I Resin soaps di Richard Wolbers. Negli anni 80, Richard Wolbers, ricercatore e delle Winterthur Museum in Wilmington, Delaware, ha sviluppato i cosiddetti Resin soaps, tensioattivi anionici moderatamente alcalini, adatti per la rimozione di vernici a base di resine naturali, dando cosi una nuova veste, più scientifica, al vecchio ma pur sempre valido principio similia a similibus solvuntur, il simile sciogliere il simile. I1 termine soaps sta ad indicare che si tratta appunto di tensioattivi anionici, cioe saponi, e il termine Resin che sono attivi su materiali resinosi. L'azione dei Resin soaps è la risultante di due diversi processi chimicofisici, resi possibili dalle particolari proprietà di queste molecole: le normali proprietà tipiche di un sapone (cioè quelle superficiali e detergenti) e la natura alcalina. Queste sono responsabili, rispettivamente, della capacità bagnante, emulsionante e detergente e di una certa azione ionizzante e dissociante nei confronti di substrati macromolecolari aventi caratteristiche acide. Oltre a queste proprietà, tipiche di tutti i saponi in generale, i Resin soaps possiedono una particolare proprietà, correlata alla loro struttura chimica, che li differenzia da tutti gli altri saponi. Questa è la proprietà chimicofisica che potremmo definire come affinità strutturale al substrato su cui agiscono. I Resin soaps Tensioattivi anionici e moderatamente alcalini, adatti per la rimozione di vernici a base di resine naturali Similia a Similibus Solvuntur Proprietà chimico-fisiche proprietà superficiali e detergenti natura alcalina • capacità bagnante • emulsionante • detergente • azione ionizzante •azione dissociante affinità strutturale al substrato su cui agiscono Composizione e modo d'azione. Consideriamo infatti i componenti dei due Resin soaps, l ' acido abietico (ABA il costituente principale della colofonia naturale) e l’acido deossicolico (DCA, un componente della bile umana) costituiti, rispettivamente, da una struttura terpenica e una steroidea. Entrambe le molecole sono acide, per la presenza del gruppo carbossilico (-COOH): possono dunque essere salificate per reazione con una base. Il corrispondente sale è idrosolubile e, dissociandosi in acqua, libera un anione con proprietà di tensioattivo, in quanto possiede i requisiti strutturali che abbiamo precedentemente discusso: • una parte lipofila (la lunga catena idrocarburica in forma ciclica, 20 atomi di carbonio nel caso di ABA e 24 nel caso di DCA) • e una idrofila (il gruppo carbossilato). Una soluzione acquosa di questi Resin soaps si comporterà dunque come un tensioattivo anionico. Occorre dunque salificare queste due molecole con una base, in modo da ottenere i corrispondenti sali, e si può fare con una varietà di basi organiche e inorganiche. Secondo la preparazione originale di Wolbers, ad esempio, ABA può essere salificato con la base organica trietanolammina, TEA, formando il corrispondente sale, trietanolammonio abietato, ABA-TEA, come mostrato. Tra le diverse basi provate (monoetanolammina, dietanolammina, trietanolammina, idrossido di ammonio, idrossido di sodio), o possibili, TEA ha mostrato le migliori caratteristiche • dal punto di vista della solubilizzazione del sale, • contenuto valore di pH, • carattere non caustico • e non tossico. Composizione e modo d'azione I componenti dei due Resin soaps salificato con una base sale idrosolubile anione con proprietà di tensioattivo 2 6 Visto the i Resin soaps si propongono come alternative non tossiche rispetto certi metodi tradizionali, non avrebbe molto senso utilizzare nella loro preparazione dei componenti pericolosi o tossici. In modo del tutto analogo, DCA salificato con TEA formerà il corrispondente sale trietanolammonio deossicolato, DCA-TEA. Questi due sali in soluzione acquosa (in cui possono dissociarsi) si comporteranno dunque come tensioattivi anionici, o saponi (soaps). Agiranno come abbiamo descritto in precedenza: • avranno attività superficiale, • attraverso la formazione di micelle, avranno potere emulsionante e detergente. Ma queste sono azioni del tutto generali per tutti i tensioattivi. La caratteristica particolare di questi soaps stà nella loro struttura. Notiamo infatti la somiglianza strutturale tra queste due molecole e quelle a carattere terpenico, mostrate nella figura , costituiscono la maggior parte delle resine naturali, da sempre usate nelle preparazioni di vernici finali per opere d'arte policrome. Grazie alla somiglianza strutturale, delle molecole del sapone sono in grado di avere una particolare interazione specifica , c o n le molecole della resina naturale. 28 I1 meccanismo d'azione del sapone può dunque essere schematizzato come nelle figure. 1. Immaginiamo uno strato continuo di vernice, costituito da molecole di una resina naturale, essenzialmente a carattere lipofilo idrorepellente, che quindi non può essere efficacemente bagnato dalle molecole della soluzione acquosa soprastante. 2. Se aggiungiamo del Resin soaps, la soluzione acquista le tipiche proprietà tensioattive e detergenti ed è in grado di bagnare lo strato; stabilito il contatto, le molecole del sapone possono interagire grazie alla loro somiglianza strutturale con le molecole di resina. 3. A questo punto le molecole di sapone sono in grado di sequestrare le molecole di resina e portarle in soluzione (ovviamente si formeranno le micelle, che qui non sono mostrate solo per semplificare la rappresentazione). In questo modo il sapone riesce a disgregare e solubilizzare lo strato inizialmente compatto e insolubile. meccanismo d'azione I Resin soaps vengono preparati come soluzioni addensate per l’importanza del contatto superficiale I Resin soaps sfruttano per la loro azione di disgregazione dello strato, il principio dell'affinità, non è detto invece che siano i migliori tensioattivi dal punto di vista del potere solubilizzante Questo principio della affinità è ben noto in biochimica in molte operazioni di purificazione di complesse miscele di macromolecole si sfruttano appunto le interazioni specifiche che si instaurano, a seguito della somiglianza strutturale, tra le macromolecole da separare e un supporto inerte, contenente molecole simili, attraverso il quale si fanno passare le soluzioni da purificare (ad esempio in quella tecnica analitica che viene definita. Cromatografia per affinità). Ovviamente, essendo una soluzione detergente, il Resin soaps dovrà essere in concentrazione almeno uguale alla sua CMC, in modo da poter formare micelle. Questa affinità strutturale rende dunque i Resin Soaps particolarmente efficaci nella rimozione di vernici a base di resine naturali, anche invecchiate DCA nei confronti di vernici più vecchie (resine più consolidate e quindi più polari) ABA può risultare più efficace nei confronti di vernici più recenti (resine meno ossidate e quindi meno polari), 2 9 Siccome è particolarmente,importante il contatto con la superficie, (e, generalmente, questa superficie ha un forte carattere idrorepellente), fino dall'inizio i Resin soaps sono stati preparati come soluzioni addensate. Questo accorgimento permette inoltre • di localizzarne meglio 1'azione, • e di ritardare la diffusione del mezzo acquoso negli strati sotto la superficie. Non sempre si ha solubilizzazione completa della vernice: 1'azione del sapone disgrega comunque lo strato a un livello sufficiente da permetterne la rimozione con mezzi meccanici (la semplice azione di sfregamento del tampone) o con una soluzione acquosa di un altro tensioattivo. I Resin soaps, infatti, sfruttano per la loro azione di disgregazione dello strato, il principio dell'affinità: non è detto invece cthe siano i migliori tensioattivi dal punto di vista del potere solubilizzante: tensioattivi con HLB più alto possono di fatto solubizzare meglio, e quindi asportare meglio i frammenti dello strato vernice cosi prodotto. Questa affinità strutturale rende dunque il Resin soaps particolarmente efficaci nella rimozione di vernici a base di resine naturali, anche invecchiate. Dalle strutture di ABA e DCA è facile vedere che il primo è meno polare del secondo: quest'ultimo infatti oltre al gruppo carbossilico contiene altri due gruppi ossidrilici, -OH, fortemente polari. Dal punto di vista applicativo, ABA può dunque risultare più efficace nei confronti di vernici più recenti (resine meno ossidate e quindi meno polari), e DCA neI confronti di vernici più vecchie (resine più consolidate e quindi più polari). I Resin soaps inglesi. Altri due Resin soaps sono stati sviluppati successivamente alla National Gallery di Londra da Raymond White, partendo da due composti diversi, appartenenti alla classe degli idrocarburi e aromatici policiclici: acido antracen-9-carbossilico e (A9C) e acido 9-fluorenon-4-carbossilico (9FOC). A questi due saponi viene attribuita una migliore affinità per le molecole di resina ossidate, grazie ad una migliore interazione strutturale tra le molecole di sapone e quelle di resine. Chiariamo questo punto. Le rappresentazioni che utilizziamo per le strutture chimiche sono planari, ma rappresentano solo una comoda semplificazione: le molecole in questione, infatti hanno una loro tridimensionalità. Consideriamo ad esempio 1'acido abietico, nella sua più corretta rappresentazione tridimensionale, mostrata nella figura. La struttura è planare solo dove i doppi legami (che sono planari) costringono le immediate vicinanze ad una certa planarità. Questo si verifica nel primo anello a destra. Il resto della molecola è fortemente distorta, fuori dal piano. Quando 1'acido abietico è invece nella forma ossidata, come è l’acido 7oxodeidroabietico, tutto il terzo anello è diventato aromatico (e quindi planare), e in più si è formato un nuovo doppio legame carbossilico, C = O, che costringe anche al secondo anello a una quasi planarità. Nelle resine ossidate ci sarà in prevalenza quest'ultima forma di molecole, mentre nei Resin soaps ABA-TEA ci sarà la forma non ossidata: strutturalmente (in termini di planarit y ) questa affinità sapone vernice potrebbe senz'altro e s s e r e migliore. E' probabile, questo è il ragionamento alla base dello sviluppo del Resin Soaps di White che una molecola nel complesso planare, riesca ad avere una maggiore affinità, e quindi una migliore interazione con molecole di resina ossidate. Saponi costituiti da A9C e 9FOC (che sono completamente planari come tutti gli idrocarburi aromatici) avrebberodunque una migliore attività rispetto quelli di ABA e DCA, nei confronti di resine terpenica ossidate. Questo è stato anche verificato nella pratica: questi due Resin soaps sono attivi a pH anche meno basico di ABA-TEA e DCA-TEA. Sfortunatamente gli idrocarburi aromatici e policiclici sono composti a cui è solitamente associata elevatissima tossicità: tra loro sono infatti annoverati alcuni dei più potenti cancerogeni. Anche se questa potenziale tossicità non è dimostrata per i due composti specifici A9C e 9FOC, è evidentemente un una certa riluttanza a proporli come alternative a basso rischio, come sono invece i Resin Soaps di Wolbers. I solvent gels di Richard Wolbers. Il solvent gels, anch'essi introdotti da Richard wolbers negli anni 80, sono tensioattivi in soluzione addensata acquosa e solventi organici. Sono però preparazioni multi -componenti, non più solo tensioattivi come i Resin soaps. I solvent gels Sono tensioattivi in soluzione acquose addensate e solventi organici Sono preparazioni multi-componenti che combinano: •potere solvente dei solventi organici •potere solvente dell'acqua •leggera alcalinità •capacità tensioattiva •Il tutto in presenza di una addensante che impartisce elevatissima viscosità al gel Precisamente combinano • il potere solvente del solventi organici • con quello peculiare dell'acqua, • con la capacità tensioattiva, • e con una leggera alcalinità. • I1 tutto in presenza di una addensante elevatissima viscosità al gel. cthe impartisce Abbiamo già discusso come, dal punto di vista strettamente chimico, il successo di un'operazione di pulitura effettuata con solventi organici stia nell'abilità a sciogliere certi materiali (la vernice, o più in generale il materiale filmogeno superficiale da rimuovere) senza invece solubizzarne altri (quelli originali dell'opera, presenti negli strati sottostanti). Se si utilizzano solventi, questo può avvenire con quelli che abbiano una polarità simile a quella del materiale resinoso e costituente la vernice, e sufficientemente dissimile da quella degli altri materiali, così da garantire la selettività d'azione. Quando invece la polarità del materiale da rimuovere e dei materiali costitutivi sono troppo simili, la pulitura è a rischio, e per poterla compiere con un certo margine di sicurezza si devono adottare delle precauzioni operative the limitino la diffusione del solvente negli strati pia interni. In realtà, però, è difficile pensare ad una vernice come ad uno strato dalle caratteristiche omogenee in tutti i suoi punti, e quindi avente tutto la stessa polarità. Lo strato, infatti, riflette anche le caratteristiche dello strato di colore sottostante, il suo diverso contenuto di legante nelle varie campionature cromatiche, e quindi il suo diverso grado di alterazione e la sua disomogenea acidità e polarità. 1l restauratore spesso si rende conto di questa discontinuità nella pratica della pulitura: la miscela solvente sembra agire di più in certe zone, di meno in altre. Piuttosto che mettere a punto una miscela solvente a polarità costante che possa centrare la polarità del materiale superficiale in tutte le sue zone, questo il ragionamento di Wolbers, cerchiamo di riunire nella stessa preparazione,componenti a polarità diverse, anche diametralmente opposte, che possano quindi essere attivi su tutta la superficie_ Per mantenere la selettività d'azione superficiale sarà però indispensabile dare alla miscela altissima viscosità, in modo da reprimere la diffusione dei componenti sotto la superficie. Così, detto in maniera un pò semplificata, sono nati i solvent gels. Ma vediamo di descrivere più in dettaglio i vari componenti. Composizione e modo d'azione. Cominciamo da uno del due componenti fondamentali: 1'addensante. Dall'acido acrilico e per polimerizzazione si ottiene 1 ' omopolimero acido poliacrilico, la cui struttura. Questa molecola ha peculiari: • le dimensioni • e la funzionalità acida. due caratteristiche Composizione e modo d'azione addensante acido acrilico polimerizzazione Distensione per: • contatto con l'acqua • neutralizzazione con una base Innanzitutto, se consideriamo che il peso molecolare di questa macromolecola può arrivare fino a circa 30.000 Dalton, e che quello del monomero costituente è 70 Dalton, ne consegue cthe il polimero può contenere anche più di 400 monomeri legati tra loro: dimensioni effettivamente molto grandi. Le catene di questa macromolecola, che nello schema abbiamo indicato per semplicità in forma lineare, sono in realtà avvolte in forma raggomitolata, ma possono essere fatte allungare in modi diversi. Quando in forma distesa, il polimero manifesta proprietà addensanti nei confronti di soluzioni acquose e di solvent organici, formando gels di altissima viscosità (fino a 50.000 mPas), caratterizzati da fortissima ritenzione di solvente (decisamente superiore a quanto ottenibile e usando come addensante i vari eteri di cellulosa). • La distensione della macromolecola può essere provocata dal contatto con 1 ' acqua, e in questo caso è lenta, • oppure dalla neutralizzazione con una base, e in questo caso avviene rapidamente. I gruppi carbossilici (-COOH), acidi, presenti ogni due atomi di carbonio, possono essere sacrificati per azione di una base, producendo i corrispondenti anioni carbossililato. Quando questo avviene, tra le cariche elettriche negative formatisi si esercitano forze repressive the tendono ad allontanarle reciprocamente La base the reagisce sacrificando 1'acido poliacrilico, viene a trovarsi chimicamente legata, in forma di sale, alle macromolecole della acido stesso. Basi adatte alla neutralizzazione sono le comuni basi inorganiche, 1'idrossido di sodio e idrossido di ammonio, o basi organiche come la trietanolammina o altre ammine. Qualunque base, ad esempio 1'idrossido di ammonio, potrebbe svolgere quest'azione di neutralizzazione. Se però utilizziamo una base che abbia anche proprietà tensioattive, come un'ammina polietossilata, otteniamo un secondo, importante risultato: il complesso acido poliacrilico/base acquista anche proprietà tensioattive, cioè di emulsionante e di detergente. Questa sostanza, 1 ' ammina polietossilata, è il secondo componente caratteristico del solvent gels. Se si utilizza una base che abbia anche proprietà tensioattive, come un'ammina polietossilata il complesso acido poliacrilico/base acquista anche proprietà tensioattive, cioè di emulsionante e di detergente. Abbiamo già visto the può agire da tensioattivo anionico in ambiente acido (come in questo caso, vista la presenza dell’addensante acido). In quanto ammina, può essere sacrificata con 1'acido poliacrilico, come mostrato. Possiamo così riassumere i vantaggi che si ottengono da questa particolare combinazione dei due reagenti: • L'acido poliacrilico, l'addensante, per le sue dimensioni molecolari, ha verosimilmente poca tendenza a diffondere nella porosità del materiale; • Quando salificato con un'ammina etossilata, forma il corrispondente sale e manifesta proprietà addensante; • L'addensante e il tensioattivo sono ora chimicamente legati tra loro: in altre parole, 1'addensante acquista ora anche proprietà tensioattive; • L'ammina polietossilata, che di per se sarebbe un componente non volatile, con forte capacità di diffondere sotto la superficie e a forte ritenzione dentro gli strati, trovandosi ancorata ad una macro molecola acquista azione superficiale. Possiamo così riassumere i vantaggi che si ottengono da questa particolare combinazione dei due reagenti: •L'acido poliacrilico, l'addensante, per le sue dimensioni molecolari, ha verosimilmente poca tendenza a diffondere nella porosità del materiale; • Quando salificato con un'ammina etossilata, forma il corrispondente sale e manifesta proprietà di addensante; •L'addensante e il tensioattivo sono ora chimicamente legati tra loro: in altre parole, l'addensante acquista ora anche proprietà tensioattive; •L'ammina polietossilata, che di per sé sarebbe un componente non volatile, con forte capacità di diffondere sotto la superficie e forte ritenzione dentro gli strati, trovandosi ancorata ad una macro molecola acquista azione superficiale. In queste preparazioni viene dunque massimizzata l'azione superficiale e repressa quella di diffusione sottosuperficiale dei vari costituenti A questo punto, come componenti liberi restano i solventi organici e l ' acqua. Anche questi però trovandosi in un gel ad altissima viscosità hanno limitata possibilità di diffondere sotto la superficie. In queste preparazioni viene dunque massimizzata 1'azione superficiale e repressa quella di diffusione sottosuperficiale dei vari costituenti. La loro azione è confinata alla superficie, e la rimozione del gels ci dà garanzia di rimuovere efficacemente tutti i componenti. Nella preparazione si utilizza l'agente neutralizzante, 1'ammina etossilata, non in quantità stechiometrica (necessaria cioè a reagire con tutti gruppi carbossilici presenti sulla acido poliacrilico, 1 ' addensante), ma in difetto, così da ottenere solo parziale salificazione dell'acido poliacrilico, sufficiente a provocare la distensione delle macromolecole, e quindi l'addensamento della soluzione. Per quanto riguarda l ' acido poliacrilico, il prodotto commerciale più facilmente reperibile è il Carbopol, e per l ' ammina etossilata il prodotto è Ethomeen. I solvent gels sono in generale preparati miscelando tra loro Carbopol ed Ethomeen, e aggiungendo poi i vari componenti organici. La gelificazione avviene quando si aggiunge una limitata quantità di acqua. Tutti i solventi organici, anche quelli apolari, possono essere addensati in condizioni opportune. Generalmente si usa l’agente neutralizzante, la base appunto, non in quantità stechiometrica, ma in modo da arrivare a soluzioni solo leggermente alcaline, con pH compreso tra 7 e 8. Uso dei Resin Soaps. I Resin soaps sono dunque i tensioattivi anionici (= saponi) a bassa alcalinità, in forma gelificata, derivati dalla salificazione dell'acido abietico dell'acido deossicolico con la trietanolammina(TEA). Sono attivi su i materiali resinosi. Richiedono ambiente alcalino, e non possono quindi essere utilizzati in combinazione con sostanze acide. Uso dei Resin Soaps. I Resin soaps sono dunque i tensioattivi anionici (= saponi) a bassa alcalinità, in forma gelificata, derivati dalla salificazione dell'acido abietico o dell'acido deossicolico con la trietanolammina(TEA). Sono attivi su i materiali resinosi. Richiedono ambiente alcalino, e non possono quindi essere utilizzati in combinazione con sostanze acide Preparazione. Più precisamente, per la preparazione si procede come segue. • acido deossicolico solido, 2 g, è disperso in • 100 ml di acqua deionizzata. Sotto agitazione si aggiungono • 6 ml di trietanolammina in piccole porzioni, fino a completa dissoluzione del solido. • e con piccole aggiunte di acido cloridrico di concentrazione 1N si porta il pH fino ad un valore intorno 8,5, controllando con una cartina indicatrice (in generale sono necessari 68 ml). Se necessario si filtra la soluzione (se contiene materiale indisciolto è torbida). • si aggiungono 0, 1 ml di Triton X 100 e • si addensa la soluzione per aggiunta di 1, 5-2 g di idrossipropilmetilcellulosa. Preparazione. Piu precisamente, per la preparazione si procede some segue. • Acido deossicolico solido, 2 g, e disperso in • 100 ml di acqua deionizzata. Sotto agitazione si aggiungono • 6 ml di trietanolammina in piccole porzioni, fino a completa dissoluzione del solido. • E con piccole aggiunte di acido cloridrico di concentrazione 1N si porta il pH fino ad un valore intorno 8,5, controllando con una cartina indicatrice (in generale sono necessari 6 - 8 ml). Se necessario si filtra la soluzione (se contiene materiale indisciolto è torbida). • Si aggiungono 0, 1 ml di Triton X 100 e • si addensa la soluzione per aggiunta di 1, 5 - 2 g di idrossipropilmetilcellulosa. la preparazione è semplice, ma vediamo di chiarire alcuni punti. • La quantità iniziale di TEA è in eccesso rispetto la quantità necessaria a salificare DCA: il pH della soluzione risultante sarebbe troppo alcalino. Per questo si aggiunge HCl, per riportare il pH al di sotto del 9. • Triton X 100 è un tensioattivo non ionico cthe viene aggiunto per migliorare il potere bagnante ed emulsionante della soluzione. • La idrossipropilmetilcellulosa è un'etere di cellulosa idrofilo, tra i più puri. però costosa e di non facile reperibilità: ai fini pratici può esser sostituita da metilcellulosa (in concentrazione 2% se di buona qualità, cioè i tipi ad alta viscosità) o idrossipropilcellulosa (Klucel G, in concentrazione 4%). • Attenzione! L ' acido concentrato è fortemente caustico, e deve essere manipolato con cautela: evitare il contatto cutaneo e 1'inalazione dei vapori; durante la diluizione aggiungere l ' acido all ' acqua e non viceversa, proteggere gli occhi da eventuali schizzi. In caso di contatto cutaneo lavare immediatamente con abbondante acqua. • La quantità iniziale di TEA è in eccesso rispetto la quantità necessaria a salificare DCA: il pH della soluzione risultante sarebbe troppo alcalino. Per questo si aggiunge HCl, per riportare il pH al di sotto del 9. •Triton X 100 è un tensioattivo non ionico che viene aggiunto per migliorare il potere bagnante ed emulsionante della soluzione. • La idrossipropilmetilcellulosa è un'etere di cellulosa idrofilo, tra i più puri. È però costosa e di non facile reperibilità: ai fini pratici può esser sostituita da metilcellulosa (in concentrazione 2% se di buona qualità, cioè i tipi ad alta viscosità) o idrossipropilcellulosa (Klucel G, in concentrazione 4%). • Attenzione! L’acido cloridrico concentrato è fortemente caustico, e deve essere manipolato con cautela Sono disponibili vari tipi di carbopol, diversi tra loro per dimensione molecolare e quindi dal punto di vista applicativo, per la viscosità che impartiscono alle soluzioni: precisamente, in ordine crescente abbiamo i tipi 941, 934 e 940. A questi livelli, comunque elevatissimi, di viscosità la differenza tra un tipo e 1'altro si può ritenere trascurabile: i vari tipi possono dunque essere considerati equivalenti. Dal punto di vista della reperibilità può essere più semplice ricorrere al tipo Ultrez 10, commercializzato in quantità inferiori rispetto agli altri. Quest'ultimo tipo, più facilmente idratabile, e più conveniente in quanto utile anche per la preparazione di semplici gels acquosi acidi e basici ad alta viscosità. E in alternativa al carbopol si può acquistare il prodotto chimico acido poliacrilico. Per quanto riguarda 1 ' ethomeen invece i tre tipi spesso citati nella letteratura sono il C12, il C15 e C25, diversi tra loco per solubilità. Se consideriamo i loro valori di numero a HLB abbiamo rispettivamente HLB 10 per il primo, HLB 13, 9 per il secondo e HLB 19 per il terzo. Il carattere idrofilo, dunque, aumenta dal primo (che è praticamente liposolubili, il terzo idrosolubile). In pratica si utilizzano solo il primo e il terzo per preparare i Solvent Gels nel modo seguente : ethomeen C12 con solventi apolari (idrocarburi alifatici come essenza di petrolio o di trementina, o aromatici come il toluene) e dell ' Ethomeen C25 con solventi piu polari (alcoli, chetoni come 1'acetone, esteri come 1 ' etilacetato). Per solventi apolari è forse più semplice utilizzate una miscela di entrambi in parti uguali. Il C25 in particolare è quello più ampiamente utilizzato vista la maggior utilità pratica di preparazione contenente solventi polari. Sono poi state proposte formulazioni più semplici, nelle quali per neutralizzare il carbopol si usavano, semplici basi come l ' idrossido di ammonio, 1'idrossido di sodio o la trietanolammina. Queste basi pero non hanno anche capacità tensioattiva. Di conseguenza queste preparazioni non sono da considerare dei veri solvent gels, ma piuttosto delle semplici soluzioni ad alta viscosità addensate con carbopol. Per quanto riguarda la preparazione dell'altro Resin soap, ABA-TEA, dall'acido abietico (ABA) la procedura è sostanzialmente identica. ABA è più difficile da salificare, e occorre una maggiore quantità di TEA. Nella ricetta sopra avremo dunque • 2 g di ABA • 10-12 ml di TEA; • cambia di conseguenza, anche la quantità di HCl 1N necessaria per portare il pH intorno a 8, 5 (conviene fare piccole aggiunte di acido, un ml alla volta, e controllare il pH dopo ogni aggiunta). Per quanto riguarda la preparazione di ABA-TEA, dall'acido abietico (ABA) la procedura è sostanzialmente identica. ABA è però più difficile da salificare, e occorre una maggiore quantità di TEA. Nella ricetta sopra avremo dunque • 2 g di ABA • 10-12 ml di TEA; • cambia di conseguenza, anche la quantità di HCl 1N necessaria per portare il pH intorno a 8, 5 I1 problema con ABA è che il prodotto di partenza commercialmente disponibile è di purezza variabile, e questo ne influenza fortemente la solubilità. Così si possono notare differenze tra preparazione e preparazione. Non è raro constatare che del solido bianco resta indisciolto, oppure riprecipita dalla soluzione quando si modifica il pH per aggiunta di HCl. In questo caso è necessario filtrare la soluzione , attraverso comune carta da filtro, fino ad ottenerla limpida. Utilizzo I Resin soaps sono applicati alla superficie da trattare con un tampone di cotone o a pennello, e lasciati agire indisturbati lavorandoli delicatamente con un pennellino morbido, a seconda del tipo di superficie (presenza di rilievi, coesione o meno della pellicola pittorica, spessore dello strato di vernice). Con un tamponcino di cotone si va a saggiare la zona trattata dopo uno, due, tre minuti per verificare il livello di azione . quando sufficiente, si rimuove il gel con un tamponcino asciutto, poi si lava più volte la superficie trattata con una soluzione acquosa di un tensioattivo (bile bovina al 2-3%, Tween 20 al 2-4%, con Brij 35 al 2-4%, saliva artificiale). Utilizzo