere il nervo per il muscolo soleo, il
quale, in prossimità della crosse safeno-poplitea, decorre in stretta
vicinanza alla vena. In prossimità della crosse, la safena esterna incrocia
posteriormente il nervo tibiale prima di confluire nella vena poplitea,
abitualmente 2 cm superiormente all’interlinea articolare. Reperito il nervo
tibiale e, al di sotto di questo, la vena poplitea, l’arteria decorre anteromedialmente alla vena e può essere esposta mediante la divaricazione delle
formazioni muscolari che delimitano la losanga poplitea. Nella parte
inferiore del campo operatorio il fascio vascolo-nervoso popliteo viene generalmente incrociato posteriormente dal muscolo plantare. Nei casi in cui
sia necessaria la preparazione della parte inferiore dell’arteria poplitea o,
addirittura del tronco tibio-peroniero, è necessario procedere alla sezione
del tendine di questo muscolo.
Esiste la possibilità, per la preparazione dell’arteria poplitea, di un accesso
combinato, che associa la via d’accesso sia sopra che sottoarticolare a quella
posteriore, e un accesso per via laterale che non viene usato quasi mai.
110
Capitolo 6
By-pass in vena autologa
Il materiale migliore per il confezionamento di un by-pass è la vena autologa,
per il basso rischio di infezione, per la presenza di uno strato endoteliale
vitale sulla superficie di flusso che, unito alla componente elastica, riduce
sensibilmente la trombogenicità, soprattutto in vicinanza delle sedi di
anastomosi. Un posto di rilievo tra le vene è occupato dalla vena grande
safena o vena safena interna. Questa vena decorrendo lungo tutto l’arto infe-
Figura 6: Preparazione della poplitea distale e dei suoi rami di biforcazione.
Figura 7: Via d’accesso posteriore all’arteria poplitea (schema).
Malattia femoro-poplitea
111
riore, può essere utilizzata in due diverse maniere per il confezionamento di
un by-pass, invertita o lasciata nella sua sede naturale.
Vena safena invertita
Quando si deve prelevare la vena grande safena per fare un by-pass in vena
invertita, bisogna praticare un’incisione cutanea lungo tutto il decorso della
vena (Fig. 8) repertata in precedenza o prevedere brevi incisioni cutanee. In
questo caso il prelievo della vena è più difficoltoso, ma la guarigione della
ferita è migliore. L’isolamento deve essere il meno traumatico possibile con
una minima manipolazione e trazione della vena, soprattutto in corrispondenza dei vasi collaterali.
L’emostasi delle collaterali viene assicurata mediante clip metalliche o
legature in filo non riassorbibile 3/0 poste abbastanza vicino alla vena da non
lasciare fondi ciechi ma non rasenti ad essa per non rischiare di determinare
stenosi nel momento in cui la vena sarà distesa dalla pressione arteriosa.
Dopo avere eseguito legatura e sezione delle collaterali della crosse safenofemorale, la vena viene prelevata e conservata in una soluzione fisiologica
eparinizzata. Successivamente si clampano i vasi arteriosi. Prima del
clampaggio della biforcazione femorale è necessaria un’eparinizzazione
sistemica. L’arteriotomia longitudinale viene eseguita sulla faccia anteriore
dell’arteria femorale comune subito a monte delle biforcazione. Quando si
usa la vena invertita l’estremità venosa utilizzata per l’anastomosi prossimale
è quella più lontana all’inguine (con le valvole a favore di flusso).
L’estremità della vena, preparata a becco di flauto, viene anastomiz-
Figura 8: Preparazione della vena grande safena a livello della coscia (Sn) e
del terzo superiore di gamba (Dx). Da notare, a destra, la preparazione della
poplitea e dei rami di biforcazione.
112
Capitolo 6
zata in modo latero-terminale alla femorale comune (Fig. 9). Successivamente si tunnellizza la vena con un decorso anatomico fino al III
inferiore di coscia nel caso di debba eseguire un’anastomosi sull’arteria
poplitea soprarticolare. Se bisogna confezionare un by-pass sottoarticolare la vena verrà portata fino al 1/3 superiore di gamba, nella sede dell’anastomosi.
Si esegue l’anastomosi distale; prima di passare gli ultimi punti vanno eseguiti dei lavaggi verificando il flusso refluo nell’arteria utilizzata come sede
d’anastomosi ed il flusso nel by-pass, permettendo anche l’espulsione dell’aria residua.
Vena grande safena in situ
Nella preparazione della vena da lasciare in situ si deve evitare una eccessiva
scheletrizzazione, per non compromettere l’irrorazione parietale e per evitare
accidentali lesioni del vaso. La preparazione della vena va dalla giunzione
safeno-femorale fino ad un punto più a valle rispetto alla prevista sede
anastomotica distale. Si controlla che la vena abbia un calibro adeguato lungo
tutto il suo decorso (> 2 mm di diametro) e che non vi siano zone dilatate o
fibrosclerotiche e si seziona la giunzione safeno-femorale. Dopo
eparinizzazione sistemica si clampano i vasi femorali, si pratica l’arteriotomia, si modella l’estremità della vena a becco di flauto e si effettua
l’anastomosi prossimale.
Figura 9: Anastomosi prossimale tra arteria femorale e vena grande safena
invertita.
Malattia femoro-poplitea
113
Se la vena appare non sufficientemente lunga tra arteria femorale e vena si
può interporre un tratto di protesi sintetica praticando le necessarie anastomosi (Fig. 10).
