Non possiamo delineare la figura di Gioacchino Murat come Soldato e condottiero se lo consideriamo avulso dalle Forze Armate in cui egli si è formato, ha militato, con cui ha combattuto ed alla cui testa egli ha ottenuto vittorie, successi, sconfitte. La Grande Armée Napoleonica e L' Armata delle Due Sicilie. Per quanto concerne la prima guarderemo, per brevità di tempo alla Cavalleria Napoleonica considerato che Egli da Comandante di Cavalleria si distinse. Napoleone soleva dire "la Cavalleria è utile prima, durante e dopo la battaglia". E' l'Arma che più di tutte ha sofferto dell'emigrazione dei suoi adepti a causa della rivoluzione. Per tradizione essa è monarchica e quindi legata a doppio filo al Sovrano. Negli eserciti rivoluzionari, quindi essa è di gran lunga inferiore a quelli degli antagonisti europei. Napoeone la riorganizza a fondo e punta in primo luogo sulla disciplina. Si divide in Cavalleria pesante, Cavalleria di linea e Cavalleria leggera. La cavalleria pesante è costituita da 12 reggimenti di corazzieri francesi ed uno di origine olandese, ognuno di 1040 uomini inquadrati in 4 squadroni di due compagnie ciascuno, più due reggimenti di carabinieri. Essa è inquadrata in formazioni autonome e costituisce il nerbo della riserva di cavalleria. In battaglia si richiede che si imponga di forza sull'avversario. Uomini e animali sono scelti di forte corporatura. La cavalleria di linea comprende da 20 a 30 reggimenti di dragoni. Nati come fanteria montata e molto curati come addestramento, i dragoni sono considerati come forza d'urto armata con armi bianche, non di rado la si utilizza per azioni di fuoco ed appiedata. Ogni reggimento su cinque squadroni di due compagnie, conta 1200 uomini. Dopo il 1812 è facile trovare tre squadroni montati e due a piedi. Data la sua duttiltà ( a piedi e a cavallo) sono spesso impiegati nella guerriglia di cavalleria e proteggono il fianco della Grade Armata in marcia, custodiscono le linee di comunicazione ed effettua missioni speciali. Nel 1813 sono la migliore cavalleria dell'esercito francese. La Cavalleria leggera è il corpo più numeroso eia spina dorsale sono gli Ussari (da 10 a 13 reggimenti che si riallacciano direttamente agli Usseri ungheresi dei Re di Francia) Inoltre ci sono poi i 30 reggimenti di cacciatori e dal 1811 il cavalleggeri-lancieri ottenuti dalla trasformazione dei Dragoni Francesi e dei Dragoni di Amburgo. I compiti della Cavalleria leggera sono particolarmente difficili: la guerriglia che si sviluppa nella terra di nessuno degli eserciti nemici. Le sono affidati compiti di ricognizione, d'avanguardia, di retroguardia e di protezione dei fianchi dell'esercito. Deve impegnare l'avanguardia del nemico per impedire di occupare le posizioni più favorevoli e quindi il suo addestramento formale è teso ad un rapido cambio di formazioni. La campagna di Jena segna il suo massimo successo. Terminata la battaglia protegge la ritirata o conduce l'inseguimento. Qualche parola in più vorrei spenderla sul Soldato Napoletano. Dei soldati delle Due Sicilie si è parlato poco e, nella maggior parte dei casi, con tono beffardo o di sprezzante sufficienza, alimentando così la novellistica suir'esercito di Franceschiello". Questo è il soldato borbonico che ci tramanda la storiografia ufficiale: imbelle, ignorante, furbastro, gretto e bigotto. In una parola, militarmente inesistente: nullo come soldato e come uomo. Non abbiamo molto da imparare dagli statunitensi, ma una cosa certamente sì: il rispetto per lo sconfitto soldato del Sud. L'occupazione yankee nel territorio degli Stati Confederati d'America non fu meno dura di quella piemontese nelle provincie del Regno, m ^ fu ed è esplicitamente riconosciuto il valore di quei vinti. Lo dimostrano un'ampia produzione letteraria, storica come romanzesca, ed una altrettanto vasta filmografia (anche in vicende cinematografiche ambientate nella seconda guerra mondiale o in quella di Corea, si vede il soldato originario degli stati meridionali che custodisce in tasca o nello zaino la "Dixie Flag"). In campo militare, poi, è significativa l'attribuzione a tipi di mezzi corazzati del nome di comandanti sudisti quali Lee e Stuart. Nel nostro esercito non si assegnano ai carri armati nomi di condottieri, ma, se così non fosse, sarebbe ipotizzabile un carro "Ritucci" o "Bosco"? Basti pensare che, mentre la nascita dei reggimenti di origine piemontese