I Resin soaps sono applicati alla superficie da trattare con un tampone di cotone o a pennello, e lasciati agire indisturbati lavorandoli delicatamente con un pennellino morbido. I tempi di applicazione sono tra uno e cinque minuti poi si lava più volte la superficie trattata con una soluzione acquosa di un tensioattivo (bile bovina al 2-3%, Tween 20 al 2-4%, con Brij 35 al 2-4%, saliva artificiale). Al termine la zona viene brevemente lavata con acqua distillata e asciugata Quando è asciutta, si effettua un ultimo lavaggio con idrocarburi leggeri (essenza di petrolio, benzina, ragia minerale, ecc.) per risaturare la superficie ed asportare eventuali residui lipofili. La differenza strutturale tra i due Resin soaps, ABA-TEA meno polare e DCA-TEA più polare, si riflette in una possibile differenza applicativa. Questa fase di lavaggio è da eseguire con cura. per assicurare 1'asportazione completa dei residui di gel e del materiale resinoso disgregato dall'azione del Resin soaps: dev ' essere ripetuta finchè si osserva apprezzabile asportazione di materiale. Al termine la zona viene brevemente lavata con acqua distillata e asciugata. Quando è asciutta, si effettua un ultimo lavaggio con idrocarburi leggeri (essenza di petrolio, benzina, ragia minerale, ecc.) per risaturare la superficie ed asportare eventuali residui lipofili. Se il Resin soaps è attivo, si hanno in generale tempi di applicazione tra uno e cinque minuti; applicazioni successive possono e s s e r e fatte per spingere più a fondo il livello di pulitura. La differenza strutturale tra i due Resin soaps, ABA-TEA meno polare e DCA-TEA più polare, si riflette in una possibile differenza applicativa. Se consideriamo che più una vernice è ossidata e più le sue molecole sono diventate polari, ne consegue the ABA-TEA, meno polare, può essere più attivo su resine meno apolari, e quindi vernici meno ossidate, di più recente applicazione; al contrario, di DCA-TEA, più polare, può esser più attivo su resine più polari, cioè su vernici più invecchiate, più ossidate. ù Considerazioni sull ' utilizzo. Le preparazioni che abbiamo descritto sopra sono quelle originariamente pubblicate da Wolbers. Nel corso degli anni ne sono state pubblicate anche altre, magari semplificate (ad esempio minor aggiunta di TEA nella fase iniziale e nessuna correzione del pH con HCl; basi diverse dalla TEA, ecc.). Nella preparazione è comunque consigliabile attenersi a queste ricette per poter poi confrontare i vari risultati ottenuti e perché esse sono state frutto di elaborazioni in un certo periodo di tempo la combinazione di componenti non è dunque casuale. Per la quantità di TEA aggiunta ad esempio è importante considerare questo: 1 ' eccesso di TEA, quello che non serve a salificare DCA o ABA, viene poi salificato dall ' HCl aggiunto, formando TEA-HCl (o trietanolammonio cloruro). Questo sale, dissociato in ioni in soluzione, va ad aumentare una grandezza tipica delle soluzioni saline, la forza ionica. Senza entrare in dettagli di meccanismi, diciamo solo che questo parametro ha la sua importanza nel rendere più agevole la dissoluzione di certe sostanze "una soluzione a m a g g i o r forza ionica, . risulta più attiva di una simile ma a minor forza ionica. Un punto su cui lo stesso Wolbers, fin dall'inizio, ha insistito molto è q u e s t o : queste formulazioni non sono da considerarsi come ricette di applicazione generalizzabile, ma dovrebbero e s s e r e tailored; messe a punto per ogni caso specifico. Questo però è un concetto poco recepito nella nostra cultura del restauro: è difficile pensare che un restauratore anche in un ' istituzione, si metta preparare un Resin Soap particolare per il caso che ha sottomano al momento. Anche perché questo vorrebbe dire aver caratterizzato esattamente con l ' analisi chimica, prima dell'intervento, i materiali presenti. Questo approccio deve essere quindi adattato un poco alla nostra situazione reale, soprattutto per quanto riguarda la pratica privata del restauro. Possiamo regolarci in questo modo: si provano le formulazioni di base del Resin soaps, se si nota un ’ azione, anche minima, sulla vernice allora vale la pena pensare a queste modificazioni, altrimenti no. In caso di assoluta mancanza di azione è inutile insistere pensando a possibili modificazioni: ci sono varie ragioni per cui un Resin Soap può non essere efficace. Personalizzare i Resin Soaps Possibili additivi da aggiungere • Una possibile alterazione strutturale delle vernici per invecchiamento è la deidrogenazione che tende a produrre molecole insature o aromatiche • si può così aggiungere ai Resin Soaps una piccola quantità di alcol benzilico, al 2% in volume, rispetto al volume di gel. •Per resine più giovani, meno polari, più difficilmente bagnabili, Wolbers consiglia l’aggiunta di N-Metil-2-pirrolidone, al 2% in volume rispetto al volume di gel. •Vista la minore tossicità, a parità di potere solvente, è forse preferibile utilizzare il dimetilsolfossido anziché metilpirrolidone. il gel acquista così un leggero potere solvente •Per migliorare l'azione bagnante dei saponi si può aumentarne il contenuto di tensioattivo non ionico, utilizzando al posto di Triton X 100, tensioattivi ancora più bagnanti quali il Brij 35 o il Tween 20 in concentrazione pari all'1%. Vediamo dunque questi possibili additivi. • Innanzitutto, tra le diverse alterazioni strutturali a cui le vernici vanno soggetti invecchiando, la deidrogenazione, o perdita di idrogeno, the può essere comunque considerata un fenomeno ossidativo, che tende a produrre molecole insature o aromatiche (contenenti doppi legami carbonio-carbonio). Per facilitare 1 ' azione su queste vernici può essere utile aggiungere ai Resin Soaps una piccola quantità di un alcol a struttura aromatica,1'alcol benzilico, un prodotto comunemente utilizzato nell'industria come solvente di vernice L'alcol poco solubile in acqua: conviene pertanto limitarne ' , 1 aggiunta a 2% in volume, rispetto al volume di gel. E dopo 1 ' aggiunta esso tende a formare dei piccoli grumi bianchi, che si sciolgono completamente dopo un certo tempo, con mescolamento. • Per aumentare 1'efficacia dei Resin Soaps verso resine giovani, meno polari, difficilmente bagnabili, Wolbers consiglia 1 ' aggiunta di metilpirrolidone propriamente N-Metil-2-pirrolidone, un (_solvente dipolare aprotico) al 2% in volume rispetto al volume di gel. Vista la minore tossicità, a parità di potere solvente, forse è preferibile utilizzare il dimetilsolfossido anziche metilpirrolidone. ; e Queste piccole aggiunte di solventi non alterano sostanzialmente il meccanismo d'azione che resta quello di tensioattivi in soluzione acquosa gelificata. Però il gel acquista anche un leggero potere solvente cosa che può contribuire anche a rendere omogenea e uniforme 1 ' azione. E’ noto infatti che un solvente, rispetto ad un tensioattivo, ha anche una capacità di reforming dei residui di vernici:a riesce a scioglierli dove presenti, e a ridistribuirli in maniera uniforme_su tutta la superficie, contribuendo cosi ad un aspetto omogeneo della zona pulita. I Resin Soaps mancano di questa capacità, e in certi casi può esser utile aggiungergliela. • Per una vernice con una certa componente oleosa, l'azione può essere migliorata con aggiunta di poche gocce di ammonio idrossido diluito, fino a portare il pH a un valore 9-10. • un elegante alternativa è un “Enzime Soap”, un sapone enzimatico. Al Resin Soap DCA-TEA si aggiunge l'enzima lipasi, in quantità di 200-500 mg per 100 ml • l'enzima è efficace sulla parte oleosa della vernice, il sapore su quella resinosa. • Per vernici molto alterate per esposizione all'ambiente (allo sporco piuttosto che alla luce), si può aggiungere una sostanza chelante, in particolare l'acido citrico. • conviene operare in questo modo: ad 1 g di acido citrico si aggiungono 2,1 ml di TEA (la minima quantità necessaria per completa salificazione) e si mescola fino a dissoluzione completa. Si ottiene così TEA-Citrato (o trietanolammonio citrato), l’agente chelante che viene poi aggiunto • a 100 ml di Resin Soap, mescolando fino a che sia ben amalgamato. • Per una vernice con una certa componente oleosa, la moderata alcalinità del Resin Soaps non è sufficiente ad agire. L'azione può essere migliorata con aggiunta di poche gocce di ammonio idrossido diluito, fino a portare il pH a un valore 9-10. Resta valido, in generale, il criterio di rispettare sempre, soprattutto su un'opera policroma, un " intervallo di sicurezza " di pH, cioè valori compresi tra 5 e 9,", ma sicuramente, nel caso di un dipinto a olio molto vecchio, già sottoposto a pulitura in precedenza, gia più volte verniciate e ri-verniciato, aumentare il pH a un valore di 9 - 1 0 non rappresenta certo un rischio esagerato, se può servire ad una più veloce azione nei confronti del materiale resinoso superficiale. • Altrimenti, un elegante alternativa proposta dallo stesso Wolbers è quella di preparare un " Enzime Soap " , un sapone enzimatico. Al Resin Soap DCA-TEA si aggiunge 1'enzima lipasi, in quantità di 200-500 mg per 100 ml di sapone, formando così il sapone enzimatico: 1 ' enzima è efficace sulla parte oleosa della vernice, il sapone su quella resinosa. Si e verificata in più occasioni l ' abilità di questo sapone enzimatico ad assottigliare vernici oleo-resinose, cosa che richiederebbe altrimenti condizioni di intervento ben più aggressive per l ' opera. • Un'altra interessante modificazione, utile nel caso di vernici molto alterate per esposizione all'ambiente (allo sporco piuttosto che alla luce), è una piccola aggiunta di una sostanza chelante, in particolare 1'acido citrico. Questo, complessando e solubilizzando ioni metallici ' (gli ossidi sempre presenti nel particellato atmosferico), può contribuire ad una più facile pulitura. Modificare i Resin Soaps in questo modo è semplice. Piuttosto che aggiungere al sapone Acido Citrico (che farebbe diventare meno basico il pH, con conseguente parziale ri-precipitazione di ABA o DCA, e difficoltà a risolubilizzarli con altra TEA), conviene operare in questo modo: • ad 1 g di acido citrico si aggiungono 2,1 ml di TEA (la minima quantità necessaria per completa salificazione) e si mescola fino a dissoluzione completa. Si ottiene così TEA-Citrato (o ' trietanolammonio citrato), l agente chelante che viene poi aggiunto a 100 ml di Resin soaps Quando utilizzare Resin Soaps? Per quanto riguarda l'utilizzo, non c ' e in generale una certa " procedura " da rispettare o un ordine per cosi dire una sequenza di vari reagenti in cui i Resin Soaps occupano un posto ben preciso. La certezza o la supposizione che si tratti di una vernice di materiale resinoso sono il motivo che induce all ' uso di questi reagenti. La certezza potrà derivare solo da una qualche risposta analitica; in realtà sarà molto più frequente la supposizione, quando non si ha alle spalle della diagnostica (anche se certamente questa supposizione è ragionata dall ' esperienza del restauratore). Sicuramente in molti casi la solubilizzazione di questo tipo di materiale potrebbe anche essere affrontata utilizzando solventi organici. Magari procedendo in un modo più scientifico, effettuando il test di Feller per determinare un valore di polarità efficace nella solubilizzazione del materiale e poi preparando una miscela di questa polarità, utilizzando solventi a bassa tossicità, e bassa ritenzione, ecc. Perchè allora pensare a un metodo diverso in particolare a un Resin soaps? Una semplice ragione, che però rappresenta un punto fondamentale. Effettuando prove di pulitura con i Resin soaps in paragone con i solventi si può spesso notare che i primi forniscono comunque una buona azione di pulitura, però più m o r b i d a s e n z a arrivare ad esporre direttamente lo strato di colore. Azione di assottigliamento quindi piuttosto che completa rimozione. Questa differenza è facilmente razionalizzabile come logica conseguenza del modo d ' azione: il solvente diffonde rapidamente nello strato, lo rigonfia e lo solubilizza. Soprattutto nel caso di spessori sottili, questa azione non riesce a differenziare tra una parte più esterna e una più interna dello strato: il materiale viene comunque disciolto. Certo, utilizzare un solvente in forma addensata può rallentarne la diffusione all'interno e contribuire a produrre una azione più superficiale. Non sempre però è possibile trovare un addensante o supportante adatto. Quando e perché utilizzare Resin Soaps? La certezza o la supposizione che si tratti di una vernice di materiale resinoso sono il motivo che induce all'uso di questi reagenti •La minore velocità di diffusione dell'acqua e la viscosità del gel sono tali da promuovere una azione più superficiale; •Il potere solvente dell'acqua, liquido ad altissima polarità, fa sì che non vi sia un diretto effetto solvente nei confronti del materiale che invece è solo mediamente polare. • Il tensioattivo contenuto esercita un'azione emulsionante nei confronti del materiale resinoso (e questa azione è specifica nei confronti della resina perché stiamo utilizzando un Resin Soap); • la leggera basicità delle soluzioni addensate, pH 8,5 permette la salificazione di quella parte del materiale resinoso più acido perché più ossidato. la zona d'azione del Resin Soap è la superficie di contatto con lo strato di vernice, e non più l'intero strato Se invece utilizziamo un gel acquoso, abbiamo che: • La minore velocità di diffusione dell ' acqua e la viscosità del gel sono tali da promuovere una azione più superficiale; • Il potere solvente dell'acqua, liquido ad altissima polarità, fa si che non vi sia un diretto effetto solvente nei confronti del materiale che invece è solo mediamente polare. Detto in forma un pò semplificata, 1 ' acqua come tale non è in grado di sciogliere materiale. Ci si sposta quindi verso un altro meccanismo: • Il tensioattivo contenuto esercita un ' azione emulsionante nei confronti del materiale resinoso (e questa azione è: specifica nei confronti della resina perché stiamo utilizzando un Resin Soap); • La leggera basicità delle soluzioni addensate, pH 8,5 permette la salificazione di quella parte del materiale resinoso più acido perché pia ossidato. Di conseguenza la zona d'azione del Resin Soap è la superficie di contatto con lo strato di vernice, e non più 1'intero strato. Si comprende facilmente come quest ' azione possa es s er e di effettivo assottigliamento, che si traduce in azione più blanda, come risultato estetico di maggiore morbidezza. la parte più esterna (di spessore circa 8 micron) di uno strato di vernice è più acida perché più fotossidata ( formazione di gruppi carbossilici acidi sulle molecole dei componenti terpenici delle resine). Questa parte più acida è più facilmente salificabile da una base anche debole. Al di sotto, invece, la resina è meno ossidata e risulta meno acida: qui servono reagenti più basici per la salificazione. Alla luce di questa differenza possiamo forse interpretare l'azione del Resin Soap Dal punto di vista dell'integrità strutturale dell'opera questo assottigliamento è sicuramente più salutare, perché il lasciare uno spessore residuo di vernice a diretto contatto della pellicola pittorica è garanzia di non averla intaccata direttamente. Controindicazioni all'utilizzo. La principale controindicazione all'uso dei Resin Soaps è che si tratta di soluzioni acquose Non è tanto l'applicazione del Resin Soap piuttosto il trattamento successivo che come abbiamo descritto comporta una serie di lavaggi acquosi Uno studio fondamentale, pubblicato già da un certo numero di anni or sono, fornisce le prove scientifiche di quest ' azione. Provini costituiti da stesure pittoriche di bianco di titanio e calcio carbonato in legante oleoso, verniciate con resina mastice al 30% in essenza di trementina, sono stati invecchiati per fotossidazione tramite esposizione alla luce U.V. La rimozione della vernice è stata effettuata con varie sostanze alcaline, inorganiche in soluzione acquosa e organiche. Dopo pulitura le superfici trattate sono state analizzate al microscopio elettronico a scansione (SEM). L'articolo è di fondamentale importanza per la comprensione del modo d'azione degli alcali, e si rimanda il lettore alla completa lettura del testo. Noi ci soffermiamo solo su un punto fondamentale. In questa prova, soluzioni acquose di ammoniaca erano efficaci nella rimozione dello strato solo da pH 10 in su, lasciando evidenti segni di erosione nello strato di colore sottostante. Quando le soluzioni di ammoniaca erano utilizzate in forma addensata, con " pappina " o con eteri di cellulosa, erano efficaci gia a pH 9 senza provocare erosione dello strato sottostante. Gia negli anni 80 De la Rie aveva messo in risalto come la parte più esterna (di spessore circa 8 micron) di uno strato di vernice, sia pia acida perche più fotossidata (come noto l1 ' ossidazione provoca formazione di gruppi carbossilici acidi sulle molecole dei componenti terpenici delle resine). Questa parte più acida è più facilmente salificabile da una base anche debole. Al di sotto, invece, la resina è meno ossidata e risulta meno acida: qui servono reagenti pia basici per la salificazione. Alla luce di questa differenza possiamo forse interpretare anche una parte dell'azione del Resin Soap: vista la moderata alcalinità del reagente, solo pH 8, 5-9, 1 ' azione probabilmente si limita alla salificazione della parte più esterna (più acida dello strato, e non a quella sottostante (meno acida). Così, verosimilmente, sulla parte più esterna il Resin Soap agisce sia grazie alla sua alcalinità, sia in quanto tensioattivo: quando in contatto con la parte sottostante, più difficile da salificare, resta principalmente 1 ' attività di tensioattivo, un ' attivita tipicamente all ' interfaccia, e non di profondità. Pertanto, su uno strato di vernice ossidata è come se 1 ' azione si graduasse da se, diventando meno forte man mano che penetra verso 1'interno dello strato. Dal punto di vista del risultato della pulitura, limitarsi alla rimozione della parte più ossidata dello strato di vernice può già produrre un risultato esteticamente accettabile: la parte più ossidata è anche quella che ha subito la maggiore alterazione ottico-cromatica (ingiallimento), mentre quella sottostante, più protetta dall'ossidazione, è ingiallita meno. Perchè rimuovere dunque questo residuo dello strato, se la sua presenza non costituisce disturbo alla lettura dell ' immagine? Dal punto di vista dell'integrita strutturale dell ' opera questo assottigliamento è sicuramente più salutare, perchè il lasciare uno spessore residuo di vernice a diretto contatto della pellicola pittorica è garanzia di non averla intaccata direttamente. Anche il caso tanto frequente che abbiamo esemplificato prima, cioè una vernice localmente contaminata dalla presenza di colla animale, a volte può essere adeguatamente risolto impiegando un Resin Soap: la combinazione di leggera alcalinità, ambiente acquoso e addensante può infatti e s s e r e efficace nella solubilizzazione di materiale proteico. Controindicazioni all ' utilizzo. La principale controindicazione all'uso dei Resin Soaps è che si tratta di soluzioni acquose. Pertanto, per 1'applicazione deve e s s e r e verificata la compatibilità del supporto con 1'ambiente acquoso. Una preparazione suscettibile all ' acqua o una tela che si deformi in presenza di umidità chiaramente precludono l'utilizzo di questi reagenti. Non è tanto l ' applicazione del Resin Soap a richiedere questa compatibilità col mezzo acquoso: trattandosi di gel, infatti, 1 ' apporto di acqua non è grande soprattutto se si resta in tempi di applicazione di pochi minuti. Il problema èpiuttosto in trattamento successivo che come abbiamo descritto comporta una serie di lavaggi acquosi. Questi lavaggi sono effettuati con soluzioni libere, non addensate. Bisogna però sottolineare che solo questa procedura di lavaggio garantisce la completa rimozione di eventuali residui, e dunque non può essere eliminata o semplificata. Ne consegue che, se non è possibile effettuarla, non è consigliabile in primo luogo l ' intervento con i Resin Soaps. Uso dei Solvent Gels. I Solvent Gels sono miscele di solventi organici e acqua addensate, moderatamente alcaline, caratterizzate da fortissima viscosità e da attività detergente. L ' addensante usato, 1 ' acido poliacrilico (il prodotto carbopol) impartisce viscosità molto superiore a quanto ottenibile con eteri di cellulosa o altri addensanti; 1'agente neutralizzante, l ' ammina polietossilata (il prodotto Ethomeen) invece è responsabile delle proprietà emulsionanti e detergenti (grazie alla sua struttura di ammina polietossilata). Formulazioni diverse sono poi state proposte, in cui altre basi (ammoniaca, trietanolammina, sodio idrossido) sostituivano l ' Ethomeen. Ai fini pratici la presenza o meno di questo componente fa grande differenza in termini di attività. Sono dunque da considerare solvent gels solo quelle preparazioni di acido poliacrilico neutralizzato con l'Ethomeen. Uso dei Solvent Gels. I Solvent Gels sono miscele di • solventi organici e acqua addensate, • moderatamente alcaline, • caratterizzate da fortissima viscosità e da attività detergente. L’addensante usato, (Carbopol) impartiscea viscosità molto superiore a quanto ottenibile con eteri di cellulosa o altri addensanti; l’ammina polietossilata (Ethomeen) invece è (grazie alla sua struttura di ammina polietossilata) responsabile delle proprietà emulsionanti e detergenti. addensante acido poliacrilico impartisce viscosità altissima agente neutralizzante Ethomeen responsabile delle proprietà emulsionanti e detergenti Preparazione. La preparazione è semplice, alla portata del comune restauratore, e non richiede eccessivo bagaglio di conoscenze chimiche. A parte i reagenti specifici, non necessita di attrezzatura sofisticate: comune vetreria da laboratorio, cilindri e pipetta graduate, cartina indicatrice per il pH. Utile, ma non indispensabile un agitatore magnetico riscaldante; sicuramente utile invece un miscelatore elettrico con alimentazione a batteria, come mostrato in precedenza. Indipendentemente dai solventi utilizzati, la preparazione può seguire sempre quest'ordine: • per prima cosa si uniscono l’addensante carbopol (1-2 g) e il tensioattivo alcalino Ethomeen(10-20 ml), mescolando bene fino ad ottenere un impasto omogeneo, avendo cura di rompere con una spatola eventuali grumi formatisi. L'agitatore magnetico può semplificare l'operazione rimescolamento. • da ultimo l'aggiunta di acqua (5-10 ml) causa l'addensamento della soluzione. •col tempo il gel tende a diventare un pò meno alcalino (perché eventuali grumi di carbopol si sciolgono) •Infine per l’aggiunta dell’acqua è molto utile la vigorosa agitazione prodotta da un miscelatore elettrico Indipendentemente dai solventi utilizzati, la preparazione può seguire sempre quest'ordine: • per prima cosa si uniscono 1 ' addensante carbopol ( 1 - 2 g) e il tensioattivo alcalino Ethomeen(10-20 ml), mescolando bene fino ad ottenere un impasto omogeneo, avendo cura di rompere con una spatola eventuali grumi formatisi. L ' agitatore magnetico può semplificare l'operazione rimescolamento. • Da ultimo 1'aggiunta di acqua ( 5 - 1 0 ml) causa 1'addensamento della soluzione. Nella figura è mostrata la tipica viscosità di queste preparazioni. Eventuali grumi formatisi che si sciolgono lasciando il gel a riposo per qualche ora; similmente, col tempo il gel tende a diventare un pò meno alcalino (perché eventuali grumi di carbopol si sciolgono) e più trasparente (quando perde 1'aria inglobata durante la preparazione). Per 1'ultima operazione di aggiunta dell ' acqua è molto utile la vigorosa agitazione prodotta da un miscelatore elettrico del tipo mostrato. Si ribadisce che, vista la possibile presenza di solventi altamente infiammabili, è assolutamente sconsigliato 1'uso di un miscelatore alimentato da corrente di rete. Utilizzo. I solvent gels sono applicati alla superficie da trattare e lasciati agire indisturbati, oppure lavorati con un tamponcino di cotone o con un pennello a seconda del caso particolare (irregolarità superficiali, rilievi di colore). Il tempo di applicazione è in generale breve, da 30-40 secondi a pochi minuti difficile, comunque, dare delle regole generali, in quanto la composizione del gel specifico, il tipo di materiale lo spessore dello strato influenzano 1 ' azione, che dovrà dunque essere verificata caso per caso. Il modo migliore, almeno all'inizio, è sempre quello di saggiare continuamente la zona coperta dal gel con un tamponcino asciutto di cotone, per verificare il livello d ' azione. Chiaramente 1 ' applicazione deve riguardare una zona circoscritta della superficie, per evitare tempi molto diversi da una zona all'altra entro un'area troppo grande. Quando 1'azione è ritenuta sufficiente il gel viene rimosso con un tamponcino asciutto di cotone. La zona trattata è poi lavata a tampone con una miscela di solventi: Wolbers stesso suggerisce alcol isopropilico ed essenza di petrolio 1:1 oppure acetone ed essenza di petrolio 1:1. Da ultimo si effettuano lavaggi con sola essenza di petrolio. Questa procedura di lavaggio è fondamentale e merita alcune considerazioni. Perché la rimozione sia veramente efficace, i solventi utilizzati per il lavaggio devono effettivamente sciogliere il gel: in altre parole devono avere polarità simile a quella del solventi utilizzati nel gel stesso, senza pero avere azione diretta di solubilizzazione nei confronti della vernice in (o, più in generale, e del materiale filmogeno) su cui è applicato il solvent gels, cosi da non continuare 1'azione di pulitura. E ' pertanto raccomandabile mettere a punto una miscela adatta al caso specifico prima di iniziare il trattamento di pulitura con il gel. Si_può partire dalla miscela alcool isopropilico ed essenza di p et roli ol:l , più polare (f d 64)), verificandone 1 ' azione su una piccola zona della vernice: se si si ha effetto solvente si p r o v a l'altra miscela acetone ed essenza di petrolio meno polare (f d 68, 5). Se l'effetto solvente continua, si diminuirà la percentuale di acetone, fino a trovare una composizione adatta che non abbia diretta azione solubilizzante della vernice. Ad esempio, con una miscela di , , acetone ed essenza di petrolio 1:9 ' si può scendere fino un valore di polarità pari a fd 85, 6`che praticamente non avrà effetto solvente sulla maggior parte delle vernici fotossidate. Considerazioni sull ' utilizzo. Quali solventi possano e s s e r e usati nei solvent gels? Possiamo rispondere tutti. Con 1'accortezza di utilizzare il tipo di tensioattivo adatto, Ethomeen C25, idrosolubile, o Ethomeen C12, liposolubile da solo o in miscela con precedente, si possono usare rispettivamente, solventi polari (alcoli, chetoni, esteri, dimetilsolfossido) o apolari (idrocarburi alifatici o aromatici, come essenza di petrolio, essenza di trementina, dipentene, toluene). Per le mescolanze di solventi, se non si seguono preparazioni già descritte, si può seguire un'utile procedura: si avràa sempre pronta una certa quantità di gel ottenuto mescolando fra loro carbopol, ethomeen C25 e acqua, nelle quantità descritte più sopra. Per sapere se un certo solvente o miscela di solventi è compatibile con questa formulazione, si preleva una piccola quantità di gel su una spatola e la si immerge nel solvente o miscela. A seconda che il gel resti trasparente o diventi opaco si concluderà che quel tipo di solvente è rispettivamente, compatibile o incompatibile con la formulazione. Nel caso di incompatibilità si farà ricorso all' altro tipo di tensioattivo Ethomeen C12. Alcune miscele descritte dal stesso Wolbers sono ad esempio le seguenti (dove le percentuali sono espresse in volumi): • per la rimozione di vernici a olio-resinose, 80% alcol etilico e 20% xileni, • per la rimozione di resine sintetiche o ridipitture ad olio, n-metil 2Pirrolidone; • per la rimozione di resine sintetiche, 80% acetone e 20% alcol benzilico; • per la rimozione di vernici: 90% alcol isopropilico 10% alcol benzilico. Nella scelta di solventi organici, si raccomanda comunque di tenere in considerazione la tossicità di certi prodotti. Si sottolinea ancora una volta come 1'utilizzo di prodotti chimici di buona qualità sia in generale garanzia di