Dopo aver confezionato l’anastomosi prossimale ed averne verificato la
tenuta si procede alla devalvulazione della vena grande safena con apposito
valvulotomo. Il confezionamento dell’anastomosi distale prevede che l’ultimo tratto della vena safena preparata venga portato sul piano arterioso,
facendo attenzione ad evitare angolazioni di 90° o più della vena (Fig.11).
Figura 10: Tratto di protesi sintetica interposta, a livello dell’anastomosi
prossimale, tra l’arteria femorale e la vena grande safena la cui lunghezza è
insufficiente per l’anastomosi diretta.
Figura 11: Approfondimento della parte terminale della vena grande safena in
situ per eseguire l’anastomosi distale.
114
Capitolo 6
Prima di completare l’anastomosi distale si verifica la qualità del flusso
refluo e del flusso proveniente dalla protesi venosa. Al declampaggio si
verifica la buona tenuta delle anastomosi e delle legature delle collaterali
venose. Si procede poi a verificare la buona pulsatilità dei vasi femorali, della
vena safena in situ e dei vasi a valle.
Se la vena grande safena non è disponibile (pregresso stripping, by-pass
aorto-coronarici, calibro non adeguato) si può utilizzare un altro materiale
autologo come le vene degli arti superiori o la vena piccola safena; più
raramente si prende in considerazione l’uso di vene del circolo profondo.
Per ovviare alla carenza di materiale venoso autologo vi sono tecniche che
prevedono l’uso combinato di materiale sintetico e vena autologa in modi
diversi. Una possibilità consiste nel combinare questi due materiali (by-pass
composito) per ottenerne uno di lunghezza adeguata per eseguire una
rivascolarizzazione. Questo tipo di by-pass va preparato utilizzando la protesi
sintetica per la parte prossimale, riservando il materiale venoso per quella più
distale. In alternativa, una soluzione, preferibile in presenza di un’arteria
poplitea “sospesa”, è quella di eseguire un by-pass femoro-popliteo in protesi
sintetica (preferibilmente PTFE) ed impiantare sulla poplitea, in modo lateroterminale, il segmento venoso diretto al vaso distale prescelto (by-pass
composito sequenziale). I risultati ottenuti mostrano percentuali di pervietà
del 70% circa a 2 anni e del 50% a 3 anni.
By-pass in protesi sintetica
Viene realizzato quando non è disponibile materiale autologo per le ricostruzioni
sottopoplitee o come prima scelta nel distretto femoro-popliteo soprarticolare
(Fig. 12). Molti chirurghi preferiscono questa opzione come prima scelta perché
ritengono che vi siano tassi di pervietà quasi sovrapponibili alle ricostruzioni in
vena, che rimane sempre disponibile per un ulteriore intervento, e per la
presenza di vantaggi quali la riduzione dei tempi operatori ed una minore
invasività. Le protesi non autologhe, si distinguono in biologiche e sintetiche.
Tra le protesi biologiche si annoverano le protesi omologhe arteriose e venose
(segmenti vasali, freschi o conservati, prelevati da cadavere). I principali
svantaggi di questi materiali sono rappresentati dal basso tasso di pervietà a
distanza (< 20% di pervietà primaria e < 30% di pervietà secondaria a 5 anni) e
dalla frequente degenerazione aneurismatica.
Bisogna anche ricordare l’esistenza di materiale biologico usato per la
composizione di protesi eterologhe, vasi o tessuti di altre specie animali
modificati in laboratorio, come ad esempio l’arteria carotide bovina fissata
con gluteraldeide. Queste non presentano, nel tempo, una significativa perdita
di stabilità strutturale e mostrano risultati di pervietà buoni nel distretto
Malattia femoro-poplitea
115
sopragenicolato (80% a 2 anni) ma insufficienti a livello sottogenicolare
(26% a 2 anni). Un altro tipo di protesi sintetica è rappresentato dalle protesi
tessute (Dacron) e non tessute (Teflon espanso, ePTFE). Al di sotto
dell’articolazione del ginocchio vi è una netta preferenza per le protesi non
tessute per la maggiore impermeabilità, la biocompatibilità, l’assenza di
necessità di preclotting, ecc.
Il limite maggiore di questi materiali è costituito dalla quasi totale assenza di
compliance che invece è ben presente nei vasi; questa differenza di
compliance tra protesi ed arteria comporta problemi emodinamici che possono causare iperplasia perianastomotica che nel distretto sottopopliteo si
presenta con maggior frequenza.
Il calibro protesico usato per il confezionamento di un by-pass femoropopliteo in protesi è di 7-8 mm. La tecnica di impianto differisce da quella di
un innesto venoso: la sezione della protesi viene eseguita a mò di paletta,
arrotondandone l’apice ed il tallone per evitare il rischio di stenosi a livello
degli angoli dell’arteriotomia. La lunghezza della paletta deve essere di circa
2 volte il diametro della protesi, corrispondendo ad un angolo di circa 60°. Si
confeziona prima l’anastomosi prossimale; la sutura tra la protesi (materiale
rigido) e l’arteria deve essere precisa, dato che la rigidità della protesi non
tollera imperfezioni nella sutura, in particolar modo a livello degli angoli. La
tunnellizzazione può avvenire seguendo un percorso sottocutaneo o
anatomico; il tragitto sottocutaneo esterno sembra ridurre il rischio di
plicatura alla flessione del ginocchio quando il by-pass viene por-
Figura 12: Immagine intraoperatoria di un by-pass femoro-popliteo sopragenicolato in protesi.