viene fatta risalire ai più remoti manipoli di armigeri, nessun legame è mai stato riconosciuto tra i reggimenti di fanteria napoletani "Napoli'1, "Calabria", "Puglia", "Abruzzo", "Palermo", "Messina" e i loro omologhi dell'esercito italiano. Questi ultimi, infatti, nascono soltanto ad unificazione avvenuta: prima c'era il nulla. Il nostro grande sovrano Ferdinando II dette, sotto questo profilo, una lezione di civiltà e di stile alle generazioni future quando consentì che uscissero dall'oblio le gesta dei soldati napoletani che avevano combattuto sotto Gioacchino Murat. Con la pubblicazione dell' " Antologia Militare", diretta da Antonio Ulloa e iniziata nel 1835, cominciò infatti la rievocazione degli eventi passati anche se soltanto sotto i profili storico e tecnico-militare. E' ormai patrimonio universale l'amaro principio secondo cui le verità dei vinti sono bugie e le bugie dei vincitori sono verità. Un popolo, però non può rinnegare il proprio passato a pena di rinnegare sé stesso. Ciò, anche se è stato sconfitto, perché crediamo con Walt Whitman che "le battaglie si vincono o si perdono con identico cuore" e, con Rostand, che "più bello è battersi quando è invano". NASCITA DELL'ESERCITO DELLE DUE SICILIE La sua data di nascita va collegata alla legge del 25 novembre del 1743, con la quale il re Carlo III dispose la costituzione di 12 reggimenti provinciali, tutti composti da cittadini del Regno, nonché di una compagnia di fucilieri da montagna, lontana antenata delle truppe alpine e le cui caratteristiche ordinative, di armamento e di equipaggiamento ne fecero il primo modello del genere nella storia moderna italiana. Il 25 marzo dell'anno successivo, il neonato esercito subì il primo collaudo, contro gli austriaci, alla battaglia di Velletri. Essa segnò la sua prima, grande vittoria, cui parteciparono reggimenti interamente napoletani, come il "Corona" ed il "Terra di Lavoro", comandato dal duca di Ariccia, che ressero magnificamente il confronto con i reggimenti stranieri di più antica tradizione. In quel periodo - piccola curiosità storica - prestò sevizio nel reggimento "Fonseca" Pasquale Paoli, il futuro capo dell'irredentismo corso: allorché era ufficiale gli furono concessi sei mesi di congedo ed egli si recò nella sua isola a guidarne la lotta per l'indipendenza. Negli ultimi anni del regno di Carlo III l'esercito era stato, però, trascurato e tale stato di cose si protrasse anche con il nuovo sovrano Ferdinando 1 finché la regina Maria Carolina non si fece promotrice del potenziamento e del sostanziale rinnovamento delle forze armate delle Due Sicilie, avvalendosi dell'ammiraglio irlandese John Acton, che, giunto a Napoli, nel 1778 e nominato ministro della guerra e della marina, riorganizzò dapprima quest'ultima e successivamente le forze terrestri, iniziando la sua opera col formare una classe di ufficiali - quasi inesistente in quel momento - che conoscesse veramente il mestiere delle armi. A questo scopo istituì nel 1786 la "Reale Accademia Militare", che il 18 novembre 1787 iniziò i propri corsi nell'ex collegio dei Gesuiti presso la chiesa delTNunziatella a Pizzofalcone. Le forze armate, così rinnovate, sostennero più che degnamente la loro prova del fuoco all'assedio di Tolone, nel quadro dell'alleanza con l'Inghilterra contro la Francia. Seimila soldati napoletani parteciparono alla difesa della città e furono gli ultimi a reimbarcarsi. Il corpo di spedizione rientrò in patria il 2 febbraio 1794, avendo avuto circa 200 caduti e 400 feriti. Ugualmente degna fu l'attività della componente navale, fornita dal Re di Napoli per le operazioni in Mediterraneo e consistenti in quattro navi di linea, quattro fregate e altrettante unità minori. GIOACCHINOMURAT Le vicende che portarono al regno di Murat dettero anche vita ad un nuovo strumento militare che fornì ottime prove di sé, partecipando alla campagne di Spagna, Tirolo, Germania, Russia, nonché a quelle italiane del 1814 e del 1815 e fu l'ultimo - tra gli eserciti non francesi, ma di matrice napoleonica - a cedere le armi. Per tutti valga l'esempio del 5 dicembre 1813, in Russia, quando la cavalleria napoletana scortò Napoleone da Ochmiana a Vilno: ufficiali e soldati indossarono la grande uniforme, come per una parata, e, senza mantelli né pellicce, con una dimostrazione tipica dell'amore delle nostre genti per il bel gesto, in una gelida notte