minore potenziale di rischio per 1'operatore. Sono disponibili i vari tipi di Carbopol, diversi tra loro per dimensione molecolare e quindi dal punto di vista applicativo, per la viscosità che impartiscono alle soluzioni: precisamente, in ordine crescente abbiamo i tipi 941, 934 e 940. Sono disponibili i vari tipi di Carbopol, diversi tra loro per dimensione molecolare e quindi dal punto di vista applicativo, per la viscosità che impartiscono alle soluzioni: precisamente, in ordine crescente abbiamo i tipi 941, 934 e 940. A questi livelli, comunque elevatissimi, di viscosità la differenza tra un tipo e l'altro si può ritenere t bil Per quanto riguarda l’ethomeen invece i tre tipi spesso citati nella letteratura sono il C12, il C15 e C25, diversi tra loro per solubilità solventi apolari (idrocarburi alifatici come essenza di petrolio o di trementina, o aromatici come il toluene) solventi più polari (alcoli, chetoni come l'acetone, esteri come l’etilacetato) Ethomeen HLB C12 10 C15 13,9 C25 19 L ' elevatissima viscosità di queste preparazioni si traduce anche in condizioni di utilizzo più sicure per 1'operatore: limitando 1'evaporazione dei componenti si riduce di conseguenza 1 ' esposizione ai vapori. Così un solvente come il toluene di cui si sconsiglia 1 ' uso se non in piccolissime quantità per può essere utilizzato con minor rischio all'interno di un solvent gels (pur sempre con opportune precauzioni). Un materiale filmogeno che si riscontra con frequenza sulla superficie pittorica di dipinti è il materiale proteico: abbiamo già discusso come possa avere origini diverse. Non infrequenti sui dipinti anche 1 ' utilizzo di albume, in funzione di patinatura/verniciatura della superficie. La copresenza di questo materiale proteico complica 1 ' azione di solubilizzazione di una vernice: è dunque inevitabile, in questi casi, fare ricorso a sostanze alcaline (come l ' idrossido di ammonio o i solventi organici alcalini come la n-butilammina, la morfolina o la piridina) o acidi (come le soluzioni di acido acetico). Sappiamo però che il collagene costituente principale delle colle animali, è almeno parzialmente solubile in solventi organici neutri quali il glicol etilenico e it 2,2,2-trifluoroetanolo o, in solventi dipolari aprotici quali il dimetilsolfossido. Si è cosi pensato di inglobare questi solventi in un solvent gel da utilizzare per la rimozione di materiale proteico. Dopo alcune prove pratiche si è verificato che una miscela di 80% di etilenglicole e 20% di 2,2,2-trifluoroetanolo ha in effetti una certa efficacia nella solubilizzazione di una vernice contaminata da materiale proteico. Utilizzo. I solvent gels sono applicati alla superficie da trattare e lasciati agire indisturbati Il tempo di applicazione è in generale breve, da 30-40 secondi a pochi minuti saggiare continuamente la zona coperta dal gel con un tamponcino asciutto di cotone, per verificare il livello d'azione il gel viene rimosso con un tamponcino asciutto di cotone Il lavaggio viene poi eseguito a tampone con una miscela di solventi: • alcol isopropilico ed essenza di petrolio 1:1 oppure • acetone ed essenza di petrolio 1:1. • da ultimo si effettuano lavaggi con sola essenza di petrolio. Perché la rimozione sia veramente efficace, i solventi utilizzati per il lavaggio devono effettivamente sciogliere il gel senza però avere azione diretta di solubilizzazione nei confronti della vernice La controversia sui solvent gels. Anche queste preparazioni fin dalla loro comparsa hanno attratto consensi e critiche. Queste ultime, in particolare, riguardano la presenza del componente Ethomeen all'interno delle formulazioni: essendo non volatile, la sua forte ritenzione negli strati interni potrebbe rappresentare un fattore di degrado per 1'opera trattata. Alla base di queste preoccupazioni c'e il dubbio che 1'Ethomeen sia efficacemente legato all'addensante: trovandosi in forma libera dentro il gel potrebbe dunque diffondere sotto la superficie. Anche questa letteratura e stata esaminata criticamente e la quantity dei residui trovati molto e bassa a conferma dell'ottima azione superficiale di queste preparazioni. Considerazioni sull'utilizzo Quali solventi possano essere usati nei solvent gels? Possiamo rispondere tutti. con l'accortezza di utilizzare il tipo di tensioattivo adatto Alcune miscele descritte dal stesso Wolbers sono ad esempio le seguenti (dove le percentuali sono espresse in volumi): • per la rimozione di vernici a olio-resinose, 80% alcol etilico e 20% xileni; • per la rimozione di resine sintetiche o ridipitture ad olio, n-metil 2-Pirrolidone; • per la rimozione di resine sintetiche, 80% acetone e 20% alcol benzilico; • per la rimozione di vernici: 90% alcol isopropilico 10% alcol benzilico. •per la rimozione di vernici contenente materiale proteico: miscela di 80% di etilenglicole e 20% di 2,2,2-trifluoroetanolo La controversia sui solvent gels riguardano la presenza del componente Ethomeen • non volatile • a forte ritenzione I chelanti. Anche in questo caso ci limitiamo a mettere in luce le principali caratteristiche strutturali, importanti al fine di comprendere il meccanismo d'azione. Rimandiamo ad altre fonti specifiche per una trattazione più completa. Vengono definiti chelanti quei composti che attraverso atomi donatori sono in grado di coordinare uno ione metallico, cioè formare con esso un legame non covalente in corporandolo in una struttura ciclica stabile che viene appunto chiamata chelato. Si forma un anello in quanto gli atomi donatori sono collegati tra loro da catene di altri atomi: 1'addizione dello ione metallico provoca la ciclizzazione della struttura. Per ogni atomo di metallo coordinato si ha la formazione di un anello. I chelanti Vengono definiti chelanti quei composti che attraverso atomi donatori sono in grado di coordinare uno ione metallico, cioè formare con esso un legame non covalente incorporandolo in una struttura ciclica stabile che viene appunto chiamata chelato L'interazione col metallo è resa possibile dal fatto the i metalli, avendo orbitali non occupati (cioè non riempiti da elettroni), sono elettron accettori e possono interagire con atomi ricchi di elettroni, cioè elettron donatori, disposti a cedere i loro elettroni, quale appunto azoto, N, ossigeno,O, zolfo,S, e fosforo,P. Si formano così composti di coordinazione detti appunto chelati. La molecola the contiene gli atomi donatori capaci di coordinare il metallo viene chiamata legante. Un legante è definito bi, tri, tetra dentato, e così via, a seconda che contenga due, tre, quattro o più atomi donatori.. Notiamo che un legante mono dentato non viene considerato : sebbene sia in grado di interagire con un metallo, non può dare luogo alla formazione di un anello perchè possiede un solo atomo donatore. In questo caso si preferisce parlare di coordinazione anzichè di chelazione. Questo è il caso tipico della coordinazione di ioni metallici da parte dell'ammoniaca esemplificato dalla formazione di complessi cupro ammoniacali in presenza di ioni rameici, : il doppietto elettronico non condiviso sull'atomo di azoto dell'ammoniaca può formare un legame di coordinazione con orbitali sullo ione metallico. L'interazione col metallo è resa possibile dal fatto che i metalli, avendo orbitali non occupati (cioè non riempiti da elettroni), sono elettron-accettori e possono interagire con atomi ricchi di elettroni, cioè elettron-donatori, disposti a cedere i loro elettroni, quale appunto azoto, N, ossigeno O, zolfo S, e fosforo P legante mono dentato Tornando ai chelanti, il legante può esser una specie neutra o carica, e cosi pure il complesso legante-metallo. La carica dipende cosi dalla possibile ionizzazione di certi gruppi, cioè dalle condizioni di pH. del mezzo. I chelanti possono esser sia organici 'che inorganici, ma il numero dei primi è decisamente superiore. il legante può essere: • una specie neutra • una specie carica. La carica dipende dalla possibile ionizzazione di certi gruppi, cioè dalle condizioni di pH I chelanti possono esser sia organici che inorganici, ma il numero dei primi è decisamente superiore Classi di chelanti Classi di chelanti.. Le molecole che hanno i requisiti necessari per agire da chelanti (cioè avere due o più atomi donatori collegati da una catena, solitamente lineare, che agisca come le chele consentendo 1'avvicinamento nello spazio degli atomi donatori) possono e s s e r e raggruppati in classi, in cui ci limitiamo a considerare le più comuni, mostrate nella figura :. Modo d'azione. Per quanto riguarda il meccanismo della reazione possiamo rappresentare, ad esempio, la reazione di formazione di un chelato tra un generico metallo e il chelante tri-dentato dimetilentriammina secondo lo schema seguente. In questo caso il legante è una specie neutra, mentre il chelato finale possiede formalmente la carica che inizialmente apparteneva all'atomo metallico. In certi casi possono e s s e r e coinvolte anche molecole d'acqua, anch'esse in grado di coordinare lo ione metallico. Modo d'azione Importanza del pH chelante tri-dentato = dimetilentriammina Da questo esempio è chiara anche l'influenza del pH del mezzo nel determinare la formazione del chelato ,se fossimo in ambiente acido i gruppi amminici sarebbero protonati, e cosi gli atomi di azoto non sarebbero più elettrondonatori, non disponendo più di un doppietto elettronico non condiviso. Un parametro importante per descrivere l'affinità di un legante per un certo metallo, utile per predire la formazione di un chelato, è Log K , il logaritmo della costante di formazione K La complessazione di un certo metallo ha un pH ottimale Un parametro importante per descrivere 1'affinità di un legante è per un certo metallo, utile per predire la formazione di un chelato, e Log K , il logaritmo della costante di formazione K, di cui la tabella riporta alcuni valori per 1 ' acido citrico e 1'EDTA, rispetto ad un certo numero di ioni metallici. Il significato pratico di questi numeri è che un valore alto di Log K indica una forte tendenza alla formazione del chelato tra il metallo e il legante. Questi valori possono anche essere utilizzati per prevedere la selettività della reazione di chelazione quando sono presenti più metalli. Così in presenza di EDTA tra gli ioni ferro e ioni calcio saranno i primi, gli ioni ferrici, ad essere sequestrati preferenzialmente (e, vista l’enorme differenza nei valori delle costanti, pari a circa 10 - 1 4 , preferenzialmente è di fatto da intendere come quantitativamente: uno ione calcio ogni mille miliardi di ioni ferro!). Lo stesso accadrebbe in presenza del legante acido citrico, perché anche in questo caso gli ioni ferro hanno Log K più elevato rispetto agli ioni calcio. In questo secondo caso, la differenza tra le due costanti è più contenuta rispetto all'EDTA: la acido citrico diventa cosi un chelante meno selettivo (uno ioni calcio ogni dieci milioni di ioni ferro). importante però considerare anche che la complessazione di un certo metallo ha un pH ottimale: nel caso dell'EDTA, il pH ottimale per lo ioni calcio e intorno al valore 10, mentre per lo ione ferro è intorno al valore 6. L ' uso dei chelanti. L'utilizzo di questi composti è legato alla necessità di controllare la quantità di ioni metallici presenti in un certo mezzo; questa necessità può derivare da svariate circostanze (problemi di solubilità, addolcimento delle acque, trattamento degli effluenti industriali, intossicazione da metalli pesanti). L ' azione di questi chelanti consiste appunto nella loro capacità di sequestrare gli ioni metallici una forma complessa, che solitamente ha proprietà chimico fisiche spiccatamente differenti da quelle degli stessi ioni metallici liberi, e rendendo quindi possibile una differenziazione tra i ioni metallici liberi e ioni metallici complessati. Spesso i chelanti sono utilizzati in combinazione con detergenti di tipo anionico: i tensioattivi anionici sono disattivati dalla presenza di ioni calcio e magnesio che formano sali insolubili con saponi. In queste circostanze la presenza di un chelante che sequestra questi ioni assicura la corretta azione del detergente. L'uso dei chelanti L'azione di questi chelanti consiste appunto nella loro capacità di sequestrare gli ioni metallici in una forma complessa, che solitamente ha proprietà chimico fisiche spiccatamente differenti da quelle degli stessi ioni metallici liberi, rendendo quindi possibile una differenziazione tra ioni metallici liberi e ioni metallici complessati. Solubizzazione di una patina di corrosione Un uso importante quasi privo di rischio strutturale, è quello che permette di solubilizzare patine di corrosione (e dunque saline, composti di ioni del metallo) su manufatti metallici. L'azione del chelante procede sulla patina cioè fino a quando il chelante trova gli ioni metallici. Al raggiungimento del nucleo sano del metallo sono presenti atomi metallici e non più ioni. La velocità di azione del chelante sugli ioni è talmente bassa che possiamo definirla, a tutti gli effetti, nulla. Le principali caratteristiche chimico-fisiche delle sostanze chelanti che trovano applicazione nel restauro sono descritte qui di seguito. EDTA. La acido etilendiamminotetracetico (EDTA), o acido edetico, di formula bruta C 1 0 H 1 6 N 2 O 8 e il peso molecolare 292, 24 g/mol è un solido cristallino Bianco che diffonde decomponendosi a 220 gradi centigradi. E un'acido tetraprotico è poco solubile in acqua (0, 50 g/l). EDTA. L’acido etilendiamminotetracetico (EDTA), o acido edetico, di formula bruta C10H16N2O8 e il peso molecolare 292, 24 g/mol è un solido cristallino bianco che fonde decomponendosi a 220 °C. È un'acido tetraprotico è poco solubile in acqua (0, 50 g/l). Contiene quattro gruppi carbossilici, che possano es s er e neutralizzati uno alla volta con una base, formando sali, solubili in acqua: ad esempio con idrossido di sodio, NAOH, si avrebbero: EDTA mono-sodico, bi-sodico, tri-sodico e e tetra-sodico, indicati rispettivamente con EDTA-Na, EDTANa 2 , EDTA-Na 3 , e EDTA-Na 4 . Tutti i sali hanno rispetto all'EDTA, migliore idrosolubilità, Il pH di una soluzione acquosa di EDTA può essere anche molto acido, ph 2-3. Per quanto riguarda infine la capacità complessante nei confronti del calcio si possono dare le seguenti indicazioni 1 g EDTA-Na 3 complessa almeno 242 mg CaCO 3 ; 1 g EDTA-Na 4 complessa almeno 215 mg CaCO 3 . I1 pH ottimale per la complessazione del calcio è 10. Acido citrico. Di formula bruta C 6 H 8 0 7 ha peso molecolare 192, 12 g/mol e (210, 14 come acido monoidrato), è un solido cristallino bianco che fonde a 153 °C.propriamente un'acido tri-carbossilico idrossilato. E solubile in acqua, alcoli, etilacetato. Le sue soluzioni possono arrivare a pH circa 2,5 a 25°C. Acido citrico. Di formula bruta C6H8O7 e peso molecolare 192, 12 g/mol è (210, 14 come acido monoidrato a), è un solido cristallino bianco che fonde a 153 °C. È propriamente un'acido tri-carbossilico idrossilato. È solubile in acqua, alcoli, etilacetato. Le sue soluzioni possono arrivare a pH circa 2,5 a 25°C. Trietanolammina O più semplicemente TEA di formula bruta C6H15NO3 e peso molecolare 149, 19 g/mol, è un liquido molto viscoso (circa 600 cps), che può cristallizzare a 18-21 °C. Non è volatile (ha punto di ebollizione 335 °C, la bassissima tensione di vapore: meno di 0, 001 mmHg). È molto polare e di conseguenza molto solubile in acqua e nei solventi organici polari (alcoli, chetoni). Reagendo con basi forma sali, i citrati, che hanno migliore attività chelante. I citrato può chelare di ioni responsabili della durezza dell'acqua, gli ioni calcio e magnesio e in un intervallo di pH 2-10; lo ione ferro solo fino ph 8; lo ione rame a pH 2-9, gli ioni alluminio e nickel a pH 2-14; to ione zinco a pH 5-9. Trietanolammina. 0 più semplicemente TEA di formula bruta C 6 H 1 5 NO 3 e peso molecolare 149, 19 g/mol, è un liquido molto viscoso (circa 600cps), che può cristallizzare a 18-21 °C. Non è volatile (ha punto di ebollizione 335 °C, la bassissima tensione di vapore: meno di 0, 001 mmHg). E molto polare e di conseguenza molto solubile in acqua e nei solventi organici polari (alcoli, chetoni). E' una base forte. Il pH di una soluzione acquosa 0, 1 N è 10, 5. E’ un solvente poco penetrante (per 1'altissima viscosità) ma fortissima ritenzione. E’ una delle poche basi organiche a bassa tossicità, infatti trova ampio uso in preparazioni farmacologiche e cosmetiche come alcalinizzante. Ha solo debole potere chelante. Uso dei chelanti nel restauro. I chelanti sono dunque sostanze utilizzabili per la rimozione di ioni metallici. Dal punto di vista applicativo, questo si può tradurre in operazioni diverse, a seconda del tipo di opera su cui si lavora. Per manufatti metallici, i chelanti rappresentano la possibilità d i eliminare patine di corrosione (cioè sali del metallo). Il pH del mezzo di lavoro deve essere aggiustato a seconda del tipo di metallo su cui si opera. Per supporti murali e lapidei, 1'uso di chelanti (principalmente 1 ' EDTA) in ambiente a l c a l i n o è soprattutto utilizzato per la rimozione di patine contenenti lo lone calcio: in forma di solfatazione (gesso o calcio solfato biidrato), di ossalati (in quanto principalmente costituite da calcio ossalato), o scialbature risultanti dalla carbonatazione superficiale della calce (patine di calcio carbonato). Uso dei chelanti nel restauro I chelanti sono dunque sostanze utilizzabili per la rimozione di ioni metallici • rappresentano la possibilità di eliminare patine di corrosione (cioè sali del metallo). manufatti metallici •Il pH del mezzo di lavoro deve essere supporti murali e lapidei aggiustato a seconda del tipo di metallo su cui si opera. • principalmente l’EDTA • ambiente alcalino • per la rimozione di patine contenenti lo ione calcio in • solfatazione (gesso o calcio forma di: solfato biidrato), • ossalati (in quanto principalmente costituite da calcio ossalato), • scialbature risultanti dalla carbonatazione superficiale della calce (patine di calcio carbonato). Particolare attenzione deve pero essere posta ad evitare 1'azione su materiale costituente (calcio carbonato che nel caso di intonaci a malta di calce, calcite nel caso di materiale lapideo) e sui pigmenti costituenti la policromia (in quanto la maggior parte dei metalli costituenti i pigmenti, cobalto, ferro, mercurio, rame, piombo, cadmio e alluminio) possono essere complessati e quindi sono utilizzati dal chelante nelle giuste condizioni di pH. La capacità complessante nei coilfronti di uno ione specifico dipende comunque dal valore di pH. E ' difficile prevedere a priori il rischio di una applicazione su una superficie policroma. Ad esempio nella preparazione AB57 formulata dall'Istituto Centrale del Restauro di Roma si mette chiaramente in evidenza come nella miscela di uso generalizzato per normale pulitura non sia compreso un chelante. La miscela infatti ha la seguente composizione: • 1000 ml acqua distillata; • 30 grammi di ammonio idrogeno carbonato (bicarbonato); • • • 50 g sodio idrogeno carbonato (bicarbonato); 10 g Benzalconio cloruro al 10%; 60 grammi di sodio carbossimetilcellulosa. (NaCMC). Si dice chiaramente che il chelante (25-125 g IDRANAL, cioe EDTA sale bisodico) viene aggiunto solo nel caso di uso localizzato, in presenza di carbonati e ossalati. Purtroppo pero oggi non e infrequente riscontrare che questa aggiunta viene sempre fatta al fine di velocizzare 1'azione, senza tenere in considerazione il possibile rischio di interazione col supporto. Per manufatti quali sculture lignee policrome 1 ' azione chelante può ess e r sfruttata per 1 ' assottigliamento di strati pigmentati (in quanto i pigmenti sono sali di metalli), in particolare quando il legante sia costituito da caseina (precisamente caseina e calce, cioè calcio caseato) o uovo (perché anche qui si può avere presenza di calcio ossalato e altri sali di calcio). Su altri manufatti policromi quali appunto i dipinti, i chelanti in particolare l ' acido citrico e suoi sali mostrano efficace azione di pulitura. Questa azione è pero difficile da razionalizzare in base al modo d'azione che abbiamo descritto, cioè la capacita di sequestrare i ioni metallici. vero che il generico sporco di deposito è in parte costituito da elementi inorganici: particelle di ossidi metallici disaggregati e particelle di carbonio in generale tenute coese dalla altra componente dello sporco, quella lipofila, costituita da idrocarburi, grassi, ecc:. Sulla parte inorganica il chelante può agire complessando gli ioni metallici, tuttavia questo non è sufficiente a spiegare 1'azione di pulitura. Due ricercatori inglesi hanno fornito un ' ottima interpretazione al meccanismo d'azione in questi casi, che prende in considerazione la natura di poli-elettroliti di queste sostanze: cioè il fatto che siano ioni con numerose cariche negative. L ' interpretazione fornita puo e s s e r e riassunta cosìi. Nel caso della pulitura di una superficie, i tensioattivi non sono gli unici composti avere attività superficiale: anche gli ioni con molte cariche negative (come sono appunto i sali dell'EDTA, i citrati, e il sodio tripoli fosfato) mostrano assorbimento preferenziale alle interfacce. Gia questa azione può contribuire a diminuire la tensione interfacciale, e di conseguenza a rendere la superficie pia bagnabile. Ma c'e una azione pia profonda che possiamo descrivere in questo modo: • questi gli ioni possono agire in modo da neutralizzare elettrostaticamente uno strato di vernice, cosi da favorire il distacco del materiale di deposito; • la repulsione elettrostatica tra cariche dello stesso segno, che si sono depositate sulla superficie, fa Si che lo strato di deposito cominci a disgregarsi e i frammenti passino nella fase acquosa; • queste particelle di sporco sganciatesi dalla superficie mantengono comunque le cariche negative che hanno assorbito, e questo previene la loro riaggregazione, flocculazione e rideposizione sulla superficie. Anche nel caso della pulitura di una vernice èfondamentale valutare la possibile interazione con strati pigmentati originari. Vista la minore attivita chelante, 1'acido citrico è piu raccomandabile delle EDTA. Diciamo che la semplice azione chelante può non essere sufficiente ad ottenere il livello di pulitura desiderato,ma diventa senz'altro una componente fondamentale: 1'ambiente alcalino (che tra 1'altro serve ad ottenere 1'anione del chelante), 1 ' attività detergente svolta da un tensioattivo, e 1'attività chelante possono spesso portare, in ambiente acquoso, a un risultato paragonabile a quello che si otterrebbe con solventi organici. Un gel che si è dimostrato particolarmente efficace nel trattamento di pulitura è preparato utilizzando come addensante il carbopol al posto di eteri di cellulosa. In questo caso bisogna aumentare la dose di base, perché ne serve una certa quantità anche per salificate il carbopol (acido poliacrilico e quindi acido esso stesso). Si procede del modo seguente: • 2 grammi di acido citrico sono sciolti in • 100 ml di acqua deionizzata e salificate con • 10 ml di trietanolammina. • Si aggiungono 3 g di carbopol 940, si mescola poi si lascia a riposo (mescolando occasionalmente) fino ad gelificazione. Questa preparazione si è dimostrata particolarmente efficace nel caso della rimozione di materiale proteico (colla animale). Non ci sono informazioni nella letteratura specifica che permettano di spiegare adeguatamente il perché di questa azione. A livello di ipotesi ragionante possiamo suggerire due meccanismi, che probabilmente contribuiscono al modo dazione: • I1 fatto che i chelanti in quanto poli-elettroliti possono avere efficace interazione con le proteine anch'esse poli-elettroliti e quest ' interazione influisce sulla solubilità; • I1 fatto che le proteine sono spesso associate a ioni metallici (a maggior ragione nel caso di applicazione Beni artistici), suscettibili all'azione complessante di un chelante. Questo gel si dimostra sempre decisamente più attivo di uno simile ma addensato con eteri di cellulosa, e questa differenza non è spiegabile solo in termini di maggiore viscosità (e quindi migliore ritenzione del mezzo acquoso). Come sempre nel caso del carbopol, si ipotizza un ruolo attivo della addensante stesso e, verosimilmente causato dalle sue proprietà acide. Acido citrico. Di formula bruta C 6 H 8 0 7 ha peso molecolare 192, 12 g/mol e (210, 14 come acido monoidrato), è un solido cristallino bianco che fonde a 153 °C.propriamente un'acido tri-carbossilico idrossilato. E solubile in acqua, alcoli, etilacetato. Le sue soluzioni possono arrivare a pH circa 2,5 a 25°C. Reagendo con basi forma sali, i citrati, che hanno migliore attività chelante. I citrato può chelare di ioni responsabili della durezza dell'acqua, gli ioni calcio e magnesio e in un intervallo di pH 2-10; lo ione ferro solo fino ph 8; lo ione rame a pH 2-9, gli ioni alluminio e nickel a pH 2-14; to ione zinco a pH 5-9. Acido citrico. Di formula bruta C6H8O7 e peso molecolare 192, 12 g/mol è (210, 14 come acido monoidrato a), è un solido cristallino bianco che fonde a 153 °C. È propriamente un'acido tri-carbossilico idrossilato. È solubile in acqua, alcoli, etilacetato. Le sue soluzioni possono arrivare a pH circa 2,5 a 25°C. Trietanolammina O più semplicemente TEA di formula bruta C6H15NO3 e peso molecolare 149, 19 g/mol, è un liquido molto viscoso (circa 600 cps), che può cristallizzare a 18-21 °C. Non è volatile (ha punto di ebollizione 335 °C, la bassissima tensione di vapore: meno di 0, 001 mmHg). È molto polare e di conseguenza molto solubile in acqua e nei solventi organici polari (alcoli, chetoni). Trietanolammina. 