Dirigersi verso Cristo Il programma di Giovanni Paolo II nella sua

Dirigersi verso Cristo
Il programma di Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica
L’enciclica Redemptor hominis – 4.III.1979
José Maria Galván
Sommario:
1. La fede come principio programma tico ..................................................................................1
2. Un filo lungo venti secoli............................................................................................................3
3. Un testo di riferimento centrale e un compito preciso........................................................5
4. Primo binomio: la Chiesa fondata sul mistero di Cristo.......................................................7
5. Secondo binomio: Cristo, l’Uomo definitivo ...........................................................................7
a. L’uomo creato a immagine di Dio in Cristo........................................................................7
b. Creazione e redenzione .........................................................................................................8
c. Redenzione e peccato: la creazione sottomessa a caducità.........................................9
d. Peccato e redenzione ...........................................................................................................11
6. Terzo binomio: l’uomo, prima e fondamentale via della Chiesa.....................................12
Bibliografia 15
1. La fede come principio program matico
La pubblicazione della prima enciclica di Giovanni Paolo II provocò un
vero terremoto ermeneutico. Non si era abituati a un Magistero pontificio di
stile discorsivo e articolato, fondato sulle fonti del sapere teologico, vicino
alle questioni specifiche della cultura contemporanea, ma espresso con un
linguaggio che potrebbe procedere da qualsiasi ambito colto o accademico
contemporaneo. Non si vuole togliere con questo nessun valore al Magistero
precedente, al quale lo stesso Papa si rifà in maniera consistente, come vedremo più avanti; ma è palese un cambiamento di stile che forse ha come
motivazione di fondo il bisogno pastorale di produrre un impatto positivo anche al di fuori dell’ambito della Chiesa.
Il magistero successivo di Giovanni Paolo II ha seguito quasi sempre questa linea, in maniera tale che in poco tempo questo stile ci è divenut o
familiare . Per questo motivo la rilettura della Redemptor hominis (=RH) a
conclusione del venticinquesimo anniversario del pontificato non desta
più, da questo punto di vista, lo stupore di allora. Continua, invece, ad essere vivissima un’altra sensazione, resistente al trascorso del tempo, che mi
pare costituisca una delle caratteristiche fondamentali del documento: si
tratta della viva impressione di trovarci davanti ad uno scritto personalissimo, che lascia intravedere con singolare forza e trasparenza l’esperienza vitale del suo autore. Non è tanto il primo “documento ufficiale” di un pontifi-
cato, ma una vera e propria lettera in cui il cuore credente e paterno del Romano Pontefice si apre e si svela ai figli della Chiesa, non per questo rinunciando alla profondità del pensiero. Il 23 marzo 1979 commentava Jean Galot su “L’Osservatore Romano”: “Il Papa ha voluto esprimere essenzialmente
la sua fede, più precisamente la fede implicata nell’accettazione della sua
elezione al pontificato. Non si tratta di una fede teorica, esposta in un modo
puramente dottrinale, ma di una fede che scaturisce dalla profonda esperienza di colui che riflette sulla nuova missione che gli è stata affidata dalla
Chiesa”.
La fede è innanzitutto incontro personale con Cristo, ed insieme abbandono e docilità alla sua grazia. Forse l’accettazione consapevole della sua
missione, che si trova all’inizio di un pontificato, costituisce una delle maggiori richieste di fede che possiamo immaginare. Se ci mettessimo per un attimo nei panni di colui che è stato scelto per ricevere il fardello del ministero
di Pietro, sentiremmo le vertigini che implica accettare che la propria persona stia per ricevere le grazie che fanno di un semplice uomo il Successore di
Pietro, il Vicario di Cristo sulla terra. Per questo, non sorprendono le prime
parole del pontificato, che Giovanni Paolo II ha voluto trasmettere a tutta la
Chiesa nelle prime battute dell’enciclica: “A Cristo Redentore ho elevato i
miei sentimenti e pensieri il 16 ottobre dello scorso anno, allorché, dopo l'elezione canonica, fu a me rivolta la domanda: ‘Accetti?’. Risposi allora: ‘Obbedendo nella fede a Cristo, mio Signore, confidando nella Madre di Cristo e
della Chiesa, nonostante le così grandi difficoltà, io accetto’. Quella mia risposta voglio oggi render nota pubblicamente a tutti, senza alcuna eccezione, manifestando così che alla prima e fondamentale verità dell'Incarnazione, già ricordata, è legato il ministero che, con l’accettazione dell’elezione a
Vescovo di Roma ed a Successore dell’apostolo Pietro, è divenuto specifico
mio dovere nella stessa sua Cattedra” (n. 2).
Il cristocentrismo del Papa, per tanto, non è una questione intellettuale o
un principio guida per un sistema teologico. Per Giovanni Paolo II, Gesù è
una necessità imperiosa, e davanti al sorgere dell’umano domandarsi, che
ricorda la richiesta di Maria sul concreto da farsi nell’Annunciazione 1, la
sua risposta non ammette dubbi. “È proprio qui, carissimi Fratelli, Figli e Figlie, che s’impone una risposta fondamentale ed essenziale, e cioè: l’unico
orientamento dello spirito, l’unico indirizzo dell’intelletto, della volontà e del
cuore è per noi questo: verso Cristo, Redentore dell’uomo; verso Cristo, Redentore del mondo. A Lui vogliamo guardare, perché solo in Lui, Figlio di Dio,
c’è salvezza, rinnovando l’affermazione di Pietro: ‘Signore, a chi andremo?
Tu hai parole di vita eterna (Gv 6, 68)’ (n. 7).
Questa frase di san Pietro sarà presente sempre nel cuore del successore di Pietro, e su di essa tante volte fonderà la sua richiesta di fede e di speranza all’umanità. Risulta specialmente commovente, rileggendo questo testo dell’inizio del pontificato, ricordare l’incontro della Giornata Mondiale della Gioventù nel Giubileo del 2000, e la forza con cui il Papa, usando lo stesso
testo, faceva notare ai giovani che qualsiasi altra parola non è esent e da
delusione : solo Lui ha parole di vita eterna! Ma l’accettazione di Gesù di
Nazareth come il solo che ha parole di vita eterna comporta l’affermazione
1 “ Come? In che modo occorre proseguire? Che cosa occorre fare, affinché questo nuovo Avvento della Chiesa, congiunto con l'ormai prossima fine del secondo Millennio, ci avvicini a Colui che la Sacra Scrittura chiama: “Padre per sempre”, Pater futuri saeculi?” (n. 7).