116
Capitolo 6
tato sulla poplitea distale. La realizzazione dell’anastomosi inferiore è
analoga a quella del by-pass in vena. Il clampaggio della protesi a ridosso
dell’anastomosi prossimale dovrà essere atraumatico.
Tromboendoarterectomia
Oggi trova indicazione molto limitata vista anche l’affermazione della tecnica
endovascolare.
Ha un razionale in presenza di lesioni segmentarie brevi e comporta la disobliterazione del tratto interessato, principalmente femorale o popliteo.
La femorale comune è il segmento solitamente meno interessato dalla
presenza di una lesione aterosclerotica localizzata, ma quando ciò avviene e
si rende utile un intervento di endoarterectomia a cielo aperto, la pervietà a
distanza risulta ottimale (oltre il 90% a 10 anni).
Un intervento limitato a lesioni segmentarie della femorale superficiale
mostra risultati di pervietà di oltre il 60% a 5 anni e del 50% circa a 10 anni.
La tecnica semichiusa (Fig. 13) a livello della femorale superficiale trova
indicazione nel tentativo di ottenere un buon vaso d’inflow per la ricostruzione distale quando il materiale venoso autologo disponibile non è sufficientemente lungo o in caso di lesioni diffuse delle femorale superficiale.
Questa tecnica inizia con un’incisione inguinale per esporre la biforcazione
femorale ed al terzo inferiore di coscia per esporre la femorale superficiale
distale; dopo aver eseguito l’eparinizzazione sistemica del paziente ed aver
valutato l’estensione della placca, a vasi clampati, si esegue la prima arteriotomia che può essere effettuata sulla femorale comune o sulla femorale
Figura 13: Schema della tromboendoarterectomia con tecnica semichiusa.
Malattia femoro-poplitea
117
superficiale; il corretto piano di dissezione si trova tra l’intima e la media ove
la placca si scolla con facilità, con l’aiuto di un dissettore. Dopo aver separato
la placca dalla media, si procede al posizionamento di un ring stripper di
calibro adeguato all’interno dell’arteria. Imprimendo al ring stripper una
delicata rotazione, questo viene diretto prossimalmente se la prima
arteriotomia è stata eseguita sulla femorale superficiale o distalmente se la
prima arteriotomia è stata effettuata sulla femorale comune; a questo punto si
procede con l’asportazione in blocco dell’ateroma e si fissa l’estremità distale
dell’intima con punti transfissi, per prevenirne la dissecazione da parte del
flusso ematico. Viene successivamente eseguita la seconda arteriotomia che
permette di valutare il punto terminale dell’endoarterectomia; anche in questo
caso, se necessario, si fissa il lembo intimale con punti transfissi. Al termine
si esegue un accurato lavaggio con soluzione eparinata. Si chiudono le
arteriotomie con segmenti di vena safena interna di coscia e si esegue un
controllo angiografico per individuare eventuali frammenti residui o flap
intimali. I risultati ottenuti in caso di lesioni diffuse a carico della femorale
superficiale (30 cm di arteria interessata in media) mostrano una pervietà a 5
anni del 40% circa.
Profundoplastica
L’indicazione più frequente è l’associazione ad un intervento di ricostruzione
prossimale (by-pass aorto-femorale, axillo-femorale, femoro-femorale crossover) allo scopo di assicurare un soddisfacente accoglimento distale mentre
resta controverso il suo utilizzo come tecnica isolata.
La tecnica prevede la preparazione dei vasi femorali all’inguine, ma in questo
caso bisogna eseguire la dissezione di un lungo tratto della femorale profonda. Dopo l’eparinizzazione sistemica ed il clampaggio dei vasi, si procede
all’arteriotomia che interessa la parte terminale della femorale comune e la
femorale profonda fino a che non viene individuato un lume adeguato; si
esegue, quindi, l’endoarterectomia secondo la tecnica classica.
Quando la profundoplastica è la sola terapia chirurgica adottata, l’arteriotomia viene chiusa con un patch d’allargamento (Fig. 14) che può essere costituito da un tratto di arteria femorale superficiale ostruita (dopo endoarterectomia), da materiale venoso (un ramo della vena safena interna) o da
materiale sintetico (Dacron o PTFE). Dopo aver rilasciato gli angiostati, si
controllano la tenuta dell’anastomosi (o del patch), la buona pulsatilità dei
vasi a monte e a valle e si procede alla chiusura della ferita chirurgica.
Nel caso in cui questa procedura venga effettuata per aumentare l’efflusso di
un by-pass a destinazione femorale, la branca protesica viene suturata
sull’arteriotomia (Fig. 15).
118
Capitolo 6
Terapia chirurgica endovascolare
Il trattamento endovascolare delle lesioni femoro-poplitee nei claudicanti
mostra più problemi rispetto al trattamento delle lesioni iliache,
principalmente a causa del basso tasso di successo tecnico, del maggior tasso
di complicanze e del più modesto successo a lungo termine. Le lesioni
femoro-poplitee soddisfano meno facilmente i criteri che le rendono
suscettibili al trattamento endovascolare. Le lesioni femoro-poplitee più
adatte al trattamento endovascolare appartengono ai gruppi TASC A e B. Il
trattamento endovascolare delle occlusioni femoro-poplitee può essere
difficile, soprattutto per quelle di recente insorgenza.