0 più semplicemente TEA di formula bruta C 6 H 1 5 NO 3 e peso molecolare 149, 19 g/mol, è un liquido molto viscoso (circa 600cps), che può cristallizzare a 18-21 °C. Non è volatile (ha punto di ebollizione 335 °C, la bassissima tensione di vapore: meno di 0, 001 mmHg). E molto polare e di conseguenza molto solubile in acqua e nei solventi organici polari (alcoli, chetoni). E' una base forte. Il pH di una soluzione acquosa 0, 1 N è 10, 5. E’ un solvente poco penetrante (per 1'altissima viscosità) ma fortissima ritenzione. E’ una delle poche basi organiche a bassa tossicità, infatti trova ampio uso in preparazioni farmacologiche e cosmetiche come alcalinizzante. Ha solo debole potere chelante. Uso dei chelanti nel restauro. I chelanti sono dunque sostanze utilizzabili per la rimozione di ioni metallici. Dal punto di vista applicativo, questo si può tradurre in operazioni diverse, a seconda del tipo di opera su cui si lavora. Per manufatti metallici, i chelanti rappresentano la possibilità di eliminare patine di corrosione (cioè sali del metallo). Il pH del mezzo di lavoro deve essere aggiustato a seconda del tipo di metallo su cui si opera. Per supporti murali e lapidei, 1'uso di chelanti (principalmente 1 ' EDTA) in ambiente a l c a l i n o è soprattutto utilizzato per la rimozione di patine contenenti lo lone calcio: in forma di solfatazione (gesso o calcio solfato biidrato), di ossalati (in quanto principalmente costituite da calcio ossalato), o scialbature risultanti dalla carbonatazione superficiale della calce (patine di calcio carbonato). Uso dei chelanti nel restauro I chelanti sono dunque sostanze utilizzabili per la rimozione di ioni metallici • rappresentano la possibilità di eliminare patine di corrosione (cioè sali del metallo). manufatti metallici •Il pH del mezzo di lavoro deve essere supporti murali e lapidei aggiustato a seconda del tipo di metallo su cui si opera. • principalmente l’EDTA • ambiente alcalino • per la rimozione di patine contenenti lo ione calcio in • solfatazione (gesso o calcio forma di: solfato biidrato), • ossalati (in quanto principalmente costituite da calcio ossalato), • scialbature risultanti dalla carbonatazione superficiale della calce (patine di calcio carbonato). Particolare attenzione deve pero essere posta ad evitare 1'azione su materiale costituente (calcio carbonato che nel caso di intonaci a malta di calce, calcite nel caso di materiale lapideo) e sui pigmenti costituenti la policromia (in quanto la maggior parte dei metalli costituenti i pigmenti, cobalto, ferro, mercurio, rame, piombo, cadmio e alluminio) possono essere complessati e quindi sono utilizzati dal chelante nelle giuste condizioni di pH. La capacità complessante nei coilfronti di uno ione specifico dipende comunque dal valore di pH. E ' difficile prevedere a priori il rischio di una applicazione su una superficie policroma. Ad esempio nella preparazione AB57 formulata dall'Istituto Centrale del Restauro di Roma si mette chiaramente in evidenza come nella miscela di uso generalizzato per normale pulitura non sia compreso un chelante. La miscela infatti ha la seguente composizione: • 1000 ml acqua distillata; • 30 grammi di ammonio idrogeno carbonato (bicarbonato); • 50 g sodio idrogeno carbonato (bicarbonato); • 10 g Benzalconio cloruro al 10%; • 60 grammi di sodio carbossimetilcellulosa. (NaCMC). Si dice chiaramente che il chelante (2 5-125 g IDRANAL, cioe EDTA sale bisodico) viene aggiunto solo nel caso di uso localizzato, in presenza di carbonati e ossalati. Purtroppo pero oggi non e infrequente riscontrare che questa aggiunta viene sempre fatta al fine di velocizzare 1'azione, senza tenere in considerazione il possibile rischio di interazione col supporto. Per manufatti quali sculture lignee policrome 1 ' azione chelante può ess er sfruttata per 1 ' assottigliamento di strati pigmentati (in quanto i pigmenti sono sali di metalli), in particolare quando il legante sia costituito da caseina (precisamente caseina e calce, cioè calcio caseato) o uovo (perché anche qui si può avere presenza di calcio ossalato e altri sali di calcio). Su altri manufatti policromi quali appunto i dipinti, i chelanti in particolare l ' acido citrico e suoi sali mostrano efficace azione di pulitura. Questa azione è pero difficile da razionalizzare in base al modo d'azione che abbiamo descritto, cioè la capacita di sequestrare i ioni metallici. vero che il generico sporco di deposito è in parte costituito da elementi inorganici: particelle di ossidi metallici disaggregati e particelle di carbonio in generale tenute coese dalla altra componente dello sporco, quella lipofila, costituita da idrocarburi, grassi, ecc:. Sulla parte inorganica il chelante può agire complessando gli ioni metallici, tuttavia questo non è sufficiente a spiegare 1'azione di pulitura. Due ricercatori inglesi hanno fornito un ' ottima interpretazione al meccanismo d'azione in questi casi, che prende in considerazione la natura di poli-elettroliti di queste sostanze: cioè il fatto che siano ioni con numerose cariche negative. L ' interpretazione fornita puo e s s e r e riassunta così. Particolare attenzione deve però essere posta ad evitare l'azione su materiale costituente. • calcio carbonato che nel caso di intonaci a malta di calce, calcite nel caso di materiale lapideo) e • sui pigmenti costituenti la policromia La capacità complessante nei confronti di uno ione specifico dipende comunque dal valore di pH. E’ difficile prevedere a priori il rischio di una applicazione su una superficie policroma. • assottigliamento di strati pigmentati (in manufatti lignei policromi quanto i pigmenti sono sali di metalli) • quando il legante sia costituito da caseina (precisamente caseina e calce, cioè calcio caseato) o • uovo (perché anche qui si può avere presenza di calcio ossalato e altri sali di calcio). Nel caso della pulitura di una superficie, i tensioattivi non sono gli unici composti avere attività superficiale: anche gli ioni con molte cariche negative (come sono appunto i sali dell'EDTA, i citrati, e il sodio tripoli fosfato) mostrano assorbimento preferenziale alle interfacce. Gia questa azione può contribuire a diminuire la tensione interfacciale, e di conseguenza a rendere la superficie pia bagnabile. Ma c'e una azione pia profonda che possiamo descrivere in questo modo: • questi gli ioni possono agire in modo da neutralizzare elettrostaticamente uno strato di vernice, cosi da favorire il distacco del materiale di deposito; • la repulsione elettrostatica tra cariche dello stesso segno, che si sono depositate sulla superficie, fa Si che lo strato di deposito cominci a disgregarsi e i frammenti passino nella fase acquosa; • queste particelle di sporco sganciatesi dalla superficie mantengono comunque le cariche negative che hanno assorbito, e questo previene la loro riaggregazione, flocculazione e rideposizione sulla superficie. manufatti policromi: i dipinti meccanismo d'azione natura di poli-elettroliti • gli ioni con molte cariche negative (sali dell'EDTA, citrati, e sodio tripoli fosfato) mostrano assorbimento preferenziale alle interfacce. Già questa azione può contribuire a diminuire la tensione interfacciale e di conseguenza a rendere la superficie più bagnabile • questi ioni possono agire in modo da neutralizzare elettrostaticamente uno strato di vernice, così da favorire il distacco del materiale di deposito; • la repulsione elettrostatica tra cariche dello stesso segno, che si sono depositate sulla superficie, fa sì che lo strato deposito cominci a disgregarsi e i frammenti passino nella fase acquosa; • queste particelle di sporco sganciatesi dalla superficie mantengono comunque le cariche negative che hanno assorbito, e questo previene la loro riaggregazione, flocculazione e rideposizione sulla superficie. Anche nel caso della pulitura di una vernice è fondamentale valutare la possibile interazione con strati pigmentati originari.Vista la minore attivita chelante, 1'acido citrico è piu raccomandabile delle EDTA. Diciamo che la semplice azione chelante può non essere sufficiente ad ottenere il livello di pulitura desiderato,ma diventa senz'altro una componente fondamentale: 1'ambiente alcalino (che tra 1'altro serve ad ottenere 1'anione del chelante), 1 ' attività detergente svolta da un tensioattivo, e 1'attività chelante possono spesso portare, in ambiente acquoso, a un risultato paragonabile a quello che si otterrebbe con solventi organici. Composizione delle miscele • l'ambiente alcalino (che tra l'altro serve ad ottenere l'anione del chelante) • l’attività detergente svolta da un tensioattivo • l'attività chelante possono spesso portare, in ambiente acquoso, a un risultato paragonabile a quello che si otterrebbe con solventi organici. Un gel che si è dimostrato particolarmente efficace nel trattamento di pulitura è preparato utilizzando come addensante il carbopol al posto di eteri di cellulosa. In questo caso bisogna aumentare la dose di base, perché ne serve una certa quantità anche per salificate il carbopol (acido poliacrilico e quindi acido esso stesso). Si procede del modo seguente: • • • • 2 grammi di acido citrico sono sciolti in 100 ml di acqua deionizzata e salificate con 10 ml di trietanolammina. Si aggiungono 3 g di carbopol 940, si mescola poi si lascia a riposo (mescolando occasionalmente) fino ad gelificazione. Questa preparazione si è dimostrata particolarmente efficace nel caso della rimozione di materiale proteico (colla animale). Non ci sono informazioni nella letteratura specifica che permettano di spiegare adeguatamente il perché di questa azione. A livello di ipotesi ragionante possiamo suggerire due meccanismi, che probabilmente contribuiscono al modo dazione: • I1 fatto che i chelanti in quanto poli-elettroliti possono avere efficace interazione con le proteine anch'esse poli-elettroliti e quest ' interazione influisce sulla solubilità; • I1 fatto che le proteine sono spesso associate a ioni metallici (a maggior ragione nel caso di applicazione Beni artistici), suscettibili all'azione complessante di un chelante. Questo gel si dimostra sempre decisamente più attivo di uno simile ma addensato con eteri di cellulosa, e questa differenza non è spiegabile solo in termini di maggiore viscosità (e quindi migliore ritenzione del mezzo acquoso). Come sempre nel caso del carbopol, si ipotizza un ruolo attivo della addensante stesso e, verosimilmente causato dalle sue proprietà acide. Un gel che si è dimostrato particolarmente efficace nel trattamento di pulitura è preparato utilizzando come addensante il carbopol al posto di eteri di cellulosa Si procede del modo seguente: • 2 grammi di acido citrico sono sciolti in • 100 ml di acqua deionizzata e salificate con • 10 ml di trietanolammina. • si aggiungono 3 g di carbopol 940, si mescola poi si lascia a riposo (mescolando occasionalmente) fino ad gelificazione. efficace nel caso della rimozione di materiale proteico Ecco due ipotesi di meccanismi, che probabilmente contribuiscono al modo d’azione: • Il fatto che i chelanti in quanto poli-elettroliti possono avere efficace interazione con le proteine anch'esse poli-elettroliti e quest’interazione influisce sulla solubilità; • Il fatto che le proteine sono spesso associate a ioni metallici (a maggior ragione nel caso di applicazione beni artistici), suscettibili all'azione complessante di un chelante • nel caso del carbopol, inoltre si ipotizza un ruolo attivo della addensante stesso causato dalle sue proprietà acide. Gli enzimi. Gli enzimi sono proteine, cioè polipeptidi di struttura complessa: composti organici macromolecolari di origine naturale. I loro precursori, cioè i monomeri, sono delle sostanze organiche ossigenate e azotate dette amminoacidi. Gli amminoacidi sono composti organici bifunzionali che contengono un gruppo carbossilico (-COOH) e un gruppo amminico (-NH2) e per questo sono composti anfoteri La caratteristica strutturale che differenzia tra loro i vari amminoacidi è la natura del gruppo –R, detto catena laterale, presente sul carbonio α. Con queste premesse possiamo ora concentrare la nostra attenzione su quelle proteine che svolgono la funzione biologica di enzimi. L'evoluzione della biologia ha permesso l’elucidazione della struttura di numerosi enzimi, e quindi la comprensione del loro meccanismo catalitico; successivamente lo sviluppo della biotecnologia ha reso possibile l'utilizzo di numerosi enzimi anche al di fuori dell'ambiente biologico in cui solitamente essi operano, portando così al loro uso in molti processi industriali, alla stregua dei comuni reagenti chimici. Rispetto i quali gli enzimi presentano però il vantaggio di maggiore selettività e più blande condizioni operative. Delle infinite strutture possibili (in teoria qualunque radicale organico ) in realtà solo relativamente poche si incontrano in natura: i principali aamminoacidi naturali sono infatti solo venti La struttura degli enzimi. Dal punto di vista strutturale tutti gli enzimi sono complesse proteine, solitamente con pesi molecolari variabili tra 104 e 106. Sono presenti in tutti gli organismi viventi, all'interno delle cellule. Certi microrganismi hanno anche la capacità di secerne enzimi all'esterno: in questo caso l'attività enzimatica avviene al di fuori della cellula. Per la sua natura anfotera la molecola di un amminoacido si può ionizzare sia in ambiente acido, producendo un catione che in ambiente basico, producendo un anione. Ad un certo valore di pH del mezzo in cui l’amminoacido si trova, la molecola può esistere nella forma doppiamente ionizzata. Il volore di pH a cui si verifica questo prende il nome di punto isoelettrico pI ed è caratteristico di quell’amminoacido . Gli enzimi sono proteine con attività biologica di catalizzatori: hanno la funzione di rendere più veloci (di un fattore compreso tra 106 e 1012 volte) reazioni biochimiche di conversione di un substrato. Ogni enzima è altamente specifico, cioè in grado di catalizzare un solo tipo, o al massimo pochi tipi, di reazione. Due amminoacidi possono reagire fra loro attraverso una reazione di condensazione, che libera una molecola di acqua e lega i due residui attraverso un legame di tipo ammidico, detto: legame peptidico formando un dipeptide Questa molecola possiede ancora due gruppi funzionali reattivi alle estremità opposte, e quindi, per condensazioni successive, può accrescersi in entrambe le direzioni Molti enzimi sono composti di una parte proteica associata a un gruppo prostetico di natura non amminoacidica. L'intero complesso allora è chiamato oloenzima, la parte proteica vera e propria apoenzima e il gruppo prostetico cofattore. Ci sono molti tipi di cofattori, di natura organica o no. Tra i primi i composti più importanti sono probabilmente le vitamine; tra i secondi i metalli, più propriamente gli ioni metallici, rivestono un ruolo particolarmente importante, perché la loro presenza contribuisce a mantenere l'enzima nella sua conformazione nativa. Per questa ragione sono spesso chiamati anche attivatori. Molti cofattori organici partecipano attivamente al ciclo catalitico, agendo come temporanei accettori o donatori di atomi, o più in generale di gruppi funzionali, trasferiti tra l'enzima e substrato. Se agiscono in questo modo, questi con fattori sono più propriamente chiamati coenzimi. In generale si usa il termine oligopeptide per indicare un prodotto di condensazione formato da poche unità di amminoacidi. Molteplici condensazioni porteranno alla formazione di polipeptide che se molto complessi, con pesi molecolari tra 103 e 106 vengono comunemente chiamati proteine La catalisi. Gli enzimi promuovono reazioni che in loro assenza, non avverrebbero del tutto o avverrebbero a una velocità così limitata da essere di fatto trascurabile. In alcuni casi, possono agire anche da catalizzatori negativi, nel senso di reprimere una certa reazione che in loro assenza avverrebbe, ma viste le finalità, ci limitiamo a trattare dei catalizzatori positivi. Gli enzimi promuovono reazioni che in loro assenza, non avverrebbero del tutto o avverrebbero a una velocità così limitata da essere di fatto trascurabile Acido + base = sale + acqua Estere + acqua + catalizzatore = acido + alcol + catalizzatore Questo dunque è il significato di catalizzatore: una specie che fa avvenire una certa reazione chimica, senza venirne modificato (pur prendendo attivamente parte alla reazione). Efficienza = numero di cicli catalitici Fermiamoci su questo concetto di catalisi. Consideriamo ad esempio la reazione chimica di neutralizzazione o salificazione: Acido + base = sale + acqua. Tutto quello che occorre fare perché la reazione avvenga, cioè perché reagenti (acido e base) si trasformino in prodotti di reazione (sale e acqua), è mescolare i reagenti: la reazione avviene spontaneamente consideriamo ora quest'altra reazione: Estere + acqua = Non abbiamo scritto prodotti di reazione perché, se non si aggiunge una specie, chiamata catalizzatore, non avviene alcuna reazione: l'estere in presenza di acqua non è reattivo.. Se invece aggiungiamo il catalizzatore, che nel caso specifico può esser un acido con una base, allora si ha la seguente reazione: Estere + acqua + catalizzatore = acido + alcol + catalizzatore Cioè l'idrolisi (= scissione) dell'estere nei suoi costituenti, l’acido e l'alcol. Come si vede dall'equazione, il catalizzatore compare sia sinistra che a destra: lo ritroviamo inalterato a reazione avvenuta. Questo dunque è il significato di catalizzatore: una specie che fa avvenire una certa reazione chimica, senza venirne modificato (pur prendendo attivamente parte alla reazione). Proprio per questo, perché resta inalterato dalla reazione, è in grado di compiere cicli: quando la prima molecola di estere è stata idrolizzata, il catalizzatore promuove l'idrolisi di una seconda, e così via. Questo comunque non va avanti all'infinito, in quanto anche il miglior catalizzatore, dopo un certo numero di cicli (che può essere comunque molto elevato) si inattiva. Parlando di efficienza di uno specifico catalizzatore si fare riferimento proprio al numero di cicli catalitici che esso è in grado di promuovere. Da questo si deduce ovviamente che il catalizzatore è presente in piccola quantità rispetto ai reagenti: una molecola di catalizzatore è in grado di trasformare molte molecole di reagenti. In particolare tra i vari catalizzatori, gli enzimi (che sono catalizzatori biologici) sono estremamente efficienti: possono arrivare compiere fino a milioni di ciclica catalitici. La cinetica delle reazioni enzimatiche. La trattazione dell'attività catalitica enzimatica non può prescindere da alcune considerazioni sulla cinetica chimica, che descriveremo comunque a grandi linee per non appesantire troppo la trattazione. Tutte le molecole possiedono una cosiddetta energia cinetica, che possiamo, in prima approssimazione, considerare come la capacità di venire in contatto le une con le altre, dando così luogo a delle collisioni favorevoli: collisioni cioè che permettono il decorrere di reazioni chimiche. In particolare le molecole (i reagenti) si combinano nel cosiddetto stato di transizione, uno stadio intermedio ad alta energia, che poi evolve nella formazione di nuove molecole (i prodotti di reazione), che hanno un contenuto energetico minore. C'è però una barriera energetica da superare perché i reagenti possano arrivare allo stato di transizione, barriera che viene appunto definita energia di attivazione. Se le molecole che collidono hanno energia sufficiente a portarle al livello richiesto per raggiungere lo stato di transizione, l’urto non è favorevole e non si ha reazione chimica. Le molecole (i reagenti) si combinano nel cosiddetto stato di transizione, uno stadio intermedio ad alta energia, che poi evolve nella formazione di nuove molecole (i prodotti di reazione), che hanno un contenuto energetico minore. Un catalizzatore agisce, quando si combina con i reagenti, in maniera da abbassare questa barriera energetica verso lo stato di transizione, e quindi verso la formazione dei prodotti A temperatura ambiente, poche molecole sono in grado di superare questa barriera energetica, e quindi di reagire chimicamente. Aumentando la temperatura, solitamente aumenta l'energia e il moto delle molecole, e di conseguenza aumenta la probabilità che queste collisione si trasformino in collisioni favorevoli: di fatto, aumenta la cosiddetta velocità di reazione. Un catalizzatore agisce, quando si combina con i reagenti, in maniera da abbassare questa barriera energetica verso lo stato di transizione, e quindi verso la formazione dei prodotti: anche le molecole meno dotate di energia cinetica possono allora dar luogo a collisioni che si trasformino in reazione chimica. A parità di temperatura, dunque, una reazione catalizzata avrà minore energia di attivazione, e quindi procederà in maniera più veloce rispetto la stessa reazione non catalizzata. Nel caso delle reazioni enzimatiche, poi, si fa riferimento alla teoria di Michaelis-Menten che interpreta l’analisi enzimatica dal punto di vista cinetico. La velocità di una reazione enzimatica è proporzionale alla concentrazione sia del substrato che dell'enzima: è facile comprendere infatti come maggiori concentrazioni di entrambe le specie possano risultare in maggiore probabilità di combinazione e quindi in più alta velocità di reazione. Se invece la quantità di enzima è costante, come ad esempio avviene nei sistemi biologici, la velocità di reazione aumenta iperbolicamente all'aumentare della concentrazione del substrato fino raggiungere un massimo, o plateau, dove si stabilizza al cosiddetto valore di velocità massima, che non dipende più dalla concentrazione del substrato. Questo andamento, mostrato nel diagramma, può esser interpretato considerando che l'enzima è un numero finito di siti che possono combinarsi con il substrato: quando tutti siti sono occupati, cioè all'aumentare della concentrazione del substrato, l'enzima saturo di substrato e non si ha più aumento della velocità di reazione anche aumentando la concentrazione del substrato. Da queste premesse si può poi arrivare a determinare il cosiddetto ordine di reazione e sviluppare i modelli di cinetica enzimatica che sono al di fuori dei nostri scopi. La specificità. L'altra caratteristica più notevole di questi catalizzatori biologici è la specificità, cioè l'elevata selettività per un certo tipo di substrato: come se essi avessero la capacità di riconoscere determinate strutture su cui esplicare la loro attività catalitica. La specificità Un’altra caratteristica notevole di questi catalizzatori biologici è la specificità, cioè l'elevata selettività per un certo tipo di substrato: come se essi avessero la capacità di riconoscere determinate strutture su cui esplicare la loro attività catalitica ogni enzima possiede una regione detta sito attivo, la cui conformazione permette l'interazione solo con un substrato di struttura per spaziale ben precisa La specificità per il substrato è basata sulla somiglianza strutturale tra la particolare conformazione spaziale del sito attivo e la forma tridimensionale del substrato Detto in altre parole, se l'enzima riconosce un certo substrato lo trasforma, altrimenti no, lo lascia inalterato. Ancora una volta è la forma di queste proteine ad impartire loro questa particolare attività. Come esemplificato infatti nello schema, ogni enzima possiede una regione detta sito attivo, la cui conformazione permette l'interazione solo con un substrato di struttura per spaziale ben precisa. Tra le numerose molecole che si trovano ad avvicinarsi, l'enzima è in grado di riconoscere quella che ha la giusta struttura, che andrà dunque a posizionarsi entro quel sito, dando inizio a quella serie di processi che costituisce il ciclo catalitico dell'enzima. Le altre molecole di substrato che non hanno forma appropriata per interagire con sito attivo delle enzima non si potranno associare e non saranno dunque soggette all'azione enzimatica. Il riconoscimento del substrato da parte dell'enzima è dunque basato sulla somiglianza strutturale tra la particolare conformazione spaziale del sito attivo nella forma tridimensionale del substrato. Questo primo tipo di specificità è chiamato specificità per il substrato. Esiste un secondo livello di selettività, che ha a che fare, come vedremo in seguito, con il tipo di trasformazione che l'enzima è in grado di catalizzare su un certo substrato: la specificità per il tipo di reazione catalizzata. un secondo livello di selettività è la specificità per il tipo di reazione catalizzata Sono di fatto gli amminoacidi presenti nella zona del sito attivo (più precisamente, le catene laterali che si trovano su questi amminoacidi) i responsabili di una certa forma del sito attivo Sono di fatto gli amminoacidi presenti nella zona del sito attivo (più precisamente, le catene laterali che si trovano su questi amminoacidi) i responsabili di una certa forma del sito attivo: come mostrato di esempio nella figura 3 (dove la catena elicoidale rappresenta lo scheletro della proteina e i numeri indicano l'ordine di sequenza degli amminoacidi costituenti), in un particolare enzima, si nota l'abbondanza dell'amminoacido fenilalanina (PHE), che con la sua caratteristica struttura aromatica impartisce al sito attivo un ben preciso carattere lipofilo e una certa planarità. Molecole lipofile, e a struttura almeno localmente planare, ad esempio, saranno particolarmente a loro agio in quel sito attivo, dove tutti residui aromatici (planari) potranno assicurare forze di interazione di tipo apolare ottimali. Il ciclo catalitico. Il meccanismo di catalisi enzimatica, in generale, può esser rappresentato come nello schema. Nel primo stadio il substrato, S e l'enzima, E, si avvicinano. Si ha così la formazione di un complesso enzima-substrato, ES. A questo punto si hanno cambiamenti conformazionali nell’enzima stesso che permettono la formazione di nuovi legami covalenti e non covalenti (forze di attrazione di tipo polare, apolare e di legame a idrogeno) e la dissociazione di legami preesistenti, trasformando il complesso ES nel nuovo complesso modificato, ES’. Nel caso specifico è rappresentata una reazione di idrolisi, che scinde la molecola di substrato. A trasformazione avvenuta, la nuova struttura del substrato trasformato, S’, non è più in grado di interagire con il sito attivo dell’enzima efficacemente come prima della trasformazione, il complesso ES si dissocia liberando il substrato trasformato S’ e l'enzima E inalterato, pronto a ricominciare un nuovo ciclo. Il ciclo catalitico. Il meccanismo di catalisi enzimatica, in generale, può esser rappresentato come nello schema • • • Associazione Trasformazione Dissociazione Qui si è rappresentata un’azione idrolitica, che scinde il substrato. Non necessariamente però l'azione enzimatica è un'azione distruttiva: nei sistemi biologici infatti gli enzimi servono anche a sintetizzare cioè costruire nuove molecole partendo da precursori più semplici. Nel restauro, nella maggior parte dei casi, per ora siamo purtroppo limitati all'uso di soli enzimi che degradano materiali organici complessi in frammenti più semplici, cioè enzimi idrolitici; solo su particolari supporti inorganici (muro, lapideo) si sono iniziate sperimentazioni con altri tipi di enzimi, come descriveremo meglio in seguito. Il ciclo analitico può quindi essere rappresentato come composto dei seguenti tre stadi corrispondenti, rispettivamente, pari a fenomeni di: associazione, trasformazione e dissociazione. La figura mostra schematicamente il meccanismo d'azione, all'interno del sito attivo, per un particolare enzima, una carbossipeptidasi, capace di idrolizzare un polipeptide, rimuovendo uno alla volta l'amminoacido terminale dalla parte acida (testa) della catena Questo meccanismo dà un'idea di come il processo catalitico sia un’azione concertata tra diverse zone all'interno del sito attivo: legami chimici vengono rotti o formati a seconda del tipo di interazione che si stabilisce tra certe parti del substrato e le catene laterali di amminoacidi all'interno del sito La figura mostra schematicamente il meccanismo d'azione, all'interno del sito attivo, per un particolare enzima, una carbossipeptidasi, capace di realizzare un polipeptide, rimuovendo una volta l'amminoacido terminale dalla parte acida (testa) della catena. • Nel primo passaggio, il substrato, un polipeptide con una appropriata catena laterale aromatica (r 0=Tirosina) entra nel sito attivo delle enzima, dove è stabilizzato dalle interazioni con i gruppi funzionali degli amminoacidi indicati (in posizione 145, 248, e 270 nella catena delle enzima). • Successivamente nel secondo passaggio il legame con l'amminoacido terminale del polipeptide viene idrolizzato grazie all'azione del carbossilato e alla donazione di un idrogeno da parte del residuo: il resto del polipeptide resta ancorato al sito attivo e, attraverso il residuo 270. • Nel III passaggio cambiamenti conformi nazionali nel sito attivo rilasciano l'amminoacido terminale e generano, con il contributo di una molecola d'acqua, il gruppo carbossilico terminale sul polipeptide. • Infine, nell'ultimo passaggio, anche il polipeptide residuo (con un amminoacido in meno rispetto prima) viene rilasciato dal sito attivo. Questo meccanismo dà un'idea di come processo catalitico sia una azione concertata tra diverse zone all'interno del sito attivo: legami chimici vengono rotti o formati a seconda del tipo di interazione che si stabilisce tra certe parti del substrato e delle catene laterali di amminoacidi all'interno del sito. Questa carbossipeptidasi è realtà un metallo-enzima: la sua attività è subordinata la presenza di uno ione di zinco nel sito attivo (non mostrato, per semplicità, nella figura). Questo ione è in grado di formare un legame di coordinazione con il gruppo carbossilico adiacenti a quello carbossilico terminale, facilitando così la rottura del legame preesistente e la formazione di quello nuovo. Denaturazione degli enzimi. Le proteine, in generale, sono dette native quando si trovano nella conformazione naturale, a cui è associata quella certa attività specifica. Cambiamenti nelle condizioni chimico/fisiche del mezzo in cui si trovano (pH, temperatura, presenza di sali) o il contatto con certi agenti chimici (detergenti, solventi) possono denaturare una proteina, cioè modificarne la struttura e quindi l'attività. Denaturazione degli enzimi Cambiamenti nelle condizioni chimico/fisiche del mezzo in cui si trovano (pH, temperatura, presenza di sali) o il contatto con certi agenti chimici (detergenti, solventi) possono denaturare una proteina, cioè modificarne la struttura e quindi l'attività. La denaturazione di una proteina può essere reversibile o irreversibile. Nel caso specifico degli enzimi, quindi proteine con attività catalitica, la denaturazione le rende inattive. Si possono avere seguenti casi: Inibitori competitivi Inibitori