2
di fede del mistero dell’Incarnazione: Lui è il Verbo eterno del Padre che si è
fatto uomo, con il quale possiamo essere in comunione vitale, perché abbiamo anche ricevuto il suo Spirito. Il cristocentrismo esistenziale di Giovanni Paolo II è teocentrismo nella fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, che
svilupper à in seguito, completando il ciclo delle sue encicliche trinitarie. Al
contenuto di questa fede trinitaria si perviene tramite la Sacra Scrittura, ricevuta e ascoltata nella Chiesa.
2. Un filo lungo venti secoli
Per questo motivo la confessione della centralità del mistero della redenzione viene preceduta nell’enciclica da una prima parte intitola t a Eredità .
La fede è donata e ricevuta in forma di eredità: viene tramandata dalla stessa costituzione della Chiesa, formando per questo una sacra e viva Tradizione che ha come contenuto centrale la verità duale della nostra redenzione
operata dal Verbo incarnato. Verità duale perché affermare la nostra salvezza in Cristo richiede affermare la fede trinitaria secondo la quale il Figlio e lo
Spirito Santo, che sono con il Padre l’unico Dio, vengono da Costui inviati
nella storia per la nostra salvezza, propter nos homines et propt e r nostram
salutem ; ma nello stesso tempo la rivelazione di questo mistero è avvenuta
soltanto tramite la vicenda storica di Gesù di Nazareth. Fede cristologica e
fede trinitaria hanno un’unica e indissolubile valenza religiosa per il credente: entrambe si richiamano a vicenda e sono comple m e n t a ri , con una
priorità storica della fede cristologica (è Gesù che ha rivelato la Trinità) ed
una priorità ontologica della fede trinitaria che si manifesta nel ruolo nessuale dello Spirito Santo: in Lui confessiamo la divinità del Cristo.
È palese la profonda fede calcedoniana 2 di Giovanni Paolo II, che trova le
sue radici nella Sacra Scrittura, specialmente nel Vangelo di Giovanni3. Questa fede nell’Incarnazione non perde mai la sua connessione con la realtà
della salvezza dell’uomo, tanto da poter dire che la RH propone un’unità radicale dei concetti di incarnazione e redenzione, molto presente nell'insegnamento posteriore del Pontefice 4.
2 Dal Concilio di Calcedonia, del 451, in cui, di fronte alle eresia nestoriana e monofisita,
si confessa la fede cattolica secondo la quale nell 'unica Persona del Verbo, seconda della
Santissima Trinità, si dà l'unione (detta “ipostatica ” dal termine “ipostasis”, usato tecnica mente per designare una Persona divina) della natura divina e della natura umana, in maniera che entrambe rimangono indissolubilmente e inseparabilmente unite, ma rimanendo
per sempre non confuse e immutabili nelle loro proprietà (l'unione non produce una “natura
intermedia” teandrica).
3 Così, nell'annuncio della prossimità del Nuovo Millennio: “Ci stiamo ormai avvicinando
a tale data che – pur rispettando tutte le correzioni dovute all'esattezza cronologica – ci ricorderà e in modo particolare rinnoverà la consapevolezza della verità- chiave della fede,
espressa da San Giovanni agli inizi del suo Vangelo: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14)” (n. 1).
4 Serva come esempio questo testo di una catechesi del mercoledì: “Il Simbolo Apostolico proclama: 'Credo in Gesù Cristo, suo unico Figlio'. Il simbolo niceno- costantinopolitano,
dopo aver definito con precisione ancora maggiore la divina origine di Gesù Cristo come Figlio di Dio, prosegue dichiarando che questo Figlio di Dio 'per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e ... si è incarnato'. Come si vede, il nucleo centrale della fede cristiana è costituito dalla duplice verità che Gesù Cristo è Figlio di Dio e figlio dell'uomo (la verità)
ed è la realizzazione della salvezza dell'uomo, che Dio Padre ha compiuto in Lui, Figlio suo e
Salvatore del mondo (la verità soteriologica)”, Udienza generale del 14.01.1987, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X,1 (1987) p. 105.
3
La grande eredità di questo Papa è, per tanto, il mistero dell'incarnazione- redenzione. Tramite questo mistero, Giovanni Paolo II si sente intimamente collegato a Pietro e a tutti i suoi successori nella Sede di Roma: in
fondo, la vita della Chiesa lungo i secoli non è che il dispiegarsi temporale
dell’opera di Cristo sotto l’azione dello Spirito Santo: io sarò con voi sino alla
fine dei tempi , aveva promesso. Ed è proprio per questo che il nuovo Papa
ha scelto il suo nome: non tanto per una semplice continuità “mediatica ”
con i tre pontificati precedenti, quanto per affermare il suo inserimento
come nuova tappa in una storia mossa dallo Spirito.
“ Attraverso questi due nomi e due pontificati mi riallaccio a tutta la tradizione di questa Sede Apostolica, con tutti i Predecessori nell’arco del ventesimo secolo e dei secoli precedenti, collegandomi via via, secondo le diverse
età fino alle più remote, a quella linea della missione e del ministero, che
conferisce alla Sede di Pietro un posto del tutto particolare nella Chiesa. Giovanni XXIII e Paolo VI costituiscono una tappa, alla quale desidero riferirmi
direttamente come a soglia, dalla quale intendo, in qualche modo insieme
con Giovanni Paolo I, proseguire verso l’avvenire, lasciandomi guidare dalla
fiducia illimitata e dall’obbedienza allo Spirito, che Cristo ha promesso ed inviato alla sua Chiesa. Egli diceva, infatti, agli Apostoli alla vigilia della sua
passione: ‘È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado,
non verrà a voi il Consolatore; ma, quando me ne sarò andato, ve lo manderò’ (Gv 16,7). ‘Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo
Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio’ (Gv 15,26s). ‘Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla
verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito
e vi annunzierà le cose future’ (Gv 16,13)” (n. 2).
Il suo pontificato non può non cominciare, per tanto, se non fondandosi
sulla fiducia nello Spirito di Verità e di Amore, al quale viene affidata la nuova tappa della Chiesa (cf. n. 3).
