S A N TA S E D E Cina l’ attesa normalizzazione L’ i n c o m p r e n s i o n e a n t i c a , l ’ i n t e r r o g a t i v o p r e s e n t e P er capire l’atteggiamento della Santa Sede bisogna fare necessario riferimento alla storia, almeno agli ultimi sessant’anni, a partire cioè dalla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (RPC) da parte di Mao Zedong nel 1949. La riassumono egregiamente i primi capitoli dell’opera a cui rimando per sapere che cos’è il Movimento delle tre autonomie, l’Associazione Patriottica, la Chiesa cinese indipendente, i cattolici «patriottici», i cattolici «clandestini», l’elezione e la consacrazione autonoma dei vescovi, ecc.1 Gli avvenimenti Su questa storia tribolata vorrei fare due riflessioni. La prima: la semplice elencazione dei fatti non rende sufficientemente conto delle sofferenze fisiche e morali, dei drammi personali e collettivi, delle lacerazioni che essi hanno prodotto. Possiamo immaginarli, ma solo Dio li conosce a fondo: ciò ci obbliga a essere estremamente prudenti nelle nostre valutazioni, «evitando giudizi e condanne reciproche». Così si esprime Benedetto XVI nella Lettera ai vescovi, ai presbiteri, alle persone consacrate e ai fedeli laici della Chiesa cattolica nella Repubblica Popolare Cinese ([Lettera], n. 7; Regno-doc. 13,2007, 390), richiamando il principio etico fondamentale per cui «specialmente in assenza di un vero spazio di libertà, per valutare la moralità di un atto occorre conoscere con particolare cura le reali intenzioni della persona interessata, oltre alla mancanza oggettiva. Ogni caso dovrà essere, quindi, vagliato singolar- 530 IL REGNO - AT T UA L I T À 16/2008 mente, tenendo conto delle circostanze». Di questo passaggio ha pubblicato un bel commento su L’Osservatore Romano del 20 agosto 2008 p. Wojciech Giertych, teologo della casa pontificia, intitolandolo: «Perdona, piuttosto che condannare» e osservando che è stata cura del papa evitare facili accuse e non dare un giudizio morale di condanna (anche su coloro che non sono in un rapporto canonicamente regolare con la Santa Sede). La seconda riflessione: questa storia tormentata ci apre alla certezza espressa dal Salmo 125: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo». Paolo VI, nell’udienza generale del 31 agosto 1966, si domandava: «Non saranno proprio queste sofferenze e questo martirio il seme d’una futura ripresa del cattolicesimo in quell’immenso e a noi sempre carissimo paese?». E come ribadiva Benedetto XVI nell’Angelus del 26 dicembre 2006: «Le (loro) tribolazioni sono fonte di vittoria, anche se al momento possono sembrare un fallimento». Mi soffermo un po’ più a lungo sui rapporti diplomatici fra Santa Sede e Cina stabiliti il 6 luglio 1946, con la nomina di mons. Antonio Riberi a internunzio apostolico, dopo i delegati apostolici Celso Costantini e Mario Zanin. Permettetemi una parentesi circa mons. Costantini, veneto di ConcordiaPordenone, amministratore apostolico di Fiume, delegato apostolico in Cina, poi cardinale, il quale, negli appunti presi durante gli incontri a Roma prima della sua partenza, scriveva: «La Santa Sede non ha nessuna mira imperialista in Cina. La politica delle potenze stra- niere non è affare suo. Il papa ama la Cina e desidera sinceramente il suo bene. La Cina ai cinesi» (C. COSTANTINI, Con i missionari in Cina. Memorie di fatti e idee [1922-1933], vol. 1, UMDC, Roma 1946, 4). Che strano! In anticipo rispetto al Movimento delle tre autonomie, Roma – perché quello era il pensiero non di Costantini soltanto, ma del papa Pio XI e dei superiori della curia romana – esprimeva quelle giuste esigenze di inculturazione