non competitivi Inibitori non specifici Si legano reversibilmente al sito attivo dell'enzima, che non è più disponibile per il substrato Si legano reversibilmente all'enzima, ma non nel sito attivo, e quindi causano una alterazione strutturale della conformazione dell'enzima Molte sostanze chimiche (detergenti, solventi) possono legarsi reversibilmente o irreversibilmente ad enzimi, sia nel sito attivo che in altre zone La denaturazione di una proteina può essere reversibile o irreversibile. Nel caso specifico degli enzimi, quindi proteine con l'attività catalitica, la denaturazione le rende inattivi. Si possono avere seguenti casi: Inibitori competitivi. Si legano reversibilmente al sito attivo dell'enzima, che non è più disponibile per il substrato. In questo caso l'inibizione dipende dal rapporto tra la concentrazione dell'inibitore e quella del substrato. Questi inibitori sono specifici a seconda del tipo di enzima. Inibitori non competitivi. Si legano reversibilmente all'enzima, ma non nel sito attivo, e quindi causano una alterazione strutturale della conformazione dell'enzima. Agiscono in questo modo gli ioni di metalli pesanti come argento, mercurio, piombo, cadmio. Inibitori non specifici. Inoltre numerose altre sostanze chimiche (detergenti, solventi) possono legarsi reversibilmente o irreversibilmente ad enzimi, sia nel sito attivo che in altre zone. Nell'esempio della carbossipeptidasi sopra riportato, la presenza di un chelante (una sostanza capace di complessare e sequestrare gli ioni metallici) porterebbe ad inibizione in quanto il chelante sequestrerebbe lo ione calcio, indispensabile ai fini dell'attività enzimatica. Classificazione degli enzimi. Secondo la classificazione elaborata nel 1956 ogni enzima viene caratterizzato da un numero quattro cifre, del tipo EC x. x. x. x. • La prima cifra indicata classe generale di appartenenza: 1. ossidoriduttasi 2. transferasi 3. idrolisi 4. lipasi 5. isomerasi 6. ligasi. • La seconda cifra indica la sottoclasse. Per le idrolasi, in particolare, indica il tipo di legame idrolizzato: 1. legami esterei 2. legami glicosidici 3. legami eterei 4. legami peptidici • La terza cifra indica lassù sotto-sottoclasse, e per le idrolasi specifica ulteriormente il tipo di legame rotto o formato. • La quarta cifra infine rappresenta numero progressivo delle enzima nella sotto-sottoclasse. Classificazione degli enzimi. EC x. x. x. x. La prima cifra indicata classe generale di appartenenza: • • • • • • ossidoriduttasi transferasi idrolasi lipasi isomerasi ligasi. La seconda cifra indica la sottoclasse. Per le idrolasi, in particolare, indica il tipo di legame idrolizzato: • • • • legami esterei legami glicosidici legami eterei legami peptidici La terza cifra indica la sotto-sottoclasse, e per le idrolasi specifica ulteriormente il tipo di legame rotto o formato La quarta cifra infine rappresenta il numero progressivo dell’enzima nella sotto-sottoclasse Enzimi idrolitici (idrolasi). Siccome per il restauro interessano gli enzimi idrolitici o idrolasi, enzimi che catalizzano l'idrolisi di certi legami, e quindi hanno la capacità di degradare molecole a carattere polisaccaridico (cellulosa, amido e sostanze amilacee), proteico (collagene e colle/gelatina animali, albumine, case ignee, un uopo), lipidico (oli, grassi, cere), la nostra trattazione da ora in avanti si limita a considerare questo tipo di enzimi. Lo schema seguente riporta la classificazione dei principali tipi di idrolasi. Fonti delle idrolasi. Per quanto riguarda le fonti da cui si ricavano questi enzimi commercialmente disponibili, possiamo così riassumerle. Gli enzimi proteolitici possano essere: di origine animale, derivati dai tessuti di alcuni organi, principalmente stomaco e pancreas, come pepsina, tripsina, pancreatina e proteasi gastrica; di origine vegetale, ricavati dai frutti ananas, papaya e fico come bromelaina, papaina, ficina; di origine microbica, isolati da varie specie di batteri, soprattutto bacillus, e funghi, in particolare Aspergillus. Enzimi idrolitici (idrolasi) classificazione dei principali tipi di idrolasi Per il restauro interessano gli enzimi idrolitici o idrolasi, enzimi che catalizzano l'idrolisi di certi legami, e quindi hanno la capacità di degradare molecole a carattere: • polisaccaridico (cellulosa, amido e sostanze amilacee), • proteico (collagene e colle/gelatine animali, albumine, caseine, uovo), • lipidico (oli, grassi, cere), Analogamente gli enzimi lipolitici per possano essere: di origine animale estratti dai tessuti del pancreas, come le lipasi pancreatiche; di origine vegetale, come le lipasi ricavate dai germi di frumento, avena e simili; di origine microchimica. Le amilasi infine possono essere: di origine animale, dalla saliva come Ptialina o dai tessuti di alcuni organi, come le amilasi pancreatiche; di origine microbica, isolati da varie specie di batteri, soprattutto Bacillus e funghi, in particolare aspergillus di origine vegetale, ricavate in generale da tuberi. Fonti delle idrolasi Gli enzimi proteolitici possano essere di origine animale: derivati dai tessuti di alcuni organi, principalmente stomaco e pancreas, come pepsina, tripsina, pancreatina e proteasi gastrica di origine vegetale, ricavati dai frutti ananas, papaya e fico come bromelaina, papaina, ficina di origine microbica, isolati da varie specie di batteri, soprattutto bacillus, e funghi, in particolare Aspergillus. Le amilasi infine possono essere: di origine animale: dalla saliva come Ptialina o dai tessuti di alcuni organi, come le amilasi pancreatiche; di origine microbica: isolati da varie specie di batteri, soprattutto Bacillus e funghi, in particolare aspergillus di origine vegetale: ricavate in generale da tuberi. Gli enzimi lipolitici possano essere: di origine animale : estratti dai tessuti del pancreas, come le lipasi pancreatiche; di origine vegetale: come le lipasi ricavate dai germi di frumento, avena e simili; di origine microbica. Enzimi o microrganismi? Molti microrganismi che si sviluppano su opere d'arte, il più in generale su svariati manufatti, esplicano la loro azione di degrado proprio grazie ad enzimi che vengono secreti all'esterno, direttamente sul materiale, così da poterlo utilizzare come nutrimento. Ne sono un tipico esempio le cellulasi, idrolasi in grado di idrolizzare la cellulosa ( il polisaccaride formato di β-glucosio) ma prive di azione sull'amido (il polisaccaride formato di α-glucosio): questi microrganismi sono fattori di degrado per tutti quei manufatti contenenti cellulosa. Numerosi altri microrganismi sono in grado di produrre enzimi che esplicano attività lipolitica, proteolitica e amilolitica. Ne consegue che, senza dover ricorrere all'enzima in forma solida, più o meno purificata, si potrebbe ipotizzare l'utilizzo del microrganismo che produce l'enzima per operazioni finalizzate alla pulitura, o peraltro operazioni comunque inerenti il restauro di opere d'arte. Questo in alcuni casi è già attuato su supporti lapidei comunali. In certi casi addirittura, in questo modo si riesce a sfruttare un’azione costruttiva anziché quella idrolitica distruttiva: i batteri calcificanti, ad esempio, sono microrganismi in grado di ricostruire calcite su supporti a base carbonatica. Il supporto inorganico, relativamente semplice, permette in alcuni casi che la crescita del microrganismo possa essere fatta senza creare troppi problemi secondari. Certo è impossibile pensare che il prolungato apporto di umidità, necessario per la crescita di microrganismi, possa essere privo di rischio per gli altri supporti (legno, tela, carta), e più in generale per i materiali organici. Come minimo questi materiali andrebbero soggetti alla formazione di muffe. Ma c'è un altro problema, non meno critico: non necessariamente i microrganismi si limitano a produrre quegli enzimi che di fatto esplicano un'azione desiderata: altre azioni, di tipo indesiderato, potrebbero avere altrettanta possibilità di svilupparsi. Sicuramente al livello attuale delle conoscenze, su opere policrome mobili (tele, tavole, carte) l'uso di enzimi puri, in forma solida, è da considerare come l'unico trattamento enzimatico che dia sufficienti garanzie di sicurezza operativa. Certo questa è una limitazione: ad esempio, al momento, non sono disponibili enzimi semplici purificati in grado di agire sui idrocarburi (sostanzialmente scindendo legame carbonio-carbonio), che potrebbero essere utilizzabili per la rimozione di materie quali le resine terpeniche, principali costituenti delle vernici finali, o il bitume, spesso utilizzato in patinature di opere d'arte. Numerosi microrganismi sono invece in grado di compiere questa trasformazione, e sono correntemente utilizzati in trattamenti di bioremediation in casi di inquinamento ambientale per fuoriuscita di petrolio Enzimi o microrganismi? Molti microrganismi che si sviluppano su opere d'arte, più in generale su svariati manufatti, esplicano la loro azione di degrado proprio grazie ad enzimi che vengono secreti all'esterno, direttamente sul materiale, così da poterlo utilizzare come nutrimento Numerosi microrganismi sono dunque in grado di produrre enzimi che esplicano attività lipolitica, proteolitica e amilolitica Ne consegue che, senza dover ricorrere all'enzima in forma solida, più o meno purificata, si potrebbe ipotizzare l'utilizzo del microrganismo che produce l'enzima per operazioni finalizzate alla pulitura, o per altre operazioni comunque inerenti al restauro di opere d'arte. Un’azione costruttiva la svolgono i batteri calcificanti: microrganismi in grado di ricostruire calcite su supporti a base carbonatica. Svantaggi: prolungato apporto di umidità altre azioni di tipo indesiderato La saliva naturale e sintetica. La saliva naturale. La saliva è un fluido corporeo complesso, secreto da ghiandole specializzate dell'apparato digerente, e provvede all'emulsionamento dei nutrienti ingeriti. Quest'azione è sorprendentemente efficace quando si consideri che la composizione della saliva è per oltre 98% acqua. Il rimanente 2% è una complessa combinazione di componenti organici e inorganici: proteine (enzimi, globuline, albumine, e mucina), acidi (ascorbico, lattico, citrico, urico), basi (ammoniaca), altre sostanze organiche. (fenoli, fosfolipidi, colesterolo, urea) e composti inorganici (sali di sodio, potassio, magnesio, calcio, ioni cloruro e fosfato). Da sempre, potremmo dire, si conoscono le proprietà detergenti della saliva applicata alla superficie pittorica di un dipinto; a parte la difficoltà di ottenere quantità rilevanti di saliva, motivi di ordine biologico né sconsigliano l'uso, in quanto l'eventuale presenza di batteri potrebbe innescare fenomeni di biodeterioramento dell'opera d'arte. La saliva naturale e sintetica La saliva è un fluido corporeo complesso, secreto da ghiandole specializzate dell'apparato digerente, e provvede all'emulsionamento dei nutrienti ingeriti 98 % acqua 2% complessa combinazione di componenti: • proteine (enzimi, globuline, albumine, e mucina), • • • acidi (ascorbico, lattico, citrico, urico), • basi (ammoniaca), altre sostanze organiche. (fenoli, fosfolipidi, colesterolo, urea) C omposti inorganici (sali di sodio, potassio, magnesio, calcio, ioni cloruro e fosfato). Ottime proprietà detergenti della saliva applicata alla superficie pittorica di un dipinto È opinione abbastanza comune che la capacità detergente della saliva derivi da una azione enzimatica. In realtà uno studio dettagliato condotto da O'Hoski suggerisce che si tratti piuttosto di una forte azione emulsionante. L'enzima più abbondante della saliva è infatti una amilasi salivare, la ptialina, un enzima amilolitico. Fisiologicamente questa azione enzimatica è sicuramente importante, in quanto serve a predigerire sostanze amilacee contenute nel cibo ingerito, sostanze ampiamente diffuse. Spiegare questa azione enzimatica sulla superficie di un dipinto, invece, non è così semplice: sostanze amilacee non si riscontrano infatti così frequentemente. Eppure la saliva esercita azione detergente sulla superficie pittorica in numerosissimi casi. Altri enzimi presenti nella saliva, lipasi e proteasi, sono in concentrazione così bassa che è difficile spiegare una loro efficacia in operazioni di pulitura. D'altra parte, uno dei più abbondanti componenti non enzimatici, la mucina, è una proteina dotata di forti proprietà tensioattive. Questo ha suggerito l'idea che la saliva potesse avere attività detergente, piuttosto che enzimatica, nelle applicazioni di pulitura di dipinti. Oltre a ciò, gli acidi e basi presenti possono contribuire al potere detergente, in particolare l'acido citrico, un'acido organico ha notevole potere chelante. Sulla base di queste ipotesi, l'autrice ha ricostruito delle salive sintetiche contenenti solo certi componenti, per arrivare a verificare il meccanismo d'azione. I risultati sembrano confermare che l'azione tensioattiva della mucina sia quella principalmente responsabile del potere detergente della saliva. La saliva sintetica. I principi attivi i responsabili dell'azione emulsionante e detergente della saliva naturale possono quindi essere formulati in preparazioni artificiali che simulano l'azione della saliva, senza però riprodurre i difetti, come il potenziale rischio di contaminazione biologica del manufatto trattato. In particolare si è verificato che soluzione acquosa e molto diluite (allo 0, 1-0, 5% in peso/volume) contenenti mucina hanno un'azione detergente paragonabile a quella della saliva naturale, nel caso specifico della pulitura di un'immagine pittorica. Il pH di queste soluzioni, originariamente neutro, può essere leggermente modificato verso l'acidità o basicità per piccole aggiunte, rispettivamente, di acido citrico o ammoniaca. L'uso della saliva. Conviene, per le ragioni espresse in precedenza, utilizzare sempre una saliva sintetica piuttosto che la saliva naturale. La saliva può esser utilizzata come, più in generale, un tensioattivo acquoso: • Per pulire superfici di dipinti che siano sensibili all'azione di solventi organici; • Come tensioattivo secondario, per effettuare il lavaggio intermedio (prima di quello finale acquoso) di altre preparazioni acquose, come i Resin soaps e gli enzimi. Particolarmente efficace è dopo l'uso enzimatico: in presenza di materiale già parzialmente idrolizzato, la forte azione emulsionante della mucina assicura la completa rimozione dei frammenti del materiale completando così l’azione di pulitura( che resta comunque blanda e ben controllabile). La bassissima concentrazione di solidi disciolti nella saliva sintetica, rende di fatto inverosimile l'idea della permanenza di residui non volatili. Si raccomanda dunque di effettuare applicazioni di saliva sintetica (lavorazione a pennello sottile o a tampone invenduto) su un tassello di pulitura precedente, cui seguirà come di consueto un lavaggio acquoso. Applicazioni pratiche. Una saliva sintetica a pH neutro può essere preparata sciogliendo 0, 1-0, 2 g di mucina in 100 ml di acqua deionizzata aggiungendo 0, 1-0, 2 g di triammonio citrato (o ammonio citrato tribasico). Occorre un certo tempo e una certa agitazione per di sciogliere la mucina, e l'operazione è facilitata riscaldando leggermente a temperatura di 35-40 °C. Una volta preparata la soluzione è utilizzabile per circa 10-15 giorni: anche la mucina, in quanto proteina, è infatti labile in soluzione, e va soggetta a progressiva denaturazione con perdita delle proprietà emulsionanti e detergenti. La mucina in forma solida è termolabile, e deve essere conservata refrigerata protetta dall'umidità. Con queste precauzioni il materiale in forma solida ha una durata di 6-9 mesi. La caratteristica importante di queste soluzioni di saliva sintetica è il loro bassissimo contenuto di solidi. Questo ci assicura che dopo il trattamento un lavaggio acquoso con tampone appena inumidito è sufficiente rimuovere completamente il materiale residuo. L'ipotesi di lasciare residui solidi, dunque, è veramente remota. Quando sia preferibile utilizzare una preparazione leggermente acida, ad esempio per solubizzare materiali proteici come una colla animale, a questa preparazione di base può esser giunto un leggero eccesso di acido citrico (come solido), controllando con una cartina indicatrice fino ad arrivare a pH a circa 6. Al contrario, se è preferibile una saliva leggermente alcalina, più utile ad esempio per solubizzare materiali grassi o oleosi, si può aggiungere alla miscela standard un leggero eccesso di ammonio idrossido molto diluito (circa l'1%, cioè diluendo 30 volte ammoniaca concentrata al 30-33%), come sempre controllando il pH con una cartina fino ad arrivare al valore di circa 8. quando occorra un'azione molto localizzata, in modo da diminuire la diffusione dell'acqua, anche la saliva sintetica può essere addensata con eteri di cellulosa a formare un gel. Insieme ai tensioattivi in ambiente acquoso (bile, Tween 20, coccocollagene) anche la saliva sintetica può esser utilizzata per la pulitura superficiale dei dipinti a olio molto sensibili ai solventi organici (come nel caso di oli piuttosto recenti), una volta verificata la compatibilità del supporto con il mezzo acquoso. Particolarmente raccomanda abile, come abbiamo descritto in precedenza, è l'uso della saliva come tensioattivo di lavaggio dopo l'applicazione degli enzimi Gli enzimi nel restauro in un sistema biologico nel restauro reazione in fase omogenea reazione in fase eterogenea Con uguale certezza possiamo dire che non necessariamente le conoscenze che abbiamo estrapolate nel caso di reazioni in fase omogenea siano ancora rigorosamente valide in queste condizioni Questo non vuol dire che l'uso di un simile restauro sia rischioso per l'integrità strutturale dell'opera trattata perché ci mancano questi studi. Selettività e specificità degli enzimi permangono anche in queste condizioni Gli enzimi nel restauro. L'uso degli enzimi nel campo del restauro di manufatti artistici non può prescindere da una considerazione generale sulle caratteristiche di questa applicazione del tutto particolare, caratteristiche che influenzano profondamente le modalità operative. In generale, quando consideriamo l'azione di un enzima in un sistema biologico ci troviamo in questa situazione: l'enzima è sciolto in ambiente acquoso (quello del citoplasma intracellulare) e in questo stesso ambiente arriva al substrato, anche esso disciolto. Queste condizioni, definite tecnicamente reazione in fase omogenea, sono ottimali per l'azione enzimatica. Su queste oltretutto si basa la maggior parte delle nostre conoscenze sul modo d’azione degli enzimi. Diciamo che queste sono le condizioni che troviamo in un organismo vivente, e che sono riprodotte anche negli studi fatti in un laboratorio biologico. È bene evidente che le condizioni in cui lo stesso enzima può essere impiegato nel restauro sono profondamente diverse: noi applichiamo l'enzima disciolto in un mezzo acquoso sopra un substrato solido, come materiale presente all'interno di uno strato (spesso neanche omogeneo, né ben definito sia dal punto di vista della composizione che della sua localizzazione). Questa situazione è probabilmente più vicina ai meccanismi con cui i microrganismi bio-deteriogeni catalizzano il degrado di manufatti artistici: in questo caso gli enzimi in soluzione vengono secreti al di fuori della cellula, sopra il materiale che fungerà da substrato della particolare reazione enzimatica. Queste condizioni, che definiamo reazione è in fase eterogenea, ora sono tutt'altro che ottimali per il decorrere della reazione enzima-substrato. Sicuramente non sbagliamo se diciamo che la reazione catalizzata dall'enzima avverrà con maggiore difficoltà, rispetto alla reazione in fase omogenee. Con uguale certezza possiamo dire che non necessariamente le conoscenze che abbiamo estrapolate nel caso di reazioni in fase omogenea siano ancora rigorosamente valide in queste condizioni. Più oltre, ad esempio, parlando di pigmenti come possibili inibitori della attività enzimatica, ci imbatteremo proprio in questo tipo di problema. La conclusione è che sicuramente necessitano studi specifici, ricavati direttamente dalle applicazioni enzimatiche nel restauro, per chiarire ancora molti punti incerti. Si noti bene però che questo non vuol dire che l'uso di un simile restauro sia rischioso per l'integrità strutturale dell'opera trattata perché ci mancano questi studi. Selettività e specificità degli enzimi permangono anche in queste condizioni. Semplicemente in certi casi siamo ancora lontani dal saper fare una applicazione ottimale, e nei frequenti casi di insuccesso siamo ancora impreparati a comprendere in pieno le ragioni di quest’insuccesso. Non necessariamente l'intervento enzimatico è precluso in assenza di una conoscenza certa del tipo di materiale Se l'approccio alla pulitura è stato effettuato con: • Test di solubilità di Feller, per determinare un valore di polarità a cui il materiale sia eventualmente solubile in solventi neutri; • • • Prova di solubilità con polarità ancor maggiore (alcol etilico); Prova di solubilità con acqua; Prova di solubilità con solventi dìpolari aprotici; Criteri di scelta dell'enzima. L'approccio all'intervento enzimatico è riassunto nello schema seguente. fig La natura del materiale da rimuovere, se nota, determina il tipo di idrolasi da utilizzare: proteasi, lipasi o amilasi. Ma la scelta deve anche tener conto della natura degli altri materiali quelli originari che devono essere preservati inalterati dall'operazione di pulitura. È evidente pertanto che sarebbe importante avere qualche informazione precisa sulla natura di questi materiali, informazione derivata da diagnostica preliminare all'intervento di pulitura. Sappiamo però altrettanto bene quanto raramente, soprattutto nella pratica privata del restauro, si faccia ricorso ad analisi preliminari (principalmente per una ragione di costi). Diciamo allora che non necessariamente l'intervento enzimatico è precluso in assenza di una conoscenza certa del tipo di materiale. Prendiamo in altre parole come sempre un approccio empirico al problema: vogliamo illustrare brevemente come, anche in questo caso, l'intervento enzimatico possa comunque risultare a minor rischio per l'integrità dell'opera rispetto ad altri metodi di intervento più convenzionali. Se l'approccio alla pulitura è stato effettuato come abbiamo descritto in precedenza, e cioè: • Test di solubilità di Feller, per determinare un valore di polarità a cui il materiale sia eventualmente solubile in solventi neutri; • Prova di solubilità con polarità ancor maggiore (alcol etilico); • Prova di solubilità con acqua; • Prova di solubilità con solventi dìpolari aprotici; E se, dopo tutte queste prove, si è verificata l'impossibilità ad sciogliere il materiale, allora, senza un grosso margine di errore, possiamo concludere di trovarci in presenza di un materiale (o di una mescolanza di materiali diversi) per il quale è necessario un intervento di tipo chimico.. Tradizionalmente verrebbero usati acidi e basi (ionizzazione e dissociazione e più raramente idrolisi), e quindi possiamo pensare all'alternativa enzimatica (idrolisi). Immaginiamo di aver concluso, dopo avere ottenuto esito negativo dalla serie di prove sopra elencate, che il materiale sia di tipo oleoso: un olio molto invecchiato, e quindi molto polimerizzato, che necessita di ionizzazione o idrolisi per la rimozione. Decidiamo così di utilizzare una lipasi, ma anche questa non sortisce effetto, perché il materiale, in realtà, era a carattere proteico. Proviamo dunque anche una proteasi e questa volta funziona. Quali rischio ha comportato l'uso della lipasi? Praticamente irrilevante, rispetto ad altri metodi. Se infatti avessimo usato subito basi quali ammoniaca concentrata, oppure butilammina, saremmo arrivati comunque ad sciogliere il materiale, con il rischio però di intaccare anche gli strati sottostanti, vista la forte azione non selettiva di questa sostanza. La lipasi, invece, non ha riconosciuto il materiale oleoso e quindi non ha agito. Semplicemente, abbiamo utilizzato l'enzima inutilmente. Possiamo dunque in generale confermare quanto detto poco sopra: non conoscendo con esattezza la natura del materiale da rimuovere, è forse meno rischioso utilizzare comunque gli enzimi (che sono intrinsecamente selettivi) piuttosto che i convenzionali reagenti acidi o basici (che non hanno selettività). Bisogna inoltre considerare che l'esperienza e la pratica di un restauratore possono di fatto guidarlo a fare delle ragionevoli supposizioni circa la natura del materiale; supposizioni che possono anche essere convalidate da altre prove, sempre di tipo empirico. Un materiale insolubile in tutte le fasi di prova descritte sopra, e che sia immediatamente solubile in acido acetico glaciale (intendendo questa come una semplice prova puntuale, estremamente circoscritta ad una limitatissima zona!) è quasi sicuramente un materiale proteico. Analogamente, un film di olio di lino invecchiato, anche se non più solubile, sarà generalmente suscettibile al prolungato contatto di solventi come il diacetonalcol o il metiletilchetone (intendendo anche queste come semplici prove localizzate ad una zona molto ristretta): e questa suscettibilità potrà mostrarsi magari come un certo rigonfiamento dello strato (il materiale proteico in queste condizioni sarebbe invece assolutamente inerte). Un semplice test di tipo chimico, come quello di Lugol, può immediatamente identificare materiale amilaceo. Questo test si basa sul fatto che una soluzione di iodio e potassio ioduro (commercialmente disponibile già pronta, senza neanche bisogno di doverla preparare, come reagente di lugol) vira al bruno/blu in presenza di amido. È pertanto sufficiente prendere poche scaglie del materiale incognito, solubizzarlo (se solubile ovviamente) in poche gocce di acqua riscaldata, e aggiungere una goccia di reattivo: l'eventuale colorazione bruna/blu identificherebbe positivamente quel materiale come amido. Nell'appendice II sono descritte alcune semplici reazioni micro-analitiche, che il restauratore stesso può fare del proprio laboratorio, e che possono fornire informazioni utili sulla composizione dei materiali. Queste considerazioni, oppure una precisa risposta diagnostica, quando disponibile, possono dunque guidarci nella prima scelta: lipasi, proteasi o amilasi. Immaginiamo di aver concluso, dopo avere ottenuto esito negativo dalla serie di prove sopra elencate, che il materiale sia di tipo oleoso Decidiamo così di utilizzare una lipasi ma anche questa non sortisce effetto Proviamo dunque anche una proteasi questa volta funziona Quali rischio ha comportato l'uso della lipasi? Praticamente irrilevante, rispetto ad altri metodi Una svolta decisa la classe di idrolasi, il tipo commerciale di quell'enzima viene scelto in base alle condizioni ottimali che esso richiede: queste devono essere compatibili col tipo di dipinto, o più in generale di manufatto da trattare. Ad esempio è evidente la ragione per cui non possiamo utilizzare per la pulitura di un dipinto quegli enzimi che sono comunemente aggiunti ai detersivi per uso domestico, che hanno temperature ottimali di 80-90 gradi centigradi. Per quanto riguarda proprio la temperatura, il primo parametro fondamentale, diciamo che generalmente gli enzimi, in quanto catalizzatori biologici operanti all'interno di sistemi viventi, hanno una temperatura ottimale di lavoro intorno ai 36-40 gradi centigradi. Le eccezioni sono comunque numerose particolarmente nel caso di enzimi prodotti da microrganismi, che vengono quindi secreti all'esterno dall'organismo stesso. Non è infrequente allora trovare la temperatura ambiente (25 gradi centigradi) come temperatura ottimale. In generale i cataloghi forniscono informazioni circa la temperatura ottimale per ogni particolare tipo di enzima. E’ evidente che se si utilizza enzimi con temperatura ottimale elevata, bisognerà considerare l'ipotesi di surriscaldamento della miscela enzimatica e della superficie stessa da trattare. Torneremo più oltre su questo punto. Una svolta decisa la classe di idrolasi, il tipo commerciale di quell'enzima viene scelto in base alle condizioni ottimali che esso richiede: queste devono essere compatibili col tipo di dipinto, o più in generale