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Il “caso” dei Giudei – II parte
Gli Ebrei a Roma
Una prima comunità ebraica a Roma comparve attorno al 160 a.C., a opera soprattutto di commercianti. Il proselitismo
degli Ebrei si fece subito intenso, tanto che il Senato - come era successo con i riti bacchici - intervenne con una decisa
opera di repressione (139 a.C.). La comunità di Roma fu poi accresciuta dal 63 a.C. con l'arrivo di numerosi prigionieri
(presto liberati), e così ancora negli anni successivi. Una testimonianza relativa all'anno 4 a.C. parla di ottomila Giudei
romani che accompagnarono la delegazione giunta da Gerusalemme per chiedere ad Augusto di porre fine alla dinastia
di Erode.
Le prime avvisaglie di un certo malessere nei rapporti tra Roma e gli Ebrei risalgono all'età di Tiberio, con la seconda
grande espulsione (poi revocata) della comunità da Roma. Il provvedimento ebbe una ragione esclusivamente religiosa:
la preoccupazione era costituita dall'intenso proselitismo ebraico che già penetrava negli strati più agiati della società
romana. Nel 49 d.C. vi fu un nuovo provvedimento di espulsione, verosimilmente collegato all'arrivo nella capitale di
missionari cristiani, e ai tumulti che ne seguirono all'interno della comunità semita.
In tutti questi casi, non si trattò comunque di fatti sanguinosi e brutali, né tanto meno di manifestazioni di razzismo
anche lontanamente paragonabili al moderno antisemitismo. La civiltà romana non fu razzista, almeno nel senso che
diamo oggi a questa parola; essa guardava il mondo da una prospettiva di superiorità che non era diversa da quella che
ogni grande civiltà antica, dall'Egitto alla Grecia, aveva manifestato nei confronti degli stranieri. E in effetti, non vi fu
nessuno che più dei Romani seppe assimilare in modo altrettanto profondo le genti più disparate e diverse sotto
un'unica idea di civiltà. Le espulsioni degli Ebrei furono determinate da preoccupazioni legate a un principio di ordine e
legalità che andava oltre alle differenze etniche: ciò che ben presto i Romani non poterono più accettare furono i
tentativi degli Ebrei, che diventarono poi dei cristiani, di sottrarsi ai valori civili comuni dello Stato, valori che inglobavano
anche le tradizioni religiose romane. Da questo punto di vista, qualunque comunità avrebbe subito le stesse
conseguenze, se avesse assunto l'atteggiamento "separatista" che fu proprio di ebrei e cristiani.
La crisi finale
Si è detto sopra del "favore" accordato da Augusto a Erode. Figlio di un idumeo e di un'araba, costui non era
considerato dai suoi sudditi un vero israelita, e il suo regno fu da subito mal tollerato dalle frange più conservatrici della
società ebraica. Alla sua morte, Roma intervenne pesantemente nel processo di successione, frazionando la Palestina
in tre regni - affidati ai figli Antipa, Archelao e Filippo -; nel 6 d.C., deposto Archelao, i Romani riunirono la Giudea, la
Samaria e l'Idumea in un'unica provincia - la provincia Iudaea -, con capitale Cesarea, affidandone il governo a un
procuratore con mandato militare, a sua volta dipendente dal governatore della Siria.
Da quel momento, l'amministrazione romana si rese responsabile di una politica fiscale pesantissima, e di errori
psicologici clamorosi, nei confronti di un popolo che precedentemente aveva goduto di una particolare attenzione
proprio sul piano della sua singolare sensibilità religiosa e culturale. Occorre tuttavia rifarsi, per questo, ai progetti politici
di Ottaviano Augusto e alla sua precisa idea di unità politica con cui intendeva caratterizzare la nuova età imperiale.
L'idea augustea di universalità del governo di Roma non poteva affatto concedere sconti a questa o quella regione o
comunità in fatto di diritti e doveri, si trattasse di fisco o di obbedienza alle leggi. Augusto non poté quindi trattare la
Giudea come un "caso a parte" così com'era stato fatto fino all'epoca di Cesare, e questo anche per il fatto che la
definitiva sottomissione della Siria aveva reso inutile ogni particolare riguardo per una regione ormai sotto il totale
controllo di Roma. Ma il problema non furono solo le tasse o l'ingerenza politica. L'intolleranza romana per il fanatismo
religioso e nazionalista giudaico si manifestò con sempre maggior forza nell'opera di repressione militare messa in atto
dai prefetti romani, innescando un circolo vizioso di ribellioni e repressioni che non avrebbe più trovato soluzione se non
nella guerra e nel sangue.
Non c'è dubbio che molto presto, almeno dall'epoca di Pompeo e Crasso, la società romana abbia percepito
nell'ebraismo un elemento di diversità culturale difficilmente assimilabile. E questo è facile da spiegare. L'unico
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avversario di Roma non appartenente alla cultura "indoeuropea" era stata Cartagine, città fenicia di antica discendenza
semita. Per il resto, la potenza italica ebbe sempre a che fare con popoli di cultura affine, politeisti e ben inseriti
nell'universo ellenista, come gli antichi regni orientali già conquistati da Alessandro. Tra tutti, è indubbio che i più restii a
ogni forma di assimilazione furono gli Ebrei, anche se ovviamente non in modo generalizzato. Una parte della società
giudaica aderì ai modelli culturali e politici di tipo greco, ma all'interno dell'aristocrazia intellettuale persistette sempre
una zona impermeabile a ogni compromesso culturale e religioso, appunto quello fariseo da cui si generò, nel I secolo
d.C., la più intransigente e violenta setta degli zeloti. Se in un primo momento Roma aveva accettato, per motivi di
interesse, questa particolarità, ben presto essa si trasformò in un ostacolo e poi in una vera e propria sfida che il potere
imperiale non poté tollerare.
In questo intreccio di motivi politici, religiosi e culturali, si venne ad aggiungere un elemento di carattere mitologico, una
profezia apocalittica legata al mondo iranico, il cui peso psicologico sui comportamenti dei due popoli fu decisivo.
Mentre è assai nota la credenza ebraica, legata alle grandi pagine profetiche della Bibbia, nella venuta di un Messia
discendente dal re David, che avrebbe liberato il regno di Giuda da ogni dominazione straniera, meno conosciuta è la
leggenda di un re vendicatore proveniente da Oriente, diffusa sia tra gli Ebrei (per i quali costituiva naturalmente un
motivo di speranza) che tra i Romani (per i quali fu per lungo tempo motivo di timore). Già durante le guerre romane di
conquista dell'Oriente questo mito aveva fornito ampia materia alla propaganda ideologica. Si pensi al favore che
Ottaviano, pur in un momento politicamente difficile, ottenne da Roma verso la sua campagna militare contro Antonio e
Cleopatra, indicati all'opinione pubblica come l'incarnazione della profezia di una tirannide orientale capace di
minacciare la sopravvivenza di Roma. Scrive lo storico Giulio Firpo:
Nel I secolo a.C. il pericolo orientale veniva dai Parti, e si tentò di esorcizzarlo in vario modo: Crasso e Marco Antonio
fallirono; Cesare, forse, vi sarebbe riuscito, ma non poté realizzare il progetto; Augusto, più accortamente, fece la pace.
Sarebbe davvero interessante conoscere quali inquietudini emotive - oltre che politiche - suscitò a Roma, nel 40 a.C., la
notizia della conquista di Gerusalemme ad opera dell'asmoneo Antigono, sostenuto da un esercito di Parti: un indizio
può comunque rilevarsi, a mio avviso, nella nomina immediata del giovane Erode, profugo a Roma, a re di Giudea. Un
re senza regno, che però, nominato a Roma, si contrapponeva subito, in attesa di tempi migliori, all'avversario venuto
dall'Oriente.
Si può quindi spiegare la feroce determinazione con la quale Romani e Giudei si scontrarono nella fase più acuta della
rinascita nazionalistica ebraica, scoppiata tra il 66 e il 70 d.C. L'ennesima sollevazione antiromana provocata dagli zeloti
a Gerusalemme portò a gravi perdite nella guarnigione romana di stanza nella città. Vespasiano incaricò quindi il figlio
Tito di soffocare una volte per tutte il focolaio zelota e, nel 70 d.C., il generale romano conquistò Gerusalemme
distruggendo il Tempio. A seguito di questa catastrofe, circa un migliaio di zeloti, guidati da Elazar ben Yair, si
rifugiarono nella fortezza di Masada, una roccaforte costruita da Erode nei pressi del Mar Morto. Qui, dopo tre anni di
duro assedio, i ribelli si sottrassero alla resa con un tragico suicidio collettivo, che non risparmiò donne e bambini.
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L'altopiano di Masada, nell'attuale Palestina
Sedata l'insurrezione, la provincia Iudaea fu affidata direttamente a un governatore. Nel 132 d.C. divampò l'ultima
grande ribellione, guidata da Shimon Bar-Kochba, scatenata dalla volontà di Adriano di costruire una nuova città sulle
rovine di Gerusalemme, innalzando un tempio a Giove Capitolino sul colle di Sion. Il bilancio della nuova guerra fu
ancora più disastroso del precedente. La provincia mutò il suo nome in Palestina («terra dei Filistei»), e non si
risollevò più fino al IV secolo, quando il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell'impero e si intensificarono i
pellegrinaggi in quella che cominciò a essere chiamata Terra Santa.
Su questo tema, vedi Firpo G., I Giudei, in Storia di Roma, 2° vol., cit., pp. 545 e seguenti.
In Firpo G., cit., p. 546.
Il video è rilasciato ai sensi dell'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore, comma 1 bis.
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In questa unità
Testo: Civiltà in rete
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Metaredazione: Donatella Piacentino
Revisione: Patricia Badji
Editore: BBN
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