accompagnarono l'imperatore. Su trecento cavalieri ne giunsero a Vilno solo trenta; gli altri erano rimasti lungo il cammino: uccisi dal freddo o negli scontri con la cavalleria cosacca; gli stessi comandanti, il generale Florestano Pepe e i colonnelli Campana e Roccaromana riportarono congelamenti alle dita delle mani e dei piedi e ne rimasero mutilati. Il generale Bianchi, comandante delle forze austriache nella campagna contro Murat, ebbe, nella sua relazione, queste parole per i nostri soldati: "Il soldato napoletano ha combattuto con molto valore in Ispagna, in Russia e in Germania, per interessi a lui estranei e anche nel corso di questa campagna ha dimostrato elevate capacità, specialmente nella battaglia di Tolentino, nella quale gli austriaci hanno dovuto compiere sforzi considerevoli e affrontare penosi sacrifici per strappare la vittoria". FERDINANDO II Ferdinando II salì al trono 1' 8 settembre del 1830 e, fino dai primi anni del suo regno, dimostrò sia un vivo interesse per le forze armate sia il possesso di notevoli capacità militari. Paragonabile in questo a Federico Guglielmo I di Prussia, non ebbe però la fortuna di un successore che, al pari di Federico il Grande, sapesse utilizzare al meglio, nelle competizioni internazionali, quello / strumento militare che il suo predecessore aveva costruito e perfezionato in ogni dettaglio. Re Ferdinando si fece promotore di una legge sul reclutamento completa ed esauriente e migliorò moltissimo il sistema disciplinare, l'armamento e l'equipaggiamento. Nel 1835 il generale francese Oudinot, in un libro intitolato "De l'Italie et de ses forces militaires", scrisse: L'esercito napoletano è istruito e molto bello. Le truppe che lo compongono sono oggetto di una sollecitudine attiva e illuminata da parte di un sovrano dotato di inclinazioni militari Infine esso possiede, in tutte le armi, ufficiali di alto merito". Nel 1848, poi il capitano Le Messon, critico militare svizzero di fama europea, scriveva che gli italiani sarebbero stati grati a Ferdinando II per avere dato inizio alla nuova formazione dello spirito militare nella penisola. In sostanza l'esercito fu rinnovato moralmente, materialmente e tecnicamente in meno di dieci anni. Del suo valore offrì, tra le altre, due prove particolarmente significative: i combattimenti di Curtatone-Montanara-Goito e l'operazione anfibia su Messina. Gaeta Messina Civitella del Tronto. Veniamo ora al Nostro Gioacchino. "Foutez moi tout ce monde dehors!" Maledetto, Accidenti a questo mondo senza di me. Tutto iniziò nel giorno che doveva cambiare il corso della storia non solo in Francia, ma in tutta l'Europa: il 19 brumaio (10 novembre 1799). Il governo del Direttorio, corrotto e irresoluto, era stato spazzato via da un audace colpo di mano e i rappresentanti dell'assemblea dei 500 erano stati costretti a fuggire saltando dalle finestre inseguiti dai soldati di uno scatenato Murat che li incitava gridando: «Foutez moi tout ce monde dehors!». Ma chi era Gioacchino Murat, questo generale dalla carriera ambigua e discontinua, ex-giacobino, diventato insostituibile braccio destro di Napoleone? Undicesimo figlio di un albergatore, Pierre Murat-Jourdy, era nato il 25 marzo 1767 a Bastide-Fortunière (oggi Bastide-Murat), nel dipartimento del Lot e non in Guascogna, come hanno spesso affermato i biografi. La famiglia, soprattutto la madre, la religiosissima Jeanne Loubières, sognava per il suo ultimo figlio la carriera ecclesiastica che, sperava, ne avrebbe domato la natura sfrenata e selvaggia. Dopo alcuni anni di collegio a Cahors il ragazzo venne inviato nel seminario dei Lazzaristi a Tolosa. Come confesserà più tardi in una lettera ad un suo amico d'infanzia, non sentiva alcuna vocazione per il sacerdozio: «La mia famiglia vedrà che non avevo una grande disposizione per fare il prete». Non sopportava le regole del convento, al contrario gli piacevano le donne, il gioco e il bere. Ben presto, anche perché fortemente indebitato, lasciò la tonaca e si arruolò in cavalleria, nel 6° Reggimento dei cacciatori delle Ardenne. Ma così come si era dimostrato insofferente alle costrizioni del convento, non sopportava neppure la dura disciplina dell'esercito. Sebbene fosse un abilissimo cavallerizzo, audace, ambizioso e con una fiducia illimitata nelle proprie capacità («con il mio coraggio e i miei talenti militari posso andare lontano» scriveva al padre), la