di manufatto da trattare. la temperatura il primo parametro fondamentale, poichè gli enzimi, in quanto catalizzatori biologici operanti all'interno di sistemi viventi, hanno una temperatura ottimale di lavoro intorno ai 36-40 gradi centigradi attività specifica un altro parametro importante da considerare nella scelta tra i possibili tipi di enzima; è caratteristica di ogni preparazione enzimatica commerciale, espressa solitamente in unità di substrato trasformato per mg di preparazione enzimatica, in condizioni standard di temperatura e ad un certo valore di pH Un altro parametro importante da considerare nella scelta tra i possibili tipi di enzima è la cosiddetta attività specifica, caratteristica di ogni preparazione enzimatica commerciale, espressa solitamente in unità di substrato trasformato per mg di preparazione enzimatica, in condizioni standard di temperatura e ad un certo valore di pH. In prima approssimazione questo parametro può essere spiegato così: l'enzima è disponibile come polvere solida; quanto di questa polvere è effettivamente enzima? Quanta cioè di questa polvere è dotata di attività catalitica? Più alto è il valore di attività specifica, maggiore è la capacità catalitica di una certa quantità di insulina. Alcuni prodotti commerciali, tra cui certe lipasi e la pepsina, hanno attività specifiche molto elevate (fino a 1500-2000 unità per mg), mentre altri (soprattutto certe proteasi microbiche) hanno mediamente valori molto inferiori (0,1-1 unità per mg). È evidente che nel caso di preparazioni a bassa attività diventa maggiormente importante avvicinarsi il più possibile alle condizioni ottimali di lavoro (pH e temperatura). pH ottimale un altro parametro da considerare è specifico per ogni tipo di enzima. Se il mezzo acquoso in cui l'enzima si trova ha un pH che si discosta da questo valore l’attività può esserne compromessa costo. il parametro certo non ultimo come importanza, varia fortemente a seconda dei tipi e della loro purezza. Maggiore purezza significa indubbiamente maggiore specificità e attività, ma il costo può diventare proibitivo. Occorre comunque fare alcune considerazioni: l'attività specifica viene definita per ogni enzima come la quantità di solido necessaria ad ionizzare in un certo tempo, ad una certa temperatura, una quantità predeterminata di un certo substrato. Normalmente per la proteasi si utilizza caseina, per per l’amilasi amido, per le lipasi trioleina, il trigliceride dell'acido oleico, nelle condizioni di temperatura e pH descritte di volta in volta. Il valore di attività specifica misurato si riferisce dunque a quella operazione: ma nei nostri casi di utilizzo, il più delle volte utilizzeremo lo stesso enzima ma con altri substrati. In generale ad esempio, i trigliceridi con cui avremmo a che fare noi saranno quelli di oli siccativi, principalmente trilinoleina e trilinolenina. Se volessimo dunque avere un valore preciso di riferimento dell'attività specifica dovrebbe misurarla utilizzando i nostri substrati. Questo serve a far capire come, in fin dei conti, anche questo parametro sia da considerare come indicativo. Preparazione. ambiente esclusivamente acquoso giusto pH • (acqua distillata, esente dei ioni metallici pesanti) sostanze tampone o buffers biologici, che sono compatibili con proteine e quindi non denaturano gli enzimi Il tampone Tris sono particolarmente utili in quanto permettono di ottenere diversi valori di pH compresi tra 7,2 e 9, semplicemente variando la quantità relative dei due componenti utilizzati: la base tris e suo sale (cloridrato) Tris HCl. Per l'ambiente acido, necessario ad esempio nel caso della pepsina, il tampone acetico, composto di acido acetico e sodio acetato, o il tampone fosforico, composto di acido fosforico e suoi sali sodici, a pH 5-5, 5, Un altro parametro da considerare è il pH ottimale per quel certo tipo di enzima. Se il mezzo acquoso in cui l'enzima si trova ha un pH che si discosta da questo valore l’attività può esserne compromessa. La relazione tra pH e attività enzimatica è rappresentata dalla figura 6. Un enzima con una curva come quella superiore, decisamente a picco, richiede un controllo particolarmente rigoroso del pH del mezzo in cui si trova: il 100% di attività infatti si ha solo in questo stretto intervallo intorno al a pH 7,5: discostandosi anche poco da questo valore si ha notevole perdita di attività.. Nel caso della curva inferiore invece la massima attività è intorno a pH 3. Però, per la pendenza molto minore della curva, fino a pH 7 abbiamo attività residua superiore al 75%. Un enzima di questo tipo sarà decisamente più versatile. Queste curve sperimentali sono spesso disponibili dal produttore per varie preparazioni enzimatiche o sono riportate nella letteratura specializzata. Infine certo non ultimo come importanza, è il parametro del costo. Il costo di un enzima varia fortemente a seconda dei tipi e della loro purezza. Maggiore purezza significa indubbiamente maggiore specificità e attività, ma il costo può diventare proibitivo. Un tipico esempio è la collagenasi, una proteasi specifica per il collagene, che sarebbe quindi ottimale per tutte le operazioni del restauro in cui si chiede la rimozione di una colla. Il costo di tale enzima ne preclude di fatto ogni possibilità di utilizzo reale. Di seguito vengono suggeriti per ogni classe alcuni possibili enzimi. Condizioni sperimentali: da enzimi a preparazioni enzimatiche. Preparazione. Per prima cosa occorre preparare la soluzione (libera o addensata) in cui l'enzima verrà disciolto. • Per quanto riguarda l'utilizzo sui dipinti, è preferibile lavorare in un ambiente esclusivamente acquoso, in quanto l'attività ottimale è associata alla particolare conformazione che l'enzima possiede in questo mezzo. Sono disponibili infatti studi circa l'utilizzo in ambiente acquoso e di solventi organici ma riguardano solo il materiale cartaceo: sembra comunque che la possibilità o no di lavorare in questo modo dipenda fortemente dal tipo di enzima scelto. Ovviamente si tratta di acqua distillata, esente dei ioni metallici pesanti che potrebbero inibire l'enzima. • Si deve poi assicurare al mezzo acquoso il giusto pH, e fare in modo che si mantenga costante entro certi limiti, attraverso l'aggiunta di sostanze tampone o buffers, che hanno la capacità di mantenere pressoché invariato il pH, anche qualora la soluzione venga in contatto con altre sostanze a carattere acido o basico. È comune infatti ritrovare materiali che a seguito di invecchiamento sono diventati acidi (principalmente oli e resine naturali): se la soluzione basica in cui l'enzima è sciolto non è tamponata, la sua variazione di pH, causata dal contatto con questi materiali acidi, può essere tale da rallentare o addirittura inattivare l'attività enzimatica. Il pH ottimale per un tipo specifico di enzima è un'informazione che si può ottenere da fonti bibliografiche, da cataloghi o dallo stesso fornitore. È importante utilizzare i cosiddetti buffers biologici, che sono compatibili con proteine e quindi non denaturano gli enzimi. Il tampone Tris sono particolarmente utili in quanto permettono di ottenere diversi valori di pH compresi tra 7,2 e 9, semplicemente variando la quantità relative dei due componenti utilizzati: la base tris e suo sale (cloridrato) Tris HCl. Per l'ambiente acido, necessario ad esempio nel caso della pepsina, il tampone acetico, composto di acido acetico e sodio acetato, o il tampone fosforico, composto di acido fosforico e suoi sali sodici, a pH 5-5, 5, rappresentano sovente una buona scelta; anche in questo intervallo di pH sono comunque disponibili numerosi altri buffers biologici. • A questo punto a seconda che si voglia lavorare con soluzioni addensate (e quindi in trattamenti localizzati) o libere (come per bagni di immersione per materiale cartaceo), la soluzione sarà o no addensata con un agente gelificante. A questo scopo sono raccomandati eteri di cellulosa, come la metilcellulosa (vari nomi commerciali: benecel, culminal, glutofix, methocel A, Tylose MB) la idrossipropilcellulosa (unico nome commerciale klucel G) che sono neutri e quindi compatibili con tutte le condizioni di pH; al contrario, la sodiocarbossimetil cellulosa, in quanto sale, può non essere stabile in condizioni acide. È consigliabile utilizzare prodotti di qualità, che siano privi di colorazione e che producano alta viscosità in concentrazioni relativamente basse (tipicamente una viscosità di circa 4000 cps quando usati in concentrazioni 2-4% peso volume). Quest'ultima considerazione è importante ai fini di minimizzare la quantità di materiale solido utilizzato e quindi indirettamente la potenziale permanenza di residui solidi. Opportunamente conservate queste soluzioni sono stabili per prolungati periodi di tempo. Conservarle refrigerate è sempre raccomandabile. Nel caso di soluzioni addensate, c'è la possibilità che, se contaminate, possano sviluppare muffe anche se la suscettibilità al bio-deterioramento di questi eteri di cellulosa non è alta come nel caso della cellulosa. È comunque preferibile non aggiungere un antifermentativo, a meno che si abbia la certezza che esso non abbia azione inibitrice nei confronti dell'enzima che verrà utilizzato. Pertanto nel caso dei gel, si raccomanda di non prepararne quantità eccessive che debbano poi essere conservate per tempi troppo lunghi. • Al momento dell'uso, a queste soluzioni, libere o addensate, si aggiunge l'enzima scelto, in forma di polvere. Tutti gli enzimi devono essere conservati come specificato (per la maggior parte è refrigerazione a 2-8 C°). • Prelevato dal frigorifero, il contenitore viene fatto rinvenire a temperatura ambiente prima dell'apertura (per evitare l'assorbimento di umidità). • L'enzima solido viene pesato (occorre una piccola bilancia analitica, con portata limitata, ma precisione di 0, 1 grammi, cioè 100 milligrammi). Questa è l'unica vera fase di rischio dell'uso enzimatico: occorre infatti utilizzare le necessarie misure (maschera per polveri e occhiali) per evitare il contatto cutaneo e con le membrane, in quanto gli enzimi possono provocare sensibilizzazione e irritazione. Per quanto riguarda la quantità, cioè la concentrazione di queste soluzioni, solitamente si usano quantità di enzima da 100-200 mg (per quelli ad alta attività specifica) fino a un grammo (per quelli a bassa attività specifica) per 100 ml di soluzione libera o di gel. Sul materiale cartaceo si lavora con concentrazioni molto inferiori, ma nel caso dei dipinti è raccomandabile portare sulla superficie un’attività di circa mille unità. • L'enzima pesato viene aggiunto alla soluzione, mescolando con oggetti non metallici (sempre per evitare la possibilità di contatto con ioni metallici): il contenitore viene posto bagno maria ad una temperatura di 35-40 gradi centigradi per una ventina di minuti, mescolando gentilmente per non inglobale troppa aria (soprattutto nel caso di gel questo è indispensabile per avere una miscela omogenea). Occorre per questo riscaldamento una piastra riscaldante dotata di termostato di buona precisione. Il controllo della temperatura è critico, perché si raggiungono temperature troppo elevate e l'attività enzimatica può essere compromessa. Molti enzimi sono infatti irreversibilmente denaturati a temperature superiori a 50 gradi centigradi. Nel caso di gel, poi, alcuni eteri di cellulosa tendono a precipitare a temperature intorno a 40 gradi centigradi. Si nota un intorbidamento della gel, soprattutto nella parte bassa del contenitore. Questo fenomeno non compromette l'attività enzimatica, semplicemente influisce sulla viscosità del gel. È comunque reversibile: basta raffreddare leggermente il gel al di sotto di 40 gradi centigradi e si torna ad una miscela omogenea e trasparente. • agente gelificante eteri di cellulosa, come la metilcellulosa (vari nomi commerciali: Benecel, Culminal, Glutofix, Methocel A, Tylose MB) la idrossipropilcellulosa (unico nome commerciale Klucel G) che sono neutri e quindi compatibili con tutte le condizioni di pH; • al contrario, la sodiocarbossimetil cellulosa, in quanto sale, può non essere stabile in condizioni Al momento dell'uso, a queste soluzioni, libere o addensate, si aggiunge acide. l'enzima scelto, in forma di polvere Prelevato dal frigorifero, il contenitore viene fatto rinvenire a temperatura ambiente prima dell'apertura L'enzima solido viene pesato solitamente si usano quantità di enzima da 100200 mg (per quelli ad alta attività specifica) fino a un grammo (per quelli a bassa attività specifica) per 100 ml di soluzione libera o di gel. L'enzima pesato viene aggiunto alla soluzione, mescolando con oggetti non metallici (sempre per evitare la possibilità di contatto con ioni metallici): il contenitore viene posto bagno maria ad una temperatura di 35-40 gradi centigradi per una ventina di minuti Applicazione. La temperatura ottimale per l'applicazione enzimatica è solitamente intorno ai 30-40 gradi centigradi: se le condizioni dell'ambiente di lavoro e quindi del manufatto da trattare si discostano troppo da questa temperatura occorre pensare a un blando riscaldamento della superficie da trattare (attraverso una semplice lampada ad incandescenza da 50 watt e mantenuta a distanza di lavoro). È comunque indispensabile non superare mai i 45-50 gradi centigradi perché molti enzimi sono termolabili, e vengono irreversibilmente inattivati da temperature relativamente elevate. Se si lavora per immersione, è opportuno provvedere ad una leggera agitazione del bagno durante il trattamento. La soluzione addensate contenente l'enzima alla temperatura desiderata viene applicata a tampone o a pennello su una piccola superficie. Può essere lasciata agire indisturbata, oppure lavorata leggermente con un pennello morbido (soprattutto in caso di rilievi e irregolarità superficiali). Il tempo di applicazione che deve comunque essere determinato di volta in volta è generalmente compreso tra uno e dieci minuti. È comunque indispensabile accertarsi dopo uno, due, tre minuti, e così via, a del progredire dell'azione, saggiando con un piccolo tampone di cotone la zona trattata. È indispensabile, con tempi lunghi di applicazione, evitare l’essiccamento del gel in opera. Questo può essere fatto ad esempio coprendo la superficie del gel con un pezzo di melinex. Applicazione. La temperatura ottimale per l'applicazione enzimatica è solitamente intorno ai 30-40 gradi centigradi La soluzione addensate contenente l'enzima alla temperatura desiderata viene applicata a tampone o a pennello su una piccola superficie. Può essere lasciata agire indisturbata, oppure lavorata leggermente con un pennello morbido (soprattutto in caso di rilievi e irregolarità superficiali). Il tempo di applicazione che deve comunque essere determinato di volta in volta è generalmente compreso tra uno e dieci minuti Rimozione. Essendo la preparazione enzimatica costituita da un mezzo acquoso contenente materiali solidi, non volatili ma idrosolubili, l'unica procedura in grado di garantire completa rimozione di residui solidi non può che essere un lavaggio acquoso. Pertanto al termine dell'applicazione si asporta il gel con un tampone asciutto, poi si effettuano lavaggi acquosi. Meglio ancora, come da esperienza personale, facendo i primi lavaggi con una soluzione acquosa di un tensioattivo: bile bovina allo 0,2% peso/volume in acqua, tween 20 al 1-2% in volume/volume in acqua, oppure saliva artificiale (si veda oltre). Il lavaggio con un tensioattivo (i tipi raccomandati sono ad alto numero HLB, il che vuol dire fortemente emulsionanti) è importante: l'azione enzimatica produce dei frammenti delle macromolecole originarie, frammenti che sono comunque grandi visto il tempo limitato d'azione e hanno spesso carattere lipofilo, e quindi non sono facilmente idrosolubili. Questo vuol dire che la possibilità che questi frammenti restino comunque adesi alla superficie, piuttosto che inglobati nel gel che viene rimosso, è alta. L'azione del tensioattivo, in quanto emulsionante, cioè in grado di solubizzare anche materie lipofile, assicura questa completa rimozione dei residui. La conferma di questo si ha molte volte nella fase operativa: il gel ha asportato con tampone asciutto non mostra particolare colorazione (al punto, a volte da far dubitare che ci sia stata azione enzimatica): i successivi tamponi di lavaggio con la soluzione di tensioattivo, invece, hanno una colorazione molto più intensa. A seconda dei casi è conveniente ripetere questa lavorazione (perché tale è, più che un semplice lavaggio) col tensioattivo due o tre volte. A questa fa seguito un ultimo lavaggio con tampone inumidito d'acqua, che a questo punto serve solamente a rimuovere residui della soluzione precedente. Si lascia asciugare la zona trattata, e dopo il tempo sufficiente (4-5 ore) si effettuano lavaggi della zona trattato con solventi leggeri (idrocarburi come ligroina, essenza di petrolio, White spirits, ecc.) allo scopo di risaturare ottimamente la superficie(e anche di inibire eventuale attività enzimatica residua). Se è necessario ripetere l'applicazione si deve farlo prima di questo lavaggio finale a solvente in quanto gli idrocarburi hanno attività inibitoria nei confronti degli enzimi. Su un certo substrato gli enzimi possono anche essere usati in sequenza, avendo l'accortezza di applicare per ultimi i proteolitici, perché per la loro azione idrolitica nei confronti delle proteine potrebbero rallentare la azione di altri enzimi applicati successivamente. È preferibile in generale operare in questo modo (enzimi in sequenza) piuttosto che con un cocktail enzimatico (cioè enzimi mescolati insieme). Visto che sfruttiamo gli enzimi soprattutto in virtù della loro selettività, che ci garantisce di avere meno reazioni secondarie indesiderabili, e che ci preoccupiamo, acquistando gli enzimi, che siano in forma sufficientemente pura, così da contenere una sola attività enzimatica (amilolitica, proteolitica o lipolitica), non avrebbe poi molto senso pensare di mescolare tra loro componenti diversi. Certo è allettante l'idea di agire su mescolanze di materiali diversi, che comunemente si incontrano sui manufatti artistici, con un cocktail enzimatico che faccia tutto il lavoro in una volta sola. In alcuni casi studi specifici sono stati condotti con miscele di enzimi su materiale cartaceo, e si è potuta dimostrare una azione sinergica. Lo scrivente ritiene però che se lo stesso lavoro può essere fatto con interventi separati in sequenza, questa sia una via più ragionevole, perché può dare maggiori garanzie di miglior controllo e di minore interferenza con l'opera. Anche la natura del manufatto, sicuramente, può influenzare una scelta così: su un'materiale inorganico, quale il lapideo, inerte all'azione enzimatica (limitandoci chiaramente alle idrolasi che stiamo considerando), anche un cocktail enzimatico può avere la sua utilità, quando si tratta di rimuovere tutto il materiale organico eventualmente presente sopra di esso. Ma su supporti organici come tele e tavole policrome, il rischio di tale mescolanza potrebbe essere difficile da prevedere. Come abbiamo detto sopra, gli enzimi in forma solida come polveri hanno comunque durata di diversi mesi pare (9-12 solitamente) se conservati appropriatamente. Una volta in soluzione però si alterano rapidamente. E soluzioni contenenti enzimi devono essere conservate refrigerate quando non in uso: in questo modo possono essere utilizzate per circa 2-3 settimane, con progressiva diminuzione di attività fino ad essere inservibili. Per questo motivo si raccomanda di non preparare eccessive quantità, a meno che si abbia la certezza di usarle in tempi brevi. Nelle applicazioni del restauro, dove non è quantificabile la quantità di materiale che sarà il substrato dell'enzima, è impossibile predire quanto enzima servirà per la pulitura di una certa superficie. Di fatto se si utilizzano enzimi in forma gelificata, si considera come “resa” la quantità di superficie che può essere coperta da una certa quantità di gel, sia esso enzimatico o no. Generalmente quindi si può dire che 100 ml di gel enzimatico sono sufficienti per un metro quadro di superficie.. Rimozione. lavaggio acquoso Si asporta il gel con un tampone asciutto, poi si effettuano lavaggi acquosi. Meglio ancora facendo i primi lavaggi con una soluzione acquosa di un tensioattivo: bile bovina allo 0,2% peso/volume in acqua, Tween 20 al 1-2% in volume/volume in acqua, oppure saliva artificiale fa seguito un ultimo lavaggio con tampone inumidito d'acqua, che a questo punto serve solamente a rimuovere residui della soluzione precedente. Si lascia asciugare la zona trattata per un tempo sufficiente (4-5 ore) Poi si effettuano lavaggi della zona trattato con solventi leggeri (idrocarburi come ligroina, essenza di petrolio, White spirits, ecc.) Su un certo substrato gli enzimi possono anche essere usati in sequenza Come abbiamo detto sopra, gli enzimi in forma solida come polveri hanno comunque durata di diversi mesi pare (9-12 solitamente) se conservati appropriatamente. Una volta in soluzione però si alterano rapidamente. Le soluzioni contenenti enzimi devono essere conservate refrigerate quando non in uso: in questo modo possono essere utilizzate per circa 2-3 settimane, con progressiva diminuzione di attività fino ad essere inservibili. Possibili modificazioni. Aggiunta di un tensioattivo. In generale, le reazioni catalizzate dagli enzimi nei sistemi viventi sono reazioni in fase omogenea: il substrato è sciolto nello stesso mezzo acquoso in cui si trova l'enzima. Nelle applicazioni a manufatti quali le opere d'arte, la situazione è invece ben diversa: l'enzima sciolto nel mezzo acquoso è in contatto superficiale con la sostanza filmogena solida. La reazione, che può avvenire solo all'interfaccia, è chiaramente in fase eterogenea. Ciò equivale a dire più difficile, o quanto meno più lenta. Il requisito fondamentale perché una tale reazione abbia qualche possibilità di avvenire è che il contatto tra le due fasi all'interfaccia sia eccellente. Anche questo purtroppo non è facile da ottenere in molti casi. Molte superfici, soprattutto se costituite di materiali oleosi, grassi (oli, resine, cere), sono estremamente idrofobe, e quindi difficilmente bagnabili. Sicuramente l'utilizzo di un gel ha proprietà bagnanti migliori di una soluzione acquosa non addensata (in quanto gli eteri di cellulosa sono di per sé dei tensioattivi che, abbassando la tensione superficiale dell'acqua, la rendono più bagnante superficialmente e meno penetrante in profondità); questo però può non essere ancora sufficiente. L'aggiunta al gel di un tensioattivo non ionico (a bassa concentrazione micellare critica CMC, cioè dotato di forte potere emulsionante anche in bassa concentrazione) può migliorare decisamente il contatto superficiale, e quindi favorire la reazione enzimatica. L'unica nota di cautela riguarda la quantità aggiunta: non conviene eccedere, visto che non sono da escludere effetti inibitori nei confronti degli enzimi. È sufficiente una quantità di tensioattivo pari allo 0, 1% in volume/volume per un tensioattivo liquido come il tween 20, o peso/volume per uno solido come il Brij 35, rispetto al volume di gel. Possibili modificazioni. Aggiunta di un tensioattivo. Aggiunta di un attivatore Aggiunta di substrato fresco L'aggiunta al gel di un tensioattivo non ionico (a bassa concentrazione micellare critica CMC, cioè dotato di forte potere emulsionante anche in bassa concentrazione) può migliorare decisamente il contatto superficiale, e quindi favorire la reazione enzimatica. A seconda del tipo particolare di enzima utilizzato, può essere necessario aggiungere una attivatore, cioè una specie la cui presenza è indispensabile ai fini dell'attività catalitica. Generalmente si tratta di ioni metallici la velocità della reazione enzimatica, all'aumentare della concentrazione di substrato, cresce iperbolicamente fino ad un valore limite, che è la velocità massima. Perché allora non sfruttare questa velocità massima? E questo era stato fatto aggiungendo all'enzima del substrato, lo stesso che l'enzima doveva rimuovere dal supporto Aggiunta di un attivatore. A seconda del tipo particolare di enzima utilizzato, può essere necessario aggiungere una attivatore, cioè una specie la cui presenza è indispensabile ai fini dell'attività catalitica. Generalmente si tratta di ioni metallici. In alcune preparazioni enzimatiche disponibili commercialmente sono già contenuti anche questi fattori, se necessari; in altre no. È quindi opportuno fare riferimento al fornitore, se le informazioni contenute nei cataloghi non sono sufficienti.. In certi casi sarà dunque indispensabile aggiungere un sale contenente lo ione metallico necessario, in forma di sale solubile nel mezzo acquoso utilizzato. In generale, concentrazioni di 50 a 100 milligrammi di sale per un grammo di enzima solido sono più che sufficienti. Alcune lipasi, ad esempio, richiedono la presenza di ioni calcio: un opportuno sale solubile di calcio, ad esempio calcio cloruro, deve quindi essere aggiunto alla preparazione enzimatica. Aggiunta di substrato fresco. In seguito a considerazioni sulla cinetica enzimatica, Bonomi ha riportato un particolare uso enzimatico. Come abbiamo descritto in precedenza, la velocità della reazione enzimatica, all'aumentare della concentrazione di substrato, cresce iperbolicamente fino ad un valore limite, che è la velocità massima. Perché allora non sfruttare questa velocità massima? E questo era stato fatto aggiungendo all'enzima del substrato, lo stesso che l'enzima doveva rimuovere dal supporto. Nei casi specifici veniva utilizzata una proteasi per la rimozione di colle animali: sul manufatto veniva prima stesa della colla animale fresca, così da saturare l'enzima applicato successivamente, e permettergli di operare a velocità massima. Si ottenevano così tempi di reazione brevi. Non sono comunque riportati altri dati sperimentali come il tipo di enzima e le concentrazioni relative dell'enzima e del materiale proteico aggiunto. Questo elegante approccio al metodo enzimatico sembra sperimentalmente aver dato buoni risultati (ad esempio nella rimozione di strati preparatori a base di gesso e colla animale applicati sopra la policromia originaria di sculture lignee). È comunque difficile prevedere se possa essere considerato di generale applicabilità a tutti i casi di utilizzo enzimatico. Come abbiamo già sottolineato infatti in un'operazione enzimatica nel restauro siamo solitamente in condizioni di reazione eterogenee: cioè con l'enzima sciolto in soluzione, e il substrato in fase solida (nel caso di materiale oleoso addirittura in una fase decisamente eterogenea, in quanto idrofoba e idrorepellente). Le cinetica invece e in particolare la teoria di Michaelis-Menten a cui abbiamo accennato in precedenza si basano su condizioni di reazione omogenee: l'enzima e substrato sciolti nel mezzo acquoso di reazione. Perché questa teoria sia valida, inoltre, la concentrazione di substrato deve essere molto maggiore di quella dell'enzima: e questo porta alla considerazione se sia opportuno aggiungere all'opera una certa quantità dello stesso materiale che vogliamo rimuovere. Indubbiamente la valutazione dipenderà da caso a caso. La validità ed efficacia del trattamento, nei casi descritti, sembra comunque dimostrata dagli esiti sperimentali. Sezioni stratigrafiche e analisi chimica dei campioni di dipinti. Introduzione e sguardo generale del lavoro precedente. È diventato ora abbastanza normale per i restauratori considerare un dipinto come una struttura stratificata, in questo modo sono stati sviluppati metodi per studiare gli strati interni di un dipinto. Esempi di questi metodi sono i raggi X e la fotografia infrarossa. In questo caso però vengono ottenute immagini sovrapposte degli strati (tranne che nel caso dei raggi X e in circostanze molto speciali). Un metodo più diretto è osservare il dipinto in sezioni stratigrafiche. Questo è spesso difficile da realizzare in situ sul dipinto, anche con un buon microscopio movibile, poiché anche nel caso in cui esistono delle fratture i cui spigoli possano essere esaminati, tali spigoli sono approssimativamente perpendicolari al piano focale del microscopio e in questo modo al massimo può esser