Specialmente forte è il legame con Paolo VI, al quale riconosce una profonda acutezza nella comprensione e nella testimonianza della coscienza
della Chiesa contemporanea, unita ad un sincero amore filiale per essa, che
costituisce la fonte di tale capacità di penetrazione. Anche Paolo VI aveva
scritto un’enciclica, per così dire, “programmatica ”, la Ecclesiam suam , del
1964; e Giovanni Paolo II si rifà ad essa un po’ come falsariga del suo com pito pastorale e come punto di partenza, dal quale avanzare nel suo Magistero. In un certo senso, al binomio incarnazione- redenzione, confessato nella fiducia riposta nella Terza Persona, si aggiunge adesso, in riferimento a
Paolo VI, una profonda dimensione ecclesiale della fede, che si manifesta
anche come apertura a tutti gli uomini, chiamati alla comunione eterna con
la Trinità.
“ Proprio per tale ragione, la coscienza della Chiesa deve esser congiunta
con un’apertura universale, affinché tutti possano trovare in essa ‘le imperscrutabili ricchezze di Cristo’ (Ef 3,8), di cui parla l’Apostolo delle genti. Tale
apertura, organicamente unita con la coscienza della propria natura, con la
certezza della propria verità, di cui disse Cristo: ‘La mia parola non è mia,
ma del Padre che mi ha mandato’ (Gv 14,24), determina il dinamismo apostolico, cioè missionario, della Chiesa, la quale professa e proclama integralmente tutta quanta la verità trasmessa da Cristo. Essa deve, in pari tempo,
4
condurre quel dialogo che Paolo VI nella sua enciclica Ecclesiam suam chia mò ‘dialogo della salvezza’, differenziando con precisione i singoli cerchi,
nell’ambito dei quali esso dovrebbe esser condotto. Mentre oggi mi riferisco
a questo documento programmatico del pontificato di Paolo VI, non cesso di
ringraziare Dio, perché questo mio grande Predecessore e insieme vero padre, ha saputo – nonostante le diverse debolezze interne, di cui la Chiesa nel
periodo postconciliare ha sofferto – manifestarne ‘ad extra’ , ‘al di fuori’, l'autentico volto” (n. 4).
3. Un testo di riferimento centrale e un compito preciso
Pietra miliare di questa storia di salvezza è il Concilio Vaticano II, del
quale Giovanni Paolo II si sente, proprio per la sua unità con i pontificati precedenti, specialmente debitore. Per questo, nel suo documento programma tico, si rivolge frequentemente alla dottrina conciliare come modo adegua to per riallacciarsi all’eredità ricevuta. Ed è proprio nel portare a compi mento l’opera del Concilio che vede il suo compito di guida della Chiesa per
il trat t o del cammino storico affida t o gli.
Prima di affrontare l’analisi del contenuto del corpo della RH, è necessario indicare un punto di riferimento che sembra essere la chiave di volta dell'enciclica. Si tratta di un testo del Vaticano II, il numero 22 della Costituzione
Pastorale Gaudium et spes, che divent e r à , insieme a Gaudium et spes 24,
la citazione statisticamente più frequente del Magistero di Giovanni Paolo II.
Esso viene citato integralmente in RH 8: “Il Concilio Vaticano II, nella sua
penetrante analisi ‘del mondo contemporaneo’, perveniva a quel punto che
è il più importante del mondo visibile, l’uomo, scendendo – come Cristo – nel
profondo delle coscienze umane, toccando il mistero interiore dell’uomo,
che nel linguaggio biblico (ed anche non biblico) si esprime con la parola
‘cuore’. Cristo, Redentore del mondo, è Colui che è penetrato, in modo unico
e irrepetibile, nel mistero dell’uomo ed è entrato nel suo ‘cuore’. Giustamente, quindi, il Concilio Vaticano II insegna: ‘In realtà, solamente nel mistero
del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il
primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5, 14), e cioè di Cristo Signore.
Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo
Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione’. E poi ancora: ‘Egli è l’immagine dell’invisibile Iddio (Col 1,
15). Egli è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza
con Dio, già resa deforme fin dal primo peccato. Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa
è stata anche a nostro beneficio innalzata a una dignità sublime. Con la sua
incarnazione, infatti, il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni
uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel
peccato’ (Gaudium et spes, 22). Egli, il Redentore dell’uomo! ” (n. 8).
Questo “stupendo testo conciliare” (n. 9) costituisce senza dubbio il cuore della RH, e diventerà col tempo sempre più uno dei punti focali di tutto il
pontificato. Il testo include, a sua volta, due verità centrali: in primo luogo,
“Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del
suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”; in secondo luogo, “con la sua incarnazione, infatti, il Fi5
glio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Come si vede, Giovanni Paolo II fonda il suo cristocentrismo su questa duplice base. Mette in
primo luogo in luce la “dimensione divina del mistero della redenzione”,
quale elargizione d’amore che raggiunge l’uomo proveniente dal Padre, per
il Figlio, nella comunione dello Spirito Santo. Tutto ciò è manifest a t o da
Gesù di Nazareth, specie dalla sua Croce sul Calvario, segno dell’Amore più
forte della morte.
“ Il Dio della creazione si rivela come Dio della redenzione, come Dio ‘fedele a se stesso’ (1 Ts 5,24), fedele al suo amore verso l’uomo e verso il
mondo, già rivelato nel giorno della creazione. E il suo è amore che non indietreggia davanti a nulla di ciò che in lui stesso esige la giustizia. E per questo il Figlio ‘che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in
nostro favore’ (2 Cor 5,21). Se ‘trattò da peccato’ Colui che era assolutamente senza alcun peccato, lo fece per rivelare l’amore che è sempre più
grande di tutto il creato, l’amore che è Lui stesso, perché ‘Dio è amore’
(1 Gv 4,8.16). E soprattutto l’amore è più grande del peccato, della debolezza, della ‘caducità del creato’ (Rm 8,20), più forte della morte; è amore sempre pronto a sollevare e a perdonare, sempre pronto ad andare incontro al
figliol prodigo (cf. Lc 15,11- 32), sempre alla ricerca della ‘rivelazione dei figli
di Dio’ (Rm 8,19), che sono chiamati alla gloria futura (cf. Rm 8,18). Questa
rivelazione dell’amore viene anche definita misericordia, e tale rivelazione
dell’amore e della misericordia ha nella storia dell’uomo una forma e un
nome: si chiama Gesù Cristo” (n. 9).
Come conseguenza di questa dimensione divina, e per la stessa affermazione di fede nell’incarnazione, la redenzione manifesta anche la sua dimensione umana: la Croce del Calvario non soltanto svela il vero volto del Padre,
ma diventa anche la chiave ultima del mistero dell’uomo. “L’uomo che vuol
comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere – deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve,
per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve ‘appropriarsi’ ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se
stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti
non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se
stesso. Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del Creatore se
‘ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore’ (Exsultet della ve glia pasquale), se ‘Dio ha dato il suo Figlio’, affinché egli, l’uomo, ‘non muoia, ma abbia la vita eterna’ (Gv 3,16)” (n. 10).