La semplice PTA può causare l’embolizzazione distale dei residui trombotici,
evento che può aggravare i sintomi o determinare una condizione di arto a
rischio.
Figura 14: Profundoplastica. Dopo la TEA della femorale profonda,
l’arteriotomia viene chiusa con un patch.
Figura 15: Profundoplastica eseguita prima dell’anastomosi della branca
protesica di un by-pass a partenza addominale.
Malattia femoro-poplitea
119
Persino nelle occlusioni brevi, la PTA può non risultare sufficiente per ottenere un risultato soddisfacente e può essere necessario il posizionamento di
un’endoprotesi. È anche difficile trattare con la sola PTA una stenosi
calcifica eccentrica. La tecnica dello stenting per il trattamento di queste
lesioni è una soluzione possibile anche se con risultati a lungo termine a volte
non ottimali.
Il gruppo di lavoro TASC ha mostrato che, su un totale di 1469 procedure
endovascolari effettuate sul segmento femoro-popliteo, il successo tecnico è
stato ottenuto nel 90% dei casi, le complicanze si sono avute nel 4,3% e la
pervietà a 3 anni è stata del 51%.
I risultati vengono influenzati dal tipo di lesione (stenosi o occlusione) e dalla
qualità del run-off; uno studio ha riportato il 62% di pervietà a 5 anni in
pazienti con stenosi e con un buon run-off, contro il 48% in quelli con
occlusione; in caso di scarso run-off la pervietà è stata del 43% per le stenosi
e del 27% per l’occlusione.
Un altro studio conferma l’importanza del run-off e mostra che dopo angioplastica per lesioni < 5 cm in presenza di due o tre vasi tibiali pervi, il tasso di
pervietà è stato del 78% a 3 anni, contro il 25% in presenza di un solo vaso
tibiale presente.
Importante è anche la lunghezza della lesione: lesioni di lunghezza minore di
5 cm presentano, in varie casistiche, tassi di pervietà ad un anno sempre
superiori al 60%.
Bisogna distinguere le stenosi dalle occlusioni: stenosi di lunghezza inferiore
a 2 cm hanno una percentuale di pervietà primaria a 5 anni del 77%; stenosi
di lunghezza superiore a 5 cm del 54%; occlusioni di lunghezza inferiore a 3
cm presentano una pervietà ad un anno del 93% contro il 50% per le
occlusioni di lunghezza superiore a 3 cm.
Angioplastica percutanea transluminale e sottointimale
L’angioplastica percutanea transluminale prevede, attraverso l’espansione del
pallone da angioplastica all’interno del lume vasle, la rottura della placca
aterosclerotica e lo stiramento della media e dell’avventizia. La procedura
viene eseguita in anestesia locale con monitorizzazione cardiaca e pressoria;
la via d’accesso femorale, mediante cateterismo anterogrado, è la più
utilizzata; vengono impiegati palloni di diametro di 4,5 e 6 mm per il
segmento femoro-popliteo e palloni di 2-3 mm per i vasi distali (Fig. 16).
Una corretta valutazione del diametro del vaso permette di evitare una
sovradilatazione con il conseguente rischio di dissecazione.
La complicanza più frequente è la dissecazione dell’intima. In caso di
dissecazioni maggiori, si dovrebbe eseguire una nuova dilatazione per 4-5
120
Capitolo 6
minuti circa; se la dissecazione persiste è utile inserire uno stent di misura
adeguata.
L’angioplastica sottointimale per il trattamento delle lesioni occlusive femoropoplitee prevede, attraverso un accesso retrogrado controlaterale alla sede della
procedura di angioplastica o anterogrado omolaterale, la formazione di un
canale sottointimale mediante una guida idrofila ed un catetere rigido angolato
5 F; dopo aver superato l’occlusione, la guida viene fatta rientrare nel lume
arterioso vero e, previa eparinizzazione sistemica, viene eseguita la dilatazione
del tratto occluso mediante palloncini di 5 o 6 mm.
I risultati di pervietà sono spesso sovrapponibili a quelli dell’angioplastica
transluminale e mostrano un miglioramento della sintomatologia nel 42,3%
dei pazienti trattati per ischemia critica (Fig. 17).
Per il trattamento transluminale o sottointimale dei vasi sottopoplitei
disponiamo, al momento, solo di risultati riguardanti il successo tecnico e la
pervietà precoce che sfiora il 100%.
Un’opzione particolare di angioplastica prevede l’uso di palloni su cui sono
premontati microtomi chirurgici (cutting balloon). Questa tecnica permette di
trattare stenosi refrattarie, ostiali o restenosi su stent.
Figura 16: Ostruzione breve dell’arteria femorale superficiale che viene
ripermeabilizzata con PTA.
Malattia femoro-poplitea
121
I cutting balloon possono essere anche di ausilio nel trattamento di stenosi su
by-pass in vena o in protesi sintetica.
Stent
Gli stent utilizzati nelle procedure endovascolari possono essere premontati
su pallone o autoespansibili; il limite dei primi, sia nel segmento femoropopliteo che in quello distale è rappresentato dal rischio di deformazione
traumatica o per compressione esterna. L’utilizzo degli stent che può essere
sistematico (primario) o selettivo (secondario, per stenosi refrattarie,
dissecazioni) è molto dibattuto.