che poi furono portate alle estreme conseguenze dagli avvenimenti politici, sbilanciando quella costruzione «armoniosa» che doveva allora, e deve, costituire il traguardo da raggiungere, cioè una Chiesa pienamente incarnata nella società e nella cultura cinese e, insieme, pienamente cattolica, secondo «il disegno originario di Gesù» (Lettera, n. 7; Regno-doc. 13,2007,385ss). Nell’aprile 1949, con l’esercito popolare di liberazione ormai alle porte, il governo di Chiang Kai-shek lasciò Nanchino e si rifugiò a Taiwan. Lo seguì gran parte del corpo diplomatico, tranne i rappresentanti di Santa Sede, Stati Uniti, Italia e Francia. L’internunzio, seguendo le istruzioni della Santa Sede, rimase in città, nel tentativo di prendere contatto con il governo appena instaurato a Pechino – che, da parte sua, lo ignorò completamente – e di continuare a condividere le sorti della Chiesa, anche qualora fosse venuta meno ogni possibilità di svolgere funzioni diplomatiche. È probabile che, rimanendo a Nanchino, mons. Riberi volesse dare in prima persona l’esempio a tutti i missionari ai quali chiedeva di re- Matteo Ricci e papa Benedetto XVI. stare in Cina. Questa scelta poi, probabilmente corrispondeva al desiderio della Santa Sede di non apparire legata al governo di Chiang Kai-shek come l’espressione politica del popolo cinese; a conferma di ciò, va rilevato che quando il ministro plenipotenziario del governo nazionalista presso la Santa Sede, il cattolico John C.H. Wu, lasciò improvvisamente Roma nel giugno 1949, egli non fu sostituito e, nonostante le pressioni di Taipei, il posto rimase vacante per tre anni. Dopo una massiccia campagna di stampa contro di lui, nel giugno 1951 mons. Riberi fu posto sotto sorveglianza. Il 5 settembre fu espulso dalla Cina continentale e si stabilì prima ad Hong Kong e in seguito a Taipei. Il 20 maggio 1959 Giovanni XXIII inviò a Taiwan, come nuovo internunzio, mons. Giuseppe Caprio il quale era stato segretario del suo predecessore nella Cina continentale ed espulso insieme a lui. Pochi mesi dopo, la Santa Sede accettò di riconoscere al legato di Taipei il rango di ambasciatore e, alla fine del 1966, mons. Caprio divenne pro-nunzio apostolico. È ovvio che il rafforzarsi dei legami diplomatici con Taipei e il maggiore riconoscimento dato all’«altra Cina» non poteva facilitare i rapporti con la RPC, ma, a questo riguardo, si potrebbe osservare che la Santa Sede non cambiò mai la denominazione della sua rappresentanza, continuandola a chiamare nunziatura apostolica in Cina, anche se, per il momento e a causa di forze maggiori, dislocata a Taiwan. Probabilmente ricorderete le «famose» affermazioni del card. Angelo Sodano, segretario di stato, risalenti all’ormai lontano febbraio 1999 e poi riprese varie volte. Disse che la Santa Sede era pronta a trasferire la sua nunziatura da Taipei a Pechino «non domani, ma stasera stessa, se le autorità cinesi lo permettono. La nunziatura di Taipei è già la nunziatura in Cina. Prima essa era a Pechino, poi a Nanchino, dove il nunzio fu scacciato e costretto a trasferirsi a Hong Kong e poi a Taiwan. Riportarla a Pechino non significa interrompere le relazioni con Taiwan, ma far ritornare la nunziatura là dove essa era all’inizio». Da parte di Pechino si afferma che gli ostacoli alle relazioni diplomatiche con la Santa Sede sono due: il Vaticano «deve interrompere i rapporti con Taiwan» e «non deve immischiarsi negli affari interni cinesi, inclusi quelli religiosi». Ma – come abbiamo visto – la questione di Taiwan non è mai stata un grosso problema per la Santa Sede, la quale già dal 1972, praticamente in coincidenza con l’ammissione della