ottenuta una immagine obliqua e piuttosto fuori fuoco. Generalmente è più conveniente staccare un frammento minuto di pittura dal dipinto e osservarlo separatamente con un microscopio. Anche, in questo caso, allo scopo di vedere gli strati separatamente, il frammento di pittura deve essere adagiato su uno spigolo e per un adeguato esame microscopico il campione deve essere incastonato in un adeguato mezzo ed avere uno spigolo o un lato tagliato in modo tale da fornire una superficie piana per la focalizzazione del microscopio. Questa è la "ragion d'essere" per tutti metodi di preparazione delle sezioni stratigrafiche. Come ulteriore metodo scientifico per l'esame di un dipinto la tecnica è complementare alla radiografia e la fotografia infrarossa, poiché la sezione della pittura dà una notevole quantità di informazioni precise in una in un'area molto piccola del dipinto, dove invece la radiografia o la fotografia infrarossa danno piuttosto informazioni più generali su un’area estesa del dipinto stesso. La preparazione delle sezioni stratigrafiche dei dipinti fu iniziata più di 40 anni fa. Il primo lavoro fu scritto agli inizi nel 1914. Lo scopo di questo metodo era di estendere la tecnica sperimentata al museo di Fogg Art, Cambridge, Massachusetts nel 1930. A quei tempi fu usata della cera come mezzo per inglobare le sezioni della pittura che era tagliata in sezioni sottili. La friabilità della maggior parte dei film pittorici antichi ha reso questa operazione difficile, e quindi successivamente il processo è stato semplificato usando delle resine moderne sintetiche come mezzo di incastonatura con successiva scartavetratura e levigatura delle sezioni. Ciò che deve essere sottolineato qui è che viene richiesta non una sezione trasparente, per essere vista in luce in trasmittanza, come necessario nel caso di molte sezioni di minerali, ma una sezione opaca, la superficie della quale viene esaminata solamente per luce riflessa, il che rende la preparazione della sezione decisamente più semplice. Questo tipo di sezioni stratigrafiche di pitture sono eseguite in molti laboratori dei musei, incluso il Laboratorio Centrale dei Musei del Belgio, dove le resine di metacrilato sono usate come mezzo inglobante. Nella National Gallery, la resina usata per le sezioni stratigrafiche di pittura è una resina di poliestere che raffredda e solidifica a freddo. TECNICA DELLE SEZIONI STRATIGRAFICHE • Prelievo del campione • Preparazione della sezione stratigrafica opaca • Sezioni stratigrafiche trasparenti • Osservazione al microscopio ottico • Documentazione • Archiviazione Premessa Un dipinto è una struttura a strati. Strati della struttura: Materiali Numero lo caratterizzano e diversificano Successione Tecnica del dipinto: Modalità di esecuzione ne condizionano nel tempo Fattori ambientali la costituzione fisico-chimica Interventi successivi ne determinano il continuo trasformarsi. Un esame strati grafico consente la lettura dello stato attuale degli strati che costituiscono il dipinto. Una sezione stratigrafica è totale rispetto allo spessore del dipinto Un prelievo parziale rispetto la sua superficie. Un prelievo, dal punto di vista conservativo, esercita una • Funzione positiva in quanto contribuisce ad affrontare problemi del deterioramento e una • Funzione negativa in quanto mutila irreversibilmente il dipinto. Solo quando la lettura dello stato attuale degli strati è essenziale ai fini della conservazione, la funzione positiva del prelievo compensa quella negativa. Prelievo del campione. Punto del prelievo. La sezione stratigrafica dà una risposta solo relativamente al punto del prelievo. Di conseguenza, va attentamente individuato il problema da affrontare e localizzato il punto dove effettuare il prelievo. Di regola, per questo, vanno scelte zone ai margini di lacune o comunque di minore importanza figurativa. Strumenti. Il prelievo va eseguito con tre tipi di bisturi: • Bisturi in acciaio con lama a punta, • Bisturi in acciaio con lama a taglio, • Bisturi il acciaio con lama a scalpello. La grandezza minima utile di un prelievo è di 5-10 mm2 circa. Tecnica di prelievo. Una volta stabilita la zona, si esegue una prima incisione superficiale lungo un perimetro quadrangolare usando il bisturi con lama a punta. Delimitata la zona, si interviene col bisturi da taglio, incidendo la superficie in profondità. Le incisioni vanno praticate prima lungo due lati opposti, in modo da non creare una intersezione a 90°, per ridurre al massimo l'indebolimento della zona d'angolo e una sua conseguente rottura: Praticate le quattro incisioni, il campione viene rimosso con l'aiuto del bisturi a scalpello. Protezione del prelievo. Il campione prelevato va conservato in un contenitore adatto fino al momento del montaggio. • Usare una provetta di vetro, pulita, ben chiusa, etichettata. • Evitare fogli di carta, buste, scatoline di fortuna- metalliche, lignee, cartacee, ecc.-nonché la conservazione di più campioni in uno stesso contenitore. • annotare su un registro: data-numero del campione-edificio-numero del dipinto-autore/epoca-scopo del prelievo. • Indicare su una foto o rappresentazione grafica del dipinto il numero del campione, facendolo coincidere con la zona del prelievo. Preparazione della sezione stratigrafiche a opaca. Per l'osservazione, il campione deve essere: • inglobato in una resina • Tagliato • Levigato • Inserito in un contenitore che ne consenta l'esame e la conservazione. Inglobamento del campione. Materiali Il campione va inglobato in una resina sintetica che risponda ai seguenti requisiti: • Sia perfettamente trasparente • Abbia un basso indice di rifrazione (valore limite 1, 54) • Non scurisca invecchiando • Non depolimerizzi nel tempo • Non reagisca con il materiale inglobato (esempio: non liberi sostanze acide) • Polimerizzi a freddo. (e comunque non oltre i 50°C). Una resina dalle prestazioni soddisfacenti è la resina poliestere “Sniatron 5119”, prodotta dalla SNIA. Questa resina, particolarmente adatta per l'indurimento a temperatura ambiente, utilizza come accelerante l'ottoato di cobalto e come induritore il perossido di metil-etil-chetone. Caratteristiche della Sniatron 5119 liquida Colore Leggermente paglierino Aspetto Limpido Viscosità (Brookfield RUF) a 25°C Cps 600-700 Stabilità a 25°C, al buio, senza 6 mesi, minimo induritore Peso specifico a 25°C 1,12 – 1,13 Caratteristiche della Sniatron 5119 indurita Resistenza a compressione Kg/cm2 1.550 – 1.700 Ritiro, % in volume 7,5 -8,0 Attrezzatura. Per creare il leggero vuoto necessario ad eliminare il gas (aria) contenuto dalla resina sotto forma di bollicine, ci si serve di una campana pneumatica (essiccatore munito di valvola) collegata ad una pompa a getto d'acqua.. Nel caso di campioni porosi si ha anche una certa penetrazione della resina. L'attrezzatura indicata è di tipo semplice ed economico e consente operazioni di facile realizzazione. Esistono naturalmente altre soluzioni sia per praticare il vuoto: decompressori elettrici, che per la levigazione: levigatrice; ecc.. Campana reumatica L'apparecchio è costituito da: • Base in polipropilene, completa di piano d'appoggio per il campione • Campana in policarbonato , fornita di una • Valvola, cui è collegato un • Tubo di gomma. Un anello in elastomeri, posto tra A e B, assicura la perfetta tenuta dell’apparecchio. Il vuoto all'interno della campana (B) si determina aprendo la valvola (C) e collegando il tubo (D) con una pompa aspirante. Questo tipo di campana pneumatica resiste fino pressioni di 5torr. (1 torr =1 / 760 mm Hg). Pompa aspirante a getto d'acqua Funzionamento A) l'acqua entra nel condotto A con determinati valori P (pressione) e V (velocità). • P e V sono costanti nel tratto l1 perché le sezioni sono uguali (S1=S2). • nel tratto l2, al diminuire della sezione (S3), V aumenta e P diminuisce. B) nel condotto D, comunicante con la zona C, permane lo stato di depressione con conseguente aspirazione dell'aria proveniente dal condotto E. C) l'aria viene espulsa insieme all'acqua, dalla bocca d'uscita F. Con un’apparecchiatura di questo tipo, che richiede acqua a 1-2 atmosfere e 15-20°C, nella campana pneumatica viene crearsi un vuoto dell'ordine dei 2520 torr. Per abbreviare il tempo di gelo del primo strato di resina si fa uso di una normale stufetta provvista di termostato, in grado di garantire una distribuzione uniforme del calore. Per l'inglobamento del campione ci si serve di regola di piccoli contenitori (cubi di 2 cm di lato circa) detti” pozzetti”. I pozzetti sono in polietilene, ad evitare che la resina aderisca alle pareti, e recano all'esterno un'etichetta per i dati di riferimento al campione. Operazioni. a. Miscelare: • resina poliestere Sniatron 5119/n • Induritore: perossido di metil-etil-chetone b. Versare la miscela nel pozzetto contrassegnato fino ad 1/3 della sua altezza (1). c. Porre il pozzetto in stufa a 50°C per cinque minuti circa per abbreviare il tempo di gelo. d. Poggiare il campione sulla resina gelificata, la superficie dipinta rivolta verso l'alto, (2) e premere leggermente per farlo aderire alla resina. e. Versare altra miscela (con proporzioni differenti: 2-5 cc + 1 goccia, a seconda della porosità del campione) nel pozzetto, fino a 2/3 della sua altezza. (3) f. Porre il pozzetto in campana reumatica e lasciatelo finché non affiorano più bollicine d'aria (pochi minuti). g. Farla indurire a temperatura ambiente per 12-24 ore. Taglio della sezione stratigrafica Attrezzatura • Seghetto metallico • lima da ferro a grana media • lima da ferro a grana fine • morsetto metallico Metodo di sezionamento • si estrae dal pozzetto il blocchetto di resina contenente il campione; • il blocchetto viene tenuto fermo per mezzo di un morsetto metallico; • Servendosi del seghetto e delle lime, il blocchetto viene sezionato così da ottenere un parallelepipedo. Il taglio avviene lungo un piano obliquo rispetto alla faccia piana orizzontale del campione, in modo da ottenere una buona superficie di lettura. Levigazione Vanno ora eliminate dalla superficie del parallelepipedo le incisioni degli strumenti adoperati per il taglio. Materiali e attrezzatura. Ci si serve di una serie di almeno tre “carte abrasive”, posti su un piano inclinato inserito in una bacinella contenente petrolio rettificato in qualità di lubrificante. Gli abrasivi più normalmente impiegati sono silicon carbide ed emery. Il primo è una polvere di carburo di silicio montata su carta, ottenibile in differenti gradazioni (grit) di cui le più usate sono:240, 320 e 600. L'emery è una miscela naturale di allumina e ossido di ferro, la si adopera montata su carta. La gradazione 4/0 è adoperata per la levigazione finale. Operazioni. La Levigazione si ottiene sfregando la faccia della sezione contro la carta abrasiva inumidita. È importante che le dita esercitino la pressione al centro del blocchetto, oppure lungo i bordi, in maniera uniforme, ad evitare la sfaccettature della superficie del campione. Un buon metodo da seguire è quello di operare l'abrasione sempre in una direzione sulla prima carta e quindi cambiare la direzione di 90° sulla seconda carta, e rifinire con la terza carta. La superficie va controllata periodicamente per mezzo di un microscopio stereoscopico a dieci x circa. L'operazione ha termine quando non sono più leggibili striature o imperfezioni. Scopo della levigazione è infatti quello di ottenere una superficie piana, speculare, adatta all'osservazione a luce riflessa. Montaggio nel contenitore finale. Il montaggio ha più scopi: • Protegge la superficie dalla polvere; • Agevola la manipolazione della sezione; • Facilita l'osservazione al microscopio ottico; • Consente l'applicazione di segni di riferimento; • Semplifica l'archiviazione. Un contenitore tipo è seguente: Blocchetto in tre ex classe (lungo 8 centimetri, largo 3 cm, alto un centimetro) nella cui spessore viene ricavato un pozzetto del diametro di circa due-tre centimetri e della altezza di sette-otto millimetri. Operazioni. a. Sulla faccia levigata della sezione si applica un comune vetrino copri oggetto, che viene fatto aderire per mezzo di un suo sottilissimo velo di balsamo del Canada. Il vetrino copri oggetto, pulito e asciutto, va applicato appoggiandone prima un lato con una certa inclinazione a e premendo poi lentamente sul balsamo ad evitare al massimo che restino bolle d'aria. Premere poi la superficie del vetrino con un blocchetto rettangolare a facce lisce per eliminare le eventuali bolle e l'eccesso di balsamo. Far solidificare. Il balsamo del Canada è la sostanza più comunemente usata in quanto ha un indice di rifrazione (1, 52-1, 54) prossimo a quello del vetrino copri oggetto e delle lenti dell'obiettivo.; di conseguenza non interferisce in maniera apprezzabile con l'osservazione al microscopio. Lo spessore minimo del vetrino a facce piane e parallele (qualche decimo di millimetro) viene già previsto dalla maggior parte degli obiettivi del microscopio ottico.. b. I bordi del vetrino vanno fermati per impedire la fuoriuscita della sezione dal contenitore e per evitare un eventuale accumulo di polvere nel pozzetto. Può esser usata una normale carica autoadesiva. Sezioni stratigrafiche trasparenti. La sezione stratigrafica trasparente rappresenta in linea di massima uno stadio successivo a quello della sezione stratigrafiche opaca, ovvero al punto di partenza per la sua preparazione può essere la sezione stratigrafiche opaca. Per l'osservazione il campione deve essere: • Fornito di supporto; • Assottiglia atto e l'nevicato; • Protetto. Supporto . La faccia levigata della sezione viene fatta aderire a un vetrino porta oggetto, smerigliato, per mezzo di un sottile strato di Sniatron nel 5119/n si preme la faccia levigata sul vetrino, facendo bene attenzione che non restino bolle d'aria, la sezione viene mantenuta pressata contro il vetrino mediante apposita pinzetta molla. Si attende il tempo necessario l'indurimento della resina e (12-24 ore). Assottigliamento e levigazione. a. Assottigliamento. Il vetrino viene inserito in un porta sezioni trasparenti. Ruotando la manopole acidi i due settori (a, b) si accostano bloccando il vetrino, lo spessore di alloggiamento consente di ottenere spessori finali uniformi dell'ordine e 50 micron. Il campione viene ora assottigliato per mezzo delle linee a grana media e fine. Lospessore da raggiungere è di poco inferiore al millimetro; è importante che le due facce del campione siano piane e parallele. • L'operazione descritta si serve di strumenti semplici nella sua buona riuscita è quasi interamente affidata all'esperienza manuale dell'operatore. Esistono oggi microtomi (ad esempio rotanti, tipo Pyramitome) in grado di dare sezioni dello spessore da 1 a 40 micron.. Il loro uso prevede naturalmente una diversa preparazione del campione. Comunque per materiali delicati, spesso si preferisce un procedimento completamente manuale. Levigazione. Con questa operazione si porta a termine l'assottigliamento e contemporaneamente si eliminano irregolarità e scabrosità della superficie. Si opera con le carte abrasive già descritte. Il campione deve raggiungere uno spessore uniforme di almeno 1/10 mm. (100 micron). Il controllo viene effettuato a microscopio. Uno spessore soddisfacente viene raggiunto quando possibile apprezzare i colori di interferenza o dei grani di pigmento. Protezione. Sulla superficie così levigata si fa aderire un vetrino copri oggetto con balsamo del Canada, secondo il metodo già descritto. Osservazione al microscopio ottico. Il microscopio ha il compito di fornire un'immagine ingrandita del campione per consentirne l'esame dettagliato e delle caratteristiche. Un'apparecchiatura raffinata si presta anche alla registrazione dell'immagine.. A tal scopo sono disponibili dispositivi supplementari per la ripresa microfotografica. Il microscopio ottico. Il microscopio ottico è costituito essenzialmente da due sistemi diottrici centrati: l'oculare e l'obiettivo. Obiettivo ed oculare formano nel sistema ottico del microscopio un’unità.. A determinati obiettivi corrispondono oculari specifici. i. Obiettivo. Fornisce un'immagine reale ingrandita ( capovolta) situata tra obiettivo e oculare. Ogni obiettivo reca incisa l'indicazione della scala (rapporto di grandezza tra immagine reale e campione). Generalmente vengono usati obiettivi che danno i seguenti ingrandimenti:3, 8 X, 5 X, 6, 5 X, 11 X, 22 X. ii. Oculare. L'oculare dà un'immagine virtuale ingrandita (diritta) dell'immagine reale fornita dall'obiettivo. Caratteristica essenziale di un oculare è il tipo di ingrandimento, che viene indicato sulla montatura dell'oculare stesso. Gli ingrandimenti maggiormente usati sono:6, 3 X, 8 X, 10 X, 12, 5 X. L’ingrandimento effettivo che microscopio può fornire viene determinato moltiplicando i valori degli ingrandimenti propri dell’obiettivo e dell’oculare: I microscopio = I obiettivo x I oculare qualora il microscopio abbia un'ottica intermedia incorporata: I microscopio = I obiettivo x I oculare x F Dove F è il fattore di ingrandimento relativo al porta obiettivi scelto. Sorgenti di illuminazione. Il microscopio è completato dalle sorgenti di illuminazione. A seconda della sorgente impiegata si può ottenere: i. Luce normale; ii. Luce ultravioletta. i. Luce normale. La sorgente luminosa è costituita da una lampadina a incandescenza a basso voltaggio (60 W). La lampadina è racchiusa in un corpo lampada esterno al microscopio e comunicante con questo attraverso un apposito accordo. La microscopia a luce normale prevede due diversi sistemi di illuminazione: i. Luce normale trasmessa. Un questo caso la sorgente luminosa è posta a un livello inferiore a quello del campione da osservare. Il fascio di raggi viene proiettato, attraverso un sistema di lenti, sulla faccia inferiore del campione. I raggi rifatti dal campione vengono raccolti sul sistema obiettivo-oculare; ii. Luce normale riflessa. La sorgente luminosa è posta ad un livello superiore a quello dell'obiettivo. Il fascio di raggi rifratto da un sistema di lenti convergenti è proiettato sulla superficie del campione. I raggi, riflessi dal campione, vengono raccolti dal sistema obiettivo-oculare. Sia nel primo che nel secondo caso l'illuminazione può essere effettuata in due modi: a. Illuminazione in campo chiaro: tutti i raggi provenienti dalla sorgente luminosa vengono accolti dall'obiettivo; b. Illuminazione in campo oscuro: solo i raggi riflessi o rifatti dal campione vengono accolti dall'obiettivo. La sorgente di luce normale può esser polarizzata mediante dispositivi di polarizzazione quali i prismi di Nicol, lastrine di Polaroid ecc.: luce polarizzata. A seconda del diverso sistema di illuminazione si ha: luce polarizzata trasmessa o luce polarizzata riflessa. I dispositivi suddetti sono costituiti da un polarizzatore e da un analizzatore. Quale che sia il tipo scelto, essi si basano su uno stesso principio: la luce normale, composta da raggi vibranti in direzioni diverse, viene sdoppiata dalla lamina polarizzatrice in due raggi che vibrano non più liberamente, ma su due piani perpendicolari tra loro. Uno dei raggi viene assorbito dalla lamina polarizzatrice, l'altro viene raccolto dalla lamina analizzatrice. Il polarizzatore va inserito tra la sorgente luminosa e il campione da osservare. L’analizzatore va inserito tra l'obiettivo e l'oculare. Il polarizzatore può essere ruotato su se stesso di 90 gradi per permettere l'osservazione con piani di polarizzazione paralleli o incrociati.; ciò rende possibile esaminare sostanze cristalline e amorfe ed apprezzare fenomeni di birifrangenza e di interferenza. Luce ultravioletta. La sorgente luminosa è comunemente sostituita da una lampada ad altissima pressione al mercurio (50-200 watt. Poiché essa produce anche una quantità di luce visibile che interferirebbe con l'osservazione, si fa uso di un filtro di eccitazione posto tra la sorgente e il campione, che assorbe le radiazioni visibili. Parte delle radiazioni ultraviolette filtrate interagiscono con le zone del campione suscettibili di fluorescenza (le sostanze organiche e alcuni minerali se esposti alla luce ultravioletta (invisibile) hanno la proprietà di emettere luce visibile (luminescenza) con la lunghezza d'onda maggiore di quella della radiazione di eccitazione. Se al termine dell'esposizione l'emissione permane si ha fosforescenza, altrimenti sia fluorescenza. Il colore emesso (la particolare lunghezza d'onda della luce emessa) dipende dalla struttura chimica e fisica della sostanza ed è perciò caratteristico) e producono luce visibile. Le radiazioni visibili e le ultraviolette residue vengono accolte dall'obiettivo. Un filtro di sbarramento, tra obiettivo e oculare, assorbe le radiazioni ultraviolette (inutili e dannose all'occhio) e lascia passare le visibili attraverso l'oculare. A seconda della posizione della sorgente luminosa, si ha fluorescenza in luce trasmessa o fluorescenza in luce riflessa. Sia a luce trasmessa che riflessa si opera con fondo scuro: fluorescenza in campo oscuro, per consentire all'obiettivo di raccogliere solo le radiazioni provenienti dal campione. Attrezzatura. Va notato che sia il vetro che le resine adoperate per il montaggio sono dotati di fluorescenza; nel caso dei vetrini porta e copri oggetto questa è bassa e può anche essere accettata in condizioni normali; altrimenti vanno adottati vetrini al quarzo (specie per materiali debolmente fluorescenti o per riprese fotografiche). Nella microscopia a fluorescenza le resine vengono di solito sostituite con glicerina pura. Filtri. Si hanno filtri di eccitazione a banda larga, a banda stretta e selettivi. La scelta è legata alla conoscenza dei valori spettrali di eccitazione e di emissione. Per uno sfruttamento ottimale della fluorescenza è essenziale una corretta combinazione tra filtri di eccitazione e filtri di sbarramento. Avvertenze. L'operatore deve effettuare l'osservazione in ambiente con luce attenuata per poter apprezzare anche fluorescenze ridotte. Inoltre, l’intensità della luce fluorescente dipende anche dall'ingrandimento dato dagli oculari; per l'esame visivo sono da preferire oculari a basso ingrandimento (6, 3 X). È importante che la fluorescenza sia eccitata solo nel preparato, i vetrini porta e copri oggetto devono quindi essere privi di sostanze luminescenti e vanno pertanto lavati in miscela cromica e risciacquati in acqua e alcol antiluminescente. Osservazione della Sezione Stratigrafica Opaca. Luce normale riflessa. Vengono messe in evidenza le seguenti caratteristiche dei singoli strati che costituiscono il campione: • Spessore; • Colorazione; • Distribuzione delle particelle (è bene notare che solo un occhio molto esercitato può azzardare ipotesi sulla natura dei pigmenti durante l'osservazione della sezione stratigrafiche opaca. (uniformità, addensamenti particolari, ecc.) • Discontinuità di adesione e/o coesione; • Penetrazione, all'interno degli strati, di sostanze sovramesse e/o, genericamente, inclusioni. Luce ultravioletta riflessa. Questo tipo di illuminazione: a) evidenza la presenza di sostanze organiche (leganti, vernici, adesivi, cariche); b) aiuta a distinguere stratificazione, sovrapposizioni e infiltrazioni di sostanze organiche di diversa natura, o a diversi stadi di invecchiamento, se queste presentano una marcata differenza di colore di intensità nell'emissione fluorescente. Osservazione della sezione stratigrafiche a trasparente L'esame della sezione stratigrafica trasparente in è piuttosto interessante in quanto permette di: • identificare con una certa precisione i pigmenti inorganici • formulare ipotesi sui leganti di natura inorganica • riconoscere per classe di appartenenza, i leganti (o sostanze comunque presenti) di natura inorganica. Luce polarizzata trasmessa. L'osservazione oltre consentire l'esame della successione e dello spessore degli strati, permette nella maggior parte dei casi il riconoscimento di: • pigmenti inorganici • leganti inorganici, quali carbonato di calcio e gesso. n.b. Va ricordato che la presenza di carbonato di calcio o di gesso non sta sempre ad indicare una loro funzione legante nei riguardi dello strato pittorico in esame. Il carbonato di calcio può ad esempio essere presente perché utilizzato come pigmento, ovvero perché depositatosi in superficie dopo essere stato disciolto negli intonaci o nella muratura retrostanti e dall'acido carbonico contenuto nell'acqua d'infiltrazione. La presenza di gesso in superficie è quasi sempre indizio di una trasformazione del carbonato di calcio indotta da composti inquinanti. Anche in questo caso, l'esperienza dell'operatore è determinante. Per l'esame il microscopio ottico dovrà essere dotato di piatto girevole (qualora l'apparecchiatura adottata non sia provvista di questo dispositivo può essere impiegato direttamente il microscopio a mineralogico). Per le istruzioni relative al riconoscimento delle sostanze indicate vedi dimos 1.3. Luce ultravioletta trasmessa. Con questo tipo di illuminazione si ottengono informazioni del tipo descritto in 4.2.2, ma con maggiore chiarezza di dettagli. Lo spessore della sezione non deve però eccedere i 40 micron, ad evitare sovrapposizione della luce emessa da pigmenti inorganici e di quella emessa da sostanze organiche. Le osservazioni in fluorescenza forniscono solo indicazioni di massima; ad esempio: una sostanza organica (amorfa) emette luce omogenea in virtù della continuità dello strato, mentre una sostanza inorganica (insieme di cristalli: strato di discontinuo) emette luce disomogenea. Sostanze organiche. Come già detto, sia l'intensità che il colore della radiazione emessa sono caratteristici per i vari materiali, in quanto dipendono dalla struttura chimica e fisica della sostanza in esame. Nella realtà verranno considerati: • presenza di impurezze • stadio di invecchiamento • eventuale miscela con altre sostanze. Tali fattori, da soli o combinati, provocano variazioni nell'assorbimento della luce e nella relativa emissione; essi, di conseguenza, mentre permettono di identificare lo strato come tale, impediscono la elaborazione delle informazioni precise. Ad es.: cere organiche = fluorescenza bianca ma questa indicazione può solo essere approssimativa: nessuna cera organica è uguale all'altra, si avranno perciò variazioni sia nell'intensità che nella gradazione di tono del bianco emesso. Sostanze inorganiche. Sono pochi i minerali fluorescenti e solo alcuni di essi emettono una radiazione definita; nella maggior parte dei casi infatti l'emissione è solo occasionale o dovuta a particolari condizioni (ad esempio: presenza di impurezze che fungono da attivatori della fluorescenza). Inoltre sono pochi i minerali fluorescenti per qualsiasi lunghezza d'onda ( ) degli e U.V. Vediamo ad esempio come rispondono allo stimolo U.V. due minerali di interesse nel campo dei dipinti murali: o Calcite CaCO3 • Fluorescenza molto comune: rosso a rosa • Fluorescenza molto comune: bianca, con fenomeni di fosforescenza bianca o blu, anche persistente • Fluorescenza occasionale: arancione (in campioni esposti a lungo all'aperto) • Fluorescenza occasionale: gialla, spesso unita a fosforescenza • Fluorescenza occasionale: blu, spesso unita a fosforescenza persistente. o Gesso CaSO4 2H2O • Fluorescenza solo occasionale (stimolata dall'U.V.lontano): giallo chiarissimo o, a volte, bluastra. Riconoscimento di sostanze organiche. Dal 1970 sono in corso esperimenti per l'identificazione e la localizzazione di sostanze organiche (leganti, fissativi, ecc.) nei differenti strati di un dipinto mediante tecniche di colorazione selettiva proprie di analisi istochimiche. Questo tipo di indagine, che ha dato ad oggi risultati di particolare interesse, è ancora in fase di elaborazione ed approfondimento. È comunque opportuno farne cenno in questa sede. i. ii. Sostanze che possano essere messe in evidenza: • Proteine (colle animali, albume, caseina); • Lipidi (olio di lino, olio di noce, eccetera); • Parotite di-lipidi: miscele naturali (tuorlo dell'uovo); • Micelle artificiali (oli più colle, eccetera). Metodo di rilevamento: l'sezioni sottili vengono colorate e correttivi specifici per le sostanze da rivelare, ovvero: poste a contatto con coloranti acidi (fucsina S, ad esempio.), le sostanze proteiche assumono una colorazione caratteristica, così come una colorazione caratteristica viene assunta dai lipidi se posti a contatto con coloranti lisocromi (Sudan nero B, ad es.). iii. Limiti inerenti al metodo di rilevamento: • il riconoscimento si ha solo per classi di appartenenza, non è cioè ancora possibile distinguere un lipide da un altro o una proteina dall'altra; • Nel campione vi è spesso una concentrazione troppo bassa della sostanza organica da individuare; • L'invecchiamento, in particolare di lipidi, ma spesso anche di complessi lipo-proteici (esempio: tuorlo dell'uovo), rende difficile la colorazione dei lipidi L'osservazione della sezione sottile così colorata viene fatta a luce trasmessa solo se lo spessore della sezione non eccede i 40 micron, altrimenti va adottato il sistema a luce riflessa. È bene notare che con la luce trasmessa si ottengono maggiori dettagli sulla distribuzione delle sostanze, in particolare nei punti di contatto tra gli strati, ed è possibile apprezzare anche reazioni molto deboli. Documentazione. Al termine dell'esame è sempre opportuno redigere una relazione e documentarla con uno o più riproduzioni del campione osservato. Va però ricordato che riproduzioni e ricostruzioni (grafiche, fotografiche, descrizioni scritte) della “struttura reale” del campione esaminato richiedono inevitabilmente una serie di “atti di giudizio” da parte del tecnico. Documentazione microfotografica. Fotografare in modo da esplicitare esattamente ciò che il tecnico ha letto al microscopio nel corso dell'osservazione non è facile, in quanto lo studio di un campione è fondamentalmente un interpretazione basata sui suggerimenti della sintesi ottica operata dallo strumento, ed è necessario quindi che la fotografia evidenzi soprattutto quegli stessi suggerimenti. Infatti, i dati forniti dal microscopio dipendono dalle proprietà sia del sistema ottico che del tipo di illuminazione scelti e combinati dal tecnico. Il fotografo dovrà perciò essere in grado di evocare bidimensionalmente l'immagine mentale il tecnico si è creata del campione (che comprende ad es. la minuta continua messa a fuoco, mediante la quale si ottiene una certa sintesi spaziale delle sensazioni visive), ricordando che l'emulsione sensibile registra l'intero contenuto ottico dell'immagine e non “l'immagine ragionata”. Attrezzatura. Il microscopio Orthoplan è fornito di una apparecchiatura addizionale fotoautomatica elettronica, l'Orthomat, per il formato 35 mm. La “camera” viene fissata sul tubo fotografico (vedi figura). L'immagine dell’oggetto viene riprodotta sia dall'oculare all'infinito sia, seguendo un percorsoin linea retta, dall'obbiettivo della camera sulla pellicola. Sul formato del negativo si ha un rapporto di ingrandimento di 1: 3,2 (riduzione). Ingrandendo successivamente di3,2, volte si ottiene l'effettivo ingrandimento totale del microscopio. Operazioni. • A scegliere sistema ottico; • Scegliere l'illuminazione; • Porre nel maggior rilievo ottico possibile gli elementi che devono figurare nell'immagine fotografica. È necessario che i campioni siano tecnicamente ineccepibili, allestiti con cura e pulitissimi (l’occhio scarta istintivamente granelli di polvere, bollicine d'aria, eccetera, l'emulsione fotografica no). Segue tutta la serie di operazioni più strettamente tecniche: scelta della scala di immagine, messa a fuoco, tempo disposizione, ecc. Documentazione grafica. La documentazione grafica può essere eseguita: a. Disegnando la struttura del campione con l'aiuto di un oculare di misura, cioè munito di una scala graduata. Il disegno deve essere riportato su carta millimetrata; al termine dell'operazione si controlla il valore micrometrico dell'obiettivo usato e si dà il rapporto di misura; b. Eseguendo su carta trasparente lo schema grafico della struttura del campione, quale si ricava dalla stampa di una microfotografia dello stesso. In questo caso, scopo del grafico è di mettere in evidenza i punti di interesse della fotografia. I disegni vanno corredati da indicazioni di massima come ad esempio: Seguono i riferimenti relativi a rapporto di misura e alla microfotografia dalla quale si è ricavato il lucido. Relazione. Una relazione si articola in tre punti: i. Dati di riferimento; ii. Rapporto sull'osservazione al microscopio; iii. Documentazione grafica e/o fotografica. i. Dati di riferimento. Vengono riportati alcuni dei dati che compaiono sul registro dei prelievi: • numero del dipinto: questo dato rinvia alla scheda madre del dipinto, di conseguenza vanno evitati riferimenti ripetitivi del tipo: edificio, autore/epoca, eccetera.; • data del prelievo; • zona del prelievo: per questo dato si farà riferimento alla foto o alla rappresentazione grafica del dipinto che funge da “mappa dei prelievi”; • scopo del prelievo: questo è un dato della massima importanza (per il riferimento alla relazione sullo stato di conservazione del dipinto, si consulteranno la scheda-madre); • numero della sezione (per l'organizzazione del numero di riferimento vedi 6); • tipo di sezione: (opaca o trasparente). Rapporto sull'osservazione al microscopio. Usando un linguaggio per quanto possibile sistematico, si riferirà su: • Numero di strati • Spessore (totale e dei singoli strati) • Colorazione, di massima, degli strati • Distribuzione dei cristalli o particelle (ad esempio: uniformità, addensamenti particolari, ecc.) • Discontinuità di adesione e/o coesione • Presenza di sostanze sovramesse • Penetrazione di sostanze sovramesse • Inclusioni (ad es.: particelle anomale in quanto a numero, distribuzione, colorazione, ecc.) • Presenza di sostanze organiche ed eventuali differenziazioni tra queste • Ipotesi sulla presenza di leganti inorganici • Identificazione di pigmenti • Ecc. Specificando con quale tipo di illuminazione, numero di ingrandimenti, ecc., si è operato e facendo gli opportuni rinvii alla documentazione allegata. iii. Documentazione grafica e/o fotografica. Vanno allegati sia disegni e microfotografie completi di didascalie, sia una “mappa” del punto di prelievo (campione singolo o serie di campioni) effettuati durante uno stesso periodo (per la numerazione vedi 6). Va infatti evitata una descrizione generica del tipo: “quarto inferiore destro, vicino al bordo”,o “ terza piega da sinistra del della Vergine”. Archiviazione. La sezione stratigrafica va ora archiviata. Ciascun contenitore, o vetrino, va contrassegnato per l'archiviazione. Può esser adoperata un'etichetta autoadesiva. Dato che un archivio prevede sezioni stratigrafiche da dipinti con differenti tipi di supporto, può essere utile assegnare all'etichetta una colorazione specifica che consenta una prima identificazione rapida relativamente al tipo di supporto. A questo scopo, ad esempio, si può impiegare: • grigia per campioni da dipinti murali • bruna per campione del dipinti su supporto ligneo • gialla per campioni da dipinti su tela. Ecc. Ogni contrassegno dovrà recare sia i dati relativi al dipinto da cui il campione è stato prelevato, sia quelli relativi alla sezione, o serie di sezioni, da uno stesso dipinto. Ad esempio: L’etichetta viene divisa in due settori: A e B. • A: riporta i dati relativi al dipinto • B: riporta i dati relativi alla sezione. Fig. Settore A: - prima viene indicato il numero che si riferisce al dipinto (dipinto: scheda-madre); - poi la data (mese ed anno) in cui dal dipinto è stato prelevato il campione, o serie di campioni. Settore B: - prima si ha il numero d'ordine crescente del registro archivio sezioni, con l'indicazione 0 (opaca, oppure i (trasparente) - Poi il numero d'ordine crescente relativo a ciascun prelievo effettuato dal dipinto - segue il numero totale dei prelievi effettuati l'altro stesso periodo. Così è la sezione opaca numero tre di un gruppo di sei sezioni prelevate dal dipinto murale numero 121 nel marzo del 1978, ed è la 186ma sezione archiviata dalla laboratorio. L'archiviazione completa prevede l'esistenza di: - Scheda-madre del dipinto - Registro prelievi - registro “archivio sezioni e documentazione”. L'operazione perciò prosegue riportando i dati: a. sul registro “archivio sezioni e documentazione” b. scheda-madre. a. Organizzato per numero d'ordine crescente, il registro da unicamente i dati che compaiono sull'etichetta che contraddistingue la sezione. Lo stesso numero contrassegna anche la documentazione (relazione e relativi allegati grafici o fotografici), che rimane così sempre strettamente legata alla sezione. b. la scheda madre del dipinto ha un settore riservato ad analisi ed esami e, sotto la voce sezioni stratigrafiche, riporta i dati relativi al numero di prelievi per sezioni effettuate nel tempo (dati forniti dal registro prelievi) con a fianco il numero di riferimento al registro “archivio sezioni e documentazione”. Il registro”prelievi” è un registro di lavorazione, utile durante la redazione della relazione; esso rimanda principalmente alla scheda madre, che raccoglie tutti i dati relativi al dipinto. Per risalire alle informazioni si dovrà consultare la scheda madre; nel settore riservato alle sezioni stratigrafiche si hanno le indicazioni sul numero di prelievi e, quando effettuati, con a fianco numero di riferimento che permette a) di rintracciare la sezione e b) di rintracciare la documentazione. Vanno previsti contenitori adatti alla conservazione di: • Sezioni stratigrafiche opache • Sezioni stratigrafiche trasparenti • Relazioni e documentazione grafica e/o fotografica. Vantaggi e svantaggi del metodo. Vantaggi. I due principali vantaggi sono: • Può essere ottenuta una grande quantità di informazioni da una quantità molto piccola di materiale. Con una sola analisi può essere identificata allo stesso tempo la sequenza degli strati di pittura in un dipinto insieme al loro colore e stesura, i loro spessori possono essere misurati insieme con le particelle di pigmento e i pigmenti stessi possono essere analizzati chimicamente come anche il legante. • Grazie al prelievo di un piccolo frammento di pittura dal dipinto è possibile effettuare su di esso delle operazioni che sarebbero inopportune o comunque pericolose se fossero realizzate sul dipinto direttamente. In questo modo può essere trovata una miscela efficiente, ma non dannosa di solventi per rimuovere le sovrapitture. Test con reagenti forti possono essere eseguiti in sicurezza lontano dal dipinto, finché i loro effetti sul dipinto non siano conosciuti. Non sarebbe possibile portare avanti test di questo tipo in una così piccola scala sulla superficie di un dipinto, anche utilizzando un microscopio bioculare, aumentando notevolmente la difficoltà di fatto operando con un reagente in zone così ristrette del dipinto. Svantaggi. • Considerando che l'aspetto estetico non può esser danneggiato, possono essere rimossi soltanto campioni di pittura estremamente minuti dal dipinto e, in questo modo la quantità di materiale disponibile per lavorare è molto poca e molto piccola. Il vantaggio di ciò è che in qualche modo vengono usati dei metodi speciali. • Studi a lungo termine della tecnica pittorica di un artista o della struttura di una pittura mediante questo metodo richiederebbe numerosi campioni e le sorgenti per questo tipo di campioni sono piuttosto limitate. Nella National Gallery, per esempio, i campioni sono stati fino ad oggi presi solo da dipinti in corso di restauro e quindi di solito possono esser ottenute informazioni che siano utili per il restauratore che sta lavorando su quel dipinto.. • Esiste quello che può esser chiamato pericolo statistico, cioè non si può esser certi che un millimetro quadro o meno di pittura sia rappresentativo dell'intera area studiata che può esser di più di qualche centinaia di cm2, anche se ad occhio nudo quell'area può sembrare uniforme in colore e stesura.. Dove è stato possibile si sono fatte de sezioni nelle aree adiacenti e simili del dipinto. D'altro canto, fattori imprevedibili, temperamento artistico, una pulitura del pennello dell'artista su uno spigolo del dipinto sono tutti fattori che devono essere considerati. Procedura nella National Gallery. Deve essere chiarito che nella collezione di sezioni di dipinti della National Gallery (quelle che hanno attuale interesse ora sono un numero maggiore di 200) sono state eseguite in un primo momento allo scopo di risolvere problemi specifici del restauratore. A partire da questo momento gli esempi dei dipinti della National Gallery citati sono praticamente tutti da dipinti restaurati negli ultimi cinque anni durante i quali è stato portato avanti il lavoro sulle sezioni stratigrafiche. Questa è la ragione per cui sembra qualche volta illogica ed eterogenea la selezione delle illustrazioni. C'è la fortuna che gli esempi coprono un periodo di tempo abbastanza vasto che comprende la maggior parte delle scuole europee. In più bisogna ringraziare coloro che hanno donato campioni di pittura da dipinti di altre collezioni e che hanno allargato considerevolmente l'ambito di questo studio. Quando un campione di pittura viene rimossa dal dipinto dal restauratore, questo viene fatto con un piccolo coltello con punta affilata. Il coltello è inserito in una fessura, di preferenza , nella pittura e quindi facendo leva viene staccato un piccolo pezzo, l'operazione deve essere eseguita con l'ausilio di un mezzo di una lente di ingrandimento o un binocolo o lavorando sotto microscopio. È preferibile che il dipinto sia adagiato orizzontalmente, in questo modo ogni particella che si stacca per quanto piccola può essere salvata. Lo scalpello può essere umidificato con della saliva per aiutare il frammento di pittura ad aderire ad esso. L'uso del balsamo del Canada o di vernice è possibilmente da evitare, per le difficoltà che essi causano durante la successiva analisi chimica. Il campione principale ed ogni piccolo grano di pittura che cade da esso vengono prelevati con una leggera spazzola umida e se è richiesto per un utilizzo immediato, vengono collocati su un vetrino di microscopio, altrimenti tali campioni possono essere convenientemente conservati in piccole capsule di gelatina usate per scopi farmaceutici. Essi vengono etichettati con cura e se c'è qualche dubbio sull’esatta collocazione di origine del campione dal quale sono stati presi possono essere trovate e misurate le coordinate del punto di prelievo sul dipinto. Bisogna ammettere che il metodo di rimozione del campione dal dipinto è in qualche modo cruento e non totalmente soddisfacente. In passato sono stati fatti numerosi tentativi per inventare un adatto strumento per questo genere di intervento. Laurie ebbe l'idea di usare un ago ipodermico affilato, ma tale metodo non è stato adoperato poiché la pressione necessaria per il suo utilizzo tende a frantumare la fragile pittura ed anche per la difficoltà di estrarre intatto il campione fuori dal condotto interno dell'ago. Il campione di pittura è rimosso nel laboratorio ed osservato sotto microscopio a bassa potenza (30 x fino a 150 x di solito rappresentano un intervallo adatto di ingrandimento). I requisiti per il microscopio non sono molto precisi. Essi sono stati stabiliti da Gettens e da un ulteriore lavoro di Gettens e Stout ( essi hanno anche fatto un’analisi utile degli strumenti e dell'equipaggiamento). In aggiunta a un microscopio ordinario (o per scelta ad uno chimico) è spesso utile un microscopio stereoscopico binoculare. Un microscopio con polarizzatore e con prisma analizzatoredi Nicol risulta anche valido se devono essere eseguite identificazioni di molti pigmenti.. Una sorgente luminosa potente come una "Pointolite" è essenziale, come anche una sorgente a luce bianca. A proposito di quest'ultima il laboratorio della National Gallery possiede una piccola lampada per microscopio a luce diurna con tubo fluorescente; essa è utile per analizzare il colore a bassi ingrandimenti. L'aspetto della superficie superiore ed inferiore di un dipinto viene annotata e il frammento più grande viene usato per preparare la sezione stratigrafiche, il resto è tenuto da parte per l'analisi chimica. La sezione levigata viene quindi esaminata sotto microscopio con uno un ingrandimento adatto. Lo spessore degli strati di pittura e le particelle di pigmento più grossolane possono essere misurate usando una oculare con una scala calibrata. In più, mediante osservazione del colore, della misura e della forma della particella, dell'opacità e della trasparenza, della cristallinità, eccetera, dei pigmenti è possibile individuare abbastanza esattamente la gamma di possibili pigmenti presenti anche molto prima di procedere l'analisi chimica. Un inequivocabile aiuto in questo stadio è una collezione più completa possibile di pigmenti conosciuti inseriti nelle medesime resine per confronto. Quelle usate al momento alla National Gallery sono inglobate nel balsamo del Canada, ma è inteso che nel prossimo futuro questo verrà rimpiazzato con nuovi materiali mediante metodi più moderni come quelli descritti da Charlett. Dopo aver completato l'esame ottico, la sezione del dipinto può essere soggetta ad una serie di test con solventi, test colorimetrici e altri testi chimici, che saranno descritti più tardi in questo articolo. Ulteriori testi chimici sono quindi fatti sul campione rimanente che non è stato inglobato nella resina. E’ inclusa una serie di test con solventi nel tentativo di identificare il legante presente nel campione, ciascun reagente viene evaporato o rimosso attraverso filtrazione o attraverso tubi capillari prima che il successivo sia aggiunto. Queste tecniche usate su così piccole quantità di materiali sono ampiamente descritte nel manuale di Chamot e Masons. Quanto detto sopra è quindi uno schema generale di analisi. La sua applicazione e i risultati saranno esaminati ora in dettaglio. Le osservazioni fatte sulle sezioni stratigrafiche saranno discusse e le conclusioni tratte saranno confrontate con l'analisi chimica della pittura. I test chimici per i pigmenti ed i leganti saranno descritti in dettaglio alla fine di questo articolo. La struttura a strati di un dipinto. La prima e la più ovvia caratteristica che deve essere osservata nella sezione di una pittura è la sequenza degli strati presenti. Spesso viene stabilito che i quattro principali strati di ogni pittura sono supporto, preparazione, pittura e rivestimento superficiale. È possibile fare una sezione per mostrare tutti questi strati, ma in pratica il supporto viene spesso omesso poiché esso può normalmente venire esaminato dal retro del dipinto. È consigliabile cercare di includere almeno parte dello spessore della preparazione o imprimitura, anche solo per essere sicuri che tutti gli strati della pittura siano presenti. I primi tre esempi illustrati includono anche i supporti con lo scopo di mostrare in scala gli strati e la loro correlazione con le differenti componenti di una pittura: figura 1 affresco romano 200 a.C. L'intonaco del muro è straordinariamente ruvido e mescolato con polvere di marmo grossolana. Anche le particelle di pigmento blu sono molto grossolane. È stato trovato che sono circondate da cristalli di carbonato di calcio. Non c'è vernice.. Una struttura così grezza è chiaramente tipica di tinture su muro. Figura 2 pannello dipinto. Cristina di Danimarca, duchessa di Milano. Pittura blu da retro. Possono essere osservate le fibre di vetro sul pannello di quercia. Ci sono due strati di carbonato di calcio e di colla e gesso. La maggior parte dei pannelli hanno sempre uno spesso strato di gesso se confrontato con lo spessore degli strati di pittura (pannelli olandesi del XVII secolo sono una eccezione da notare). Sopra il gesso c'è una sola pittura di bianco di piombo. I due o tre strati di pittura mostrati dimostrano la presenza di ridipitture. Sono presenti tracce di vernice, ma non nella parte della sezione mostrata nella fotografia. Il legante dello strato di pittura è l'olio. Figura 3 pittura su tela (scuola inglese XVII secolo). Qui la tela appare in un ordito di filo in direzione della lunghezza della sezione e con la trama di filo distanziata ad intervalli perpendicolari al piano della carta. Questa pittura è piuttosto atipica avendo un così scarso strato di imprimitura. Il singolo strato di pittura consiste di bianco di piombo e un pigmento blu, smalto, in un legante oleoso. Le pitture murali non saranno discusse qui ulteriormente, dopo questo breve confronto. Il resto della discussione sarà trattata esclusivamente sui dipinti su tela e pannelli. Sezioni stratigrafiche come aiuto nel restauro dei dipinti E’ già stato menzionato che la prima ragione per prelevare campioni di pittura da dipinti nella National Gallery è stato quello di fornire informazioni al restauratore che lavorava sul dipinto.. I pochi esempi seguenti sono quelli in cui lo studio di sezioni stratigrafiche è risultato essere di grande valore per i restauratori: n.2475, Hans Holbein, il giovane, Cristina di Danimarca, duchessa di Milano. Sono stati eseguiti test di pulitura su questo dipinto allo scopo di essere esibito alla Esibizione d'Inverno della Royal Academy dei lavori di Holbein e altri maestri tenutasi nel 1950-19051. Le radiografie che sono state fatte dell'intero dipinto hanno mostrato chiaramente che oltre che sul viso c'erano dei danni in altre parti del dipinto, compreso il fondo blu scuro. Un test di pulitura sullo sfondo ha mostrato che sotto lo strato di vernice superficiale c'era una ridipittura blu scura, sotto la quale ancora, sembrava esserci uno spesso strato grigio-verde di vernice colorata. Fu fatta così una sezione stratigrafica allo scopo di spiegare la presenza di questi strati e la natura dei pigmenti nei vari strati di pittura e furono anche analizzati i tamponi di pulitura. La sezione stratigrafica è mostrata in figura 2. I suoi strati sono già stati brevemente descritti nel paragrafo precedente. Sono stati rinvenuti tre strati di pittura blu, lo strato v, vi, e vii nella figura 2. Essi sono stati esaminati e si è trovato che: v. il sottile strato di blu scuro che si assottiglia e scompare completamente nel centro della sezione è composto da azzurrite in legante oleoso. vi. lo spesso strato di pittura granulare grigio-verde ha alcune particelle blu scuro e alcune particelle biancastre visibili ed legante è un olio e una vernice ad olio-resina: che si è scolorita ed è diventata opaca. Sciogliendo il legante, si possono vedere cristalli blu di azzurrite. vii. il sottile strato di pittura blu scura è una miscela di azzurrite, blu di Prussia, e bianco di piombo in un legante olio-resina:. La discontinuità dello strato (v) deve rappresentare una caduta di colore nel dipinto originale di Holbein. Questo strato originale di pittura blu ha mantenuto il suo colore blu brillante, a causa del legante oleoso che è stato usato moderatamente e non sembra essersi scolorito. Lo strato (vi) si sovrappone allo strato perso (v) e quindi è una ridipittura. Sciogliendo il legante è stato trovato che era pigmentato con alcuni pigmenti cristallini di blu brillante, azzurrite, come la pittura originale, ma il legante usato è stata una vernice di olio-resina: in grande eccesso rispetto al pigmento. Con il tempo questo legante è ingiallito, è diventato opaco e si è disintegrato rivestendo i cristalli di pigmento blu con una uno strato opaco praticamente giallo-marrone in modo tale che la pittura nel suo insieme appare di un colore di grigio-verde. Dopo essere stata effettuata questa modifica nella ridipittura, il colore dello sfondo del dipinto doveva essere diventato davvero molto opaco. Una seconda ridipittura fu quindi eseguita, ed è rappresentata dalla strato (vii). Si trovò che sebbene questo strato finale contenesse lo stesso pigmento, azzurrite, come il dipinto originale, esso conteneva anche blu di Prussia, e poiché questo fu inventato non prima del 1704 non poteva essere stato usato da Holbein. Sfortunatamente, dopo questi test, la pulitura del dipinto fu temporaneamente rimandata tenendo conto della lunghezza dei tempi che erano necessari per rimuovere le dette ridipitture e riparare le aree danneggiate, e anche in considerazione del piuttosto povero stato di conservazione del viso della duchessa. È interessante notare che nell'esibizione furono mostrate contemporaneamente due versioni di questo stesso dipinto di Holbein (nel catalogo n.22, studio di Hans Holbein, il giovane, e n. 23, dopo Holbein). In entrambi questi dipinti lo sfondo delle figure era abbastanza brillante, leggermente blu-verdastro molto simile allo sfondo delle miniature ritratto di Holbein, e l'effetto della figura in contrasto con lo sfondo è molto più efficace. Nel dipinto della National Gallery, oltre al cambiamento di colore provocato, la ridipittura si è visto che è stata eseguita lungo i bordi della figura in alcuni punti, specialmente intorno alla spalla destra e a fianco della testa. N.292, Pollaiuolo, martirio di San Sebastiano. Questo quadro presentava molti problemi complessi per il restauratore, alcuni dei quali furono risolti con l'aiuto delle sezioni stratigrafiche. Prima di tutto, dopo avere rimosso la vernice scolorata con a una miscela di solventi organici normalmente usati, si trovò che dipinto era ancora coperto da un film grigio opaco. Fu necessario accertarsi che questo fosse stato aggiunto successivamente sul dipinto e non fosse una stesura originale prima di rimuoverlo dal quadro. Furono fatte sezioni stratigrafiche su varie zone del dipinto. Una di queste, dal cielo blu pallido, mostrò che lo strato grigio penetrava attraverso una fessurazione nello strato di pittura blu. Questo viene mostrato nella figura . La fotografia è stata presa con un'illuminazione eccessiva che evidenziava la tonalità scura dello strato grigio per mostrare più chiaramente il distacco delle figure. Si trovò, sia da un attento esame della superficie del dipinto da parte del restauratore, sia mediante lo studio delle sezioni, che sebbene lo spessore dello strato variava leggermente nelle differenti zone del dipinto, ciò accadeva in maniera molto logica come ci si sarebbe aspettato con una smaltatura e usata per modellare. Frammenti dello strato grigio stesso furono esaminati al microscopio e sottoposti a test con solventi. Si scoprì che era un film di olio essiccato, con la possibilità di piccole aggiunte di resina. Esso era stato deliberatamente pigmentato, sebbene sono state inglobate particelle di polvere sparse , probabilmente durante il suo essiccamento. Il grigiore e l'effetto opalescente del film sul dipinto era dovuto probabilmente allo scattering della luce sulla superficie a causa del fine sgretolamento e disintegrazione del film, che poteva chiaramente esser osservato microscopio. Si decise di rimuovere lo strato grigio dal dipinto. Usando un solvente a media alcalinità. Sezioni stratigrafiche furono inoltre effettuate da diverse zone verdi e marroni delle foglie allo scopo di scoprire il loro stato di conservazione. In confronto alcune zone erano di un verde brillante. Una sezione di queste è mostrata nella figura 7. Gli strati osservati sono: • uno spesso strato di gesso e solfato di calcio e colla; • una sottile linea marrone di imprimitura a colla; • una sottopittura giallo-marrone consistente di bianco di piombo e marrone e ocra gialla in mezzo oleoso; • il principale colore a corpo che è un debole verde e contiene bianco di piombo, probabilmente mischiato con ossido di piombo giallo, colorato di verde con resinato di rame e contenente numerosi cristalli di verde scuro di verdigris, alcuni molto grandi; • tracce di un resinato di rame brunito a smalto (non facilmente visibile nella fotografia). Sfortunatamente su altre parti del dipinto il verde fu realizzato solo mediante uno spesso strato di resinato di rame sopra una sottopittura gialla o marrone lucente, quando lo smalto si è scolorito, il colore verde non è rimasto più lungo. In alcuni casi la sola traccia visibile di verde è dovuto ai cristalli di verdigris occasionale immersi nel resinato di rame brunito. Nonostante ciò l'alta concentrazione di ioni rame e l'assenza di ogni altro pigmento marrone mostra che questi strati marroni deteriorati hanno avuto origine dal resinato verde. Le antiestetiche bolle che compaiono sulla superficie in alcune zone scure del dipinto dimostrano che è stato usato del pigmento bituminoso per le ombre che è penetrato nello strato sottostante rovinandolo.