sua carriera fu segnata da rapide promozioni e successive destituzioni. Nel 1789 fu privato del suo grado di maresciallo di alloggio ed allontanato dall'esercito, forse per motivi politici: vi rientrò a rivoluzione iniziata, nel 1792, come guardia costituzionale del re e riconquistò rapidamente i gradi, fino a quello di tenente; ma la sua amicizia nei confronti dei capi giacobini più oltranzisti lo rese sospetto dopo la caduta di Robespierre e nel 1794 venne arrestato e chiuso in carcere ad Amiens. Solo l'intervento di alcuni amici fidati lo tirò fuori dalla prigione. Il momento del riscatto e di quell'accelerazione della carriera che aveva sempre sognato stava per arrivare: nell'ottobre del 1795 scoppiò una rivolta realista a Parigi e lo sconosciuto generale Bonaparte aspettava impaziente i cannoni che gli avrebbero consentito di stroncarla. Fu Gioacchino a portarglieli, la sommossa fu soffocata nel sangue e il Direttorio salvato da colui che allora venne ribattezzato «il generale vendemmiaio». Conquistata così la fiducia del supremo potere esecutivo e del suo massimo esponente, il potentissimo Paul Barras, Napoleone ricevette nel 1796 il comando della spedizione in Italia contro l'Austria, l'acerrima nemica della Francia repubblicana, e Murat colse al volo l'occasione. Con perfetto tempismo e grande spirito di iniziativa, si offrì al generale come aiutante di campo. Da allora la sua ascesa fu inarrestabile, anche se il rapporto personale con Napoleone, all'inizio segnato da una fede e da una sottomissione assolute, divenne sempre più problematico e conflittuale. Compagno dell'onnipotente generale corso negli anni che precedettero la conquista del vertice del potere, combatté eroicamente in Italia e in Egitto, raggiungendo rapidamente i gradi di generale di brigata nel 1796 e di generale di divisione nel 1799, dopo la battaglia di Abukir. Ma nel gennaio del 1800 ottenne il premio più ambito: riuscì a vincere le resistenze di Napoleone, diventato primo console, e a sposarne la sorella più giovane, l'avvenente e capricciosa Carolina. Dopo la seconda vittoriosa campagna d'Italia, che riconsegnò la Lombardia ai francesi, Murat ebbe il prestigioso incarico di comandante in capo dell'armata francese nella penisola, e si trasferì a Milano con la famiglia, li* periodo milanese fu però contrassegnato dai continui dissidi tra lui e il vicepresidente della neonata Repubblica Italiana, ex-Cisalpina, il nobile monarchico Francesco Melzi d'Eril. L'insoddisfazione di Murat dipendeva principalmente dalla sensazione di essere relegato in secondo piano e in realtà, mentre accusava d'Eril di scarsa fedeltà verso la Francia, covava il segreto desiderio di prenderne il posto. A Milano Murat si era scandalosamente arricchito: quando infine nel 1803 tornò in patria e venne nominato governatore di Parigi, acquistò un magnifico palazzo di 35 stanze, l'hotel Thélusson, un castello a Neuilly, e numerosi terreni, per un totale di quasi un milione e mezzo di franchi. Il suo stato maggiore era il più ricco di tutto l'esercito e costava una fortuna ai suoi membri: bisognava possedere almeno tre cavalli e quattro tenute, per l'estate, per l'inverno, una di parata e una di società. Come governatore di Parigi Murat dovette affrontare un'emergenza di inaudita gravità: il fallito complotto per assassinare Napoleone da parte dei generali filomonarchici George Cadoudal e Charles Pichegru, ispirato dal governo inglese, e l'affaire del duca d'Enghien che tanto scandalizzò tutta l'Europa. Luigi Enrico di Borbone, figlio del principe di Condé, fu ritenuto da Bonaparte complice dei cospiratori, rapito in Germania dove si trovava in esilio, imprigionato e fucilato dopo un giudizio sommario. La pace tra la Francia e le potenze europee stava per finire: ma la serie di guerre interminabili che insanguinò il continente per dieci anni non fu, come spesso si crede, il nefasto prodotto della volontà di uno solo, ma la continuazione di uno scontro secolare, con cause economiche e sociali, tra due superpotenze, la Gran Bretagna e la Francia, dove le rispettive borghesie commerciali e industriali lottavano per l'egemonia mondiale. Allafine fu il nascente impero finanziario mercantile e oceanico inglese a prevalere sull'impero militare amministrativo e continentale francese. Per Murat iniziò un lungo periodo di trionfi, culminato nella nomina a re di Napoli, l'apice della sua carriera: ad Austerlitz, Jena, Eylau, Friedland, come comandante della riserva di cavalleria, guidò grandiose cariche e vittoriosi inseguimenti. Gli altri marescialli, dotati di qualità militari infinitamente più solide, non potevano credere che quel vanitoso coq empanaché (gallo impennacchiato) si accaparrasse tutta la gloria nei bollettini dell'Armée. I suoi contrasti con gli altri capi erano frequenti: ad Ulm lui e Ney, entrambi facili alla collera, per un pelo non vennero alle mani per una differenza di vedute sulla strategia da adottare contro gli austriaci. Di fronte alle argomentazioni e alle carte geografiche dispiegate sul tavolo da Ney, Gioacchino aveva risposto irridente: «Signor maresciallo, non mi interessano i vostri piani. Io sono abituato a fare i miei di fronte al nemico!» Il lorenese era furioso e solo l'intervento del suo segretario privato, il prudente e compassato Charles Cassaing, aveva evitato un duello alla sciabola tra i due. Napoleone d'altra parte era abilissimo a sfruttare le invidie e le gelosie dei suoi luogotenenti, per accrescerne la combattività e lo spirito di emulazione. Con il vanagloriso cognato alternava i favori alle critiche brucianti. Però, cedendo anche alle incessanti insistenze di Carolina, lo copriva di onori e di incarichi prestigiosi: maresciallo di Francia, principe e granduca di Berg e di Clèves, grand'ammiraglio. «Con i miei parenti - confessò in esilio l'ex Imperatore sono sempre stato un poule mouillé» (pulcino bagnato). Mentre il marito e il fratello combattevano nel fango della Polonia, la mente operosa e calcolatrice di Carolina non rimaneva inattiva. Napoleone non aveva eredi, poteva morire improvvisamente durante una delle sue campagne e la successione al trono era aperta. Intrigando con le due eminenze grigie del governo, Fouché e Talleyrand, mirava ad assicurarsi il potere supremo cercando soprattutto di estromettere i detestati Beauharnais; Murat aveva inoltre un grande vantaggio su Eugenio, figlio dell'Imperatrice Giuseppina e viceré d'Italia: aveva carisma e si era creato un vero e proprio partito nell'esercito. Come ulteriore garanzia, Carolina era diventata l'amante del generale Andoche Junot che, come governatore di Parigi, era il più idoneo a gestire una crisi, se l'Imperatore fosse morto in battaglia. Naturalmente la relazione giunse alle orecchie del malcapitato Gioacchino, scoppiò uno scandalo tremendo e Junot venne spedito in Portogallo. Ma poco dopo anche Murat fu inviato nella penisola iberica, dove il 2 e il 3 maggio 1808 dovette reprimere con crudele ferocia la ribellione del popolo di Madrid contrario all'abdicazione dei Borboni e alla nomina di Giuseppe Bonaparte quale re di Spagna. L'apertura del fronte spagnolo si rivelò fatale per l'Impero: inoltre la Spagna fu economicamente ridotta a una colonia e sfruttata a beneficio della Francia, che operava in condizioni di assoluto monopolio nel paese, politica che suscitò una serie di interminabili sommosse da parte di giunte ribelli capeggiate dal clero e dall'aristocrazia e assistite dall'Inghilterra, finché nel 1813 il re Giuseppe fu costretto a fuggire e a restituire il trono ai Borboni. Gioacchino lasciò dunque la Spagna con la sinistra fama di massacratore, ma nella lotteria dei troni lui e Carolina vinsero il reame di Napoli, lasciato vacante da Giuseppe. Il 25 settembre 1808 fece una trionfale entrata nella città, con l'altisonante titolo di «Joachim-Napoleon par la grace de Dieu et la Constitution de l'Etat, roi des Deux Siciles, grand amirai de l'Empire». Nonostante i continui ammonimenti e i rimbrotti dell'augusto cognato, che pretendeva dagli stati vassalli retti dai suoi «proconsoli» una totale sottomissione agli interessi economici francesi, l'azione di Murat a Napoli fu sostanzialmente positiva: introdusse il codice napoleonico, iniziò grandi opere pubbliche, costruì strade, cercò di modernizzare le città, prosciugò le zone paludose e insalubri, represse il banditismo in Calabria. Durante il suo breve regno, Murat fondò, con decreto del 18 novembre 1808, il Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade (all'origine della facoltà di Ingegneria a Napoli, la prima in Italia), ma condannò alla chiusura, con decreto del 29 novembre 1811, la gloriosa Scuola Medica Salernitana, primo esempio al mondo di Università; inoltre avviò opere pubbliche di rilievo non solo a Napoli (il ponte della Sanità, via