L’uso degli stent per le lesioni femoro-poplitee dovrebbe essere limitato ai
casi in cui la PTA, in tutte le sue varianti, non ha ottenuto un risultato
sufficiente (Fig. 18). Questo è vero particolarmente per l’occlusione da
dissecazione. Il libero impiego degli stent non può essere raccomandato. Se il
suo uso è necessario, lo stent deve essere il più corto possibile. Nel
trattamento delle lesioni femoro-poplitee si cominciano ad usare anche gli
stent ricoperti (Fig. 19).
Figura 17: Angioplastica sottointimale. Attraverso un accesso retrogrado
controlaterale alla sede di angioplastica o anterogrado omolaterale, si crea
un canale sottointimale; dopo aver superato l’occlusione, la guida viene
fatta rientrare nel lume arterioso vero e si esegue la dilatazione del tratto
occluso.
122
Capitolo 6
Controllo post-operatorio e follow-up
Il controllo post-operatorio nel trattamento chirurgico tradizionale, è
focalizzato sia al monitoraggio dei principali parametri vitali sia alla verifica
della corretta funzionalità della procedura eseguita.
Figura 18: La PTA della stenosi dell’arteria femorale superficiale ha provocato la dissecazione del vaso; dopo posizionamento di uno stent si è ottenuta
la completa ricanalizzazione del vaso con un buon risultato sia morfologico
che emodinamico.
Figura 19: Posizionamento di endoprotesi in arteria femorale superficiale.
Malattia femoro-poplitea
123
S’imposta un monitoraggio dei parametri ematochimici e della pressione
arteriosa. Data la frequente coesistenza di una cardiopatia ischemica e della
malattia diabetica, si può rendere utile un controllo cardiologico e
diabetologico; infatti l’intervento chirurgico può scompensare l’equilibrio
glicemico e rendere necessario un momentaneo cambiamento della terapia
precedentemente praticata. Nell’immediato post-operatorio il trattamento
anticoagulante per via iniettiva viene preferito a quello antiaggregante per
l’istantanea risposta farmacologia e per un minor rischio di sanguinamento in
caso di reintervento. La scelta tra eparina standard (non frazionata) ed eparina
a basso peso molecolare (frazionata) è controversa; il vantaggio nell’utilizzo
di quella standard è quello di poter monitorizzare in maniera precisa i suoi
effetti sulla coagulazione (PTT).
In caso di procedura endovascolare con impianto di stent a livello femoropopliteo, l’associazione dell’eparina frazionata con l’aspirina sembra offrire
risultati migliori rispetto all’associazione aspirina-clopidrogel e soprattutto
rispetto all’impiego della sola aspirina. Dibattuto è anche l’utilizzo dei
farmaci vasoattivi, soprattutto dei prostanoidi. La profilassi antibiotica varia a
seconda della procedura chirurgica e del materiale protesico utilizzato.
I primi due giorni dopo l’intervento è opportuno il mantenimento di una
posizione clinostatica per evitare l’edema distale post-rivascolarizzazione e
per favorire una più rapida cicatrizzazione delle ferite chirurgiche.
Successivamente, il paziente può riprendere prudentemente la posizione
ortostatica.
Nel caso di procedura endovascolare, l’assunzione di una postura ortostatica
avverrà il giorno successivo alla procedura, dopo la rimozione della medicazione compressiva. La verifica della corretta funzionalità della procedura
chirurgica eseguita viene effettuata mediante controllo clinico, strumentale
(eco-color-Doppler) e con una radiografia diretta del segmento di arto
interessato (se è stato posizionato uno stent) per controllare la posizione e la
corretta espansione dello stent.
Complicanze immediate della chirurgia tradizionale
Le complicanze cardiologiche sono le maggiori responsabili della mortalità
precoce in pazienti sottoposti ad intervento di rivascolarizzazione; a queste
seguono le complicanze respiratorie e renali. È importante una valutazione
preoperatoria attenta e scrupolosa per definire il protocollo diagnostico e
terapeutico da seguire nella prevenzione di queste complicanze.
La monitorizzazione cardiologica postoperatoria può individuare anomalie
fino a quel momento misconosciute e che devono essere corrette o controllate
farmacologicamente.
124
Capitolo 6
Le complicanze respiratorie in pazienti a rischio possono essere evitate mediante fisioterapia preoperatoria, utilizzo di bronco-dilatatori e con la
mobilizzazione precoce del paziente.
La perdita di liquidi se associata ad una situazione preesistente d’insufficienza renale può aggravare quest’ultima e pertanto va scrupolosamente
reintegrata.
La stenosi o la trombosi precoce del by-pass riconoscono come causa precipua l’errore tecnico; situazioni favorenti sono rappresentate dalla trombogenicità del materiale protesico utilizzato, dallo scarso in-flow o out-flow, da
sindromi di ipercoagulabilità. Il controllo angiografico intraoperatorio, quello
Doppler post-operatorio, il monitoraggio emodinamico per evitare
l’ipotensione, una terapia farmacologia anticoagulante appropriata rappresentano utili metodiche di prevenzione.
Un reintervento immediato di correzione chirurgica del difetto tecnico e di
asportazione o dissoluzione farmacologica del trombo trova indicazione in
caso di trombosi del by-pass.
Le infezioni protesiche precoci hanno una stretta correlazione con l’utilizzo di
protesi sintetiche e con una situazione di preesistente infezione o scarse risposte
immunitarie dell’ospite. La virulenza microbiologica si può manifestare per
impianto diretto al momento dell’intervento o attraverso la deiscenza di una
ferita, o per via ematica o linfatica da sorgenti di infezione a distanza.