Cina comunista alle Nazioni Unite, ha fatto il passo di non inviare più nunzi a Taipei, ma solo incaricati d’affari ad interim: l’attuale è mons. Paul Russel, uno statunitense, nominato qualche mese fa. I contat ti Da parte della Santa Sede si ripeterono in quel periodo le condanne. Pio XII intervenne due volte, con la lettera apostolica Cupimus imprimis (18.1.1952) contro il movimento patriottico di riforma della Chiesa e con l’enciclica Ad Apostolorum principis (29.6.1958), sulla questione delle ordinazioni illegittime dei vescovi. Nonostante ciò, attraverso i canali diplomatici di governi amici, egli cercò più volte di entrare in contatto con Mao. Con l’avvio della preparazione del concilio Vaticano II, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, la Santa Sede decise di ridurre la polemica contro la politica antireligiosa della Cina, fino a farne scomparire qualsiasi riferimento dai discorsi del papa. I tentativi di avvicinamento si moltiplicarono durante il pontificato di Giovanni Paolo II, a partire dal discorso che egli tenne a Manila, il 18 febbraio 1981, davanti a un gruppo di cinesi d’oltremare, discorso che, secondo alcuni, avviò la strategia vaticana per «normalizzare» la questione cinese (cf. Regno-doc. 7,1981,194). Il papa non si lasciò sfuggire l’occasione offerta da alcuni segnali di apertura provenienti da Pechino, tra cui l’autorizzazione per una visita in Cina dei cardd. Etchegaray e König. La visita permise di prendere atto dei mutamenti politici avvenuti nell’immenso paese e dell’atteggiamento nuovo, più aperto e ben disposto verso le religioni, grazie alla politica della «porta aperta» di Deng Xiaoping. Al riguardo, è doveroso rilevare che tale atteggiamento è andato evolvendo in senso positivo anche negli anni successivi. Sebbene l’ateismo resti uno dei capisaldi del Partito comunista cinese, ai credenti è permesso di professare la propria fede, a condizione di obbedire alle leggi e di non interferire in politica. Nella visione della «società armoniosa» del presidente Hu Jintao, poi, la religione ha una funzione sociale, di fronte all’aumento dei problemi sociali (individualismo, distanza tra ricchi e poveri, inquinamento ecc.). Segno particolarmente eloquente di tale evoluzione è la riunione plenaria del Politburo del 18 dicembre 2007, tenutasi dopo la celebrazione del XVII Congresso del Partito comunista cinese, il quale, per la prima volta nella sua storia, si è concentrato sulla questione religiosa: ha valutato come «positiva» l’influenza della religione sulla vita sociale e ha accennato al fatto che le personalità religiose devono essere formate secondo gli standard richiesti dalla religione. D’altra parte, non mancano le IL REGNO - AT T UA L I T À 16/2008 531 difficoltà, che non ci sono certamente sconosciute. Ritornando a Giovanni Paolo II, non è possibile citare qui tutti i suoi interventi dedicati alla Cina, ma non possiamo passare sotto silenzio il Messaggio che egli ha inviato nell’autunno 2001 ai partecipanti a un Convegno internazionale per commemorare il 400° anniversario dell’arrivo a Pechino di Matteo Ricci, grande missionario, letterato e scienziato italiano, celebre figlio della Compagnia di Gesù (cf. Regnodoc. 21,2001,681). Di Giovanni Paolo II desidero ricordare anche il suo grande desiderio di andare in Cina. Ritornando da un viaggio apostolico negli Stati Uniti, ai giornalisti che sull’aereo gli chiedevano in quali altri paesi gli sarebbe piaciuto andare, rispose: «I più grandi. Un tempo era l’Unione Sovietica, adesso è la Russia europea e asiatica. E poi la Cina». Della possibilità di una visita del papa in Cina si è tornato a parlare di recente, in occasione dei giochi olimpici. Particolare risonanza hanno avuto le parole di mons. Li Shan, nell’intervista rilasciata al TG1 del 20 agosto: «Speriamo che Benedetto XVI possa fare un viaggio in Cina. È un grande desiderio e noi stiamo sperando da lungo tempo che possa accadere». «Totalmente prematuro – ha commentato il giorno dopo p. Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede – ma le parole di mons. Li Shan mostrano che tutti i cattolici cinesi amano e rispettano il papa. Riconoscono la sua autorità e sarebbero contenti di incontrarlo. Questo è certamente un aspetto molto positivo e incoraggiante». Lo stesso p. Lombardi ha letto l’intervista al vescovo di Pechino come «uno dei segnali da parte cinese in risposta alla disponibilità e speranza manifestata dal papa nella sua lettera di un anno fa, di cercare la normalizzazione delle relazioni fra la Cina e la Santa Sede». I principi Siamo così condotti all’attualità, al santo padre Benedetto XVI, il cui pensiero e il cui atteggiamento nei confronti della Cina, in continuità con l’insegnamento del suo predecessore, sono consegnati nella Lettera, che porta la data del 27 maggio 2007, solennità di Pentecoste. 532 IL REGNO - AT T UA L I T À 16/2008 Lo scopo prioritario della Lettera è di rispondere ai tanti dubbi e interrogativi che preoccupano i cattolici cinesi circa la vita della Chiesa e l’opera di evangelizzazione. Sono stati proprio essi a chiedere al papa di parlare: «Se non parla Roma – si è chiesto un vescovo – chi dovrebbe farlo?». È doveroso notare, innanzi tutto, che Benedetto XVI si rivolge a tutti i membri della Chiesa cattolica in Cina, senza distinguere tra «ufficiali» e «clandestini», ricordando tuttavia che ci sono stati e ci sono coloro che «mantengono la propria fedeltà alla sede di Pietro senza cedere a compromessi, a volte anche a prezzo di gravi sofferenze» (BENEDETTO XVI, Angelus, 26.12.2006). Il papa intende favorire la loro unità, che, di fronte alle tensioni, divisioni e recriminazioni che la minacciano e la mortificano, deve esprimersi soprattutto come «un travagliato sforzo di riconciliazione», fatto di purificazione della memoria, perdono di chi ha fatto del male, dimenticanza dei torti subiti, riappacificazione dei cuori nell’amore, da realizzare nel nome di Gesù crocifisso e risorto (cf. Lettera, n. 6; Regno-doc. 13,2007,388). La Lettera è soprattutto questo: un insistente e appassionato invito alla riconciliazione fra le comunità «ufficiale» e «clandestina», un’esortazione a ritrovare la via della comunione e della fraternità. Il papa stesso è consapevole che il cammino non sarà né facile né breve («non potrà compiersi dall’oggi al domani») e questo primo anno abbondante trascorso dalla pubblicazione del documento gli ha dato ragione, confermando che c’è molto lavoro da fare, all’interno della Chiesa in Cina, per applicarne le indicazioni e raggiungerne gli obiettivi. Non vanno, tuttavia, trascurati alcuni positivi sviluppi, che fanno ben sperare; la Chiesa intera deve continuare a elevare un’insistente preghiera a tale scopo. Vorrei ora far risaltare, all’interno della Lettera, le linee-guida della cosiddetta «strategia» della Santa Sede nei confronti della Cina, gli elementi cioè che sostanziano la sua volontà e i suoi sforzi per giungere alla normalizzazione dei rapporti con la Cina, per superare quella «pesante situazione di malintesi e di incomprensione» che «non giova né alle autorità cinesi né alla Chiesa cattolica in Cina» (Lettera, n. 4; cf. Re- gno-doc. 13,2007,387). La «strategia» della Santa Sede non ignora i problemi, ma sa che per avvicinarsi bisogna cercare quello che unisce, pur nella chiarezza e nell’irrinunciabilità dei principi. Tali linee-guida sono sintetizzabili in tre punti: a) amore intenso e sincero al popolo cinese. Amore è la profonda simpatia e stima per la sua storia, cultura e tradizione, per lo splendore della sua millenaria civiltà che, con tutta la sua esperienza sapienziale, filosofica, scientifica e artistica, l’ha distinto fra gli altri popoli dell’Asia; amore è rispetto e ammirazione per «i passi rilevanti, che nei tempi recenti esso ha compiuto nei campi sociale, economico ed educativo, sia pure nel perdurare di non poche difficoltà»; amore è il proposito di «offrire ancora una volta, un umile e disinteressato servizio per il bene dei cattolici cinesi e per quello di tutti gli abitanti del paese»; amore è il rammarico e la richiesta di perdono e di comprensione per gli errori e i limiti dell’azione dei membri della Chiesa in Cina, che hanno potuto ingenerare in non pochi «l’impressione di una mancanza di rispetto e di stima della Chiesa cattolica per il popolo cinese, inducendoli a pensare che essa fosse mossa da sentimenti di ostilità nei confronti della Cina» (a questo proposito, mi permetto di osservare che tale atteggiamento è permanente, indipendentemente dal fatto di non essere stato esplicitamente citato nella Lettera del papa); amore è la ricerca serena, imparziale ed esaustiva della verità storica, alla quale la Santa Sede «è sempre pronta a offrire la propria disponibilità e collaborazione» (Messaggio, n. 5; Regno-doc. 21,2001,683). Molto bello il passo dove Giovanni Paolo II, riferendosi al Trattato sull’amicizia scritto da Matteo Ricci, esprime un «forte pensiero di amicizia verso tutto il popolo cinese», sentimento che, insieme all’apprezzamento, anima anche il suo successore (Lettera, n. 4; cf. Regno-doc. 13,2007,386s) e anima anche i suoi collaboratori. b) Verità: il papa puntualizza, innanzitutto, a seguito della Gaudium et spes n. 76 e della Deus caritas est n. 28, quali sono i rapporti tra la comunità politica e la Chiesa in Cina, e li riassume così: «Anche la Chiesa cattolica che è in Cina ha la missione non di cambia- re la struttura o l’amministrazione dello stato, bensì di annunziare agli uomini il Cristo, salvatore del mondo». Ne derivano due conseguenze: da una parte che «la Chiesa, nel suo insegnamento, invita i fedeli a essere buoni cittadini, collaboratori rispettosi e attivi del bene comune», essendo questo già uno dei pilastri della metodologia scientifica e apostolica di Matteo Ricci, e cioè che «i cinesi, abbracciando il cristianesimo, in nessun modo avrebbero dovuto venir meno alla lealtà verso il loro paese» (Messaggio, n. 3; Regno-doc. 21,2001, 682); dall’altra, la Chiesa «chiede allo stato di garantire ai medesimi cittadini cattolici il pieno esercizio della loro fede, nel rispetto di un’autentica libertà religiosa» (Lettera, n. 4; Regno-doc. 13,2007,386s). Ciò significa, per scendere ulteriormente in dettaglio, che le autorità politiche debbono astenersi dall’interferire indebitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina della Chiesa. Al rapporto tra comunità ecclesiali e organismi statali che «sono stati imposti come principali responsabili della vita della comunità cattolica», Benedetto XVI dedica l’intero, lungo settimo paragrafo della Lettera, di cui cito soltanto due passi: «Considerando “il disegno originario di Gesù” risulta evidente che la pretesa di alcuni organismi, voluti dallo stato ed estranei alla struttura della Chiesa, di porsi al di sopra dei vescovi stessi e di guidare la vita della comunità ecclesiale, non corrisponde alla dottrina cattolica, secondo la quale la Chiesa è “apostolica”, come ha ribadito anche il concilio Vaticano II»; e ancora: «Anche la dichiarata finalità dei suddetti organismi di attuare “i principi di indipendenza e autonomia, autogestione e amministrazione democratica della Chiesa” è inconciliabile con la dottrina cattolica» (Regno-doc. 13,2007,389s). Ciò, ovviamente, non significa che non si possa dialogare con le autorità circa quegli aspetti della vita della comunità ecclesiale che ricadono nell’ambito civile, come pure che si debba rifiutare il riconoscimento concesso dalle autorità civili, a condizione che esso non comporti la negazione di principi irrinunciabili della fede e della comu- nione ecclesiale. Nei casi concreti in cui si tratta di decidere se chiedere o meno tale riconoscimento, «la Santa Sede, dopo aver riaffermato i principi, lascia la decisione al singolo vescovo che, sentito il suo presbiterio, è meglio in grado di conoscere la situazione locale, di soppesare le concrete possibilità di scelta e di valutare le eventuali conseguenze all’interno della comunità diocesana», esortando affinché si mantenga l’unità della comunità diocesana col proprio pastore – anche se non tutti ne condividono la scelta – si evitino scandali e si viva nella comunione e nella comprensione fraterna. c) Dialogo: «Anche la Chiesa catto- La Santa Sede intende perseverare nella «normalizzazione» dei rapporti con la Repubblica popolare cinese, persuasa che essa è un paese «nobile e grande». Quest’opera merita ogni sforzo e ogni sacrificio. lica di oggi non chiede alla Cina e alle sue autorità politiche nessun privilegio, ma unicamente di poter riprendere il dialogo, per giungere a una relazione intessuta di reciproco rispetto e di approfondita conoscenza» (Messaggio, n. 4; Regno-doc. 21,2001,682). «Non è un mistero per nessuno che la Santa Sede, a nome dell’intera Chiesa cattolica e – credo – a vantaggio di tutta l’umanità, auspica l’apertura di uno spazio di dialogo con le autorità della Repubblica popolare cinese, in cui, superate le incomprensioni del passato, si possa lavorare insieme per il bene del popolo cinese e per la pace del mondo» (Messaggio, n. 6; Regno-doc. 21,2001,683). «La Santa Sede rimane sempre aperta alle trattative, necessarie per superare il dif- ficile momento presente» (Lettera, n. 4; Regno-doc. 13,2007,386). Tale dialogo mira alla normalizzazione dei rapporti tra la RPC e la Santa Sede. Esso chiede tempo e presuppone la buona volontà delle due parti. Esso avrebbe indubbiamente ripercussioni positive per il cammino dell’umanità. I tentativi di dialogo, com’è noto, si sono succeduti nel corso degli anni. La fase degli anni novanta fu bruscamente interrotta da due episodi inattesi, avvenuti durante il giubileo del 2000: l’ordinazione episcopale di cinque vescovi «patriottici», non approvati dal papa, a Pechino, il 6 gennaio; la canonizzazione di 120 martiri cinesi (che vissero in un periodo compreso tra il 1648 e il 1930) in piazza San Pietro, il 1° ottobre, considerata una «provocazione» da parte del governo cinese sia per il fatto che i martiri erano considerati imperialisti al servizio degli interessi stranieri sia perché la data coincideva con la festa nazionale cinese, cioè l’anniversario della proclamazione della RPC. I contatti ripresero in occasione della morte di Giovanni Paolo II e dell’elezione di Benedetto XVI, il quale, nel primo discorso al corpo diplomatico presso la Santa Sede, il 12 maggio 2005, espresse l’auspicio – con particolare riferimento alla Cina – di vedere al più presto rappresentate presso la sede apostolica le nazioni con le quali essa non intrattiene ancora relazioni diplomatiche. Delle principali questioni da discutere e da risolvere mi limito a segnalarne alcune: – la nomina dei vescovi, per la quale si tratta di arrivare a un accordo con il governo circa «sia la scelta dei candidati all’episcopato, sia la pubblicazione della nomina dei vescovi sia il riconoscimento – agli effetti civili in quanto necessari – del nuovo vescovo da parte delle autorità civili» (Lettera, n. 9; Regno-doc. 13,2007,392); – i vescovi cosiddetti «clandestini»: «La clandestinità – ha ricordato il papa – non rientra nella normalità della vita della Chiesa e la storia mostra che pastori e fedeli vi fanno ricorso soltanto nel sofferto desiderio di mantenere integra la propria fede e di non accettare ingerenze di organismi statali in ciò che IL REGNO - AT T UA L I T À 16/2008 533 tocca l’intimo della vita della Chiesa. Per tale motivi la Santa Sede auspica che questi legittimi pastori possano essere riconosciuti come tali dalle autorità governative anche per gli effetti civili, in quanto necessari» (Lettera, n. 8; Regnodoc. 13,2007,391s); – i vescovi «illegittimi», cioè coloro che, ora ridotti a un numero molto ristretto, sono stati ordinati senza il mandato pontificio e non hanno chiesto o non hanno ottenuto la necessaria legittimazione; – il riconoscimento della Conferenza episcopale (cf. Lettera, n. 8; Regnodoc. 13,2007,391s); – la cosiddetta «indipendenza» della Chiesa ecc. I gesti Non vorrei terminare queste mie considerazioni senza ricordare i gesti, alcuni almeno, che la Santa Sede ha posto per creare un clima di amicizia, di fiducia e di comprensione, capace di favorire l’avvicinamento delle parti. Il primo grande gesto è stata la decisione di papa Giovanni Paolo II di legittimare, a determinate condizioni, i vescovi «illegittimi». Certo si tratta di un gesto che si colloca a un livello qualitativamente diverso rispetto ai gesti che richiamerò successivamente; mi pare, però, che per quanto riguarda le autorità cinesi esso possa e debba essere interpretato in questa luce. Ne parla l’ottavo paragrafo della Lettera: «Altri pastori, sotto la spinta di circostanze particolari, hanno acconsentito a ricevere l’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio ma, in seguito, hanno chiesto di poter essere accolti nella comunione con il successore di Pietro e con gli altri fratelli nell’episcopato. Il papa, considerando la sincerità dei loro sentimenti e la complessità della situazione, e tenendo presente il parere dei vescovi viciniori (...) ha concesso a essi il pieno e legittimo esercizio della giurisdizione episcopale» (Regno-doc. 13,2007,391s). A essi il papa chiede di rendere di pubblico dominio l’avvenuta legittimazione e di porre gesti inequivocabili di piena comunione con il successore di Pietro. Nel 2007 papa Benedetto XVI ha creato una Commissione per la Chiesa cattolica in Cina, con il compito di aiutare la Santa Sede, in modo particolare 534 IL REGNO - AT T UA L I T À 16/2008 la Segreteria di stato e la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, nella comprensione e nell’esame delle questioni di maggiore importanza, sia dottrinali sia pastorali, riguardanti la Chiesa cattolica in Cina e i suoi rapporti con la società civile. Durante l’anno in corso: – nella riunione sulla Chiesa in Cina, svoltasi in Vaticano nei giorni dal 10 al 12 marzo, «in linea con le indicazioni, espresse dal papa nella sua Lettera, si è ribadita la volontà di dialogo rispettoso e costruttivo con le autorità civili» (Comunicato della sala stampa della Santa Sede sull’incontro della Commissione sulla Chiesa in Cina, 179/2008, 13.3.2008); – nell’udienza generale del 19 marzo, il papa ha espresso la propria preoccupazione per le difficoltà sorte nel Tibet e ha invitato a scegliere la via del dialogo e della tolleranza; – il concerto del 7 maggio ha permesso a Benedetto XVI – per dirlo con le sue stesse parole – di «accogliere idealmente in Vaticano l’intero popolo cinese» e di ricordare che le Olimpiadi sono «un evento di grande valore per l’umanità intera» (sulle Olimpiadi il papa è ritornato anche successivamente, nel post-Angelus di domenica 3 agosto); in quella circostanza, per la prima volta dalla rivoluzione del 1949 un ambasciatore della RPC ha stretto la mano al papa. È stato un momento commovente! E la scena è stata trasmessa dalla televisione in Cina. – nelle parole rivolte il 25 maggio ai pellegrini di lingua cinese in piazza San Pietro e nell’invio di un dono in denaro, il papa ha espresso la sua solidarietà per i terremotati del Sichuan; – la sollecitudine della Santa Sede per evitare tensioni fra le due parti si è manifestata nel modo prudente in cui è stata gestita la giornata di preghiera per la Chiesa in Cina (24.5.2008), ivi compreso il progetto iniziale di un pellegrinaggio della diocesi di Hong Kong a Sheshan; – parlando ai vescovi di Hong Kong e di Macao in occasione della loro visita ad limina, il 27 giugno, Benedetto XVI ha espresso l’augurio «che arrivi presto il giorno in cui anche i vostri confratelli della Cina continentale possano venire a Roma in pellegrinaggio sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, in segno di comunione con il successore di Pietro e con la Chiesa universale»; – non sono mancati i saluti del papa ai cinesi, rivolti in varie occasioni (l’ultima in ordine di tempo è stato il festival organizzato dalla Fondazione Soong Ching Ling). Ci sono stati, ovviamente, altri gesti della Santa Sede che non sono stati interpretati in maniera amichevole, nonostante che, nelle loro intenzioni, non avessero alcuna connotazione ostile; ciò sta a significare che ancora c’è strada da fare per superare «l’incomprensione antica», ma la strada si sta facendo. Desidero poi concludere con una nota positiva: Alessandro Valignano, nato nel 1539 a Chieti, fu coordinatore delle missioni gesuite in Asia e maestro di Matteo Ricci nella «politica» missionaria di «adattamento culturale», per cui egli «voleva, e con forza, che in tutto quello che è compatibile col domma e con la morale evangelica, i missionari si facessero indiani in India, cinesi in Cina, giapponesi con i Giapponesi. Così per il cibo, per le vesti, per i costumi sociali, insomma per tutto quello che non è peccato». Quanto la Cina occupasse i suoi pensieri è dimostrato da un aneddoto, secondo il quale egli avrebbe un giorno guardato dalla finestra del Collegio di Macao, in cui risiedeva, in direzione dell’impero cinese, pronunciando la frase: «Oh Rocca, oh Rocca, quando finalmente ti aprirai?». Questo stesso sospiro (...) può uscire dalla bocca di qualcuno anche ai nostri giorni, ma più che i sospiri la Santa Sede condivide la volontà di quel grande missionario e intende perseverare nell’impresa della «normalizzazione» dei rapporti con la RPC, persuasa che la Cina è un paese «nobile e grande», mossa da sentimenti di stima e di amicizia, convinta che quest’opera merita ogni sforzo e ogni sacrificio. Pietro Parolin 1 Questo articolo riproduce, con alcuni aggiustamenti redazionali, l’intervento che mons. Parolin, sottosegretario della Santa Sede per i rapporti con gli stati, ha pronunciato a Sovizzo Colle (VI) lo scorso 19 settembre in occasione della presentazione del volume: F. SCISCI, F. STRAZZARI, Santa Sede – Cina, l’incomprensione antica, l’interrogativo presente, EDB, Bologna 2008.