A questo punto Giovanni Paolo II assume in pienezza il significato ampio
del mistero dell’incarnazione che Gaudium et spes 22 manifesta (“Cristo si è
unito a ogni uomo”); questo allargamento del significato del mistero sarà
un’altra costante dell’insegnamento del Papa, che nella Dominum et vivifi cantem 50 arriverà a sottolineare la dimensione cosmica dell’Incarnazione,
già contenuta nella prima affermazione della RH: “Gesù Cristo è centro del
cosmo e della storia” (n. 1). Il compito del nuovo pontificato è definitivamen te determinato: “Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e,
in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell’uomo, di indirizzare la coscienza e l’esperienza di tutta l’umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Re6
denzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca anche
la più profonda sfera dell’uomo, la sfera – intendiamo – dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane” (n. 10).
In base a questo, possiamo dire che il resto dell’enciclica si dispiega
come la sequenza delle reciproche interazioni di tre binomi fondamentali: in
primo luogo il binomio Cristo- Chiesa (seconda parte dell’enciclica, “Il mistero
della redenzione”), dal quale si passa attraverso il binomio Cristo- uomo (ter za parte, “L’uomo redento e la sua situazione nel mondo contemporaneo”),
per arrivare al binomio Chiesa- uomo (quarta e ultima parte, “La missione
della Chiesa e la sorte dell’uomo ”). Questi tre binomi, dovuti all’acutezza
analitica del teologo brasiliano Tarcisio Nascentes dos Santos, manifestano
molto adeguatamente sia la linea argomentale della RH, sia la circolarità,
tante volte sottolineata, del pensiero di Giovanni Paolo II, del ritorno al nucleo tematico del discorso. Tratterò brevemente il primo e il terzo, che saranno oggetto di gran parte del magistero posteriore del Papa, per parlare
un po’ più in profondità del secondo, che ritengo il vero punto di forza della
RH.
4. Primo binomio: la Chiesa fondata sul mistero di Cristo
La Chiesa vive la sua missione perché “è, in Cristo, in qualche modo il
sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium 1). Questo testo del Vatica no II ci ricorda che il principio e il fondamento della vita e della missione della Chiesa è il mistero dell’incarnazione- redenzione, nel senso con cui – come
si è visto – Giovanni Paolo II ha intrapreso il suo ministero.
Questa ecclesiologia cristocentrica, una delle costanti del magistero del
papa, viene presentata, in forma concentrata e con forte sostegno biblico,
nella sua prima enciclica: “Attraverso la coscienza della Chiesa, tanto sviluppata dal Concilio, attraverso tutti i gradi di questa coscienza, attraverso tutti
i campi di attività in cui la Chiesa si esprime, si ritrova e si conferma, dobbiamo costantemente tendere a Colui ‘che è il capo’ (cf. Ef 1,10.22; 4,25; Col
1,18), a Colui ‘in virtù del quale esistono tutte le cose e noi siamo per lui’
(1 Cor 8,6; cf. Col 1,17), a Colui il quale è insieme ‘la via, la verità’ (Gv 14,6)
e ‘la risurrezione e la vita’ (Gv 11,25), a Colui vedendo il quale vediamo il
Padre (cf. Gv 11,25), a Colui che doveva partirsene da noi (cf. Gv 16,7)
– s’intende per la morte sulla Croce e poi per l’Ascensione al Cielo – affinché
il Consolatore venisse a noi e continuamente venga come Spirito di verità
(cf. Gv 16,7.13). In Lui sono ‘tutti i tesori della sapienza e della scienza’ (Col
2,3), e la Chiesa è il suo Corpo (cf. Rm 12,5; 1 Cor 6,15; 10,17; 12,12.27; Ef
1,23; 2,16; 4,4; Col 1,24; 3,15). La Chiesa è “in Cristo come un sacramento,
o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere
umano”( Lumen gentium 1), e di ciò è Lui la sorgente! Lui stesso! Lui, il Redentore! ” (n. 7).
5. Secondo binomio: Cristo, l’Uomo definitivo
a. L’uomo creato a immagine di Dio in Cristo
Il binomio Cristo- uomo ha, all’interno dell’enciclica, un peso specifico di
gran lunga superiore al primo. Non perché più importante, visto che l’asse
7
Cristo- Chiesa è fondante e da esso deriva il nuovo binomio; ma perché, in
un certo senso, si può dire che un’antropologia cristocentrica è il risultato
naturale di un’e cclesiologia cristocentrica, in quanto non c’è un’altra motivazione dell’economia dell’incarnazione- redenzione se non la salvezza dell'uomo. Intendesi qui per “salvezza” il darsi di una pienezza di essere dell'uomo che richiede la comunione permanente e vitale con Dio della persona
umana, in Cristo e nello Spirito, nonché la comunione degli uomini tra di
loro, sia in chiave storica che nella vita eterna. In definitiva, si trova alla
base della dottrina papale la consapevolezza di una creazione che ha senso
soltanto in quanto “in cammino ” verso una condizione definitiva caratterizzata dalla condizione dialogica in cui la persona umana coinvolge il resto
della creazione. Alla base si trova un altro testo del Concilio Vaticano II che,
sebbene non citato con la frequenza di Gaudium et spes 22, costituisce un
suo completamento naturale e un’altra delle forti consapevolezze di Giovanni Paolo II. Il testo in questione è il terzo paragrafo del numero 24 della stessa costituzione pastorale del Concilio: “Il Signore Gesù, quando prega il Padre perché ‘tutti siano una cosa sola, come io e tu siamo una cosa sola’ (Gv
17,21), aprendoci prospettive inaccessibili alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli
di Dio nella verità e nell’amore. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il
quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non
possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé” (Gaudium et spes 24).
b. Creazione e redenzione
Questo testo conciliare fa riferimento alla teologia biblica della creazione
dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio- Trinità, motivo per il quale l'uomo è chiamato al dono sincero di sé. Giovanni Paolo II dirà ripetute volte, nel
suo Magistero posteriore, che questa è la verità centrale dell’antropologia
cristiana. Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassumerà, nel punto 356: “Di
tutte le creature visibili, soltanto l’uomo è ‘capace di conoscere ed amare il
proprio creatore’ (Gaudium et spes 12); ‘è la sola creatura che Dio abbia voluto per sé stessa’ (Gaudium et spes 24); soltanto l’uomo è chiamato a condividere, nella conoscenza e nell’amore, la vita di Dio. A questo fine è stato
creato ed è questa la ragione fondamentale della sua dignità ”. La RH cerca
di fornire il fondamento cristologico di questa dottrina, sia a livello generale,
in riferimento a tutta la creazione, sia in riferimento alla creatura che sola
nel cosmo è in grado di portare tutte le cose alla gloria del Creatore. A questo scopo fa riferimento inizialmente al legame tra creazione e redenzione,
includendo la realtà del peccato che tematizza questo rapporto, per passare
poi a considerare la relazione con Cristo del mondo e dell’uomo.
Innanzitutto bisogna affermare che il testo di Gaudium et spes 24 ha
come premessa l’affer m a zione che la creazione non avrebbe senso se non
fosse capita come evento interpersonale. In altre parole, Dio non avrebbe
creato una creazione non personale, o una creazione personale non chiamata al dialogo con Lui.
La Sacra Scrittura, di fatto, insiste nel presentare un Dio volto al mondo,
aperto a un uomo col quale vuole stabilire una comunione di vita eterna che
si chiama salvezza. Ma con la stessa insistenza si sottolinea che Dio non ha
nessun bisogno di avere quella dimensione comunionale con la creatura: è
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in se stesso pienezza di vita, e da quella pienezza onnipotente scaturisce la
stessa creatura amata. Nell’Antico Testamento questa pienezza di vita, necessariamente confessata ma non ancora svelata, viene chiamata santità
(qadosh ); nel Nuovo Testamento si svela il qadosh come tri- santità della vita
personale intradivina: Padre e Figlio e Spirito Santo. Dio è pertanto comunione in se stesso, e per questo può essere comunione verso il mondo.
Se esiste una creatura amata, pertanto, lo è all’interno di quell’amore
che Dio è nella sua vita intratrinitaria. Altrimenti, la realtà comunionale ad
extra metterebbe in crisi la trascendenza divina. L’essere della creatura viene rimandato, per tanto, a ciò che costituisce la stessa vita trinitaria come
communio : le processioni eterne delle divine Persone. In parole di san Tommaso d’Aquino, “Dio, conoscendosi, concepisce nell’intimo di sé il suo Verbo
e questo è anche l’Idea nella quale conosce tutto quello che conosce, poiché
è conoscendo se stesso, che conosce tutte le cose. Da questa concezione
del Verbo egli procede all’amore di tutte le cose e di se stesso […]. Quando
questo cerchio è chiuso, nulla vi può essere aggiunto, di modo che non vi
potrebbe essere una terza processione nell’immanenza della natura divina,
ma solo la processione delle creature fuori di Dio” 5. Dante diceva un po’ la
stessa cosa con meno parole: “ Ciò che non more e ciò che può morire non è
se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro Sire” 6.
In definitiva, ogni processione ad extra (creazione) è rimandata alle processioni eterne della conoscenza e dell’a more intradivini, e non ha altro
senso se non stabilire una realtà diversa dall’ essenza divina, un non- Dio di
fronte a Dio. Allora, anche se l’affermazione dell’onnipotenza assoluta divina
ci porta ad ipotizzare la possibilità di una creazione meramente materiale,
non si vede perché Dio avrebb e posto nell’essere un non- Dio, conosciuto
nel suo Verbo e amato nel suo Amore, non in grado di stabilire una comunione personale con Lui. In altre parole, non si riesce a capire una creazione di
non- persone. Pensare a una creazione senza “persone” per lodare Dio, fa
venire in mente una frase del Signore: “vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre” (Lc 19,40), e allora le pietre diventerebbero persone.
“Persona” è un non- Dio chiamato ad amare Dio. La creazione (processione
ad extra ) assicura quell’al terità, necessaria perché ci sia amore, che le
processioni assicurano all’interno della divinità.
Ritengo che questa sia la base teologica di quanto afferma Giovanni Paolo II nel riferirsi, in RH 8, all’intima unione che esiste tra creazione e redenzione. “Redentore del mondo! In lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile la fondamentale verità sulla creazione, che il Libro della Genesi attesta
quando ripete più volte: ‘Dio vide che era cosa buona’ (Gen 1 passim ). Il
bene ha la sua sorgente nella Sapienza e nell’Amore. In Gesù Cristo il mondo
visibile, creato da Dio per l’uomo (cf. Gen 1,26- 30) – quel mondo che, essendovi entrato il peccato, ‘è stato sottomesso alla caducità’ (Rm 8,20; cf. ivi
8,19,22; Gaudium et spes 2 e 13) – riacquista nuovamente il vincolo origina rio con la stessa sorgente divina della Sapienza e dell’Amore” (n. 8).
c. Redenzione e peccato: la creazione sottomessa a caducità
Se la redenzione può essere definita come “rinnovata creazione” si deve
5 S. TOMMASO, De potentia , 9, 9.
6 Divina Commedia , Paradiso canto XIII.
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far riferimento a una situazione originale sulla quale si innesta storicamente
la realtà del peccato. “Come nell’uomo- Adamo questo vincolo è stato infranto, così nell’uomo- Cristo esso è stato di nuovo riallacciato (cf. Rm 5,12- 21).
Non ci convincono forse, noi uomini del ventesimo secolo, le parole dell'Apostolo delle genti, pronunciate con una travolgente eloquenza, circa la “creazione (che) geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,22) ed
“attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8,19), circa la
creazione che “è stata sottomessa alla caducità”? L’immenso progresso, mai
prima conosciuto, che si è verificato, particolarmente nel corso del nostro
secolo, nel campo del dominio sul mondo da parte dell’uomo, non rivela forse esso stesso, e per di più in grado mai prima raggiunto, quella multiforme
sottomissione “alla caducità”? Basta qui ricordare certi fenomeni, quali la
minaccia di inquinamento dell’ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive di autodistruzione mediante l’uso delle armi
atomiche, all’idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la
vita dei non nati. Il mondo della nuova epoca, il mondo dei voli cosmici, il
mondo delle inedite conquiste scientifiche e tecniche, non è nello stesso
tempo il mondo che “geme e soffre”(Rm 8,22) ed “attende con impazienza
la rivelazione dei figli di Dio?’ (Rm 8,19)” (n. 8).
Risulta di grande importanza l’introduzione del tema del peccato come
causa della caducità della creatura, che di fatto, come afferma la fede nella
creazione, è uscita perfetta dalle mani di Dio. Se le cose stanno così, se
cioè la creazione è manifestazione dell’amore di Dio, dovrebbe essere chiaro che la nostra condizione materiale può essere capita come regalo di Dio,
e che, inserita nella logica del dono, dovrebbe servire anche a noi per fare
regali: a Dio nel senso verticale, agli altri uomini nella dimensione orizzontale. Probabilmente questo è il senso ultimo della nostra interazione con la
creazione che chiamiamo lavoro. Ma è chiaro che la situazione attuale non è
spiegata solo in questi testi della Genesi e del Nuovo Testamento.
O, per meglio dire, lo stesso racconto genesiaco, anche se neotestamentariamente perfezionato, manca di un elemento fondamentale. Questo elemento, che la RH ci ricorda, viene fornito dal capitolo 3 della Genesi, con
l’introduzione della presenza del peccato. La visione positiva della creazione
inclusa nel racconto fondatore della fede cristiana prima del peccato, sembra non tenere conto del fatto che esso stesso comporta una limitazione intrinseca, dal momento in cui richiede l’interazione con la materia di una
creatura materialmente limitata, e quindi costretta sempre a tener conto
della sua incapacità di fare tutto ciò che potrebbe e vorrebbe fare, di volerlo
in maniera piena, di avere il tempo necessario per realizzarlo. Sottolineo che
queste impotenze non sono di per sé imperfezione, se partiamo dalla considerazione somato- spirituale dell’uomo, ma semplice constatazione del limite. In ogni caso, la protologia deve superare la prova della storia.
Si può dire, pertanto, che la condizione dell’uomo nel creato non può non
essere un problema quando la sua realizzazione concreta si pone in contatto, e deve fare i conti con l’uni versale e costitutiva situazione dell’uomo in
cui si svelano quel dolore come espressione di impotenza radicale, quella
colpa come manifestazione di libertà fallibile, e la morte come limitazione
progettuale della vita.
Ma allora, se l’agire dell’uomo è costitutivamente segnato dal dolore,
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dalla colpa e dalla morte, com’è possibile che la dimensione materiale dell'uomo e quindi il suo impegno storico, possano essere visti come rivelazione
dell’amore di Dio? O, in altre parole, come Dio può avere la pretesa di presentarsi come Amore, avendoci fatti sottomessi alla caducità? Le creature
angeliche, fra le quali ogni singolo individuo realizza in pienezza ciò che corrisponde alla sua essenza, sarebbero in grado di cogliere la propria natura
come rivelazione dell’amore, anche nel caso di non accettarlo, come i demoni. Ma l’uomo?
Una prima risposta a questa difficoltà viene data dalla Bibbia e dalla tradizione teologica tramite l’idea dei cosiddetti doni preternaturali . Questo
vecchio concetto, alquanto scolastico, merita di essere rispolverato. I doni
preternaturali non possono essere capiti, come a volte è successo, come
una sorta di “in più” sui doni soprannaturali elevanti, una sorta di divina
“mancia” per fare la natura più concorde con il soprannaturale. Visti in una
prospettiva più adeguata, manifestano il fatto che un Dio che ha la pretesa
di rivelarsi come amore non può abbandonare la sua creatura amata a un limite da Lui stesso imposto alla sua ontologia. Chi ama non può volere il
male dell’amato. Dio, che aveva creato la sua creatura- immagine necessariamente limitata, almeno finché questa si fosse mantenuta all’interno dell'influsso della sua santità amorosa, doveva proteggerla in modo tale che il limite non fosse sperimentato come male. Al dono fondante di se stesso
(grazia soprannaturale), Dio aggiungeva necessariamente la protezione del
limite. Si tenga presente, però, che la finitezza in quanto tale non è un male:
altrimenti Dio non potrebbe averla fatta! I doni preternaturali fanno riferimento alla protezione di questa breccia. Dolore, colpa e morte non sono,
pertanto, condizioni originarie: ciò che è veramente originario è la situazione
di felicità naturale che esprimono i doni preternaturali; anche se questo solleva la questione del perché della nostra condizione spazio- temporale.
Ma il ricorso ai doni preternaturali sembra alquanto forzato. Non si spiega perché Dio abbia voluto farci il regalo della creazione materiale, se dopo
doveva proteggerci da essa. È chiaro che una volta dati i doni, la creazione
materiale era e veniva interpretata come regalo, ma la via sembra veramente contorta. Il mistero ultimo è perché Dio ci ha creato materiali.
In base ai dati biblici siamo in grado di dire che se la nostra interazione
con il creato materiale è diventata problematica è perché, col peccato, si è
rotto il legame comunionale tra la Trinità e l’uomo, e questo ha dovuto fare i
conti con il proprio limite creaturale, ora segnato non soltanto dalla finitez za, ma da una vera e propria imperfezione derivante dalla perdita della sua
struttura originaria “protetta ”. Prima del peccato, i doni preternaturali costituivano la condizione che permetteva cogliere la creazione come rivelazione
dell’Amore; dopo il peccato, il fatto di “ritirarsi” da part e di Dio, lasciando
la creatura inerme di fronte al limite della sua creaturalità, è anche una richiesta di quell’Amore che non impone la sua presenza, ma lascia libero l’a
mante. Si tenga presente che il castigo del peccato non è del tipo “se picchi
tua sorellina rimarrai senza merenda”, ma del tipo “se giochi col ferro da stiro ti brucerai” 7. Riassumendo, si può dire che lavorare è compito della creatura; lavorare con fatica, segnata dal dolore, dalla colpa e dalla morte, è il
castigo della creatura caduta.
7 Cf. R. TROISFONTAINES, Non morrò …, Paoline, Roma 1963, p. 172.
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Ma che senso ha lavorare dopo il peccato originale? Dovrebbe essere soltanto il modo con cui difendersi nei confronti di una natura ostile. La perdita
della struttura agapica causata dal peccato avrebbe avuto come conseguenza, infatti, la perdita di ogni altra dimensione dialogica, se il castigo del peccato fosse stata l’ultima parola divina.
d. Peccato e redenzione
Dopo il peccato la struttura comunionale dell’uomo viene “rifat t a ” con
un nuovo darsi del Verbo, che “ricrea” la creazione. Con l’economia redentrice del Verbo incarnato, l’uomo peccatore diventa nuova creatura 8, nuovo
uomo 9, come incessantemente ripete san Paolo.
In fondo, l’affermazione del Dio Amore ci porta a capire questa nuova
creazione come una teleologia migliore (felix culpa! ), in cui l’amore si rivela
al suo massimo livello di dono nella misericordia. Non siamo in grado di capire la misteriosa permissio divina del peccato. Ma sappiamo a che cosa è servita a Dio.
Non possiamo adesso analizzare l’opera della redenzione, ma la sua modalità teandrica (cioè, la peculiare unione tra la natura divina e quella umana in Gesù di Nazareth, di cui abbiamo parlato) ci porta ad affermare che
tramite la nuova creazione nel Verbo incarnato l’umanità recuper a , in un
processo che riempie di tensione escatologica tutta la storia posteriore a Cristo, la condizione per cui fu originariamente creata. Ma questa nuova crea zione richiede la condizione di successività nella creatura redenta, concretizzata nella sua dimensione spazio- temporale.
Possiamo vedere, dunque, il dono della spazio- temporalità come la condizione che rende possibile lo stesso disegno divino di redenzione. Di fatto,
non basta essere successivi per essere capaci del perdono e della trasformazione che l’opera della redenzione comporta: alla successività si devono aggiungere ulteriori possibilità di rifacimento anteriori allo stato di termine: ciò
dipende dall’essere una libertà nella storia. Si può quindi affermare che noi
possiamo essere perdonati proprio perché siamo creati spazio- temporali in
libertà. La nostra finitezza, che a prima vista sembrava nasconderci l’amore
divino, è condizione di possibilità della sua manifestazione massima come
amore più forte della morte . Proprio per questo l’uomo può considerarsi al
vertice della creazione, superiore in un certo senso persino agli angeli, che
pur avendo anche loro un percorso da fare, non possono essere perdonati.
In definitiva, la prova della storia, che Giovanni Paolo II snoda lungo la
terza parte della RH, giova a una libertà creata. Il limite spazio- temporale
che ci costringe a impegnarci nel cammino della storia, nonostan t e le pau re e minacce causate dalla realtà del peccato, è per questo regalo dell'Amore, occasione di incontro con l’Amore. La pienezza di questo amore a cui siamo chiamati con il nostro dover lavorare, si è già realizzata storicamente
nella Risurrezione. Siccome questa è accessibile soltanto alla luce della fede
e partecipabile nei sacramenti, è conveniente continuare a ricordarla nelle
domeniche che segnano lo scandire delle nostre settimane terrene, e unirci
ad essa nell’Eucaristia, reale presenza del Risorto, e nella Penitenza, vera
8 Cf. Rom 6,4; 2Cor 5,17; Gal 6,15.
9 Cf. Ef 2,15; 4,24; Col 3,10.
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medicina della nostra costituzionale debolezza (cf. n. 20). Ma questa unione
non è possibile se non aprendoci al terzo e ultimo binomio della RH.
6. Terzo binomio: l’uomo, prima e fondamentale via della
Chiesa
L’uomo è e sarà sempre la via della Chiesa. Queste parole sono state ripetute molte volte durante il pontificato di Giovanni Paolo II, e sono una manifestazione della sua passione per l’uomo, frutto della fede personale in
Dio, che non può non includere nella risposta amorosa a Lui l’amore per ogni
uomo, creato a sua immagine e somiglianza. La Chiesa nella storia continua
l’opera di Cristo e partecipa del suo ufficio profetico, sacerdotale e regale
(cf. nn. 18- 21). Perché l’uomo è unito a Cristo, la Chiesa non può fare a
meno di lui, né lui della Chiesa (cf. n. 13). L’una senza l’altro non sono nulla:
Cristo non ha fondato la Chiesa se non per far arrivare la potenza della sua
grazia ad ogni uomo, in ogni situazione concreta possa trovarsi.
“ La Chiesa non può abbandonare l’uomo, la cui ‘sorte’, cioè la scelta, la
chiamata, la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo
così stretto ed indissolubile unite al Cristo. E si tratta proprio di ogni uomo su
questo pianeta, in questa terra che il Creatore ha dato al primo uomo, dicendo all’uomo e alla donna: ‘Soggiogatela e dominatela’ (Gen 1,30). Ogni
uomo, in tutta la sua irripetibile realtà dell’essere e dell’agire, dell’intelletto
e della volontà, della coscienza e del cuore. L’uomo, nella sua singolare realtà (perché è ‘persona’), ha una propria storia della sua vita e, soprattutto,
una propria storia della sua anima. L’uomo che, conformemente all’interiore
apertura del suo spirito ed insieme a tanti e così diversi bisogni del suo corpo, della sua esistenza temporale, scrive questa sua storia personale mediante numerosi legami, contatti, situazioni, strutture sociali, che lo uniscono
ad altri uomini, e ciò egli fa sin dal primo momento della sua esistenza sulla
terra, dal momento del suo concepimento e della sua nascita. L’uomo, nella
piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo
essere comunitario e sociale – nell’ambito della propria famiglia, nell’àmbito
di società e di contesti tanto diversi, nell’ambito della propria nazione, o popolo (e, forse, ancora solo del clan, o tribù), nell’ambito di tutta l’umanità –
quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento
della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero
dell’Incarnazione e della Redenzione. […]
“ Quest’uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla
base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché l'uomo – ogni uomo senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché
con l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche
modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole: ‘Cristo, per
tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo’ – ad ogni uomo e a tutti gli uomi ni – ‘... luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione’ (Gaudium et
spes 10)” (n. 14).
Giovanni Paolo II, soprattutto nei numeri 15, 16 e 17 della RH, realizza
una profonda analisi della situazione concreta dell’uomo contemporaneo e
delle modalità del suo bisogno di Cristo, per indicare alla Chiesa i suoi ambiti
di impegno, per segnalare la forma concreta del “darsi da fare” specifico a
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cui Cristo la chiama per servire veramente ogni uomo reale.
“ Conservando quindi viva nella memoria l’immagine che in modo così
perspicace e autorevole ha tracciato il Concilio Vaticano II, cercheremo ancora una volta di adattare questo quadro ai ‘segni dei tempi’, nonché alle
esigenze della situazione, che continuamente cambia ed evolve in determinate direzioni” (n. 15).
La vittoria sul dolore e sulla sofferenza, anche se si è data in tensione
escatologica, forma parte integrante dell’agire storico di Cristo in quanto
Verbo incarnato. Per questo motivo il cristiano ha il compito intrinseco di collaborare, in virtù della sua unione storica a Cristo nello Spirito e nella Chiesa,
alla manifestazione di questa vittoria, sforzandosi di rimuovere le conseguenze dell’ imperfezione introdotta dal peccato nel cosmo (la “caducità” di
cui parla RH). Il cristiano non può non vivere questo impegno per debellare
la sofferenza, perché esso forma parte della richiesta che l’uomo ha di manifestare il Dio- Amore onnipotente, di essere la sua immagine nel mondo. La
creazione ferita dal peccato dell’uomo viene messa nella mani dell’uomo
perché sia lui lo strumento della sua liberazione, la cifra della sua speranza:
essa “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8, 19).
“ Essendo quindi quest’uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua
vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo
deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della di lui ‘situazione’.
Deve cioè essere consapevole delle sue possibilità, che prendono sempre
nuovo orientamento e così si manifestano; la Chiesa deve, nello stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all’uomo. Deve essere consapevole, altresì, di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo
perché ‘la vita umana divenga sempre più umana’ (Gaudium et spes 38;
Paolo VI, Populorum progressio 21), perché tutto ciò che compone questa
vita risponda alla vera dignità dell’uomo. In una parola, dev’essere consapevole di tutto ciò che è contrario a quel processo” (n. 14).
L’unione vitale con Cristo nella grazia, in virtù della quale l’uomo, nello
Spirito Santo, viene coinvolto in prima persona nel dialogo salvifico, fa che
questo impegno di liberazione non possa essere visto unicamente nella sua
componente storica: non è solo compito intraterreno, ma vera attività salvi fica . In questo senso la vita terrena del cristiano diventa espressione dell'onnipotenza divina, come lo è stata la stessa vita terrena di Gesù, nei suoi atti
concreti di eliminazione delle miserie umane, espressione dell’amore divino
incondizionato verso l’uomo. La fede non può fare a meno dell’esperienza
concreta dell’uomo concreto.
“ Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell’uomo, di indirizzare la coscienza e l’esperienza di tutta l’umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare
tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che
avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca anche la più profonda sfera dell’uomo, la sfera – intendiamo – dei cuori umani, delle coscienze
umane e delle vicende umane” (n. 10).
Inoltre, l’accettazione libera della sofferenza in quanto conseguenza del
peccato manifesta e realizza nel singolo l’agire storico del Verbo incarnato.
Anzi, la stessa sofferenza, vinta già ma non ancora, è diventata strumento di
salvezza: perciò si capisce la paradossale persistenza della sofferenza dopo
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il trionfo di Cristo, che si spiega con gli stessi motivi per cui viene rimandata
escatologicamente la manifestazione piena della sua vittoria.
La realtà storica della risurrezione è il segno di questa vittoria. Portando
a pienezza una temporalità che per volere di Dio rimane ancora aperta, questa verità di fede dà al credente la certezza della speranza di fronte all'esperienza dell’insuccesso della storia, nel momento in cui l’istanza anteriore
– l’impegno cristiano nella storia – si scopre incapace di una vittoria definiti va nel tempo.
L’Amore, quindi, per mezzo della sofferenza con cui porta a perfezione
l’imperfetto, dà così un valore positivo al sempre rimanente dolore umano,
presupposta l’identificazione con Cristo alla quale – nella diversità delle
economie di salvezza – ogni uomo è chiamato. Questa solidarietà con Cristo
nel dolore redentivo è stata manifestata con un’immagine illuminante proveniente dall’insegnamento agostiniano, secondo il quale il Cristo storico diventa Christus totus tramite l’incorporazione della Chiesa come suo Corpo
Mistico; così la sua passione diventa passio tota in virtù della passione di tut ti gli uomini uniti a Lui; e come la prima ha la potenza di operare la redenzione, così la seconda acquista valenza salvifica.
Così questa dimensione ecclesiale determina ancora una risposta alla
possibile questione sul perché del perdurare della condizione caduca dell'uomo. Infatti, finché la storia non arriverà alla sua pienezza e si compirà il numero degli eletti voluto dall’Amore, la modalità della redenzione continuerà
ad essere presente nel mondo sotto forma di dolore umano e divino. Anche
questa verità richiede la confessione dell’onnipotenza manifestata dal Redentore dell’uomo, che non è limitata dalle coordinate spazio- temporale,
anzi, le trascende: se mantiene la tensione escatologica, che è anche
espressione della sua sofferenza volontaria, lo fa per chiamare ed includere
altri membri nel suo Corpo Mistico.
Così, l’inserimento ecclesiale dell’uomo nel dialogo salvifico tra il Padre e
il Figlio non comporta soltanto, come detto prima, l’impegno di liberazione
della sofferenza, ma la sua stessa accettazione come strumento di salvezza.
In Cristo, il dolore dell’uomo acquista il suo valore ultimo intraterreno e diventa espressione e partecipazione umana all’Onnipotenza misericordiosa
che Lui, nella sua Passione, manifesta. L’accettazione del compito storico del
cristiano come realtà strumentale di salvezza diventa per l’uomo credente
conferma ed esperienza del Dio- amore che Cristo, Redentore dell’uomo, ha
rivelato. La Chiesa deve non soltanto ricordare questa verità ad ogni uomo,
ma soprattutto sostenere, in quanto canale della grazia, l’impegno corredentore di ogni uomo unito a Cristo.
Così la Chiesa, esperta in umanità, secondo la conosciuta espressione di
Paolo VI alle Nazioni Unite (05.10.1965), ha davanti a sé il compito permanente di approfondire e trasmettere la verità sull’uomo che da Cristo ha ricevuto. In questo compito non le mancherà mai la grazia di Cristo, il sostegno
dello Spirito, l’intercessione di Maria.
“ Supplico soprattutto Maria, la celeste Madre della Chiesa, affinché si degni in questa preghiera del nuovo Avvento dell’umanità di perseverare con
noi, che formiamo la Chiesa, cioè il Corpo mistico del suo Figlio unigenito. Io
spero che, grazie a tale preghiera, potremo ricevere lo Spirito Santo che
scende su di noi (cf. At 1,8) e divenire in questo modo testimoni di Cristo
15
‘fino agli estremi confini della terra’ (ivi ), come coloro che uscirono dal Cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste” (n. 22).
Bibliografia
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G. Concetti, Massimo, Milano 1980.
AA.VV. , Davanti alla Redemptor hominis: testimonianze apparse su “L 'Osservatore Romano”, Jaca Book, Milano 1979.
AA.VV. , Giovanni Paolo II. Linee di un magistero, a cura di S. Maggiolini, Città
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Baragli, A. del Noce, C. Fabro, J. Galot, D. Grasso, B. Sorge) a cura di A.
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