Le misure preventive comprendono la somministrazione profilattica di antibiotici, un ambiente ed una procedura asettica ed una chiusura a più strati
delle ferite chirurgiche, con particolare attenzione all’inguine. Le opzioni
terapeutiche variano: nel caso di un’infezione limitata si può ricorrere alla
terapia antibiotica e ad un’asportazione dell’intera protesi con sostituzione in
territorio asettico.
L’emorragia perioperatoria e la formazione di ematomi vengono prevenute
intraoperatoriamente con un’attenta dissezione ed un’accurata emostasi
intraoperatoria. In situazioni di fondato rischio di sanguinamento postoperatorio, l’utilizzo di un drenaggio nella sede più declive dell’incisione evita un
ematoma, che può compromettere la funzionalità del by-pass, e consente di
monitorizzare le perdite ematiche.
La preservazione del tessuto linfatico riduce al minimo l’edema post-rivascolarizzazione e l’insorgenza del linfocele o della fistola linfatica che, anche
se poco temuti da un punto di vista generale, possono comportare
un’infezione della ferita o della protesi. Un’accurata legatura dei linfatici
durante la fase di preparazione ed un’adeguata sutura in più strati della ferita
chirurgica possono limitarne fortemente l’insorgenza. Una linforragia di
scarsa entità può essere trattata in maniera conservativa, vista la propensione
al riassorbimento.
Malattia femoro-poplitea
125
Complicanze immediate della chirurgia endovascolare
Le complicanze che possono insorgere in seguito ad una procedura
endovascolare vengono distinte in quelle che si verificano nella sede della
puntura, nella sede della dilatazione, a distanza e quelle generali legate alla
somministrazione di mezzo di contrasto.
Le maggiori complicanze nella sede d’introduzione del catetere sono
l’ematoma, lo pseudoaneurisma, la fistola artero-venosa, la trombosi.
Raramente gli ematomi costringono ad un intervento chirurgico (0,5-2%)
poiché vanno incontro a riassorbimento spontaneo; in presenza di pseudoaneurismi (1%), una compressione eco-guidata può comportare una
risoluzione; l’uso dei sistemi di occlusione percutanei può prevenire queste
complicanze.
La trombosi dell’arteria a valle in corso di cateterismo ha un’incidenza
dell’1% ed è solitamente conseguenza delle grandi dimensioni del catetere
rispetto a quelle dell’arteria incannulata.
La più comune complicanza nella sede della dilatazione è rappresentata
dall’occlusione acuta che si verifica nel 4-7% dei casi ed è correlata ad una
trombosi o ad una dissecazione.
In caso di trombosi le opzioni terapeutiche sono l’infusione intra-arteriosa di
un fibrinolitico o la tromboaspirazione percutanea. Solo eccezionalmente si
può procedere, con particolare cautela, ad un’embolectomia aperta con
catetere di Fogarty.
Dopo la perforazione con la guida o con il catetere, nella maggior parte dei
casi non si verificano conseguenze cliniche. Tuttavia, in caso di spandimento
ematico particolarmente importante può essere utile il posizionamento di uno
stent ricoperto.
Le complicanze dell’insufflazione del pallone da dilatazione comprendono la
dissecazione arteriosa e la rottura; nel primo caso, il meccanismo di
dilatazione può comportare la formazione di flap intimali che possono essere
trattati con una nuova dilatazione associata all’applicazione di uno stent per
ottenerne l’adesione sulla parete arteriosa.
La rottura arteriosa è molto rara, ma quando si verifica è utile mantenere in
situ un palloncino gonfiato in modo da ottenere una momentanea emostasi in
attesa di procedure chirurgiche.
Nel caso di embolizzazione a distanza (1%), vi sono diverse procedure
eseguibili; la tromboaspirazione consiste nel posizionamento di un catetere in
prossimità dell’embolo che viene aspirato; un’altra metodica è la cosiddetta
“push and park” che consiste nello spingere l’embolo in un vaso non
dominante; infine l’embolo può essere modellato sulla parete arteriosa
mediante un pallone da angioplastica.
126
Capitolo 6
Complicanze tardive della chirurgia tradizionale
Il follow-up delle rivascolarizzazioni femoro-distali ha lo scopo di diagnosticare la comparsa di complicanze steno-ostruttive che possano minare la
funzionalità del by-pass favorendo l’insorgenza di un nuovo stato di ischemia
dell’arto; infatti, tali complicanze spesso si sviluppano in maniera
asintomatica e determinano un’improvvisa occlusione del by-pass. Meno
frequenti sono le complicanze aneurismatiche che possono svilupparsi in
sede anastomotica o le complicanze infettive lungo il decorso di protesi non
biologiche.
Le lesioni steno-ostruttive che possono svilupparsi nella storia di un by-pass
femoro-distale possono interessare le arterie a monte ed a valle del by-pass
(patologia determinata dall’evoluzione della malattia aterosclerotica), il
decorso o le anastomosi del by-pass. Poiché risulta difficile poter
diagnosticare tali complicanze con una semplice valutazione clinica, il
follow-up di una rivascolarizzazione d’arto mediante by-pass deve essere
condotto con una valutazione clinico-strumentale che permetta di definire
adeguatamente il circolo a monte ed a valle del by-pass nonché l’anastomosi
prossimale, la protesi e l’anastomosi distale. A tale fine, attualmente, viene
utilizzato come prima scelta l’eco-color-Doppler; tale metodica permette di
studiare adeguatamente, in maniera incruenta, ambulatorialmente ed a basso
costo sia i by-pass con decorso sottocutaneo che quelli che decorrono in sede
anatomica.