Posillipo, nuovi scavi ad Ercolano, il Campo di Marte ecc.), ma anche nel resto del Regno, illuminazione pubblica a Reggio di Calabria, progetto del Borgo Nuovo di Bari). La nobiltà apprezzò le cariche e la riorganizzazione dell'esercito sul modello francese, che offriva belle possibilità di carriera. I letterati apprezzarono la riapertura dell'Accademia Pontaniana e l'istituzione della nuova Accademia reale, e i tecnici l'attenzione data agli studi scientifici e industriali. Nel 1810 per tre mesi Murat governò il regno dalle alture di Piale, frazione di Villa San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria. Egli, muovendosi da Napoli per la conquista della Sicilia (dove si era rifugiato il re Ferdinando I sotto la protezione degli inglesi, un esercito dei quali era accampato presso Punta Faro a Messina), giunse a Scilla il 3 giugno 1810 e vi restò sino al 5 luglio, quando fu completato il grande accampamento di Piale. Nel breve periodo di permanenza, Murat fece costruire i tre forti di Torre Cavallo, Altafiumara e Piale, quest'ultimo con torre telegrafica (telegrafo di Chappe). Il 26 settembre dello stesso anno, constatando impresa difficile la conquista della Sicilia, Murat dismise l'accampamento di Piale e ripartì per la capitale. Qualche parola in più per la vicenda di Piale. Il 16 maggio Gioacchino iniziò "l'impresa di Sicilia". Lasciò Napoli e partì per la Calabria, nella cui estrema punta, fra Reggio e Scilla, aveva raccolto tre divisioni forti di ventiduemila uomini, una napoletana, due francesi, comandate dai generali Cavaignac, Partounneaux, Lamarque, e circa seicento legni da trasporto e da guerra. Il Re voleva tentare, un'impresa difficilissima, perfino impossibile date le poche le forze che disponeva, visto che un esercito anglo-siculo pari per numero a quello franco-napoletano era ad attenderlo a Messina, mentre una nutrita flotta britannica vigilava ed era pronta ad entrare in azione per impedire ogni sbarco in qualsiasi parte dell'isola. Murat, nonostante il contrario parere del Grenier, Comandante Supremo dell'Esercito, era deciso a passare lo Stretto per compiere un'ardua impresa e conquistarsi la gloria in una regione così vasta e ricca, che solo di nome lui aveva la corona. Sebbene Gioacchino irrequieto bruciasse dal desiderio di toccar la riva opposta, tuttavia trascorsero tre mesi prima di tentare lo sbarco. Il 9 giugno sette cannoniere respinsero dodici navi nemiche; scontri navali avvennero con risultato favorevole alla marina napoletana il 22 e il 29 giugno; il 21 luglio ottanta legni avversari dovettero ritirarsi; altri scontri avvennero il 5, il 7, il 21 e il 25 agosto e il 4 e il 5 settembre. Tra il 17-18 settembre, nella notte, finalmente il Murat decise di tentare il passaggio; la divisione napoletana del generale Cavaignac, forte di duemila uomini, passò lo stretto e sbarcò a Scaletta; ma le divisioni francesi invece non si mossero. Spiegazione di questo stallo sul continente alcuni lo giustificarono con la mancanza di vento, da altri si affermò che si era opposto il Grenier, che aveva ordini segreti in proposito da Napoleone. Non vedendosi sostenuto, il generale Cavaignac minacciato sull'isola dall'esercito anglo-siculo, dai contadini armati e dalla flotta inglese, imbarcò parte della sua divisione e lasciò nell'isola novecento uomini, i quali, dopo una strenua difesa, furono fatti prigionieri. Il 29 settembre 1810 Gioacchino sciolse il campo di Reggio indirizzando alle truppe un Proclama in cui era detto: "...La spedizione contro la Sicilia è rinviata ad un altro momento. Lo scopo che l'Imperatore si era proposto con le minacce di quest'invasione è già conseguito; e la posizione di guerra in cui ci siamo per quattro mesi continui mantenuti con tanta costanza e con tanto onore sullo Stretto, ha nei suoi effetti oltrepassato le concepite speranze..." Napoleone invece rimproverò il cognato non solo per la condotta delle operazioni, ma anche per aver parlato a suo nome nel Proclama e per avere sciolto il campo. L'Imperatore voleva tenere impegnata per tutto l'inverno l'armata inglese davanti a Reggio, e non aveva proprio nessuna intenzione di conquistare la Sicilia. Quando Murat tentò di aggirare il blocco continentale, cioè il divieto di commercio con l'Inghilterra imposto a tutta l'Europa, una vera mostruosità che stava portando alla rovina l'intero continente, Napoleone lo convocò a Parigi e lo minacciò. 11 blocco continentale, pilastro della politica napoleonica per annientare l'Inghilterra, iniziato con la firma del trattato di Berlino nel 1806, si stava rivelando rovinoso per le forze produttrici europee e causò una grande crisi economica all'inizio del 1811. Nelle piazze ardevano enormi falò in cui venivano bruciate le merci coloniali importate illegalmente, zucchero, caffè, indaco, cotone, tè, sotto gli occhi di popolazioni sempre più esasperate verso una Francia non più liberatrice ma sfruttatrice e tiranna, che sopravviveva solo grazie ai sussidi ricavati dalle esose contribuzioni estorte ai paesi vassalli. I giornali inglesi scrivevano «Cesare ha perso la testa». In effetti, anche senza Lipsia, anche senza Waterloo, la barbarie del blocco continentale avrebbe portato alla rovina la mastodontica costruzione imperiale: l'invio di crudeli emissari come il maresciallo Nicolas Davout, che ad Amburgo minacciava di punire i trasgressori delle leggi fra-nÉesi con cinquanta colpi di bastone, non contribuiva a pacificare gli animi. Quando lo Zar Alessandro infranse il blocco, permettendo alle navi inglesi di raggiungere i suoi porti, fu la guerra e Napoleone invase la Russia. Anche il re di Napoli vi partecipò, alla testa di un'unità di cavalleria che all'inizio contava 50 mila uomini e che alla fine si ridusse a non più di 1.200. Memorabili furono i suoi litigi con Davout, che gli rimproverava di ingaggiare la cavalleria senza riconoscere il terreno e di far massacrare uomini e cavalli inutilmente. Murat gli aveva risposto per le rime: «Quando si portano gli occhiali, signor maresciallo (Davout era molto miope), non si fanno più campagne militari». Pieno di ardore quando c'era da sferrare il coup de sabre decisivo, era però incostante e privo di spirito di sacrificio durante le lunghe marce strategiche. In Russia Murat perse definitivamente la sua fede, già vacillante, in Napoleone, che lo aveva nominato comandante in capo dell'armata durante la ritirata, quando nel dicembre 1812 era stato costretto a rientrare frettolosamente a Parigi in seguito al tentativo di colpo di Stato del generale Malet. Davanti ai marescialli allibiti, Gioacchino dichiarò che l'Imperatore era ormai un fou, un insensé al quale nessun governante in Europa poteva più credere. Il capo di Stato Maggiore Alexandre Berthier così scrisse, allarmato, al ministro della Guerra: «Il re di Napoli è il primo uomo sul campo di battaglia, ma il più incapace come comandante in capo; bisogna sostituirlo subito con il viceré (Eugenio Beauharnais) che è pieno di salute e di forza e ha la totale fiducia da parte del duca di Elchingen (Ney) e del maresciallo Gouvion Saint Cyr». Murat intanto si dichiarava malato e alle quattro del mattino del 17 gennaio 1813 lasciava il quartiere generale dell'armata a Vilna e si dirigefa verso Napoli sbraitando. Tornato nel suo regno, iniziò una frenetica politica del doppio gioco, sostenuto dalla regina, per conservare ad ogni costo il trono negli anni di agonia dell'Impero. Già sul punto di firmare un accordo con gli austriaci, combatté nella campagna di Germania, ma dopo la sconfitta di Lipsia nell'ottobre del 1813, lasciò l'esercito e l'Imperatore, che non doveva più rivedere. Nel gennaio dell'anno successivo firmò un trattato segreto con Austria e Gran Bretagna e intervenne con i suoi 30 mila uomini a fianco delle potenze alleate marciando contro l'esercito franco-italiano di Eugenio e affrontandolo sul Taro, presso Reggio. Napoleone giudicò la sua condotta infame e lo bollò con l'appellativo di traitre extraordinaire. In realtà Murat aveva le mani legate: aveva agito con l'unico scopo di evitare l'invasione del suo regno e la restaurazione dei Borboni. Ma dopo la prima abdicazione di Napoleone, nell'aprile del 1814, lo aspettava un'amara sorpresa: gli alleati e soprattutto l'Inghilterra si rifiutarono di riconoscerlo e preparavano un ritorno di re Ferdinando, esiliato dal 1806 in Sicilia. A questo punto l'unica carta che gli restava da giocare era quella, azzardata ma nobile, dell'unità italiana: «Un re che non sa conservare la sua corona - sosteneva - deve almeno morire da soldato». Incoraggiato dall'incredibile sbarco a Cannes di un redivivo Bonaparte, che in pochi giorni riconquistò la Francia, con un ulteriore rovesciamento di alleanze, nel marzo del 1815, alla testa di circa 36 mila napoletani, si mosse verso il nord Italia per affrontare gli austriaci, con il sogno di conquistare la penisola e dichiararne l'indipendenza, come aveva enunciato nel proclama indirizzato agli italiani e firmato a Rimini il 30 marzo. Il suo esercito, dopo alcuni parziali successi, venne però sconfitto a Tolentino il 2 e il 3 maggio, battaglia che alcujii storici considerano la prima del Risorgimento italiano. Il 20 maggio, in seguito al trattato di Casalanza, il re Ferdinando IV di Borbone veniva richiamato a Napoli, Carolina si consegnava agli inglesi e Murat era costretto a rifugiarsi in Provenza. Napoleone rifiutò di impiegare il traitre extraordinaire a Waterloo e dopo la catastrofe in Belgio, Gioacchino, braccato, fuggì in Corsica. Da quest'isola partì per la sua ultima tragica, fatale avventura. Grande soldato e grande comandante di cavalleria, fu con Napoleone in tutte le campagne, pur non rinunciando alle proprie opinioni. Tuttavia non eccelleva nell'arte militare e quando il coraggio e lo sprezzo del pericolo dovevano lasciare il posto al freddo calcolo, alla capacità di valutazione immediata della situazione sul campo di battaglia ed alle relative decisioni strategiche, non dimostrava di capirci granché: si può dire che in battaglia avesse molto più fegato (e cuore) che testa. Quando agiva di propria iniziativa anziché seguire le istruzioni minuziose che il cognato impartiva combinava spesso dei guai. Esprime bene questo aspetto quanto lamentato dal generale Savary a proposito del comportamento avventato di Murat nella battaglia di Heilsberg (10 giugno 1807): «... sarebbe stato meglio che egli [Murat] fosse dotato di meno coraggio e di un po' più di buon senso!» Altrettanto significativi delle qualità e difetti sono due episodi avvenuti fra la battaglia di Ulm e quella di Austerlitz. Il 12 novembre 1805 Murat giunse in vista di Vienna, dichiarata dagli austriaci "città aperta", e stava per attraversare il Danubio nei sobborghi della città utilizzando l'ultimo ponte rimasto agibile che un contingente di genieri austriaci era quasi pronto a far saltare. Non potendo prendere il ponte d'assalto, nel timore che gli artificieri nemici facessero brillare le mine, Murat e Lannes accompagnati dal loro intero stato maggiore si presentarono sulla riva meridionale del Danubio in grande uniforme da parata ed iniziarono ad attraversare a piedi il ponte urlando "Armistizio, armistizio" e sfoggiando grandi sorrisi. Gli ufficiali austriaci che dirigevano le operazioni dei genieri erano interdetti e non osarono far aprire il fuoco sul gruppo di alti ufficiali francesi, apparentemente non più, al momento, belligeranti. Questi attraversarono il ponte e non appena giunti sulla riva settentrionale abbandonarono i sorrisi e, sfoderate le sciabole, si avventarono sugli artificieri più vicini neutralizzandoli. In quel momento una colonna di granatieri del gen. Oudinot, che era rimasta celata nel bosco della riva meridionale, attraversò a passo di carica il ponte e sopraffece facilmente il reparto di genieri austriaci: il ponte era così salvo e le truppe di Murat e Lannes poterono attraversarlo senza pericoli. L'episodio divertì molto Napoleone che "dimenticò" così un precedente, recente svarione del cognato. Poco dopo però, quando la battaglia di Austerlitz stava già volgendo a favore dei francesi, Murat fu convinto dal generale russo Wintzingerode, venuto a parlamentare, a sottoscrivere, senza averne i poteri, una tregua d'armi che ebbe l'unico risultato di consentire al generale russo Bagration di sganciarsi dalla morsa in cui era stato costretto per coprire la ritirata del collega Kutuzov. Ecco che cosa gli scrisse l'infuriato Napoleone quando seppe della tregua sottoscritto con l'astuto Wintzingerode: che l'incauto «Il cognato tuo operato è aveva veramente inqualificabile, e non ho parole per esprimere appieno i miei sentimenti! Tu sei solo un comandante della mia avanguardia e non hai diritto di concludere un armistizio senza un mio preciso ordine in tal senso. Hai buttato all'aria tutti i vantaggi di una intera campagna. Rompi immediatamente la tregua! Attacca il nemico! Marcia! Distruggi l'esercito russo! Gli austriaci si sono lasciati trarre in inganno al ponte di Vienna ma tu ora ti sei lasciatT1*gabbare da un aiutante di campo dello zar!». Inutile dire che Murat non se lo fece ripetere, ma ormai il grosso delle truppe di Bagration si era tratto in salvo.