Nei by-pass confezionati con vena autologa la complicanza più frequente è
quella steno-ostruttiva. Una lesione stenosante interessa il 15-37% dei by-pass
e si può sviluppare in sede di anastomosi (20%) o lungo il decorso del by-pass
(60-65%). La stenosi anastomotica è generalmente determinata da un’iperplasia
miointimale; istologicamente questa è caratterizzata da una proliferazione di
cellule muscolari lisce e da deposizione di matrice connettivale.
La stenosi che si sviluppa lungo il decorso della protesi coinvolge generalmente le strutture valvolari ed ha la stessa composizione istologica di quella
anastomotica.
Nel 65-75% dei casi l’iperplasia miointimale si sviluppa nei primi 6-12 mesi
mostrando una particolare aggressività nei primi 3-6 mesi post-operatori.
Dovunque essa insorga, può essere causa di un fallimento tardivo del by-pass
ovvero di una trombosi; l’incidenza di tale complicanza, ad un follow-up
medio di 5 anni, varia tra il 25% ed il 70%.
La sintomatologia di una stenosi emodinamicamente significativa sviluppatasi lungo il decorso del by-pass o nelle arterie native poste a monte o a valle
varia in rapporto al quadro clinico pre-rivascolarizzazione. Nei pazienti
sottoposti a rivascolarizzazione dell’arto per ischemia critica, la stenosi
Malattia femoro-poplitea
127
determina la ricomparsa di una sintomatologia ischemica (dolore a riposo,
lesioni trofiche); al contrario, nei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione per
una lesione trofica di origine traumatica o infettiva ed affetti da una
arteriopatia steno-ostruttiva periferica silente (spesso si tratta di pazienti
diabetici) la stenosi può risultare completamente asintomatica e può
lentamente evolvere verso una trombosi del by-pass. Quest’ultimo gruppo di
pazienti giustifica a pieno l’uso routinario dell’eco-color-Doppler nel followup dei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione; con tale metodica si possono
diagnosticare precocemente e seguire nel tempo stenosi non emodinamiche,
smascherare stenosi emodinamiche clinicamente asintomatiche o
diagnosticare stenosi sintomatiche.
L’eco-color-Doppler permette una valutazione morfologica ed emodinamica
del by-pass. Attraverso la valutazione morfologica possiamo definire presenza ed entità di una stenosi, attraverso la valutazione emodinamica possiamo definire le alterazioni di flusso che essa determina.
Il trattamento della stenosi in pazienti portatori di by-pass viene proposto,
generalmente, in presenza di lesioni che determinano alterazioni emodinamiche ovvero una riduzione del lume del vaso superiore al 70%.
Riguardo la frequenza con cui effettuare il controllo eco-color-Doppler di un
by-pass in vena autologa vi è discussione in Letteratura. Alcuni Autori
sostengono che i by-pass in vena vadano seguiti assiduamente per i primi 6
mesi (6 settimane, 3 mesi e 6 mesi) e che la frequenza dei controlli successivi
vada programmata in rapporto al risultato del primo semestre; secondo tale
metodo di sorveglianza i pazienti che non presentano lesioni stenosanti nei
primi sei mesi non hanno necessità di effettuare controlli successivi, mentre i
by-pass con sviluppo di stenosi devono essere sottoposti a controlli
ravvicinati per 6 mesi; in questi ultimi casi se la lesione resta stabile si
programmano controlli annuali, se tende ad evolvere se ne programma il
trattamento. Altri autori sostengono un approccio diverso al follow-up dei bypass in vena. A loro parere il periodo di maggior sorveglianza dei by-pass
deve essere esteso ai primi 12 mesi e per i due anni successivi è necessario, in
assenza di lesioni stenosanti, effettuare controlli semestrali al termine dei
quali, se non si apprezzano patologie stenosanti, si programmano controlli
annuali a vita. Il razionale della sorveglianza clinico-strumentale annuale ed a
vita è dato dal rischio annuo di stenosi di un by-pass in vena che oscilla tra il
2% ed il 4%. Se nel follow-up clinico-eco-Doppler si riscontra una stenosi
del by-pass con rischio basso o medio di trombosi, gli autori ritengono che
l’intervallo tra i controlli debba essere modificato riducendolo a 2-3 mesi.
Per comprendere l’importanza della sorveglianza dei by-pass in vena è
sufficiente sottolineare i risultati ottenuti in uno studio di confronto tra
pervietà primaria assistita dei by-pass sottoposti a controllo clinico e a
128
Capitolo 6
controllo clinico-eco-Doppler o i risultati pubblicati riguardo il confronto tra
pervietà secondaria dei by-pass sottoposti a controllo clinico e quelli
sottoposti a controllo clinico-eco-Doppler. In entrambi gli studi i by-pass
controllati con eco-color-Doppler hanno mostrato dal 15 al 25% di pervietà in
più rispetto ai by-pass sottoposti a semplice controllo clinico; ovviamente a
tale incremento di pervietà corrisponde un incremento della percentuale di
salvataggio d’arto. Pertanto la sorveglianza eco-color-Doppler di un by-pass
in vena previene la trombosi e garantisce il salvataggio dell’arto sottoposto a
rivascolarizzazione. Entrambi questi aspetti sono particolarmente importanti
nei by-pass con anastomosi distale su arterie della caviglia e del piede ovvero
in by-pass estremi in cui il fallimento, spesso, non permette una
distalizzazione del by-pass.
Anche nei by-pass confezionati con protesi sintetiche la complicanza
più frequente è la lesione steno-ostruttiva. Infrequente è la complicanza
infettiva che generalmente si sviluppa in pazienti con lesioni trofiche
periferiche ed ipertrofia dei linfonodi inguinali o nei pazienti che
presentano una complicanza (deiscenza, infezione, linforragia) delle
ferite chirurgiche.
A differenza dei by-pass in vena autologa, l’incidenza della complicanza
stenosante (stenosi anastomotica prossimale e/o distale + stenosi lungo il
decorso del by-pass) è bassa. Essa risulta, infatti, inferiore all’8% e si
sviluppa generalmente in sede di anastomosi distale. Uno studio non ha
mostrato differenze significative nella percentuale di pervietà primaria
assistita tra by-pass controllati clinicamente e by-pass controllati anche
con eco-color-Doppler. Ciò induce ad affermare, al contrario di quello
che si sostiene per i by-pass in vena autologa, che il follow-up eco-colorDoppler dei by-pass femoro-distali in protesi sintetica è inefficace
nell’incrementare la pervietà primaria assistita e, quindi, che il suo costo
è ingiustificato.
In presenza di una stenosi di grado severo o di una stenosi di media entità
lungo il decorso di un by-pass in vena, di una stenosi emodinamica in
sede di anastomosi prossimale e/o distale o di lesioni steno-ostruttive
severe delle arterie native a monte ed a valle del by-pass è necessario un
approccio terapeutico aggressivo. La scelta del trattamento
(endovascolare o chirurgico) varia in rapporto all’estensione della lesione
ed alla sua causa. Le lesioni segmentarie di origine aterosclerotica lungo
le arterie native (sia a monte che a valle), da iperplasia miointimale in
sede anastomotica o lungo il decorso del by-pass o da ipertrofia di
strutture valvolari lungo il decorso del by-pass in vena devono essere
trattate per via endovascolare mentre le lesioni estese necessitano di
terapia chirurgica (by-pass o angioplastica chirurgica).
Malattia femoro-poplitea
129
Complicanze tardive del trattamento endovascolare
Il tasso di fallimento tardivo delle procedure endovascolari non è trascurabile
ed è essenzialmente caratterizzato dalla restenosi e dalla trombosi.
Le stenosi e le occlusioni arteriose femoro-poplitee sono più comuni rispetto
a quelle iliache. Sono lesioni tipicamente lunghe, multiple ed ulcerate. Il
successo tecnico in tale distretto è del 90% nel trattamento delle stenosi e
varia dall’80 al 93% per le occlusioni lunghe. Tuttavia l’elevato tasso di
restenosi (fino al 78% dopo un anno) ed i risultati contrastanti riportati in
letteratura lasciano aperto il dibattito sulla validità di tale trattamento.
In considerazione dell’alto tasso di restenosi che grava sulle procedure
endovascolari per il trattamento delle arteriopatie periferiche, è raccomandabile eseguire un attento follow-up clinico e con eco-color-Doppler
a scadenza regolare. I protocolli più seguiti propongono un primo
controllo ad un mese e poi a 3, 6, 12 mesi e con successiva scadenza
semestrale, riservando l’utilizzo dell’arteriografia nei casi di evidenza
ecografica di restenosi.
130
Capitolo 6
Letture consigliate
D’Addato M., Bracale G.C., Odero A., Spartera C, Stella A: Il follow-up in
Chirurgia Vascolare Edizioni Minerva Medica, Torino 1998
D’Amico D.F., Manuale di chirurgia McGRAW-HILL, 2000
Dionigi R., Chirurgia, basi teoriche e chirurgia generale Masson, 2002
Vol I e II
Enciclopedie Medico-Chirurgicale: Angeiologie Editions Scientifiques ed
Medicales Elsevier SAS Parigi
Enciclopedie Medico-Chirurgicale: Tecniche
Vascolare SAS Roma-Parigi, Vol. I e II
Chirurgiche-Chirurgia
Hallett J.W.: Compendio di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare
Elselvier 2005
Lambertini G., Mezzogiorno V.: Anatomia dell’uomo Piccin, 1985 Vol I
Moore Wesley S.: Compendio di Chirurgia Vascolare Antonio Delfino
Editore, 2000
Pratesi C., Pulli R. Arteriopatie obliteranti femoro-poplitee Edizioni
Minerva Medica, Torino 2002
Rabbia C., Matricardi L.: Eco-color-doppler vascolare Edizioni Minerva
Medica, 2005
Rutherford Robert B.: Atlante di chirurgia vascolare, Verducci Editore
Rutherford Robert B.: Chirurgia Vascolare Antonio Delfino Editore, 1998
Vol. I e II
Schneider Peter A.: Endovascular Skills Marcel Dekker, Inc.
Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare: Chirurgia
Vascolare: patologia, diagnosi e trattamento delle malattie vascolari di
interesse chirurgico Edizioni Minerva Medica, Torino 2001
Spartera C.: Chirurgia delle arterie Masson Editore, 2005
131
132
QUADERNI DI CHIRURGIA VASCOLARE
(di prossima pubblicazione)
5. Insufficienza cerebro-vascolare
Finito di stampare nel mese di settembre del 
dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»
 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 
per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma