2 g di

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I Resin soaps di Richard Wolbers.
Negli anni 80, Richard Wolbers, ricercatore e delle Winterthur Museum in
Wilmington, Delaware, ha sviluppato i cosiddetti Resin soaps, tensioattivi
anionici moderatamente alcalini, adatti per la rimozione di vernici a base
di resine naturali, dando cosi una nuova veste, più scientifica, al vecchio
ma pur sempre valido principio similia a similibus solvuntur, il simile
sciogliere il simile.
I1 termine soaps sta ad indicare che si tratta appunto di tensioattivi
anionici, cioe saponi, e il termine Resin che sono attivi su materiali
resinosi.
L'azione dei Resin soaps è la risultante di due diversi processi chimicofisici, resi possibili dalle particolari proprietà di queste molecole: le
normali proprietà tipiche di un sapone (cioè quelle superficiali e
detergenti) e la natura alcalina. Queste sono responsabili,
rispettivamente, della capacità bagnante, emulsionante e detergente e di
una certa azione ionizzante e dissociante nei confronti di substrati
macromolecolari aventi caratteristiche acide.
Oltre a queste proprietà, tipiche di tutti i saponi in generale, i Resin soaps
possiedono una particolare proprietà, correlata alla loro struttura chimica,
che li differenzia da tutti gli altri saponi. Questa è la proprietà chimicofisica che potremmo definire come affinità strutturale al substrato su cui
agiscono.
I Resin soaps
Tensioattivi anionici e moderatamente alcalini, adatti per la rimozione di vernici a
base di resine naturali
Similia a Similibus Solvuntur
Proprietà chimico-fisiche
proprietà superficiali
e detergenti
natura alcalina
• capacità bagnante
• emulsionante
• detergente
• azione ionizzante
•azione dissociante
affinità strutturale
al substrato su cui
agiscono
Composizione e modo d'azione. Consideriamo infatti i componenti dei due
Resin soaps, l ' acido abietico (ABA il costituente principale della colofonia
naturale) e l’acido deossicolico (DCA, un componente della bile umana)
costituiti, rispettivamente, da una struttura terpenica e una steroidea.
Entrambe le molecole sono acide, per la presenza del gruppo carbossilico
(-COOH): possono dunque essere salificate per reazione con una base. Il
corrispondente sale è idrosolubile e, dissociandosi in acqua, libera un
anione con proprietà di tensioattivo, in quanto possiede i requisiti
strutturali che abbiamo precedentemente discusso:
• una parte lipofila (la lunga catena idrocarburica in forma ciclica,
20 atomi di carbonio nel caso di ABA e 24 nel caso di DCA)
• e una idrofila (il gruppo carbossilato).
Una soluzione acquosa di questi Resin soaps si comporterà dunque come
un tensioattivo anionico.
Occorre dunque salificare queste due molecole con una base, in modo
da ottenere i corrispondenti sali, e si può fare con una varietà di basi
organiche e inorganiche.
Secondo la preparazione originale di Wolbers, ad esempio, ABA può
essere salificato con la base organica trietanolammina, TEA, formando il
corrispondente sale, trietanolammonio abietato, ABA-TEA, come
mostrato.
Tra le diverse basi provate (monoetanolammina, dietanolammina,
trietanolammina, idrossido di ammonio, idrossido di sodio), o possibili,
TEA ha mostrato le migliori caratteristiche
• dal punto di vista della solubilizzazione del sale,
• contenuto valore di pH,
• carattere non caustico
• e non tossico.
Composizione e modo d'azione
I componenti dei due Resin soaps
salificato con una base
sale idrosolubile
anione con proprietà
di tensioattivo
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Visto the i Resin soaps si propongono come alternative non tossiche
rispetto certi metodi tradizionali, non avrebbe molto senso utilizzare nella
loro preparazione dei componenti pericolosi o tossici.
In modo del tutto analogo, DCA salificato con TEA formerà il
corrispondente sale trietanolammonio deossicolato, DCA-TEA.
Questi due sali in soluzione acquosa (in cui possono dissociarsi) si
comporteranno dunque come tensioattivi anionici, o saponi (soaps).
Agiranno come abbiamo descritto in precedenza:
• avranno attività superficiale,
• attraverso la formazione di micelle, avranno potere emulsionante
e detergente.
Ma queste sono azioni del tutto generali per tutti i tensioattivi.
La caratteristica particolare di questi soaps stà nella loro struttura.
Notiamo infatti la somiglianza strutturale tra queste due molecole e quelle
a carattere terpenico, mostrate nella figura , costituiscono la maggior
parte delle resine naturali, da sempre usate nelle preparazioni di vernici
finali per opere d'arte policrome.
Grazie alla somiglianza strutturale, delle molecole del sapone sono in
grado di avere una particolare interazione specifica , c o n le molecole della
resina naturale.
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I1 meccanismo d'azione del sapone può dunque essere schematizzato
come nelle figure.
1. Immaginiamo uno strato continuo di vernice, costituito da
molecole di una resina naturale, essenzialmente a carattere lipofilo
idrorepellente, che quindi non può essere efficacemente bagnato
dalle molecole della soluzione acquosa soprastante.
2. Se aggiungiamo del Resin soaps, la soluzione acquista le tipiche
proprietà tensioattive e detergenti ed è in grado di bagnare lo strato;
stabilito il contatto, le molecole del sapone possono interagire
grazie alla loro somiglianza strutturale con le molecole di resina.
3. A questo punto le molecole di sapone sono in grado di sequestrare
le molecole di resina e portarle in soluzione (ovviamente si
formeranno le micelle, che qui non sono mostrate solo per
semplificare la rappresentazione). In questo modo il sapone riesce a
disgregare e solubilizzare lo strato inizialmente compatto e
insolubile.
meccanismo d'azione
I Resin soaps
vengono preparati
come soluzioni
addensate per
l’importanza del
contatto superficiale
I Resin soaps sfruttano per la loro azione di disgregazione dello strato, il
principio dell'affinità, non è detto invece che siano i migliori tensioattivi dal punto di
vista del potere solubilizzante
Questo principio della affinità è ben noto in biochimica in molte
operazioni di purificazione di complesse miscele di macromolecole si
sfruttano appunto le interazioni specifiche che si instaurano, a seguito
della somiglianza strutturale, tra le macromolecole da separare e un
supporto inerte, contenente molecole simili, attraverso il quale si fanno
passare le soluzioni da purificare (ad esempio in quella tecnica analitica
che viene definita. Cromatografia per affinità).
Ovviamente, essendo una soluzione detergente, il Resin soaps dovrà
essere in concentrazione almeno uguale alla sua CMC, in modo da poter
formare micelle.
Questa affinità strutturale rende dunque i Resin Soaps particolarmente efficaci
nella rimozione di vernici a base di resine naturali, anche invecchiate
DCA nei confronti di vernici più
vecchie (resine più consolidate e
quindi più polari)
ABA può risultare più efficace nei
confronti di vernici più recenti
(resine meno ossidate e quindi
meno polari),
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Siccome è particolarmente,importante il contatto con la superficie, (e,
generalmente, questa superficie ha un forte carattere idrorepellente), fino
dall'inizio i Resin soaps sono stati preparati come soluzioni addensate.
Questo accorgimento permette inoltre
• di localizzarne meglio 1'azione,
• e di ritardare la diffusione del mezzo acquoso negli strati sotto
la superficie.
Non sempre si ha solubilizzazione completa della vernice: 1'azione del
sapone disgrega comunque lo strato a un livello sufficiente da
permetterne la rimozione con mezzi meccanici (la semplice azione di
sfregamento del tampone) o con una soluzione acquosa di un altro
tensioattivo.
I Resin soaps, infatti, sfruttano per la loro azione di disgregazione dello
strato, il principio dell'affinità: non è detto invece cthe siano i migliori
tensioattivi dal punto di vista del potere solubilizzante: tensioattivi con
HLB più alto possono di fatto solubizzare meglio, e quindi asportare
meglio i frammenti dello strato vernice cosi prodotto.
Questa affinità strutturale rende dunque il Resin soaps particolarmente
efficaci nella rimozione di vernici a base di resine naturali, anche
invecchiate.
Dalle strutture di ABA e DCA è facile vedere che il primo è meno polare
del secondo: quest'ultimo infatti oltre al gruppo carbossilico contiene altri
due gruppi ossidrilici, -OH, fortemente polari. Dal punto di vista
applicativo, ABA può dunque risultare più efficace nei confronti di vernici
più recenti (resine meno ossidate e quindi meno polari), e DCA neI
confronti di vernici più vecchie (resine più consolidate e quindi più polari).
I Resin soaps inglesi.
Altri due Resin soaps sono stati sviluppati successivamente alla National
Gallery di Londra da Raymond White, partendo da due composti diversi,
appartenenti alla classe degli idrocarburi e aromatici policiclici: acido
antracen-9-carbossilico e (A9C) e acido 9-fluorenon-4-carbossilico
(9FOC).
A questi due saponi viene attribuita una migliore affinità per le molecole
di resina ossidate, grazie ad una migliore interazione strutturale tra le
molecole di sapone e quelle di resine. Chiariamo questo punto.
Le rappresentazioni che utilizziamo per le strutture chimiche sono planari,
ma rappresentano solo una comoda semplificazione: le molecole in
questione, infatti hanno una loro tridimensionalità. Consideriamo ad
esempio 1'acido abietico, nella sua più corretta rappresentazione
tridimensionale, mostrata nella figura.
La struttura è planare solo dove i doppi legami (che sono planari)
costringono le immediate vicinanze ad una certa planarità. Questo si
verifica nel primo anello a destra. Il resto della molecola è
fortemente distorta, fuori dal piano.
Quando 1'acido abietico è invece nella forma ossidata, come è l’acido 7oxodeidroabietico, tutto il terzo anello è diventato aromatico (e quindi
planare), e in più si è formato un nuovo doppio legame carbossilico, C = O, che costringe anche al secondo anello a una quasi planarità. Nelle
resine ossidate ci sarà in prevalenza quest'ultima forma di molecole,
mentre nei Resin soaps ABA-TEA ci sarà la forma non ossidata:
strutturalmente (in termini di planarit y ) questa affinità sapone vernice
potrebbe senz'altro e s s e r e migliore.
E' probabile, questo è il ragionamento alla base dello sviluppo del Resin
Soaps di White che una molecola nel complesso planare, riesca ad avere
una maggiore affinità, e quindi una migliore interazione con molecole
di resina ossidate. Saponi costituiti da A9C e 9FOC (che sono
completamente planari come tutti gli idrocarburi aromatici)
avrebberodunque una migliore attività rispetto quelli di ABA e DCA, nei
confronti di resine terpenica ossidate.
Questo è stato anche verificato nella pratica: questi due Resin soaps sono
attivi a pH anche meno basico di ABA-TEA e DCA-TEA. Sfortunatamente
gli idrocarburi aromatici e policiclici sono composti a cui è solitamente
associata elevatissima tossicità: tra loro sono infatti annoverati alcuni dei
più potenti cancerogeni. Anche se questa potenziale tossicità non è
dimostrata per i due composti specifici A9C e 9FOC, è evidentemente un
una certa riluttanza a proporli come alternative a basso rischio, come
sono invece i Resin Soaps di Wolbers.
I solvent gels di Richard Wolbers.
Il solvent gels, anch'essi introdotti da Richard wolbers negli anni 80, sono
tensioattivi in soluzione addensata acquosa e solventi organici.
Sono però preparazioni multi -componenti, non più solo tensioattivi come i
Resin soaps.
I solvent gels
Sono tensioattivi in soluzione acquose addensate e solventi organici
Sono preparazioni multi-componenti che combinano:
•potere solvente dei solventi organici
•potere solvente dell'acqua
•leggera alcalinità
•capacità tensioattiva
•Il tutto in presenza di una addensante che impartisce elevatissima viscosità al gel
Precisamente combinano
• il potere solvente del solventi organici
• con quello peculiare dell'acqua,
• con la capacità tensioattiva,
• e con una leggera alcalinità.
• I1 tutto in presenza di una addensante
elevatissima viscosità al gel.
cthe
impartisce
Abbiamo già discusso come, dal punto di vista strettamente chimico, il
successo di un'operazione di pulitura effettuata con solventi organici stia
nell'abilità a sciogliere certi materiali (la vernice, o più in generale il
materiale filmogeno superficiale da rimuovere) senza invece
solubizzarne altri (quelli originali dell'opera, presenti negli strati
sottostanti). Se si utilizzano solventi, questo può avvenire con quelli che
abbiano una polarità simile a quella del materiale resinoso e costituente
la vernice, e sufficientemente dissimile da quella degli altri materiali,
così da garantire la selettività d'azione.
Quando invece la polarità del materiale da rimuovere e dei materiali
costitutivi sono troppo simili, la pulitura è a rischio, e per poterla
compiere con un certo margine di sicurezza si devono adottare delle
precauzioni operative the limitino la diffusione del solvente negli strati
pia interni.
In realtà, però, è difficile pensare ad una vernice come ad uno strato dalle
caratteristiche omogenee in tutti i suoi punti, e quindi avente tutto la
stessa polarità. Lo strato, infatti, riflette anche le caratteristiche dello
strato di colore sottostante, il suo diverso contenuto di legante nelle varie
campionature cromatiche, e quindi il suo diverso grado di alterazione e la
sua disomogenea acidità e polarità. 1l restauratore spesso si rende conto
di questa discontinuità nella pratica della pulitura: la miscela
solvente sembra agire di più in certe zone, di meno in altre.
Piuttosto che mettere a punto una miscela solvente a polarità costante
che possa centrare la polarità del materiale superficiale in tutte le sue
zone, questo il ragionamento di Wolbers, cerchiamo di riunire nella
stessa preparazione,componenti a polarità diverse, anche diametralmente
opposte, che possano quindi essere attivi su tutta la superficie_ Per
mantenere la selettività d'azione superficiale sarà però indispensabile
dare alla miscela altissima viscosità, in modo da reprimere la diffusione
dei componenti sotto la superficie. Così, detto in maniera un pò
semplificata, sono nati i solvent gels. Ma vediamo di descrivere più in
dettaglio i vari componenti.
Composizione e modo d'azione.
Cominciamo da uno del due componenti fondamentali: 1'addensante.
Dall'acido acrilico e per polimerizzazione si ottiene 1 ' omopolimero acido
poliacrilico, la cui struttura.
Questa
molecola
ha
peculiari:
• le dimensioni
• e la funzionalità acida.
due
caratteristiche
Composizione e modo d'azione
addensante
acido acrilico
polimerizzazione
Distensione per:
• contatto con l'acqua
• neutralizzazione con
una base
Innanzitutto, se consideriamo che il peso molecolare di questa
macromolecola può arrivare fino a circa 30.000 Dalton, e che quello del
monomero costituente è 70 Dalton, ne consegue cthe il polimero può
contenere anche più di 400 monomeri legati tra loro: dimensioni
effettivamente molto grandi.
Le catene di questa macromolecola, che nello schema abbiamo indicato
per semplicità in forma lineare, sono in realtà avvolte in forma
raggomitolata, ma possono essere fatte allungare in modi diversi.
Quando in forma distesa, il polimero manifesta proprietà addensanti nei
confronti di soluzioni acquose e di solvent organici, formando gels di
altissima viscosità (fino a 50.000 mPas), caratterizzati da fortissima
ritenzione di solvente (decisamente superiore a quanto ottenibile e
usando come addensante i vari eteri di cellulosa).
• La distensione della macromolecola può essere provocata dal
contatto con 1 ' acqua, e in questo caso è lenta,
• oppure dalla neutralizzazione con una base, e in questo caso avviene
rapidamente.
I gruppi carbossilici (-COOH), acidi, presenti ogni due atomi di
carbonio, possono essere sacrificati per azione di una base, producendo
i corrispondenti anioni carbossililato. Quando questo avviene, tra le
cariche elettriche negative formatisi si esercitano forze repressive the
tendono ad allontanarle reciprocamente
La base the reagisce sacrificando 1'acido poliacrilico, viene a trovarsi
chimicamente legata, in forma di sale, alle macromolecole della acido
stesso. Basi adatte alla neutralizzazione sono le comuni basi inorganiche,
1'idrossido di sodio e idrossido di ammonio, o basi organiche come la
trietanolammina o altre ammine.
Qualunque base, ad esempio 1'idrossido di ammonio, potrebbe svolgere
quest'azione di neutralizzazione. Se però utilizziamo una base che abbia
anche proprietà tensioattive, come un'ammina polietossilata, otteniamo un
secondo, importante risultato: il complesso acido poliacrilico/base
acquista anche proprietà tensioattive, cioè di emulsionante e di
detergente.
Questa sostanza, 1 ' ammina polietossilata, è il secondo componente
caratteristico del solvent gels.
Se si utilizza una base che abbia
anche proprietà tensioattive, come
un'ammina polietossilata
il complesso acido poliacrilico/base
acquista anche proprietà tensioattive,
cioè di emulsionante e di detergente.
Abbiamo già visto the può agire da tensioattivo anionico in ambiente
acido (come in questo caso, vista la presenza dell’addensante acido).
In quanto ammina, può essere sacrificata con 1'acido poliacrilico, come
mostrato.
Possiamo così riassumere i vantaggi che si ottengono da questa
particolare combinazione dei due reagenti:
•
L'acido poliacrilico, l'addensante, per le sue dimensioni molecolari,
ha verosimilmente poca tendenza a diffondere nella porosità del
materiale;
•
Quando salificato con un'ammina etossilata, forma il corrispondente
sale e manifesta proprietà addensante;
•
L'addensante e il tensioattivo sono ora chimicamente legati tra loro:
in altre parole, 1'addensante acquista ora anche proprietà
tensioattive;
•
L'ammina polietossilata, che di per se sarebbe un componente non
volatile, con forte capacità di diffondere sotto la superficie e a
forte ritenzione dentro gli strati, trovandosi ancorata ad una macro
molecola acquista azione superficiale.
Possiamo così riassumere i vantaggi che si ottengono da questa particolare
combinazione dei due reagenti:
•L'acido poliacrilico, l'addensante, per le sue dimensioni molecolari, ha
verosimilmente poca tendenza a diffondere nella porosità del materiale;
• Quando salificato con un'ammina etossilata, forma il corrispondente sale e
manifesta proprietà di addensante;
•L'addensante e il tensioattivo sono ora chimicamente legati tra loro: in altre
parole, l'addensante acquista ora anche proprietà tensioattive;
•L'ammina polietossilata, che di per sé sarebbe un componente non volatile, con
forte capacità di diffondere sotto la superficie e forte ritenzione dentro gli strati,
trovandosi ancorata ad una macro molecola acquista azione superficiale.
In queste preparazioni viene dunque massimizzata l'azione
superficiale e repressa quella di diffusione sottosuperficiale dei vari
costituenti
A questo punto, come componenti liberi restano i solventi organici e
l ' acqua. Anche questi però trovandosi in un gel ad altissima viscosità
hanno limitata possibilità di diffondere sotto la superficie.
In queste preparazioni viene dunque massimizzata 1'azione superficiale e
repressa quella di diffusione sottosuperficiale dei vari costituenti. La
loro azione è confinata alla superficie, e la rimozione del gels ci dà
garanzia di rimuovere efficacemente tutti i componenti.
Nella preparazione si utilizza l'agente neutralizzante, 1'ammina etossilata,
non in quantità stechiometrica (necessaria cioè a reagire con tutti gruppi
carbossilici presenti sulla acido poliacrilico, 1 ' addensante), ma in difetto,
così da ottenere solo parziale salificazione dell'acido poliacrilico,
sufficiente a provocare la distensione delle macromolecole, e quindi
l'addensamento della soluzione.
Per quanto riguarda l ' acido poliacrilico, il prodotto commerciale più
facilmente reperibile è il Carbopol, e per l ' ammina etossilata il prodotto è
Ethomeen.
I solvent gels sono in generale preparati miscelando tra loro Carbopol
ed Ethomeen, e aggiungendo poi i vari componenti organici.
La gelificazione avviene quando si aggiunge una limitata quantità di acqua.
Tutti i solventi organici, anche quelli apolari, possono essere addensati in
condizioni opportune. Generalmente si usa l’agente neutralizzante, la base
appunto, non in quantità stechiometrica, ma in modo da arrivare a
soluzioni solo leggermente alcaline, con pH compreso tra 7 e 8.
Uso dei Resin Soaps.
I Resin soaps sono dunque i tensioattivi anionici (= saponi) a bassa
alcalinità, in forma gelificata, derivati dalla salificazione dell'acido abietico
dell'acido deossicolico con la trietanolammina(TEA). Sono attivi su i
materiali resinosi. Richiedono ambiente alcalino, e non possono quindi
essere utilizzati in combinazione con sostanze acide.
Uso dei Resin Soaps.
I Resin soaps sono dunque i tensioattivi anionici (= saponi) a bassa alcalinità,
in forma gelificata, derivati dalla salificazione dell'acido abietico o dell'acido
deossicolico con la trietanolammina(TEA). Sono attivi su i materiali resinosi.
Richiedono ambiente alcalino, e non possono quindi essere utilizzati in
combinazione con sostanze acide
Preparazione.
Più precisamente, per la preparazione si procede come segue.
• acido deossicolico solido, 2 g, è disperso in
• 100 ml di acqua deionizzata. Sotto agitazione si aggiungono
• 6 ml di trietanolammina in piccole porzioni, fino a completa dissoluzione del solido.
• e con piccole aggiunte di acido cloridrico di concentrazione 1N si porta il pH fino ad un
valore intorno 8,5, controllando con una cartina indicatrice (in generale sono necessari 68 ml). Se necessario si filtra la soluzione (se contiene materiale indisciolto è torbida).
• si aggiungono 0, 1 ml di Triton X 100 e
• si addensa la soluzione per aggiunta di 1, 5-2 g di idrossipropilmetilcellulosa.
Preparazione.
Piu precisamente, per la preparazione si procede some segue. •
Acido deossicolico solido, 2 g, e disperso in
• 100 ml di acqua deionizzata. Sotto agitazione si aggiungono
• 6 ml di trietanolammina in piccole porzioni, fino a
completa dissoluzione del solido.
• E con piccole aggiunte di acido cloridrico di concentrazione 1N si
porta il pH fino ad un valore intorno 8,5, controllando con una
cartina indicatrice (in generale sono necessari 6 - 8 ml). Se
necessario si filtra la soluzione (se contiene materiale indisciolto è
torbida).
• Si aggiungono 0, 1 ml di Triton X 100 e
• si addensa la soluzione per aggiunta di 1, 5 - 2 g di
idrossipropilmetilcellulosa.
la preparazione è semplice, ma vediamo di chiarire alcuni punti.
• La quantità iniziale di TEA è in eccesso rispetto la quantità
necessaria a salificare DCA: il pH della soluzione risultante sarebbe
troppo alcalino. Per questo si aggiunge HCl, per riportare il pH al di
sotto del 9.
• Triton X 100 è un tensioattivo non ionico cthe viene aggiunto per
migliorare il potere bagnante ed emulsionante della soluzione.
• La idrossipropilmetilcellulosa è un'etere di cellulosa idrofilo, tra i più
puri. però costosa e di non facile reperibilità: ai fini pratici può
esser sostituita da metilcellulosa (in concentrazione 2% se di buona
qualità, cioè i tipi ad alta viscosità) o idrossipropilcellulosa (Klucel
G, in concentrazione 4%).
• Attenzione! L ' acido concentrato è fortemente caustico, e deve
essere manipolato con cautela: evitare il contatto cutaneo e
1'inalazione dei vapori; durante la diluizione aggiungere l ' acido
all ' acqua e non viceversa, proteggere gli occhi da eventuali schizzi.
In caso di contatto cutaneo lavare immediatamente con abbondante
acqua.
• La quantità iniziale di TEA è in eccesso rispetto la quantità necessaria a salificare
DCA: il pH della soluzione risultante sarebbe troppo alcalino. Per questo si
aggiunge HCl, per riportare il pH al di sotto del 9.
•Triton X 100 è un tensioattivo non ionico che viene aggiunto per migliorare il potere
bagnante ed emulsionante della soluzione.
• La idrossipropilmetilcellulosa è un'etere di cellulosa idrofilo, tra i più puri. È però
costosa e di non facile reperibilità: ai fini pratici può esser sostituita da
metilcellulosa (in concentrazione 2% se di buona qualità, cioè i tipi ad alta viscosità)
o idrossipropilcellulosa (Klucel G, in concentrazione 4%).
• Attenzione! L’acido cloridrico concentrato è fortemente caustico, e deve essere
manipolato con cautela
Sono disponibili
vari tipi di carbopol, diversi tra loro per
dimensione molecolare e quindi dal punto di vista applicativo, per la
viscosità che impartiscono alle soluzioni: precisamente, in ordine
crescente abbiamo i tipi 941, 934 e 940.
A questi livelli, comunque elevatissimi, di viscosità la differenza tra
un tipo e 1'altro si può ritenere trascurabile: i vari tipi possono
dunque essere considerati equivalenti. Dal punto di vista della
reperibilità può essere più semplice ricorrere al tipo Ultrez 10,
commercializzato in quantità inferiori rispetto agli altri.
Quest'ultimo tipo, più facilmente idratabile, e più conveniente in
quanto utile anche per la preparazione di semplici gels acquosi
acidi e basici ad alta viscosità. E in alternativa al carbopol si può
acquistare il prodotto chimico acido poliacrilico.
Per quanto riguarda 1 ' ethomeen invece i tre tipi spesso citati nella
letteratura sono il C12, il C15 e C25, diversi tra loco per solubilità. Se
consideriamo i loro valori di numero a HLB abbiamo rispettivamente
HLB 10 per il primo, HLB 13, 9 per il secondo e HLB 19 per il terzo.
Il carattere idrofilo, dunque, aumenta dal primo (che è praticamente
liposolubili, il terzo idrosolubile). In pratica si utilizzano solo il primo
e il terzo per preparare i Solvent Gels nel modo seguente : ethomeen
C12 con solventi apolari (idrocarburi alifatici come essenza di petrolio
o di trementina, o aromatici come il toluene) e dell ' Ethomeen C25 con
solventi piu polari (alcoli, chetoni come 1'acetone, esteri come
1 ' etilacetato). Per solventi apolari è forse più semplice utilizzate una
miscela di entrambi in parti uguali. Il C25 in particolare è quello più
ampiamente utilizzato vista la maggior utilità pratica di preparazione
contenente solventi polari. Sono poi state proposte formulazioni più
semplici, nelle quali per neutralizzare il carbopol si usavano, semplici
basi come l ' idrossido di ammonio, 1'idrossido di sodio o la
trietanolammina. Queste basi pero non hanno anche capacità
tensioattiva. Di conseguenza queste preparazioni non sono da
considerare dei veri solvent gels, ma piuttosto delle semplici soluzioni
ad alta viscosità addensate con carbopol.
Per quanto riguarda la preparazione dell'altro Resin soap, ABA-TEA,
dall'acido abietico (ABA) la procedura è sostanzialmente identica. ABA
è più difficile da salificare, e occorre una maggiore quantità di TEA.
Nella ricetta sopra avremo dunque
• 2 g di ABA
• 10-12 ml di TEA;
• cambia di conseguenza, anche la quantità di HCl 1N necessaria per
portare il pH intorno a 8, 5 (conviene fare piccole aggiunte di
acido, un ml alla volta, e controllare il pH dopo ogni aggiunta).
Per quanto riguarda la preparazione di ABA-TEA, dall'acido abietico (ABA)
la procedura è sostanzialmente identica.
ABA è però più difficile da salificare, e occorre una maggiore quantità di TEA.
Nella ricetta sopra avremo
dunque
• 2 g di ABA
• 10-12 ml di TEA;
• cambia di conseguenza, anche la
quantità di HCl 1N necessaria per
portare il pH intorno a 8, 5
I1 problema con ABA è che il prodotto di partenza commercialmente
disponibile è di purezza variabile, e questo ne influenza fortemente la
solubilità. Così si possono notare differenze tra preparazione e
preparazione. Non è raro constatare che del solido bianco resta
indisciolto, oppure riprecipita dalla soluzione quando si modifica il pH
per aggiunta di HCl. In questo caso è necessario filtrare la soluzione ,
attraverso comune carta da filtro, fino ad ottenerla limpida.
Utilizzo
I Resin soaps sono applicati alla superficie da trattare con un tampone di
cotone o a pennello, e lasciati agire indisturbati lavorandoli delicatamente
con un pennellino morbido, a seconda del tipo di superficie (presenza di
rilievi, coesione o meno della pellicola pittorica, spessore dello strato di
vernice).
Con un tamponcino di cotone si va a saggiare la zona trattata dopo uno,
due, tre minuti per verificare il livello di azione . quando sufficiente, si
rimuove il gel con un tamponcino asciutto, poi si lava più volte la
superficie trattata con una soluzione acquosa di un tensioattivo (bile
bovina al 2-3%, Tween 20 al 2-4%, con Brij 35 al 2-4%, saliva
artificiale).
Utilizzo
I Resin soaps sono applicati alla superficie da trattare con un tampone di cotone o
a pennello, e lasciati agire indisturbati lavorandoli delicatamente con un pennellino
morbido. I tempi di applicazione sono tra uno e cinque minuti
poi si lava più volte la superficie trattata con una soluzione acquosa di un
tensioattivo (bile bovina al 2-3%, Tween 20 al 2-4%, con Brij 35 al 2-4%, saliva
artificiale).
Al termine la zona viene brevemente lavata con acqua distillata e asciugata
Quando è asciutta, si effettua un ultimo lavaggio con idrocarburi leggeri (essenza
di petrolio, benzina, ragia minerale, ecc.) per risaturare la superficie ed asportare
eventuali residui lipofili.
La differenza strutturale tra i due Resin soaps, ABA-TEA meno polare e
DCA-TEA più polare, si riflette in una possibile differenza applicativa.
Questa fase di lavaggio è da eseguire con cura. per assicurare
1'asportazione completa dei residui di gel e del materiale resinoso
disgregato dall'azione del Resin soaps: dev ' essere ripetuta finchè si
osserva apprezzabile asportazione di materiale.
Al termine la zona viene brevemente lavata con acqua distillata e
asciugata.
Quando è asciutta, si effettua un ultimo lavaggio con idrocarburi leggeri
(essenza di petrolio, benzina, ragia minerale, ecc.) per risaturare la
superficie ed asportare eventuali residui lipofili.
Se il Resin soaps è attivo, si hanno in generale tempi di applicazione tra
uno e cinque minuti; applicazioni successive possono e s s e r e fatte per
spingere più a fondo il livello di pulitura. La differenza strutturale tra i
due Resin soaps, ABA-TEA meno polare e DCA-TEA più polare, si
riflette in una possibile differenza applicativa.
Se consideriamo che più una vernice è ossidata e più le sue molecole
sono diventate polari, ne consegue the ABA-TEA, meno polare, può
essere più attivo su resine meno apolari, e quindi vernici meno ossidate,
di più recente applicazione; al contrario, di DCA-TEA, più polare, può
esser più attivo su resine più polari, cioè su vernici più invecchiate, più
ossidate.
ù
Considerazioni sull ' utilizzo.
Le preparazioni che abbiamo descritto sopra sono quelle originariamente
pubblicate da Wolbers. Nel corso degli anni ne sono state pubblicate
anche altre, magari semplificate (ad esempio minor aggiunta di TEA nella
fase iniziale e nessuna correzione del pH con HCl; basi diverse dalla
TEA, ecc.).
Nella preparazione è comunque consigliabile attenersi a queste ricette per
poter poi confrontare i vari risultati ottenuti e perché esse sono state
frutto di elaborazioni in un certo periodo di tempo la combinazione di
componenti non è dunque casuale. Per la quantità di TEA aggiunta ad
esempio è importante considerare questo: 1 ' eccesso di TEA, quello che
non serve a salificare DCA o ABA, viene poi salificato dall ' HCl aggiunto,
formando TEA-HCl (o trietanolammonio cloruro). Questo sale, dissociato
in ioni in soluzione, va ad aumentare una grandezza tipica delle soluzioni
saline, la forza ionica. Senza entrare in dettagli di meccanismi, diciamo
solo che questo parametro ha la sua importanza nel rendere più agevole
la dissoluzione di certe sostanze "una soluzione a m a g g i o r forza
ionica,
.
risulta più attiva di una simile ma a minor forza ionica. Un punto su cui lo
stesso Wolbers, fin dall'inizio, ha insistito molto è q u e s t o : queste
formulazioni non sono da considerarsi come ricette di applicazione
generalizzabile, ma dovrebbero e s s e r e tailored; messe a punto per ogni
caso specifico. Questo però è un concetto poco recepito nella nostra
cultura del restauro: è difficile pensare che un restauratore anche in
un ' istituzione, si metta preparare un Resin Soap particolare per il caso
che ha sottomano al momento. Anche perché questo vorrebbe dire aver
caratterizzato esattamente con l ' analisi chimica, prima dell'intervento, i
materiali presenti.
Questo approccio deve essere quindi adattato un poco alla nostra
situazione reale, soprattutto per quanto riguarda la pratica privata del
restauro.
Possiamo regolarci in questo modo: si provano le formulazioni di base del
Resin soaps, se si nota un ’ azione, anche minima, sulla vernice allora vale
la pena pensare a queste modificazioni, altrimenti no.
In caso di assoluta mancanza di azione è inutile insistere pensando a
possibili modificazioni: ci sono varie ragioni per cui un Resin Soap può
non essere efficace.
Personalizzare i Resin Soaps
Possibili additivi da aggiungere
• Una possibile alterazione strutturale delle vernici per invecchiamento è la
deidrogenazione che tende a produrre molecole insature o aromatiche
• si può così
aggiungere ai Resin Soaps una piccola quantità di alcol
benzilico, al 2% in volume, rispetto al volume di gel.
•Per
resine più giovani, meno polari, più difficilmente bagnabili, Wolbers
consiglia l’aggiunta di N-Metil-2-pirrolidone, al 2% in volume rispetto al
volume di gel.
•Vista la minore tossicità, a parità di potere solvente, è forse preferibile
utilizzare il dimetilsolfossido anziché metilpirrolidone.
il gel acquista così un leggero potere solvente
•Per migliorare l'azione bagnante dei saponi si può aumentarne il contenuto di
tensioattivo non ionico, utilizzando al posto di Triton X 100, tensioattivi ancora
più bagnanti quali il Brij 35 o il Tween 20 in concentrazione pari all'1%.
Vediamo dunque questi possibili additivi.
• Innanzitutto, tra le diverse alterazioni strutturali a cui le vernici
vanno soggetti invecchiando, la deidrogenazione, o perdita di
idrogeno, the può essere comunque considerata un fenomeno
ossidativo, che tende a produrre molecole insature o aromatiche
(contenenti doppi legami carbonio-carbonio). Per facilitare 1 ' azione
su queste vernici può essere utile aggiungere ai Resin Soaps una
piccola quantità di un alcol a struttura aromatica,1'alcol benzilico, un
prodotto comunemente utilizzato nell'industria come solvente di
vernice L'alcol
poco solubile in acqua: conviene pertanto limitarne
'
,
1 aggiunta a 2% in volume, rispetto al volume di gel. E dopo
1 ' aggiunta esso tende a formare dei piccoli grumi bianchi, che si
sciolgono completamente dopo un certo tempo, con mescolamento.
• Per aumentare 1'efficacia dei Resin Soaps verso resine giovani,
meno polari, difficilmente bagnabili, Wolbers consiglia 1 ' aggiunta di
metilpirrolidone propriamente N-Metil-2-pirrolidone, un
(_solvente dipolare aprotico) al 2% in volume rispetto al volume di
gel. Vista la minore tossicità, a parità di potere solvente, forse è
preferibile utilizzare il dimetilsolfossido anziche metilpirrolidone.
;
e
Queste piccole aggiunte di solventi non alterano sostanzialmente il
meccanismo d'azione che resta quello di tensioattivi in soluzione acquosa
gelificata. Però il gel acquista anche un leggero potere solvente cosa che
può contribuire anche a rendere omogenea e uniforme 1 ' azione. E’ noto
infatti che un solvente, rispetto ad un tensioattivo, ha anche una capacità
di reforming dei residui di vernici:a riesce a scioglierli dove
presenti, e a ridistribuirli in maniera uniforme_su tutta la superficie,
contribuendo cosi ad un aspetto omogeneo della zona pulita. I Resin
Soaps mancano di questa capacità, e in certi casi può esser utile
aggiungergliela.
• Per una vernice con una certa componente oleosa,
l'azione può essere migliorata
con aggiunta di poche gocce di ammonio idrossido diluito, fino a portare il pH a un
valore 9-10.
• un elegante alternativa è un “Enzime Soap”, un sapone enzimatico. Al Resin
Soap DCA-TEA si aggiunge l'enzima lipasi, in quantità di 200-500 mg per
100 ml
• l'enzima è efficace sulla parte oleosa della vernice, il sapore su quella
resinosa.
• Per vernici molto alterate per esposizione all'ambiente (allo sporco piuttosto che
alla luce), si può aggiungere una sostanza chelante, in particolare l'acido citrico.
• conviene operare in questo modo:
ad 1 g di acido citrico
si aggiungono 2,1 ml di TEA (la minima quantità necessaria per
completa salificazione) e si mescola fino a dissoluzione completa. Si ottiene così
TEA-Citrato (o trietanolammonio citrato), l’agente chelante che viene poi aggiunto
• a 100 ml di Resin Soap, mescolando fino a che sia ben amalgamato.
• Per una vernice con una certa componente oleosa, la moderata alcalinità
del Resin Soaps non è sufficiente ad agire. L'azione può essere
migliorata con aggiunta di poche gocce di ammonio idrossido diluito,
fino a portare il pH a un valore 9-10. Resta valido, in generale, il
criterio di rispettare sempre, soprattutto su un'opera policroma, un
"
intervallo di sicurezza " di pH, cioè valori compresi tra 5 e 9,", ma
sicuramente, nel caso di un dipinto a olio molto vecchio, già sottoposto
a pulitura in precedenza, gia più volte verniciate e ri-verniciato,
aumentare il pH a un valore di 9 - 1 0 non rappresenta certo un rischio
esagerato, se può servire ad una più veloce azione nei confronti del
materiale resinoso superficiale.
• Altrimenti, un elegante alternativa proposta dallo stesso Wolbers è
quella di preparare un " Enzime Soap " , un sapone enzimatico. Al Resin
Soap DCA-TEA si aggiunge 1'enzima lipasi, in quantità di 200-500 mg
per 100 ml di sapone, formando così il sapone enzimatico: 1 ' enzima è
efficace sulla parte oleosa della vernice, il sapone su quella resinosa.
Si e verificata in più occasioni l ' abilità di questo sapone enzimatico ad
assottigliare vernici oleo-resinose, cosa che richiederebbe altrimenti
condizioni di intervento ben più aggressive per l ' opera.
• Un'altra interessante modificazione, utile nel caso di vernici molto
alterate per esposizione all'ambiente (allo sporco piuttosto che alla
luce), è una piccola aggiunta di una sostanza chelante, in particolare
1'acido citrico. Questo, complessando e solubilizzando ioni metallici
' (gli ossidi sempre presenti nel particellato atmosferico), può
contribuire ad una più facile pulitura. Modificare i Resin Soaps in
questo modo è semplice. Piuttosto che aggiungere al sapone Acido
Citrico (che farebbe diventare meno basico il pH, con conseguente
parziale ri-precipitazione di ABA o DCA, e difficoltà a risolubilizzarli con altra TEA), conviene operare in questo modo:
• ad 1 g di acido citrico si aggiungono 2,1 ml di TEA (la minima
quantità necessaria per completa salificazione) e si mescola fino a
dissoluzione
completa.
Si
ottiene
così
TEA-Citrato
(o
'
trietanolammonio citrato), l agente chelante che viene poi aggiunto a
100 ml di Resin soaps
Quando utilizzare Resin Soaps?
Per quanto riguarda l'utilizzo, non c ' e in generale una certa " procedura "
da rispettare o un ordine per cosi dire una sequenza di vari reagenti in
cui i Resin Soaps occupano un posto ben preciso.
La certezza o la supposizione che si tratti di una vernice di materiale
resinoso sono il motivo che induce all ' uso di questi reagenti. La certezza
potrà derivare solo da una qualche risposta analitica; in realtà sarà molto
più frequente la supposizione, quando non si ha alle spalle della
diagnostica (anche se certamente questa supposizione è ragionata
dall ' esperienza del restauratore).
Sicuramente in molti casi la solubilizzazione di questo tipo di materiale
potrebbe anche essere affrontata utilizzando solventi organici. Magari
procedendo in un modo più scientifico, effettuando il test di Feller per
determinare un valore di polarità efficace nella solubilizzazione del
materiale e poi preparando una miscela di questa polarità, utilizzando
solventi a bassa tossicità, e bassa ritenzione, ecc. Perchè allora pensare a
un metodo diverso in particolare a un Resin soaps?
Una semplice ragione, che però rappresenta un punto fondamentale.
Effettuando prove di pulitura con i Resin soaps in paragone con i solventi
si può spesso notare che i primi forniscono comunque una buona azione di
pulitura, però più m o r b i d a s e n z a arrivare ad esporre direttamente lo
strato di colore. Azione di assottigliamento quindi piuttosto che completa
rimozione.
Questa differenza è facilmente razionalizzabile come logica conseguenza
del modo d ' azione: il solvente diffonde rapidamente nello strato, lo
rigonfia e lo solubilizza. Soprattutto nel caso di spessori sottili, questa
azione non riesce a differenziare tra una parte più esterna e una più
interna dello strato: il materiale viene comunque disciolto.
Certo, utilizzare un solvente in forma addensata può rallentarne la
diffusione all'interno e contribuire a produrre una azione più superficiale.
Non sempre però è possibile trovare un addensante o supportante adatto.
Quando e perché utilizzare Resin Soaps?
La certezza o la supposizione che si tratti di una vernice di materiale resinoso
sono il motivo che induce all'uso di questi reagenti
•La minore velocità di diffusione dell'acqua e la viscosità del gel sono tali da
promuovere una azione più superficiale;
•Il potere solvente dell'acqua, liquido ad altissima polarità, fa sì che non vi
sia un diretto effetto solvente nei confronti del materiale che invece è solo
mediamente polare.
• Il
tensioattivo contenuto esercita un'azione emulsionante nei confronti del
materiale resinoso (e questa azione è specifica nei confronti della resina
perché stiamo utilizzando un Resin Soap);
• la leggera basicità delle soluzioni addensate,
pH 8,5 permette la
salificazione di quella parte del materiale resinoso più acido perché più
ossidato.
la zona d'azione del Resin Soap è la superficie di contatto con lo strato di
vernice, e non più l'intero strato
Se invece utilizziamo un gel acquoso, abbiamo che:
• La minore velocità di diffusione dell ' acqua e la viscosità del gel sono
tali da promuovere una azione più superficiale;
• Il potere solvente dell'acqua, liquido ad altissima polarità, fa si
che non vi sia un diretto effetto solvente nei confronti del materiale
che invece è solo mediamente polare.
Detto in forma un pò semplificata, 1 ' acqua come tale non è in grado di
sciogliere materiale. Ci si sposta quindi verso un altro meccanismo:
• Il tensioattivo contenuto esercita un ' azione emulsionante nei
confronti del materiale resinoso (e questa azione è: specifica nei
confronti della resina perché stiamo utilizzando un Resin Soap);
• La leggera basicità delle soluzioni addensate, pH 8,5 permette la
salificazione di quella parte del materiale resinoso più acido perché
pia ossidato.
Di conseguenza la zona d'azione del Resin Soap è la superficie di contatto
con lo strato di vernice, e non più 1'intero strato.
Si comprende facilmente come quest ' azione possa es s er e di effettivo
assottigliamento, che si traduce in azione più blanda, come risultato
estetico di maggiore morbidezza.
la parte più esterna (di spessore circa 8 micron) di uno strato di vernice è più
acida perché più fotossidata ( formazione di gruppi carbossilici acidi sulle
molecole dei componenti terpenici delle resine).
Questa parte più acida è più facilmente salificabile da una base anche debole.
Al di sotto, invece, la resina è meno ossidata e risulta meno acida: qui servono
reagenti più basici per la salificazione.
Alla luce di questa differenza possiamo forse interpretare l'azione del Resin Soap
Dal punto di vista dell'integrità strutturale dell'opera questo assottigliamento è
sicuramente più salutare, perché il lasciare uno spessore residuo di vernice a diretto
contatto della pellicola pittorica è garanzia di non averla intaccata direttamente.
Controindicazioni all'utilizzo.
La principale controindicazione all'uso dei Resin Soaps è che si tratta di
soluzioni acquose
Non è tanto l'applicazione del Resin Soap piuttosto il trattamento successivo che
come abbiamo descritto comporta una serie di lavaggi acquosi
Uno studio fondamentale, pubblicato già da un certo numero di anni or
sono, fornisce le prove scientifiche di quest ' azione. Provini costituiti da
stesure pittoriche di bianco di titanio e calcio carbonato in legante
oleoso, verniciate con resina mastice al 30% in essenza di trementina,
sono stati invecchiati per fotossidazione tramite esposizione alla luce
U.V. La rimozione della vernice è stata effettuata con varie sostanze
alcaline, inorganiche in soluzione acquosa e organiche. Dopo pulitura le
superfici trattate sono state analizzate al microscopio elettronico a
scansione (SEM).
L'articolo è di fondamentale importanza per la comprensione del modo
d'azione degli alcali, e si rimanda il lettore alla completa lettura del testo.
Noi ci soffermiamo solo su un punto fondamentale. In questa prova,
soluzioni acquose di ammoniaca erano efficaci nella rimozione dello
strato solo da pH 10 in su, lasciando evidenti segni di erosione nello
strato di colore sottostante. Quando le soluzioni di ammoniaca erano
utilizzate in forma addensata, con " pappina " o con eteri di cellulosa,
erano efficaci gia a pH 9 senza provocare erosione dello strato
sottostante.
Gia negli anni 80 De la Rie aveva messo in risalto come la parte più
esterna (di spessore circa 8 micron) di uno strato di vernice, sia pia acida
perche più fotossidata (come noto l1 ' ossidazione provoca formazione di
gruppi carbossilici acidi sulle molecole dei componenti terpenici delle
resine). Questa parte più acida è più facilmente salificabile da una base
anche debole. Al di sotto, invece, la resina è meno ossidata e risulta meno
acida: qui servono reagenti pia basici per la salificazione.
Alla luce di questa differenza possiamo forse interpretare anche una
parte dell'azione del Resin Soap: vista la moderata alcalinità del
reagente, solo pH 8, 5-9, 1 ' azione probabilmente si limita alla
salificazione della parte più esterna (più acida dello strato, e non a quella
sottostante (meno acida). Così, verosimilmente, sulla parte più esterna il
Resin Soap agisce sia grazie alla sua alcalinità, sia in quanto
tensioattivo: quando in contatto con la parte sottostante, più difficile da
salificare, resta principalmente 1 ' attività di tensioattivo, un ' attivita
tipicamente all ' interfaccia, e non di profondità. Pertanto, su uno strato di
vernice ossidata è come se 1 ' azione si graduasse da se, diventando meno
forte man mano che penetra verso 1'interno dello strato.
Dal punto di vista del risultato della pulitura, limitarsi alla rimozione
della parte più ossidata dello strato di vernice può già produrre un
risultato esteticamente accettabile: la parte più ossidata è anche quella
che ha subito la maggiore alterazione ottico-cromatica (ingiallimento),
mentre quella sottostante, più protetta dall'ossidazione, è ingiallita
meno. Perchè rimuovere dunque questo residuo dello strato, se la sua
presenza non costituisce disturbo alla lettura dell ' immagine? Dal punto
di vista dell'integrita strutturale dell ' opera questo assottigliamento è
sicuramente più salutare, perchè il lasciare uno spessore residuo di
vernice a diretto contatto della pellicola pittorica è garanzia di non
averla intaccata direttamente.
Anche il caso tanto frequente che abbiamo esemplificato prima, cioè
una vernice localmente contaminata dalla presenza di colla animale, a
volte può essere adeguatamente risolto impiegando un Resin Soap: la
combinazione di leggera alcalinità, ambiente acquoso e addensante può
infatti e s s e r e efficace nella solubilizzazione di materiale proteico.
Controindicazioni all ' utilizzo.
La principale controindicazione all'uso dei Resin Soaps è che si tratta di
soluzioni acquose. Pertanto, per 1'applicazione deve e s s e r e verificata la
compatibilità del supporto con 1'ambiente acquoso. Una preparazione
suscettibile all ' acqua o una tela che si deformi in presenza di umidità
chiaramente precludono l'utilizzo di questi reagenti.
Non è tanto l ' applicazione del Resin Soap a richiedere questa compatibilità
col mezzo acquoso: trattandosi di gel, infatti, 1 ' apporto di acqua non è
grande soprattutto se si resta in tempi di applicazione di pochi minuti. Il
problema èpiuttosto in trattamento successivo che come abbiamo descritto
comporta una serie di lavaggi acquosi. Questi lavaggi sono effettuati con
soluzioni libere, non addensate.
Bisogna però sottolineare che solo questa procedura di lavaggio
garantisce la completa rimozione di eventuali residui, e dunque non può
essere eliminata o semplificata. Ne consegue che, se non è possibile
effettuarla, non è consigliabile in primo luogo l ' intervento con i Resin
Soaps.
Uso dei Solvent Gels.
I Solvent Gels sono miscele di solventi organici e acqua addensate,
moderatamente alcaline, caratterizzate da fortissima viscosità e da attività
detergente. L ' addensante usato, 1 ' acido poliacrilico (il prodotto carbopol)
impartisce viscosità molto superiore a quanto ottenibile con eteri di
cellulosa o altri addensanti; 1'agente neutralizzante, l ' ammina
polietossilata (il prodotto Ethomeen) invece è responsabile delle proprietà
emulsionanti e detergenti (grazie alla sua struttura di ammina
polietossilata).
Formulazioni diverse sono poi state proposte, in cui altre basi
(ammoniaca, trietanolammina, sodio idrossido) sostituivano l ' Ethomeen.
Ai fini pratici la presenza o meno di questo componente fa grande
differenza in termini di attività. Sono dunque da considerare solvent gels
solo quelle preparazioni di acido poliacrilico neutralizzato con l'Ethomeen.
Uso dei Solvent Gels.
I Solvent Gels sono miscele di
• solventi organici e acqua addensate,
• moderatamente alcaline,
• caratterizzate da fortissima viscosità e da attività detergente.
L’addensante usato, (Carbopol) impartiscea viscosità molto superiore a quanto
ottenibile con eteri di cellulosa o altri addensanti; l’ammina polietossilata
(Ethomeen) invece è (grazie alla sua struttura di ammina polietossilata)
responsabile delle proprietà emulsionanti e detergenti.
addensante
acido poliacrilico
impartisce viscosità altissima
agente neutralizzante
Ethomeen
responsabile delle proprietà
emulsionanti e detergenti
Preparazione.
La preparazione è semplice, alla portata del comune restauratore, e non
richiede eccessivo bagaglio di conoscenze chimiche. A parte i reagenti
specifici, non necessita di attrezzatura sofisticate: comune vetreria da
laboratorio, cilindri e pipetta graduate, cartina indicatrice per il pH.
Utile, ma non indispensabile un agitatore magnetico riscaldante;
sicuramente utile invece un miscelatore elettrico con alimentazione a
batteria, come mostrato in precedenza.
Indipendentemente dai solventi utilizzati, la preparazione può seguire sempre
quest'ordine:
• per prima cosa si uniscono l’addensante carbopol (1-2 g) e il tensioattivo alcalino
Ethomeen(10-20 ml), mescolando bene fino ad ottenere un impasto omogeneo, avendo
cura di rompere con una spatola eventuali grumi formatisi. L'agitatore magnetico può
semplificare l'operazione rimescolamento.
• da ultimo l'aggiunta di acqua (5-10 ml) causa l'addensamento della soluzione.
•col tempo il gel tende a
diventare un pò meno
alcalino (perché eventuali
grumi di carbopol si
sciolgono)
•Infine per l’aggiunta
dell’acqua è molto utile la
vigorosa agitazione prodotta
da un miscelatore elettrico
Indipendentemente dai solventi utilizzati, la preparazione può seguire
sempre quest'ordine:
• per prima cosa si uniscono 1 ' addensante carbopol ( 1 - 2 g) e il
tensioattivo alcalino Ethomeen(10-20 ml), mescolando bene fino ad
ottenere un impasto omogeneo, avendo cura di rompere con una
spatola eventuali grumi formatisi. L ' agitatore magnetico può
semplificare l'operazione rimescolamento.
• Da ultimo 1'aggiunta di acqua ( 5 - 1 0 ml) causa 1'addensamento
della soluzione.
Nella figura è mostrata la tipica viscosità di queste preparazioni.
Eventuali grumi formatisi che si sciolgono lasciando il gel a riposo per
qualche ora; similmente, col tempo il gel tende a diventare un pò meno
alcalino (perché eventuali grumi di carbopol si sciolgono) e più
trasparente (quando perde 1'aria inglobata durante la preparazione). Per
1'ultima operazione di aggiunta dell ' acqua è molto utile la vigorosa
agitazione prodotta da un miscelatore elettrico del tipo mostrato. Si
ribadisce che, vista la possibile presenza di solventi altamente
infiammabili, è assolutamente sconsigliato 1'uso di un miscelatore
alimentato da corrente di rete.
Utilizzo.
I solvent gels sono applicati alla superficie da trattare e lasciati agire
indisturbati, oppure lavorati con un tamponcino di cotone o con un
pennello a seconda del caso particolare (irregolarità superficiali, rilievi di
colore). Il tempo di applicazione è in generale breve, da 30-40 secondi a
pochi minuti difficile, comunque, dare delle regole generali, in quanto la
composizione del gel specifico, il tipo di materiale lo spessore dello
strato influenzano 1 ' azione, che dovrà dunque essere verificata caso per
caso. Il modo migliore, almeno all'inizio, è sempre quello di saggiare
continuamente la zona coperta dal gel con un tamponcino asciutto di
cotone, per verificare il livello d ' azione. Chiaramente 1 ' applicazione deve
riguardare una zona circoscritta della superficie, per evitare tempi molto
diversi da una zona all'altra entro un'area troppo grande.
Quando 1'azione è ritenuta sufficiente il gel viene rimosso con un
tamponcino asciutto di cotone. La zona trattata è poi lavata a tampone con
una miscela di solventi: Wolbers stesso suggerisce alcol isopropilico ed
essenza di petrolio 1:1 oppure acetone ed essenza di petrolio 1:1. Da
ultimo si effettuano lavaggi con sola essenza di petrolio.
Questa procedura di lavaggio è fondamentale e merita alcune
considerazioni. Perché la rimozione sia veramente efficace, i solventi
utilizzati per il lavaggio devono effettivamente sciogliere il gel: in altre
parole devono avere polarità simile a quella del solventi utilizzati nel gel
stesso, senza pero avere azione diretta di solubilizzazione nei confronti
della vernice in (o, più in generale, e del materiale filmogeno) su cui è
applicato il solvent gels, cosi da non continuare 1'azione di pulitura. E
'
pertanto raccomandabile mettere a punto una miscela adatta al caso
specifico prima di iniziare il trattamento di pulitura con il gel. Si_può
partire dalla miscela alcool isopropilico ed essenza di p et roli ol:l , più
polare (f d 64)), verificandone 1 ' azione su una piccola zona della vernice: se
si si ha effetto solvente si p r o v a l'altra miscela acetone ed essenza di
petrolio meno polare (f d 68, 5). Se l'effetto solvente continua, si diminuirà
la percentuale di acetone, fino a trovare una composizione adatta che non
abbia diretta azione solubilizzante della vernice. Ad esempio, con una
miscela di , , acetone ed essenza di petrolio 1:9 ' si può scendere fino un
valore di polarità pari a fd 85, 6`che praticamente non avrà effetto
solvente sulla maggior parte delle vernici fotossidate.
Considerazioni sull ' utilizzo.
Quali solventi possano e s s e r e usati nei solvent gels?
Possiamo rispondere tutti. Con 1'accortezza di utilizzare il tipo di
tensioattivo adatto, Ethomeen C25, idrosolubile, o Ethomeen C12,
liposolubile da solo o in miscela con precedente, si possono usare
rispettivamente, solventi polari (alcoli, chetoni, esteri, dimetilsolfossido)
o apolari (idrocarburi alifatici o aromatici, come essenza di petrolio,
essenza di trementina, dipentene, toluene).
Per le mescolanze di solventi, se non si seguono preparazioni già descritte, si può
seguire un'utile procedura: si avràa sempre pronta una certa quantità di gel ottenuto
mescolando fra loro carbopol, ethomeen C25 e acqua, nelle quantità descritte più
sopra. Per sapere se un certo solvente o miscela di solventi è compatibile con questa
formulazione, si preleva una piccola quantità di gel su una spatola e la si immerge nel
solvente o miscela. A seconda che il gel resti trasparente o diventi opaco si concluderà
che quel tipo di solvente è rispettivamente, compatibile o incompatibile con la
formulazione. Nel caso di incompatibilità si farà ricorso all' altro tipo di tensioattivo
Ethomeen C12. Alcune miscele descritte dal stesso Wolbers sono ad esempio le
seguenti
(dove le percentuali sono espresse in volumi):
• per la rimozione di vernici a olio-resinose, 80% alcol etilico e 20%
xileni,
• per la rimozione di resine sintetiche o ridipitture ad olio, n-metil 2Pirrolidone;
• per la rimozione di resine sintetiche, 80% acetone e 20% alcol
benzilico;
• per la rimozione di vernici: 90% alcol isopropilico 10%
alcol benzilico.
Nella scelta di solventi organici, si raccomanda comunque di tenere in
considerazione la tossicità di certi prodotti. Si sottolinea ancora una volta
come 1'utilizzo di prodotti chimici di buona qualità sia in generale garanzia
di minore potenziale di rischio per 1'operatore.
Sono disponibili i vari tipi di Carbopol, diversi tra loro per dimensione
molecolare e quindi dal punto di vista applicativo, per la viscosità che
impartiscono alle soluzioni: precisamente, in ordine crescente abbiamo i tipi
941, 934 e 940.
Sono disponibili i vari tipi di Carbopol, diversi tra loro per dimensione
molecolare e quindi dal punto di vista applicativo, per la viscosità che
impartiscono alle soluzioni: precisamente, in ordine crescente abbiamo i tipi
941, 934 e 940.
A questi livelli, comunque
elevatissimi, di viscosità la differenza
tra un tipo e l'altro si può ritenere
t
bil
Per quanto riguarda l’ethomeen invece i tre tipi spesso citati nella letteratura sono il
C12, il C15 e C25, diversi tra loro per solubilità
solventi apolari (idrocarburi alifatici come
essenza di petrolio o di trementina, o aromatici
come il toluene)
solventi più polari (alcoli, chetoni come
l'acetone, esteri come l’etilacetato)
Ethomeen
HLB
C12
10
C15
13,9
C25
19
L ' elevatissima viscosità di queste preparazioni si traduce anche in
condizioni di utilizzo più sicure per 1'operatore: limitando 1'evaporazione
dei componenti si riduce di conseguenza 1 ' esposizione ai vapori. Così un
solvente come il toluene di cui si sconsiglia 1 ' uso se non in piccolissime
quantità per può essere utilizzato con minor rischio all'interno di un
solvent gels (pur sempre con opportune precauzioni).
Un materiale filmogeno che si riscontra con frequenza sulla superficie
pittorica di dipinti è il materiale proteico: abbiamo già discusso come
possa avere origini diverse. Non infrequenti sui dipinti anche 1 ' utilizzo di
albume, in funzione di patinatura/verniciatura della superficie. La copresenza di questo materiale proteico complica 1 ' azione di
solubilizzazione di una vernice: è dunque inevitabile, in questi casi, fare
ricorso a sostanze alcaline (come l ' idrossido di ammonio o i solventi
organici alcalini come la n-butilammina, la morfolina o la piridina) o acidi
(come le soluzioni di acido acetico).
Sappiamo però che il collagene costituente principale delle colle animali,
è almeno parzialmente solubile in solventi organici neutri quali il glicol
etilenico e it 2,2,2-trifluoroetanolo o, in solventi dipolari aprotici quali il
dimetilsolfossido. Si è cosi pensato di inglobare questi solventi in un
solvent gel da utilizzare per la rimozione di materiale proteico. Dopo
alcune prove pratiche si è verificato che una miscela di 80% di
etilenglicole e 20% di 2,2,2-trifluoroetanolo ha in effetti una certa
efficacia nella solubilizzazione di una vernice contaminata da materiale
proteico.
Utilizzo.
I solvent gels sono applicati alla superficie da trattare e lasciati agire indisturbati
Il tempo di applicazione è in generale breve, da 30-40 secondi a pochi minuti
saggiare continuamente la zona coperta dal gel con un tamponcino asciutto di
cotone, per verificare il livello d'azione
il gel viene rimosso con un tamponcino asciutto di cotone
Il lavaggio viene poi eseguito a tampone con una miscela di solventi:
• alcol isopropilico ed essenza di petrolio 1:1 oppure
• acetone ed essenza di petrolio 1:1.
• da ultimo si effettuano lavaggi con sola essenza di petrolio.
Perché la rimozione sia veramente efficace, i solventi utilizzati per il lavaggio
devono effettivamente sciogliere il gel senza però avere azione diretta di
solubilizzazione nei confronti della vernice
La controversia sui solvent gels.
Anche queste preparazioni fin dalla loro comparsa hanno attratto consensi
e critiche. Queste ultime, in particolare, riguardano la presenza del
componente Ethomeen all'interno delle formulazioni: essendo non
volatile, la sua forte ritenzione negli strati interni potrebbe rappresentare
un fattore di degrado per 1'opera trattata. Alla base di queste
preoccupazioni c'e il dubbio che 1'Ethomeen sia efficacemente legato
all'addensante: trovandosi in forma libera dentro il gel potrebbe dunque
diffondere sotto la superficie.
Anche questa letteratura e stata esaminata criticamente e la quantity dei
residui trovati molto e bassa a conferma dell'ottima azione superficiale di
queste preparazioni.
Considerazioni sull'utilizzo
Quali solventi possano essere usati nei solvent gels?
Possiamo rispondere tutti.
con l'accortezza di utilizzare il tipo di tensioattivo adatto
Alcune miscele descritte dal stesso Wolbers sono ad esempio le seguenti (dove le
percentuali sono espresse in volumi):
• per la rimozione di vernici a olio-resinose, 80% alcol etilico e 20% xileni;
• per la rimozione di resine sintetiche o ridipitture ad olio, n-metil 2-Pirrolidone;
• per la rimozione di resine sintetiche, 80% acetone e 20% alcol benzilico;
• per la rimozione di vernici: 90% alcol isopropilico 10% alcol benzilico.
•per la rimozione di vernici contenente materiale proteico: miscela di 80% di
etilenglicole e 20% di 2,2,2-trifluoroetanolo
La controversia sui solvent gels
riguardano la presenza del componente Ethomeen
• non volatile
• a forte ritenzione
I chelanti.
Anche in questo caso ci limitiamo a mettere in luce le principali
caratteristiche strutturali, importanti al fine di comprendere il
meccanismo d'azione. Rimandiamo ad altre fonti specifiche per una
trattazione più completa.
Vengono definiti chelanti quei composti che attraverso atomi donatori
sono in grado di coordinare uno ione metallico, cioè formare con esso un
legame non covalente in corporandolo in una struttura ciclica stabile che
viene appunto chiamata chelato.
Si forma un anello in quanto gli atomi donatori sono collegati tra loro da
catene di altri atomi: 1'addizione dello ione metallico provoca la
ciclizzazione della struttura. Per ogni atomo di metallo coordinato si ha la
formazione di un anello.
I chelanti
Vengono definiti chelanti quei composti che attraverso atomi donatori sono in grado
di coordinare uno ione metallico, cioè formare con esso un legame non covalente
incorporandolo in una struttura ciclica stabile che viene appunto chiamata chelato
L'interazione col metallo è resa possibile dal fatto the i metalli, avendo
orbitali non occupati (cioè non riempiti da elettroni), sono elettron accettori e possono interagire con atomi ricchi di elettroni, cioè elettron donatori, disposti a cedere i loro elettroni, quale appunto azoto, N,
ossigeno,O, zolfo,S, e fosforo,P.
Si formano così composti di coordinazione detti appunto chelati. La
molecola the contiene gli atomi donatori capaci di coordinare il metallo
viene chiamata legante. Un legante è definito bi, tri, tetra dentato, e così
via, a seconda che contenga due, tre, quattro o più atomi donatori..
Notiamo che un legante mono dentato non viene considerato : sebbene sia
in grado di interagire con un metallo, non può dare luogo alla formazione
di un anello perchè possiede un solo atomo donatore. In questo caso si
preferisce parlare di coordinazione anzichè di chelazione.
Questo è il caso tipico della coordinazione di ioni metallici da parte
dell'ammoniaca esemplificato dalla formazione di complessi cupro
ammoniacali in presenza di ioni rameici, : il doppietto elettronico non
condiviso sull'atomo di azoto dell'ammoniaca può formare un legame di
coordinazione con orbitali sullo ione metallico.
L'interazione col metallo è resa possibile dal fatto che i metalli, avendo
orbitali non occupati (cioè non riempiti da elettroni), sono elettron-accettori e
possono interagire con atomi ricchi di elettroni, cioè elettron-donatori, disposti
a cedere i loro elettroni, quale appunto azoto, N, ossigeno O, zolfo S, e
fosforo P
legante mono dentato
Tornando ai chelanti, il legante può esser una specie neutra o carica, e
cosi pure il complesso legante-metallo. La carica dipende cosi dalla
possibile ionizzazione di certi gruppi, cioè dalle condizioni di pH. del
mezzo.
I chelanti possono esser sia organici 'che inorganici, ma il numero dei
primi è decisamente superiore.
il legante può essere:
• una specie neutra
• una specie carica.
La carica dipende dalla possibile ionizzazione di certi
gruppi, cioè dalle condizioni di pH
I chelanti possono esser sia
organici che inorganici, ma
il numero dei primi è
decisamente superiore
Classi di chelanti
Classi di chelanti.. Le molecole che hanno i requisiti necessari per agire
da chelanti (cioè avere due o più atomi donatori collegati da una catena,
solitamente lineare, che agisca come le chele consentendo
1'avvicinamento nello spazio degli atomi donatori) possono e s s e r e
raggruppati in classi, in cui ci limitiamo a considerare le più comuni,
mostrate nella figura :.
Modo d'azione. Per quanto riguarda il meccanismo della reazione
possiamo rappresentare, ad esempio, la reazione di formazione di un
chelato
tra
un
generico
metallo
e
il
chelante
tri-dentato
dimetilentriammina secondo lo schema seguente. In questo caso il legante
è una specie neutra, mentre il chelato finale possiede formalmente la
carica che inizialmente apparteneva all'atomo metallico. In certi casi
possono e s s e r e coinvolte anche molecole d'acqua, anch'esse in grado di
coordinare lo ione metallico.
Modo d'azione
Importanza del pH
chelante tri-dentato = dimetilentriammina
Da questo esempio è chiara anche l'influenza del pH del mezzo nel
determinare la formazione del chelato ,se fossimo in ambiente acido i
gruppi amminici sarebbero protonati, e cosi gli atomi di azoto non
sarebbero più elettrondonatori, non disponendo più di un doppietto
elettronico non condiviso.
Un parametro importante
per descrivere l'affinità di
un legante per un certo
metallo, utile per predire la
formazione di un chelato, è
Log K , il logaritmo della
costante di formazione K
La complessazione di un certo metallo ha un pH ottimale
Un parametro importante per descrivere 1'affinità di un legante è per un
certo metallo, utile per predire la formazione di un chelato, e Log K , il
logaritmo della costante di formazione K, di cui la tabella riporta
alcuni valori per 1 ' acido citrico e 1'EDTA, rispetto ad un certo numero
di ioni metallici.
Il significato pratico di questi numeri è che un valore alto di Log K indica
una forte tendenza alla formazione del chelato tra il metallo e il legante.
Questi valori possono anche essere utilizzati per prevedere la selettività
della reazione di chelazione quando sono presenti più metalli. Così in
presenza di EDTA tra gli ioni ferro e ioni calcio saranno i primi, gli ioni
ferrici, ad essere sequestrati preferenzialmente (e, vista l’enorme
differenza nei valori delle costanti, pari a circa 10 - 1 4 , preferenzialmente
è di fatto da intendere come quantitativamente: uno ione calcio ogni
mille miliardi di ioni ferro!).
Lo stesso accadrebbe in presenza del legante acido citrico, perché anche
in questo caso gli ioni ferro hanno Log K più elevato rispetto agli ioni
calcio. In questo secondo caso, la differenza tra le due costanti è più
contenuta rispetto all'EDTA: la acido citrico diventa cosi un chelante
meno selettivo (uno ioni calcio ogni dieci milioni di ioni ferro).
importante però considerare anche che la complessazione di un certo
metallo ha un pH ottimale: nel caso dell'EDTA, il pH ottimale per lo ioni
calcio e intorno al valore 10, mentre per lo ione ferro è intorno al valore
6.
L ' uso dei chelanti.
L'utilizzo di questi composti è legato alla necessità di controllare la
quantità di ioni metallici presenti in un certo mezzo; questa necessità può
derivare da svariate circostanze (problemi di solubilità, addolcimento
delle acque, trattamento degli effluenti industriali, intossicazione da
metalli pesanti).
L ' azione di questi chelanti consiste appunto nella loro capacità di
sequestrare gli ioni metallici una forma complessa, che solitamente ha
proprietà chimico fisiche spiccatamente differenti da quelle degli stessi
ioni metallici liberi, e rendendo quindi possibile una differenziazione tra i
ioni metallici liberi e ioni metallici complessati.
Spesso i chelanti sono utilizzati in combinazione con detergenti di tipo
anionico: i tensioattivi anionici sono disattivati dalla presenza di ioni
calcio e magnesio che formano sali insolubili con saponi. In queste
circostanze la presenza di un chelante che sequestra questi ioni assicura
la corretta azione del detergente.
L'uso dei chelanti
L'azione di questi chelanti consiste appunto nella loro capacità di sequestrare gli
ioni metallici in una forma complessa, che solitamente ha proprietà chimico fisiche
spiccatamente differenti da quelle degli stessi ioni metallici liberi, rendendo quindi
possibile una differenziazione tra ioni metallici liberi e ioni metallici complessati.
Solubizzazione di una patina di corrosione
Un uso importante quasi privo di rischio strutturale, è quello che permette
di solubilizzare patine di corrosione (e dunque saline, composti di ioni del
metallo) su manufatti metallici. L'azione del chelante procede sulla patina
cioè fino a quando il chelante trova gli ioni metallici. Al raggiungimento
del nucleo sano del metallo sono presenti atomi metallici e non più ioni. La
velocità di azione del chelante sugli ioni è talmente bassa che possiamo
definirla, a tutti gli effetti, nulla.
Le principali caratteristiche chimico-fisiche delle sostanze chelanti che
trovano applicazione nel restauro sono descritte qui di seguito.
EDTA. La acido etilendiamminotetracetico (EDTA), o acido edetico, di
formula bruta C 1 0 H 1 6 N 2 O 8 e il peso molecolare 292, 24 g/mol è un solido
cristallino Bianco che diffonde decomponendosi a 220 gradi centigradi. E
un'acido tetraprotico è poco solubile in acqua (0, 50 g/l).
EDTA. L’acido
etilendiamminotetracetico
(EDTA), o acido edetico, di
formula bruta C10H16N2O8 e il
peso molecolare 292, 24 g/mol è
un solido cristallino bianco che
fonde decomponendosi a 220 °C.
È un'acido tetraprotico è poco
solubile in acqua (0, 50 g/l).
Contiene quattro gruppi carbossilici, che possano es s er e neutralizzati uno
alla volta con una base, formando sali, solubili in acqua: ad esempio con
idrossido di sodio, NAOH, si avrebbero: EDTA mono-sodico, bi-sodico,
tri-sodico e e tetra-sodico, indicati rispettivamente con EDTA-Na, EDTANa 2 , EDTA-Na 3 , e EDTA-Na 4 .
Tutti i sali hanno rispetto all'EDTA, migliore idrosolubilità, Il pH di una
soluzione acquosa di EDTA può essere anche molto acido, ph 2-3. Per
quanto riguarda infine la capacità complessante nei confronti del calcio si
possono dare le seguenti indicazioni 1 g EDTA-Na 3 complessa almeno
242 mg CaCO 3 ; 1 g EDTA-Na 4 complessa almeno 215 mg CaCO 3 . I1 pH
ottimale per la complessazione del calcio è 10.
Acido citrico. Di formula bruta C 6 H 8 0 7 ha peso molecolare 192, 12 g/mol
e (210, 14 come acido monoidrato), è un solido cristallino bianco che
fonde a 153 °C.propriamente un'acido tri-carbossilico idrossilato. E
solubile in acqua, alcoli, etilacetato. Le sue soluzioni possono arrivare a
pH circa 2,5 a 25°C.
Acido citrico.
Di formula bruta C6H8O7 e peso
molecolare 192, 12 g/mol è (210, 14 come
acido monoidrato a), è un solido cristallino
bianco che fonde a 153 °C. È propriamente
un'acido tri-carbossilico idrossilato. È
solubile in acqua, alcoli, etilacetato. Le sue
soluzioni possono arrivare a pH circa 2,5 a
25°C.
Trietanolammina
O più semplicemente TEA di formula
bruta C6H15NO3 e peso molecolare
149, 19 g/mol, è un liquido molto
viscoso (circa 600 cps), che può
cristallizzare a 18-21 °C. Non è
volatile (ha punto di ebollizione 335
°C, la bassissima tensione di vapore:
meno di 0, 001 mmHg). È molto
polare e di conseguenza molto solubile
in acqua e nei solventi organici polari
(alcoli, chetoni).
Reagendo con basi forma sali, i citrati, che hanno migliore attività
chelante. I citrato può chelare di ioni responsabili della durezza
dell'acqua, gli ioni calcio e magnesio e in un intervallo di pH 2-10; lo ione
ferro solo fino ph 8; lo ione rame a pH 2-9, gli ioni alluminio e nickel a
pH 2-14; to ione zinco a pH 5-9.
Trietanolammina. 0 più semplicemente TEA di formula bruta C 6 H 1 5 NO 3
e peso molecolare 149, 19 g/mol, è un liquido molto viscoso (circa
600cps), che può cristallizzare a 18-21 °C. Non è volatile (ha punto di
ebollizione 335 °C, la bassissima tensione di vapore: meno di 0, 001
mmHg). E molto polare e di conseguenza molto solubile in acqua e nei
solventi organici polari (alcoli, chetoni).
E' una base forte. Il pH di una soluzione acquosa 0, 1 N è 10, 5. E’ un
solvente poco penetrante (per 1'altissima viscosità) ma fortissima
ritenzione. E’ una delle poche basi organiche a bassa tossicità, infatti trova
ampio uso in preparazioni farmacologiche e cosmetiche come
alcalinizzante. Ha solo debole potere chelante.
Uso dei chelanti nel restauro.
I chelanti sono dunque sostanze utilizzabili per la rimozione di ioni
metallici. Dal punto di vista applicativo, questo si può tradurre in
operazioni diverse, a seconda del tipo di opera su cui si lavora.
Per manufatti metallici, i chelanti rappresentano la possibilità d i eliminare
patine di corrosione (cioè sali del metallo). Il pH del mezzo di lavoro deve
essere aggiustato a seconda del tipo di metallo su cui si opera. Per supporti
murali e lapidei, 1'uso di chelanti (principalmente 1 ' EDTA) in ambiente
a l c a l i n o è soprattutto utilizzato per la rimozione di patine contenenti lo
lone calcio: in forma di solfatazione (gesso o calcio solfato biidrato), di
ossalati (in quanto principalmente costituite da calcio ossalato), o
scialbature risultanti dalla carbonatazione superficiale della calce (patine
di calcio carbonato).
Uso dei chelanti nel restauro
I chelanti sono dunque sostanze utilizzabili per la rimozione di ioni metallici
• rappresentano la possibilità di eliminare
patine di corrosione (cioè sali del metallo).
manufatti metallici
•Il pH del mezzo di lavoro deve essere
supporti murali e lapidei
aggiustato a seconda del tipo di metallo su cui si
opera.
• principalmente l’EDTA
• ambiente alcalino
• per la rimozione di patine
contenenti lo ione calcio in
• solfatazione (gesso o calcio
forma di:
solfato biidrato),
• ossalati (in quanto
principalmente costituite da calcio
ossalato),
• scialbature risultanti dalla
carbonatazione superficiale della
calce (patine di calcio carbonato).
Particolare attenzione deve pero essere posta ad evitare 1'azione su
materiale costituente (calcio carbonato che nel caso di intonaci a malta di
calce, calcite nel caso di materiale lapideo) e sui pigmenti costituenti la
policromia (in quanto la maggior parte dei metalli costituenti i pigmenti,
cobalto, ferro, mercurio, rame, piombo, cadmio e alluminio) possono
essere complessati e quindi sono utilizzati dal chelante nelle giuste
condizioni di pH. La capacità complessante nei coilfronti di uno ione
specifico dipende comunque dal valore di pH. E ' difficile prevedere a
priori il rischio di una applicazione su una superficie policroma.
Ad esempio nella preparazione AB57 formulata dall'Istituto Centrale del
Restauro di Roma si mette chiaramente in evidenza come nella miscela di
uso generalizzato per normale pulitura non sia compreso un chelante. La
miscela infatti ha la seguente composizione:
• 1000 ml acqua distillata;
• 30 grammi di ammonio idrogeno carbonato (bicarbonato);
•
•
•
50 g sodio idrogeno carbonato (bicarbonato);
10 g Benzalconio cloruro al 10%;
60 grammi di sodio carbossimetilcellulosa. (NaCMC).
Si dice chiaramente che il chelante (25-125 g IDRANAL, cioe EDTA sale
bisodico) viene aggiunto solo nel caso di uso localizzato, in presenza di
carbonati e ossalati.
Purtroppo pero oggi non e infrequente riscontrare che questa aggiunta
viene sempre fatta al fine di velocizzare 1'azione, senza tenere in
considerazione il possibile rischio di interazione col supporto.
Per manufatti quali sculture lignee policrome 1 ' azione chelante può ess e r
sfruttata per 1 ' assottigliamento di strati pigmentati (in quanto i pigmenti
sono sali di metalli), in particolare quando il legante sia costituito da
caseina (precisamente caseina e calce, cioè calcio caseato) o uovo
(perché anche qui si può avere presenza di calcio ossalato e altri sali di
calcio).
Su altri manufatti policromi quali appunto i dipinti, i chelanti in
particolare l ' acido citrico e suoi sali mostrano efficace azione di pulitura.
Questa azione è pero difficile da razionalizzare in base al modo d'azione
che abbiamo descritto, cioè la capacita di sequestrare i ioni metallici.
vero che il generico sporco di deposito è in parte costituito da elementi
inorganici: particelle di ossidi metallici disaggregati e particelle di
carbonio in generale tenute coese dalla altra componente dello sporco,
quella lipofila, costituita da idrocarburi, grassi, ecc:. Sulla parte
inorganica il chelante può agire complessando gli ioni metallici, tuttavia
questo non è sufficiente a spiegare 1'azione di pulitura.
Due ricercatori inglesi hanno fornito un ' ottima interpretazione al
meccanismo d'azione in questi casi, che prende in considerazione la
natura di poli-elettroliti di queste sostanze: cioè il fatto che siano ioni con
numerose cariche negative. L ' interpretazione fornita puo e s s e r e riassunta
cosìi.
Nel caso della pulitura di una superficie, i tensioattivi non sono gli unici
composti avere attività superficiale: anche gli ioni con molte cariche
negative (come sono appunto i sali dell'EDTA, i citrati, e il sodio tripoli
fosfato) mostrano assorbimento preferenziale alle interfacce. Gia
questa azione può contribuire a diminuire la tensione interfacciale, e di
conseguenza a rendere la superficie pia bagnabile.
Ma c'e una azione pia profonda che possiamo descrivere in questo modo:
•
questi gli ioni possono agire in modo da neutralizzare
elettrostaticamente uno strato di vernice, cosi da favorire il distacco
del materiale di deposito;
• la repulsione elettrostatica tra cariche dello stesso segno, che si
sono depositate sulla superficie, fa Si che lo strato di deposito
cominci a disgregarsi e i frammenti passino nella fase acquosa;
• queste particelle di sporco sganciatesi dalla superficie
mantengono comunque le cariche negative che hanno assorbito, e
questo previene la loro riaggregazione, flocculazione e
rideposizione sulla superficie.
Anche nel caso della pulitura di una vernice èfondamentale valutare la
possibile interazione con strati pigmentati originari.
Vista la minore attivita chelante, 1'acido citrico è piu raccomandabile delle
EDTA. Diciamo che la semplice azione chelante può non essere
sufficiente ad ottenere il livello di pulitura desiderato,ma diventa
senz'altro una componente fondamentale: 1'ambiente alcalino (che tra
1'altro serve ad ottenere 1'anione del chelante), 1 ' attività detergente svolta
da un tensioattivo, e 1'attività chelante possono spesso portare, in
ambiente acquoso, a un risultato paragonabile a quello che si otterrebbe
con solventi organici.
Un gel che si è dimostrato particolarmente efficace nel trattamento di
pulitura è preparato utilizzando come addensante il carbopol al posto di
eteri di cellulosa. In questo caso bisogna aumentare la dose di base,
perché ne serve una certa quantità anche per salificate il carbopol (acido
poliacrilico e quindi acido esso stesso). Si procede del modo seguente:
• 2 grammi di acido citrico sono sciolti in
• 100 ml di acqua deionizzata e salificate con
• 10 ml di trietanolammina.
• Si aggiungono 3 g di carbopol 940, si mescola poi si lascia a
riposo (mescolando occasionalmente) fino ad gelificazione.
Questa preparazione si è dimostrata particolarmente efficace nel caso
della rimozione di materiale proteico (colla animale). Non ci sono
informazioni nella letteratura specifica che permettano di spiegare
adeguatamente il perché di questa azione. A livello di ipotesi ragionante
possiamo suggerire due meccanismi, che probabilmente contribuiscono al
modo dazione:
• I1 fatto che i chelanti in quanto poli-elettroliti possono avere
efficace interazione con le proteine anch'esse poli-elettroliti e
quest ' interazione influisce sulla solubilità;
•
I1 fatto che le proteine sono spesso associate a ioni metallici (a
maggior ragione nel caso di applicazione Beni artistici), suscettibili
all'azione complessante di un chelante.
Questo gel si dimostra sempre decisamente più attivo di uno simile ma
addensato con eteri di cellulosa, e questa differenza non è spiegabile solo
in termini di maggiore viscosità (e quindi migliore ritenzione del mezzo
acquoso). Come sempre nel caso del carbopol, si ipotizza un ruolo attivo
della addensante stesso e, verosimilmente causato dalle sue proprietà
acide.
Acido citrico. Di formula bruta C 6 H 8 0 7 ha peso molecolare 192, 12 g/mol
e (210, 14 come acido monoidrato), è un solido cristallino bianco che
fonde a 153 °C.propriamente un'acido tri-carbossilico idrossilato. E
solubile in acqua, alcoli, etilacetato. Le sue soluzioni possono arrivare a
pH circa 2,5 a 25°C.
Reagendo con basi forma sali, i citrati, che hanno migliore attività
chelante. I citrato può chelare di ioni responsabili della durezza
dell'acqua, gli ioni calcio e magnesio e in un intervallo di pH 2-10; lo ione
ferro solo fino ph 8; lo ione rame a pH 2-9, gli ioni alluminio e nickel a
pH 2-14; to ione zinco a pH 5-9.
Acido citrico.
Di formula bruta C6H8O7 e peso
molecolare 192, 12 g/mol è (210, 14 come
acido monoidrato a), è un solido cristallino
bianco che fonde a 153 °C. È propriamente
un'acido tri-carbossilico idrossilato. È
solubile in acqua, alcoli, etilacetato. Le sue
soluzioni possono arrivare a pH circa 2,5 a
25°C.
Trietanolammina
O più semplicemente TEA di formula
bruta C6H15NO3 e peso molecolare
149, 19 g/mol, è un liquido molto
viscoso (circa 600 cps), che può
cristallizzare a 18-21 °C. Non è
volatile (ha punto di ebollizione 335
°C, la bassissima tensione di vapore:
meno di 0, 001 mmHg). È molto
polare e di conseguenza molto solubile
in acqua e nei solventi organici polari
(alcoli, chetoni).
Trietanolammina. 0 più semplicemente TEA di formula bruta C 6 H 1 5 NO 3
e peso molecolare 149, 19 g/mol, è un liquido molto viscoso (circa
600cps), che può cristallizzare a 18-21 °C. Non è volatile (ha punto di
ebollizione 335 °C, la bassissima tensione di vapore: meno di 0, 001
mmHg). E molto polare e di conseguenza molto solubile in acqua e nei
solventi organici polari (alcoli, chetoni).
E' una base forte. Il pH di una soluzione acquosa 0, 1 N è 10, 5. E’ un
solvente poco penetrante (per 1'altissima viscosità) ma fortissima
ritenzione. E’ una delle poche basi organiche a bassa tossicità, infatti trova
ampio uso in preparazioni farmacologiche e cosmetiche come
alcalinizzante. Ha solo debole potere chelante.
Uso dei chelanti nel restauro.
I chelanti sono dunque sostanze utilizzabili per la rimozione di ioni
metallici. Dal punto di vista applicativo, questo si può tradurre in
operazioni diverse, a seconda del tipo di opera su cui si lavora.
Per manufatti metallici, i chelanti rappresentano la possibilità di eliminare
patine di corrosione (cioè sali del metallo). Il pH del mezzo di lavoro deve
essere aggiustato a seconda del tipo di metallo su cui si opera. Per supporti
murali e lapidei, 1'uso di chelanti (principalmente 1 ' EDTA) in ambiente
a l c a l i n o è soprattutto utilizzato per la rimozione di patine contenenti lo
lone calcio: in forma di solfatazione (gesso o calcio solfato biidrato), di
ossalati (in quanto principalmente costituite da calcio ossalato), o
scialbature risultanti dalla carbonatazione superficiale della calce (patine
di calcio carbonato).
Uso dei chelanti nel restauro
I chelanti sono dunque sostanze utilizzabili per la rimozione di ioni metallici
• rappresentano la possibilità di eliminare
patine di corrosione (cioè sali del metallo).
manufatti metallici
•Il pH del mezzo di lavoro deve essere
supporti murali e lapidei
aggiustato a seconda del tipo di metallo su cui si
opera.
• principalmente l’EDTA
• ambiente alcalino
• per la rimozione di patine
contenenti lo ione calcio in
• solfatazione (gesso o calcio
forma di:
solfato biidrato),
• ossalati (in quanto
principalmente costituite da calcio
ossalato),
• scialbature risultanti dalla
carbonatazione superficiale della
calce (patine di calcio carbonato).
Particolare attenzione deve pero essere posta ad evitare 1'azione su
materiale costituente (calcio carbonato che nel caso di intonaci a malta di
calce, calcite nel caso di materiale lapideo) e sui pigmenti costituenti la
policromia (in quanto la maggior parte dei metalli costituenti i pigmenti,
cobalto, ferro, mercurio, rame, piombo, cadmio e alluminio) possono
essere complessati e quindi sono utilizzati dal chelante nelle giuste
condizioni di pH. La capacità complessante nei coilfronti di uno ione
specifico dipende comunque dal valore di pH. E ' difficile prevedere a
priori il rischio di una applicazione su una superficie policroma.
Ad esempio nella preparazione AB57 formulata dall'Istituto Centrale del
Restauro di Roma si mette chiaramente in evidenza come nella miscela di
uso generalizzato per normale pulitura non sia compreso un chelante. La
miscela infatti ha la seguente composizione:
• 1000 ml acqua distillata;
• 30 grammi di ammonio idrogeno carbonato (bicarbonato);
• 50 g sodio idrogeno carbonato (bicarbonato);
• 10 g Benzalconio cloruro al 10%;
• 60 grammi di sodio carbossimetilcellulosa. (NaCMC).
Si dice chiaramente che il chelante (2 5-125 g IDRANAL, cioe EDTA sale
bisodico) viene aggiunto solo nel caso di uso localizzato, in presenza di
carbonati e ossalati.
Purtroppo pero oggi non e infrequente riscontrare che questa aggiunta
viene sempre fatta al fine di velocizzare 1'azione, senza tenere in
considerazione il possibile rischio di interazione col supporto.
Per manufatti quali sculture lignee policrome 1 ' azione chelante può ess er
sfruttata per 1 ' assottigliamento di strati pigmentati (in quanto i pigmenti
sono sali di metalli), in particolare quando il legante sia costituito da
caseina (precisamente caseina e calce, cioè calcio caseato) o uovo
(perché anche qui si può avere presenza di calcio ossalato e altri sali di
calcio).
Su altri manufatti policromi quali appunto i dipinti, i chelanti in
particolare l ' acido citrico e suoi sali mostrano efficace azione di pulitura.
Questa azione è pero difficile da razionalizzare in base al modo d'azione
che abbiamo descritto, cioè la capacita di sequestrare i ioni metallici.
vero che il generico sporco di deposito è in parte costituito da elementi
inorganici: particelle di ossidi metallici disaggregati e particelle di
carbonio in generale tenute coese dalla altra componente dello sporco,
quella lipofila, costituita da idrocarburi, grassi, ecc:. Sulla parte
inorganica il chelante può agire complessando gli ioni metallici, tuttavia
questo non è sufficiente a spiegare 1'azione di pulitura.
Due ricercatori inglesi hanno fornito un ' ottima interpretazione al
meccanismo d'azione in questi casi, che prende in considerazione la
natura di poli-elettroliti di queste sostanze: cioè il fatto che siano ioni con
numerose cariche negative. L ' interpretazione fornita puo e s s e r e riassunta
così.
Particolare attenzione deve però essere posta ad evitare l'azione su materiale
costituente.
• calcio carbonato che nel caso di intonaci a malta di calce, calcite nel caso di
materiale lapideo) e
• sui pigmenti costituenti la policromia
La capacità complessante nei confronti di uno ione specifico dipende comunque
dal valore di pH. E’ difficile prevedere a priori il rischio di una applicazione su
una superficie policroma.
• assottigliamento di strati pigmentati (in
manufatti lignei policromi
quanto i pigmenti sono sali di metalli)
• quando il legante sia costituito da caseina
(precisamente caseina e calce, cioè calcio
caseato) o
• uovo (perché anche qui si può avere presenza
di calcio ossalato e altri sali di calcio).
Nel caso della pulitura di una superficie, i tensioattivi non sono gli unici
composti avere attività superficiale: anche gli ioni con molte cariche
negative (come sono appunto i sali dell'EDTA, i citrati, e il sodio tripoli
fosfato) mostrano assorbimento preferenziale alle interfacce. Gia
questa azione può contribuire a diminuire la tensione interfacciale, e di
conseguenza a rendere la superficie pia bagnabile.
Ma c'e una azione pia profonda che possiamo descrivere in questo modo:
• questi gli ioni possono agire in modo da neutralizzare
elettrostaticamente uno strato di vernice, cosi da favorire il distacco
del materiale di deposito;
• la repulsione elettrostatica tra cariche dello stesso segno, che si
sono depositate sulla superficie, fa Si che lo strato di deposito
cominci a disgregarsi e i frammenti passino nella fase acquosa;
•
queste particelle di sporco sganciatesi dalla superficie
mantengono comunque le cariche negative che hanno assorbito, e
questo previene la loro riaggregazione, flocculazione e
rideposizione sulla superficie.
manufatti policromi: i
dipinti
meccanismo d'azione
natura di poli-elettroliti
• gli ioni con molte cariche negative (sali dell'EDTA, citrati, e
sodio tripoli fosfato) mostrano assorbimento preferenziale alle
interfacce. Già questa azione può contribuire a diminuire la
tensione interfacciale e di conseguenza a rendere la superficie
più bagnabile
• questi ioni possono agire in modo da neutralizzare
elettrostaticamente uno strato di vernice, così da favorire il
distacco del materiale di deposito;
• la repulsione elettrostatica tra cariche dello stesso segno, che
si sono depositate sulla superficie, fa sì che lo strato deposito
cominci a disgregarsi e i frammenti passino nella fase acquosa;
• queste particelle di sporco sganciatesi dalla superficie
mantengono comunque le cariche negative che hanno assorbito, e
questo previene la loro riaggregazione, flocculazione e
rideposizione sulla superficie.
Anche nel caso della pulitura di una vernice è fondamentale valutare la
possibile interazione con strati pigmentati originari.Vista la minore
attivita chelante, 1'acido citrico è piu raccomandabile delle EDTA.
Diciamo che la semplice azione chelante può non essere sufficiente ad
ottenere il livello di pulitura desiderato,ma diventa senz'altro una
componente fondamentale: 1'ambiente alcalino (che tra 1'altro serve
ad ottenere 1'anione del chelante), 1 ' attività detergente svolta da un
tensioattivo, e 1'attività chelante possono spesso portare, in ambiente
acquoso, a un risultato paragonabile a quello che si otterrebbe con
solventi organici.
Composizione delle miscele
• l'ambiente alcalino (che tra l'altro serve ad ottenere l'anione del chelante)
• l’attività detergente svolta da un tensioattivo
• l'attività chelante
possono spesso portare, in ambiente acquoso, a un risultato paragonabile a
quello che si otterrebbe con solventi organici.
Un gel che si è dimostrato particolarmente efficace nel trattamento di
pulitura è preparato utilizzando come addensante il carbopol al posto
di eteri di cellulosa. In questo caso bisogna aumentare la dose di
base, perché ne serve una certa quantità anche per salificate il
carbopol (acido poliacrilico e quindi acido esso stesso). Si procede
del modo seguente:
•
•
•
•
2 grammi di acido citrico sono sciolti in
100 ml di acqua deionizzata e salificate con
10 ml di trietanolammina.
Si aggiungono 3 g di carbopol 940, si mescola poi si lascia a
riposo (mescolando occasionalmente) fino ad gelificazione.
Questa preparazione si è dimostrata particolarmente efficace nel caso
della rimozione di materiale proteico (colla animale). Non ci sono
informazioni nella letteratura specifica che permettano di spiegare
adeguatamente il perché di questa azione. A livello di ipotesi ragionante
possiamo suggerire due meccanismi, che probabilmente contribuiscono al
modo dazione:
• I1 fatto che i chelanti in quanto poli-elettroliti possono avere
efficace interazione con le proteine anch'esse poli-elettroliti e
quest ' interazione influisce sulla solubilità;
• I1 fatto che le proteine sono spesso associate a ioni metallici (a
maggior ragione nel caso di applicazione Beni artistici), suscettibili
all'azione complessante di un chelante.
Questo gel si dimostra sempre decisamente più attivo di uno simile ma
addensato con eteri di cellulosa, e questa differenza non è spiegabile solo
in termini di maggiore viscosità (e quindi migliore ritenzione del mezzo
acquoso). Come sempre nel caso del carbopol, si ipotizza un ruolo attivo
della addensante stesso e, verosimilmente causato dalle sue proprietà
acide.
Un gel che si è dimostrato particolarmente efficace nel trattamento di pulitura è
preparato utilizzando come addensante il carbopol al posto di eteri di cellulosa
Si procede del modo seguente:
• 2 grammi di acido citrico sono sciolti in
• 100 ml di acqua deionizzata e salificate con
• 10 ml di trietanolammina.
• si aggiungono 3 g di carbopol 940, si mescola poi si lascia
a riposo (mescolando occasionalmente) fino ad
gelificazione.
efficace nel caso della rimozione di materiale proteico
Ecco due ipotesi di meccanismi, che probabilmente contribuiscono al modo
d’azione:
• Il fatto che i chelanti in quanto poli-elettroliti possono avere efficace
interazione con le proteine anch'esse poli-elettroliti e quest’interazione influisce
sulla solubilità;
• Il fatto che le proteine sono spesso associate a ioni metallici (a maggior
ragione nel caso di applicazione beni artistici), suscettibili all'azione
complessante di un chelante
• nel caso del carbopol, inoltre si ipotizza un ruolo attivo della addensante
stesso causato dalle sue proprietà acide.
Gli enzimi.
Gli enzimi sono proteine, cioè polipeptidi di struttura complessa: composti
organici macromolecolari di origine naturale.
I loro precursori, cioè i monomeri, sono delle sostanze organiche ossigenate e
azotate dette amminoacidi.
Gli amminoacidi sono composti organici
bifunzionali che contengono un gruppo
carbossilico (-COOH) e un gruppo
amminico (-NH2) e per questo sono
composti anfoteri
La caratteristica strutturale che differenzia
tra loro i vari amminoacidi è la natura del
gruppo –R, detto catena laterale, presente
sul carbonio α.
Con queste premesse possiamo ora concentrare la nostra attenzione su quelle
proteine che svolgono la funzione biologica di enzimi. L'evoluzione della
biologia ha permesso l’elucidazione della struttura di numerosi enzimi, e quindi
la comprensione del loro meccanismo catalitico; successivamente lo sviluppo
della biotecnologia ha reso possibile l'utilizzo di numerosi enzimi anche al di
fuori dell'ambiente biologico in cui solitamente essi operano, portando così al
loro uso in molti processi industriali, alla stregua dei comuni reagenti chimici.
Rispetto i quali gli enzimi presentano però il vantaggio di maggiore selettività e
più blande condizioni operative.
Delle infinite strutture
possibili
(in teoria qualunque
radicale organico ) in
realtà solo relativamente
poche si incontrano in
natura: i principali aamminoacidi naturali sono
infatti solo venti
La struttura degli enzimi.
Dal punto di vista strutturale tutti gli enzimi sono complesse proteine,
solitamente con pesi molecolari variabili tra 104 e 106. Sono presenti in tutti gli
organismi viventi, all'interno delle cellule. Certi microrganismi hanno anche la
capacità di secerne enzimi all'esterno: in questo caso l'attività enzimatica
avviene al di fuori della cellula.
Per la sua natura anfotera la molecola di un amminoacido si può ionizzare sia in
ambiente acido, producendo un catione che in ambiente basico, producendo un
anione. Ad un certo valore di pH del mezzo in cui l’amminoacido si trova, la
molecola può esistere nella forma doppiamente ionizzata. Il volore di pH a cui si
verifica questo prende il nome di punto isoelettrico pI ed è caratteristico di
quell’amminoacido .
Gli enzimi sono proteine con attività biologica di catalizzatori: hanno la
funzione di rendere più veloci (di un fattore compreso tra 106 e 1012 volte)
reazioni biochimiche di conversione di un substrato. Ogni enzima è altamente
specifico, cioè in grado di catalizzare un solo tipo, o al massimo pochi tipi, di
reazione.
Due amminoacidi possono reagire fra loro attraverso una reazione di
condensazione, che libera una molecola di acqua e lega i due residui
attraverso un legame di tipo ammidico, detto:
legame peptidico
formando un dipeptide
Questa molecola possiede ancora due gruppi funzionali reattivi alle
estremità opposte, e quindi, per condensazioni successive, può accrescersi in
entrambe le direzioni
Molti enzimi sono composti di una parte proteica associata a un gruppo
prostetico di natura non amminoacidica. L'intero complesso allora è chiamato
oloenzima, la parte proteica vera e propria apoenzima e il gruppo prostetico
cofattore. Ci sono molti tipi di cofattori, di natura organica o no. Tra i primi i
composti più importanti sono probabilmente le vitamine; tra i secondi i metalli,
più propriamente gli ioni metallici, rivestono un ruolo particolarmente
importante, perché la loro presenza contribuisce a mantenere l'enzima nella
sua conformazione nativa. Per questa ragione sono spesso chiamati anche
attivatori. Molti cofattori organici partecipano attivamente al ciclo catalitico,
agendo come temporanei accettori o donatori di atomi, o più in generale di
gruppi funzionali, trasferiti tra l'enzima e substrato. Se agiscono in questo
modo, questi con fattori sono più propriamente chiamati coenzimi.
In generale si usa il
termine oligopeptide per
indicare un prodotto di
condensazione formato
da poche unità di
amminoacidi.
Molteplici condensazioni
porteranno alla
formazione di
polipeptide che se molto
complessi, con pesi
molecolari tra 103 e 106
vengono comunemente
chiamati proteine
La catalisi. Gli enzimi promuovono reazioni che in loro assenza, non
avverrebbero del tutto o avverrebbero a una velocità così limitata da essere di
fatto trascurabile. In alcuni casi, possono agire anche da catalizzatori negativi,
nel senso di reprimere una certa reazione che in loro assenza avverrebbe, ma
viste le finalità, ci limitiamo a trattare dei catalizzatori positivi.
Gli enzimi promuovono reazioni che in loro assenza, non avverrebbero del tutto o
avverrebbero a una velocità così limitata da essere di fatto trascurabile
Acido + base = sale + acqua
Estere + acqua + catalizzatore = acido + alcol + catalizzatore
Questo dunque è il significato di catalizzatore: una specie che fa avvenire una
certa reazione chimica, senza venirne modificato (pur prendendo attivamente
parte alla reazione).
Efficienza = numero di cicli catalitici
Fermiamoci su questo concetto di catalisi.
Consideriamo ad esempio la reazione chimica di neutralizzazione o
salificazione:
Acido + base = sale + acqua.
Tutto quello che occorre fare perché la reazione avvenga, cioè perché reagenti
(acido e base) si trasformino in prodotti di reazione (sale e acqua), è
mescolare i reagenti: la reazione avviene spontaneamente consideriamo ora
quest'altra reazione:
Estere + acqua =
Non abbiamo scritto prodotti di reazione perché, se non si aggiunge una
specie, chiamata catalizzatore, non avviene alcuna reazione: l'estere in
presenza di acqua non è reattivo.. Se invece aggiungiamo il catalizzatore, che
nel caso specifico può esser un acido con una base, allora si ha la seguente
reazione:
Estere + acqua + catalizzatore = acido + alcol + catalizzatore
Cioè l'idrolisi (= scissione) dell'estere nei suoi costituenti, l’acido e l'alcol.
Come si vede dall'equazione, il catalizzatore compare sia sinistra che a destra:
lo ritroviamo inalterato a reazione avvenuta. Questo dunque è il significato di
catalizzatore: una specie che fa avvenire una certa reazione chimica, senza
venirne modificato (pur prendendo attivamente parte alla reazione). Proprio
per questo, perché resta inalterato dalla reazione, è in grado di compiere cicli:
quando la prima molecola di estere è stata idrolizzata, il catalizzatore
promuove l'idrolisi di una seconda, e così via. Questo comunque non va avanti
all'infinito, in quanto anche il miglior catalizzatore, dopo un certo numero di
cicli (che può essere comunque molto elevato) si inattiva.
Parlando di efficienza di uno specifico catalizzatore si fare riferimento proprio
al numero di cicli catalitici che esso è in grado di promuovere. Da questo si
deduce ovviamente che il catalizzatore è presente in piccola quantità rispetto
ai reagenti: una molecola di catalizzatore è in grado di trasformare molte
molecole di reagenti. In particolare tra i vari catalizzatori, gli enzimi (che sono
catalizzatori biologici) sono estremamente efficienti: possono arrivare
compiere fino a milioni di ciclica catalitici.
La cinetica delle reazioni enzimatiche.
La trattazione dell'attività catalitica enzimatica non può prescindere da alcune
considerazioni sulla cinetica chimica, che descriveremo comunque a grandi
linee per non appesantire troppo la trattazione.
Tutte le molecole possiedono una cosiddetta energia cinetica, che possiamo,
in prima approssimazione, considerare come la capacità di venire in contatto
le une con le altre, dando così luogo a delle collisioni favorevoli: collisioni cioè
che permettono il decorrere di reazioni chimiche. In particolare le molecole (i
reagenti) si combinano nel cosiddetto stato di transizione, uno stadio
intermedio ad alta energia, che poi evolve nella formazione di nuove molecole
(i prodotti di reazione), che hanno un contenuto energetico minore.
C'è però una barriera energetica da superare perché i reagenti possano
arrivare allo stato di transizione, barriera che viene appunto definita energia di
attivazione. Se le molecole che collidono hanno energia sufficiente a portarle
al livello richiesto per raggiungere lo stato di transizione, l’urto non è
favorevole e non si ha reazione chimica.
Le molecole (i reagenti) si combinano nel cosiddetto stato di transizione, uno
stadio intermedio ad alta energia, che poi evolve nella formazione di nuove
molecole (i prodotti di reazione), che hanno un contenuto energetico minore.
Un catalizzatore agisce, quando si combina con i reagenti, in maniera da
abbassare questa barriera energetica verso lo stato di transizione, e quindi verso
la formazione dei prodotti
A temperatura ambiente, poche molecole sono in grado di superare questa
barriera energetica, e quindi di reagire chimicamente. Aumentando la
temperatura, solitamente aumenta l'energia e il moto delle molecole, e di
conseguenza aumenta la probabilità che queste collisione si trasformino in
collisioni favorevoli: di fatto, aumenta la cosiddetta velocità di reazione.
Un catalizzatore agisce, quando si combina con i reagenti, in maniera da
abbassare questa barriera energetica verso lo stato di transizione, e quindi
verso la formazione dei prodotti: anche le molecole meno dotate di energia
cinetica possono allora dar luogo a collisioni che si trasformino in reazione
chimica. A parità di temperatura, dunque, una reazione catalizzata avrà minore
energia di attivazione, e quindi procederà in maniera più veloce rispetto la
stessa reazione non catalizzata. Nel caso delle reazioni enzimatiche, poi, si fa
riferimento alla teoria di Michaelis-Menten che interpreta l’analisi enzimatica
dal punto di vista cinetico. La velocità di una reazione enzimatica è
proporzionale alla concentrazione sia del substrato che dell'enzima: è facile
comprendere infatti come maggiori concentrazioni di entrambe le specie
possano risultare in maggiore probabilità di combinazione e quindi in più alta
velocità di reazione.
Se invece la quantità di enzima è costante, come ad esempio avviene nei
sistemi biologici, la velocità di reazione aumenta iperbolicamente
all'aumentare della concentrazione del substrato fino raggiungere un massimo,
o plateau, dove si stabilizza al cosiddetto valore di velocità massima, che non
dipende più dalla concentrazione del substrato.
Questo andamento, mostrato nel diagramma, può esser interpretato
considerando che l'enzima è un numero finito di siti che possono combinarsi
con il substrato: quando tutti siti sono occupati, cioè all'aumentare della
concentrazione del substrato, l'enzima saturo di substrato e non si ha più
aumento della velocità di reazione anche aumentando la concentrazione del
substrato. Da queste premesse si può poi arrivare a determinare il cosiddetto
ordine di reazione e sviluppare i modelli di cinetica enzimatica che sono al di
fuori dei nostri scopi.
La specificità.
L'altra caratteristica più notevole di questi catalizzatori biologici è la specificità,
cioè l'elevata selettività per un certo tipo di substrato: come se essi avessero
la capacità di riconoscere determinate strutture su cui esplicare la loro attività
catalitica.
La specificità
Un’altra caratteristica notevole di questi catalizzatori biologici è la specificità,
cioè l'elevata selettività per un certo tipo di substrato: come se essi avessero la
capacità di riconoscere determinate strutture su cui esplicare la loro attività
catalitica
ogni enzima possiede una regione detta
sito attivo, la cui conformazione permette
l'interazione solo con un substrato di
struttura per spaziale ben precisa
La specificità per il substrato è
basata sulla somiglianza
strutturale tra la particolare
conformazione spaziale del sito
attivo e la forma tridimensionale
del substrato
Detto in altre parole, se l'enzima riconosce un certo substrato lo trasforma,
altrimenti no, lo lascia inalterato.
Ancora una volta è la forma di queste proteine ad impartire loro questa
particolare attività. Come esemplificato infatti nello schema, ogni enzima
possiede una regione detta sito attivo, la cui conformazione permette
l'interazione solo con un substrato di struttura per spaziale ben precisa.
Tra le numerose molecole che si trovano ad avvicinarsi, l'enzima è in grado di
riconoscere quella che ha la giusta struttura, che andrà dunque a posizionarsi
entro quel sito, dando inizio a quella serie di processi che costituisce il ciclo
catalitico dell'enzima. Le altre molecole di substrato che non hanno forma
appropriata per interagire con sito attivo delle enzima non si potranno
associare e non saranno dunque soggette all'azione enzimatica. Il
riconoscimento del substrato da parte dell'enzima è dunque basato sulla
somiglianza strutturale tra la particolare conformazione spaziale del sito attivo
nella forma tridimensionale del substrato. Questo primo tipo di specificità è
chiamato specificità per il substrato.
Esiste un secondo livello di selettività, che ha a che fare, come vedremo in
seguito, con il tipo di trasformazione che l'enzima è in grado di catalizzare su
un certo substrato: la specificità per il tipo di reazione catalizzata.
un secondo livello di selettività è la specificità per il tipo di reazione catalizzata
Sono di fatto gli
amminoacidi presenti nella
zona del sito attivo (più
precisamente, le catene
laterali che si trovano su
questi amminoacidi) i
responsabili di una certa
forma del sito attivo
Sono di fatto gli amminoacidi presenti nella zona del sito attivo (più
precisamente, le catene laterali che si trovano su questi amminoacidi) i
responsabili di una certa forma del sito attivo: come mostrato di esempio nella
figura 3 (dove la catena elicoidale rappresenta lo scheletro della proteina e i
numeri indicano l'ordine di sequenza degli amminoacidi costituenti), in un
particolare enzima, si nota l'abbondanza dell'amminoacido fenilalanina (PHE),
che con la sua caratteristica struttura aromatica impartisce al sito attivo un ben
preciso carattere lipofilo e una certa planarità. Molecole lipofile, e a struttura
almeno localmente planare, ad esempio, saranno particolarmente a loro agio
in quel sito attivo, dove tutti residui aromatici (planari) potranno assicurare
forze di interazione di tipo apolare ottimali.
Il ciclo catalitico.
Il meccanismo di catalisi enzimatica, in generale, può esser rappresentato
come nello schema. Nel primo stadio il substrato, S e l'enzima, E, si
avvicinano. Si ha così la formazione di un complesso enzima-substrato, ES. A
questo punto si hanno cambiamenti conformazionali nell’enzima stesso che
permettono la formazione di nuovi legami covalenti e non covalenti (forze di
attrazione di tipo polare, apolare e di legame a idrogeno) e la dissociazione di
legami preesistenti, trasformando il complesso ES nel nuovo complesso
modificato, ES’. Nel caso specifico è rappresentata una reazione di idrolisi,
che scinde la molecola di substrato. A trasformazione avvenuta, la nuova
struttura del substrato trasformato, S’, non è più in grado di interagire con il
sito attivo dell’enzima efficacemente come prima della trasformazione, il
complesso ES si dissocia liberando il substrato trasformato S’ e l'enzima E
inalterato, pronto a ricominciare un nuovo ciclo.
Il ciclo catalitico.
Il meccanismo di catalisi enzimatica, in
generale, può esser rappresentato come
nello schema
•
•
•
Associazione
Trasformazione
Dissociazione
Qui si è rappresentata un’azione idrolitica, che scinde il substrato. Non
necessariamente però l'azione enzimatica è un'azione distruttiva: nei sistemi
biologici infatti gli enzimi servono anche a sintetizzare cioè costruire nuove
molecole partendo da precursori più semplici.
Nel restauro, nella maggior parte dei casi, per ora siamo purtroppo limitati
all'uso di soli enzimi che degradano materiali organici complessi in frammenti
più semplici, cioè enzimi idrolitici; solo su particolari supporti inorganici (muro,
lapideo) si sono iniziate sperimentazioni con altri tipi di enzimi, come
descriveremo meglio in seguito. Il ciclo analitico può quindi essere
rappresentato come composto dei seguenti tre stadi corrispondenti,
rispettivamente, pari a fenomeni di: associazione, trasformazione e
dissociazione.
La figura mostra schematicamente
il meccanismo d'azione, all'interno
del sito attivo, per un particolare
enzima, una carbossipeptidasi,
capace di idrolizzare un polipeptide,
rimuovendo uno alla volta
l'amminoacido terminale dalla parte
acida (testa) della catena
Questo meccanismo dà un'idea di
come il processo catalitico sia
un’azione concertata tra diverse
zone all'interno del sito attivo:
legami chimici vengono rotti o
formati a seconda del tipo di
interazione che si stabilisce tra
certe parti del substrato e le catene
laterali di amminoacidi all'interno
del sito
La figura mostra schematicamente il meccanismo d'azione, all'interno del sito
attivo, per un particolare enzima, una carbossipeptidasi, capace di realizzare
un polipeptide, rimuovendo una volta l'amminoacido terminale dalla parte
acida (testa) della catena.
• Nel primo passaggio, il substrato, un polipeptide con una appropriata
catena laterale aromatica (r 0=Tirosina) entra nel sito attivo delle enzima,
dove è stabilizzato dalle interazioni con i gruppi funzionali degli
amminoacidi indicati (in posizione 145, 248, e 270 nella catena delle
enzima).
• Successivamente nel secondo passaggio il legame con l'amminoacido
terminale del polipeptide viene idrolizzato grazie all'azione del
carbossilato e alla donazione di un idrogeno da parte del residuo: il resto
del polipeptide resta ancorato al sito attivo e, attraverso il residuo 270.
• Nel III passaggio cambiamenti conformi nazionali nel sito attivo
rilasciano l'amminoacido terminale e generano, con il contributo di una
molecola d'acqua, il gruppo carbossilico terminale sul polipeptide.
• Infine, nell'ultimo passaggio, anche il polipeptide residuo (con un
amminoacido in meno rispetto prima) viene rilasciato dal sito attivo.
Questo meccanismo dà un'idea di come processo catalitico sia una azione
concertata tra diverse zone all'interno del sito attivo: legami chimici vengono
rotti o formati a seconda del tipo di interazione che si stabilisce tra certe parti
del substrato e delle catene laterali di amminoacidi all'interno del sito.
Questa carbossipeptidasi è realtà un metallo-enzima: la sua attività è
subordinata la presenza di uno ione di zinco nel sito attivo (non mostrato, per
semplicità, nella figura). Questo ione è in grado di formare un legame di
coordinazione con il gruppo carbossilico adiacenti a quello carbossilico
terminale, facilitando così la rottura del legame preesistente e la formazione di
quello nuovo.
Denaturazione degli enzimi.
Le proteine, in generale, sono dette native quando si trovano nella
conformazione naturale, a cui è associata quella certa attività specifica.
Cambiamenti nelle condizioni chimico/fisiche del mezzo in cui si trovano (pH,
temperatura, presenza di sali) o il contatto con certi agenti chimici (detergenti,
solventi) possono denaturare una proteina, cioè modificarne la struttura e
quindi l'attività.
Denaturazione degli enzimi
Cambiamenti nelle condizioni chimico/fisiche del mezzo in cui si trovano (pH,
temperatura, presenza di sali) o il contatto con certi agenti chimici (detergenti,
solventi) possono denaturare una proteina, cioè modificarne la struttura e quindi
l'attività.
La denaturazione di una proteina può essere reversibile o irreversibile. Nel caso
specifico degli enzimi, quindi proteine con attività catalitica, la denaturazione le
rende inattive. Si possono avere seguenti casi:
Inibitori competitivi
Inibitori non competitivi
Inibitori non specifici
Si legano reversibilmente al sito attivo dell'enzima, che
non è più disponibile per il substrato
Si legano reversibilmente all'enzima, ma non nel sito
attivo, e quindi causano una alterazione strutturale
della conformazione dell'enzima
Molte sostanze chimiche (detergenti, solventi) possono
legarsi reversibilmente o irreversibilmente ad enzimi, sia
nel sito attivo che in altre zone
La denaturazione di una proteina può essere reversibile o irreversibile. Nel
caso specifico degli enzimi, quindi proteine con l'attività catalitica, la
denaturazione le rende inattivi. Si possono avere seguenti casi:
Inibitori competitivi. Si legano reversibilmente al sito attivo dell'enzima, che
non è più disponibile per il substrato. In questo caso l'inibizione dipende dal
rapporto tra la concentrazione dell'inibitore e quella del substrato. Questi
inibitori sono specifici a seconda del tipo di enzima.
Inibitori non competitivi. Si legano reversibilmente all'enzima, ma non nel sito
attivo, e quindi causano una alterazione strutturale della conformazione
dell'enzima. Agiscono in questo modo gli ioni di metalli pesanti come argento,
mercurio, piombo, cadmio.
Inibitori non specifici. Inoltre numerose altre sostanze chimiche (detergenti,
solventi) possono legarsi reversibilmente o irreversibilmente ad enzimi, sia nel
sito attivo che in altre zone. Nell'esempio della carbossipeptidasi sopra
riportato, la presenza di un chelante (una sostanza capace di complessare e
sequestrare gli ioni metallici) porterebbe ad inibizione in quanto il chelante
sequestrerebbe lo ione calcio, indispensabile ai fini dell'attività enzimatica.
Classificazione degli enzimi.
Secondo la classificazione elaborata nel 1956 ogni enzima viene caratterizzato
da un numero quattro cifre, del tipo EC x. x. x. x.
• La prima cifra indicata classe generale di appartenenza:
1. ossidoriduttasi
2. transferasi
3. idrolisi
4. lipasi
5. isomerasi
6. ligasi.
• La seconda cifra indica la sottoclasse. Per le idrolasi, in particolare,
indica il tipo di legame idrolizzato:
1. legami esterei
2. legami glicosidici
3. legami eterei
4. legami peptidici
• La terza cifra indica lassù sotto-sottoclasse, e per le idrolasi specifica
ulteriormente il tipo di legame rotto o formato.
• La quarta cifra infine rappresenta numero progressivo delle enzima nella
sotto-sottoclasse.
Classificazione degli enzimi.
EC x. x. x. x.
La prima cifra indicata classe
generale di appartenenza:
•
•
•
•
•
•
ossidoriduttasi
transferasi
idrolasi
lipasi
isomerasi
ligasi.
La seconda cifra indica la
sottoclasse. Per le idrolasi, in
particolare, indica il tipo di
legame idrolizzato:
•
•
•
•
legami esterei
legami glicosidici
legami eterei
legami peptidici
La terza cifra indica la sotto-sottoclasse, e per le idrolasi specifica
ulteriormente il tipo di legame rotto o formato
La quarta cifra infine rappresenta il numero progressivo dell’enzima nella
sotto-sottoclasse
Enzimi idrolitici (idrolasi).
Siccome per il restauro interessano gli enzimi idrolitici o idrolasi, enzimi che
catalizzano l'idrolisi di certi legami, e quindi hanno la capacità di degradare
molecole a carattere polisaccaridico (cellulosa, amido e sostanze amilacee),
proteico (collagene e colle/gelatina animali, albumine, case ignee, un uopo),
lipidico (oli, grassi, cere), la nostra trattazione da ora in avanti si limita a
considerare questo tipo di enzimi. Lo schema seguente riporta la
classificazione dei principali tipi di idrolasi.
Fonti delle idrolasi.
Per quanto riguarda le fonti da cui si ricavano questi enzimi commercialmente
disponibili, possiamo così riassumerle. Gli enzimi proteolitici possano essere:
di origine animale, derivati dai tessuti di alcuni organi, principalmente stomaco
e pancreas, come pepsina, tripsina, pancreatina e proteasi gastrica; di origine
vegetale, ricavati dai frutti ananas, papaya e fico come bromelaina, papaina,
ficina; di origine microbica, isolati da varie specie di batteri, soprattutto bacillus,
e funghi, in particolare Aspergillus.
Enzimi idrolitici (idrolasi)
classificazione dei principali tipi di idrolasi
Per il restauro interessano gli
enzimi idrolitici o idrolasi, enzimi
che catalizzano l'idrolisi di certi
legami, e quindi hanno la
capacità di degradare molecole a
carattere:
•
polisaccaridico
(cellulosa, amido e
sostanze amilacee),
•
proteico (collagene e
colle/gelatine animali,
albumine, caseine, uovo),
•
lipidico (oli, grassi,
cere),
Analogamente gli enzimi lipolitici per possano essere: di origine animale
estratti dai tessuti del pancreas, come le lipasi pancreatiche; di origine
vegetale, come le lipasi ricavate dai germi di frumento, avena e simili; di
origine microchimica.
Le amilasi infine possono essere: di origine animale, dalla saliva come Ptialina
o dai tessuti di alcuni organi, come le amilasi pancreatiche; di origine
microbica, isolati da varie specie di batteri, soprattutto Bacillus e funghi, in
particolare aspergillus di origine vegetale, ricavate in generale da tuberi.
Fonti delle idrolasi
Gli enzimi proteolitici possano essere
di origine animale:
derivati dai tessuti di alcuni organi,
principalmente stomaco e pancreas,
come pepsina, tripsina, pancreatina e
proteasi gastrica
di origine vegetale, ricavati dai frutti
ananas, papaya e fico come
bromelaina, papaina, ficina
di origine microbica, isolati da varie
specie di batteri, soprattutto bacillus, e
funghi, in particolare Aspergillus.
Le amilasi infine possono essere:
di origine animale:
dalla saliva come Ptialina o dai
tessuti di alcuni organi, come le
amilasi pancreatiche;
di origine microbica:
isolati da varie specie di batteri,
soprattutto Bacillus e funghi, in
particolare aspergillus
di origine vegetale:
ricavate in generale da tuberi.
Gli enzimi lipolitici possano essere:
di origine animale :
estratti dai tessuti del pancreas, come le lipasi pancreatiche;
di origine vegetale:
come le lipasi ricavate dai germi di frumento, avena e simili;
di origine microbica.
Enzimi o microrganismi?
Molti microrganismi che si sviluppano su opere d'arte, il più in generale su
svariati manufatti, esplicano la loro azione di degrado proprio grazie ad enzimi
che vengono secreti all'esterno, direttamente sul materiale, così da poterlo
utilizzare come nutrimento. Ne sono un tipico esempio le cellulasi, idrolasi in
grado di idrolizzare la cellulosa ( il polisaccaride formato di β-glucosio) ma
prive di azione sull'amido (il polisaccaride formato di α-glucosio): questi
microrganismi sono fattori di degrado per tutti quei manufatti contenenti
cellulosa.
Numerosi altri microrganismi sono in grado di produrre enzimi che esplicano
attività lipolitica, proteolitica e amilolitica. Ne consegue che, senza dover
ricorrere all'enzima in forma solida, più o meno purificata, si potrebbe
ipotizzare l'utilizzo del microrganismo che produce l'enzima per operazioni
finalizzate alla pulitura, o peraltro operazioni comunque inerenti il restauro di
opere d'arte.
Questo in alcuni casi è già attuato su supporti lapidei comunali. In certi casi
addirittura, in questo modo si riesce a sfruttare un’azione costruttiva anziché
quella idrolitica distruttiva: i batteri calcificanti, ad esempio, sono microrganismi
in grado di ricostruire calcite su supporti a base carbonatica. Il supporto
inorganico, relativamente semplice, permette in alcuni casi che la crescita del
microrganismo possa essere fatta senza creare troppi problemi secondari.
Certo è impossibile pensare che il prolungato apporto di umidità, necessario
per la crescita di microrganismi, possa essere privo di rischio per gli altri
supporti (legno, tela, carta), e più in generale per i materiali organici. Come
minimo questi materiali andrebbero soggetti alla formazione di muffe.
Ma c'è un altro problema, non meno critico: non necessariamente i
microrganismi si limitano a produrre quegli enzimi che di fatto esplicano
un'azione desiderata: altre azioni, di tipo indesiderato, potrebbero avere
altrettanta possibilità di svilupparsi. Sicuramente al livello attuale delle
conoscenze, su opere policrome mobili (tele, tavole, carte) l'uso di enzimi puri,
in forma solida, è da considerare come l'unico trattamento enzimatico che dia
sufficienti garanzie di sicurezza operativa.
Certo questa è una limitazione: ad esempio, al momento, non sono disponibili
enzimi semplici purificati in grado di agire sui idrocarburi (sostanzialmente
scindendo legame carbonio-carbonio), che potrebbero essere utilizzabili per la
rimozione di materie quali le resine terpeniche, principali costituenti delle
vernici finali, o il bitume, spesso utilizzato in patinature di opere d'arte.
Numerosi microrganismi sono invece in grado di compiere questa
trasformazione, e sono correntemente utilizzati in trattamenti di bioremediation in casi di inquinamento ambientale per fuoriuscita di petrolio
Enzimi o microrganismi?
Molti microrganismi che si sviluppano su opere d'arte, più in generale su
svariati manufatti, esplicano la loro azione di degrado proprio grazie ad
enzimi che vengono secreti all'esterno, direttamente sul materiale, così da
poterlo utilizzare come nutrimento
Numerosi microrganismi sono dunque in grado di produrre enzimi che
esplicano attività lipolitica, proteolitica e amilolitica
Ne consegue che, senza dover ricorrere all'enzima in forma solida, più o meno
purificata, si potrebbe ipotizzare l'utilizzo del microrganismo che produce
l'enzima per operazioni finalizzate alla pulitura, o per altre operazioni
comunque inerenti al restauro di opere d'arte.
Un’azione costruttiva la
svolgono i batteri
calcificanti: microrganismi in
grado di ricostruire calcite su
supporti a base carbonatica.
Svantaggi:
prolungato apporto di umidità
altre azioni di tipo indesiderato
La saliva naturale e sintetica.
La saliva naturale.
La saliva è un fluido corporeo complesso, secreto da ghiandole specializzate
dell'apparato digerente, e provvede all'emulsionamento dei nutrienti ingeriti.
Quest'azione è sorprendentemente efficace quando si consideri che la
composizione della saliva è per oltre 98% acqua. Il rimanente 2% è una
complessa combinazione di componenti organici e inorganici: proteine (enzimi,
globuline, albumine, e mucina), acidi (ascorbico, lattico, citrico, urico), basi
(ammoniaca), altre sostanze organiche. (fenoli, fosfolipidi, colesterolo, urea) e
composti inorganici (sali di sodio, potassio, magnesio, calcio, ioni cloruro e
fosfato).
Da sempre, potremmo dire, si conoscono le proprietà detergenti della saliva
applicata alla superficie pittorica di un dipinto; a parte la difficoltà di ottenere
quantità rilevanti di saliva, motivi di ordine biologico né sconsigliano l'uso, in
quanto l'eventuale presenza di batteri potrebbe innescare fenomeni di
biodeterioramento dell'opera d'arte.
La saliva naturale e sintetica
La saliva è un fluido corporeo complesso, secreto da ghiandole specializzate
dell'apparato digerente, e provvede all'emulsionamento dei nutrienti ingeriti
98 %
acqua
2%
complessa combinazione di componenti:
•
proteine (enzimi, globuline, albumine,
e mucina),
•
•
•
acidi (ascorbico, lattico, citrico, urico),
•
basi (ammoniaca),
altre sostanze organiche. (fenoli,
fosfolipidi, colesterolo, urea)
C omposti inorganici (sali di sodio,
potassio, magnesio, calcio, ioni cloruro
e fosfato).
Ottime proprietà detergenti della saliva applicata alla superficie pittorica di un
dipinto
È opinione abbastanza comune che la capacità detergente della saliva derivi
da una azione enzimatica. In realtà uno studio dettagliato condotto da O'Hoski
suggerisce che si tratti piuttosto di una forte azione emulsionante. L'enzima più
abbondante della saliva è infatti una amilasi salivare, la ptialina, un enzima
amilolitico. Fisiologicamente questa azione enzimatica è sicuramente
importante, in quanto serve a predigerire sostanze amilacee contenute nel
cibo ingerito, sostanze ampiamente diffuse. Spiegare questa azione
enzimatica sulla superficie di un dipinto, invece, non è così semplice: sostanze
amilacee non si riscontrano infatti così frequentemente. Eppure la saliva
esercita azione detergente sulla superficie pittorica in numerosissimi casi. Altri
enzimi presenti nella saliva, lipasi e proteasi, sono in concentrazione così
bassa che è difficile spiegare una loro efficacia in operazioni di pulitura. D'altra
parte, uno dei più abbondanti componenti non enzimatici, la mucina, è una
proteina dotata di forti proprietà tensioattive.
Questo ha suggerito l'idea che la saliva potesse avere attività detergente,
piuttosto che enzimatica, nelle applicazioni di pulitura di dipinti. Oltre a ciò, gli
acidi e basi presenti possono contribuire al potere detergente, in particolare
l'acido citrico, un'acido organico ha notevole potere chelante. Sulla base di
queste ipotesi, l'autrice ha ricostruito delle salive sintetiche contenenti solo
certi componenti, per arrivare a verificare il meccanismo d'azione. I risultati
sembrano confermare che l'azione tensioattiva della mucina sia quella
principalmente responsabile del potere detergente della saliva.
La saliva sintetica.
I principi attivi i responsabili dell'azione emulsionante e detergente della saliva
naturale possono quindi essere formulati in preparazioni artificiali che simulano
l'azione della saliva, senza però riprodurre i difetti, come il potenziale rischio di
contaminazione biologica del manufatto trattato. In particolare si è verificato
che soluzione acquosa e molto diluite (allo 0, 1-0, 5% in peso/volume)
contenenti mucina hanno un'azione detergente paragonabile a quella della
saliva naturale, nel caso specifico della pulitura di un'immagine pittorica. Il pH
di queste soluzioni, originariamente neutro, può essere leggermente
modificato verso l'acidità o basicità per piccole aggiunte, rispettivamente, di
acido citrico o ammoniaca.
L'uso della saliva. Conviene, per le ragioni espresse in precedenza, utilizzare
sempre una saliva sintetica piuttosto che la saliva naturale.
La saliva può esser utilizzata come, più in generale, un tensioattivo acquoso:
• Per pulire superfici di dipinti che siano sensibili all'azione di solventi
organici;
• Come tensioattivo secondario, per effettuare il lavaggio intermedio
(prima di quello finale acquoso) di altre preparazioni acquose, come i
Resin soaps e gli enzimi.
Particolarmente efficace è dopo l'uso enzimatico: in presenza di materiale già
parzialmente idrolizzato, la forte azione emulsionante della mucina assicura la
completa rimozione dei frammenti del materiale completando così l’azione di
pulitura( che resta comunque blanda e ben controllabile). La bassissima
concentrazione di solidi disciolti nella saliva sintetica, rende di fatto
inverosimile l'idea della permanenza di residui non volatili. Si raccomanda
dunque di effettuare applicazioni di saliva sintetica (lavorazione a pennello
sottile o a tampone invenduto) su un tassello di pulitura precedente, cui
seguirà come di consueto un lavaggio acquoso.
Applicazioni pratiche.
Una saliva sintetica a pH neutro può essere preparata sciogliendo 0, 1-0, 2 g
di mucina in 100 ml di acqua deionizzata aggiungendo 0, 1-0, 2 g di
triammonio citrato (o ammonio citrato tribasico). Occorre un certo tempo e una
certa agitazione per di sciogliere la mucina, e l'operazione è facilitata
riscaldando leggermente a temperatura di 35-40 °C.
Una volta preparata la soluzione è utilizzabile per circa 10-15 giorni: anche la
mucina, in quanto proteina, è infatti labile in soluzione, e va soggetta a
progressiva denaturazione con perdita delle proprietà emulsionanti e
detergenti. La mucina in forma solida è termolabile, e deve essere conservata
refrigerata protetta dall'umidità. Con queste precauzioni il materiale in forma
solida ha una durata di 6-9 mesi.
La caratteristica importante di queste soluzioni di saliva sintetica è il loro
bassissimo contenuto di solidi. Questo ci assicura che dopo il trattamento un
lavaggio acquoso con tampone appena inumidito è sufficiente rimuovere
completamente il materiale residuo. L'ipotesi di lasciare residui solidi, dunque,
è veramente remota.
Quando sia preferibile utilizzare una preparazione leggermente acida, ad
esempio per solubizzare materiali proteici come una colla animale, a questa
preparazione di base può esser giunto un leggero eccesso di acido citrico
(come solido), controllando con una cartina indicatrice fino ad arrivare a pH a
circa 6. Al contrario, se è preferibile una saliva leggermente alcalina, più utile
ad esempio per solubizzare materiali grassi o oleosi, si può aggiungere alla
miscela standard un leggero eccesso di ammonio idrossido molto diluito (circa
l'1%, cioè diluendo 30 volte ammoniaca concentrata al 30-33%), come sempre
controllando il pH con una cartina fino ad arrivare al valore di circa 8.
quando occorra un'azione molto localizzata, in modo da diminuire la diffusione
dell'acqua, anche la saliva sintetica può essere addensata con eteri di
cellulosa a formare un gel.
Insieme ai tensioattivi in ambiente acquoso (bile, Tween 20, coccocollagene)
anche la saliva sintetica può esser utilizzata per la pulitura superficiale dei
dipinti a olio molto sensibili ai solventi organici (come nel caso di oli piuttosto
recenti), una volta verificata la compatibilità del supporto con il mezzo
acquoso. Particolarmente raccomanda abile, come abbiamo descritto in
precedenza, è l'uso della saliva come tensioattivo di lavaggio dopo
l'applicazione degli enzimi
Gli enzimi nel restauro
in un sistema biologico
nel restauro
reazione in fase omogenea
reazione in fase eterogenea
Con uguale certezza possiamo dire che non necessariamente le conoscenze che
abbiamo estrapolate nel caso di reazioni in fase omogenea siano ancora
rigorosamente valide in queste condizioni
Questo non vuol dire che l'uso di un simile restauro sia rischioso per
l'integrità strutturale dell'opera trattata perché ci mancano questi studi.
Selettività e specificità degli enzimi permangono anche in queste condizioni
Gli enzimi nel restauro.
L'uso degli enzimi nel campo del restauro di manufatti artistici non può
prescindere da una considerazione generale sulle caratteristiche di questa
applicazione del tutto particolare, caratteristiche che influenzano
profondamente le modalità operative.
In generale, quando consideriamo l'azione di un enzima in un sistema
biologico ci troviamo in questa situazione: l'enzima è sciolto in ambiente
acquoso (quello del citoplasma intracellulare) e in questo stesso ambiente
arriva al substrato, anche esso disciolto. Queste condizioni, definite
tecnicamente reazione in fase omogenea, sono ottimali per l'azione
enzimatica. Su queste oltretutto si basa la maggior parte delle nostre
conoscenze sul modo d’azione degli enzimi. Diciamo che queste sono le
condizioni che troviamo in un organismo vivente, e che sono riprodotte anche
negli studi fatti in un laboratorio biologico.
È bene evidente che le condizioni in cui lo stesso enzima può essere
impiegato nel restauro sono profondamente diverse: noi applichiamo l'enzima
disciolto in un mezzo acquoso sopra un substrato solido, come materiale
presente all'interno di uno strato (spesso neanche omogeneo, né ben definito
sia dal punto di vista della composizione che della sua localizzazione).
Questa situazione è probabilmente più vicina ai meccanismi con cui i
microrganismi bio-deteriogeni catalizzano il degrado di manufatti artistici: in
questo caso gli enzimi in soluzione vengono secreti al di fuori della cellula,
sopra il materiale che fungerà da substrato della particolare reazione
enzimatica.
Queste condizioni, che definiamo reazione è in fase eterogenea, ora sono
tutt'altro che ottimali per il decorrere della reazione enzima-substrato.
Sicuramente non sbagliamo se diciamo che la reazione catalizzata dall'enzima
avverrà con maggiore difficoltà, rispetto alla reazione in fase omogenee.
Con uguale certezza possiamo dire che non necessariamente le conoscenze
che abbiamo estrapolate nel caso di reazioni in fase omogenea siano ancora
rigorosamente valide in queste condizioni.
Più oltre, ad esempio, parlando di pigmenti come possibili inibitori della attività
enzimatica, ci imbatteremo proprio in questo tipo di problema.
La conclusione è che sicuramente necessitano studi specifici, ricavati
direttamente dalle applicazioni enzimatiche nel restauro, per chiarire ancora
molti punti incerti.
Si noti bene però che questo non vuol dire che l'uso di un simile restauro sia
rischioso per l'integrità strutturale dell'opera trattata perché ci mancano questi
studi. Selettività e specificità degli enzimi permangono anche in queste
condizioni. Semplicemente in certi casi siamo ancora lontani dal saper fare
una applicazione ottimale, e nei frequenti casi di insuccesso siamo ancora
impreparati a comprendere in pieno le ragioni di quest’insuccesso.
Non necessariamente l'intervento enzimatico è precluso in assenza di una
conoscenza certa del tipo di materiale
Se l'approccio alla pulitura è stato effettuato con:
•
Test di solubilità di Feller, per determinare un valore di polarità a cui il
materiale sia eventualmente solubile in solventi neutri;
•
•
•
Prova di solubilità con polarità ancor maggiore (alcol etilico);
Prova di solubilità con acqua;
Prova di solubilità con solventi dìpolari aprotici;
Criteri di scelta dell'enzima.
L'approccio all'intervento enzimatico è riassunto nello schema seguente.
fig
La natura del materiale da rimuovere, se nota, determina il tipo di idrolasi da
utilizzare: proteasi, lipasi o amilasi.
Ma la scelta deve anche tener conto della natura degli altri materiali quelli
originari che devono essere preservati inalterati dall'operazione di pulitura. È
evidente pertanto che sarebbe importante avere qualche informazione precisa
sulla natura di questi materiali, informazione derivata da diagnostica
preliminare all'intervento di pulitura.
Sappiamo però altrettanto bene quanto raramente, soprattutto nella pratica
privata del restauro, si faccia ricorso ad analisi preliminari (principalmente per
una ragione di costi). Diciamo allora che non necessariamente l'intervento
enzimatico è precluso in assenza di una conoscenza certa del tipo di
materiale. Prendiamo in altre parole come sempre un approccio empirico al
problema: vogliamo illustrare brevemente come, anche in questo caso,
l'intervento enzimatico possa comunque risultare a minor rischio per l'integrità
dell'opera rispetto ad altri metodi di intervento più convenzionali.
Se l'approccio alla pulitura è stato effettuato come abbiamo descritto in
precedenza, e cioè:
• Test di solubilità di Feller, per determinare un valore di polarità a cui il
materiale sia eventualmente solubile in solventi neutri;
• Prova di solubilità con polarità ancor maggiore (alcol etilico);
• Prova di solubilità con acqua;
• Prova di solubilità con solventi dìpolari aprotici;
E se, dopo tutte queste prove, si è verificata l'impossibilità ad sciogliere il
materiale, allora, senza un grosso margine di errore, possiamo concludere di
trovarci in presenza di un materiale (o di una mescolanza di materiali diversi)
per il quale è necessario un intervento di tipo chimico.. Tradizionalmente
verrebbero usati acidi e basi (ionizzazione e dissociazione e più raramente
idrolisi), e quindi possiamo pensare all'alternativa enzimatica (idrolisi).
Immaginiamo di aver concluso, dopo avere ottenuto esito negativo dalla serie
di prove sopra elencate, che il materiale sia di tipo oleoso: un olio molto
invecchiato, e quindi molto polimerizzato, che necessita di ionizzazione o
idrolisi per la rimozione. Decidiamo così di utilizzare una lipasi, ma anche
questa non sortisce effetto, perché il materiale, in realtà, era a carattere
proteico. Proviamo dunque anche una proteasi e questa volta funziona. Quali
rischio ha comportato l'uso della lipasi? Praticamente irrilevante, rispetto ad
altri metodi.
Se infatti avessimo usato subito basi quali ammoniaca concentrata, oppure
butilammina, saremmo arrivati comunque ad sciogliere il materiale, con il
rischio però di intaccare anche gli strati sottostanti, vista la forte azione non
selettiva di questa sostanza. La lipasi, invece, non ha riconosciuto il materiale
oleoso e quindi non ha agito. Semplicemente, abbiamo utilizzato l'enzima
inutilmente.
Possiamo dunque in generale confermare quanto detto poco sopra: non
conoscendo con esattezza la natura del materiale da rimuovere, è forse meno
rischioso utilizzare comunque gli enzimi (che sono intrinsecamente selettivi)
piuttosto che i convenzionali reagenti acidi o basici (che non hanno selettività).
Bisogna inoltre considerare che l'esperienza e la pratica di un restauratore
possono di fatto guidarlo a fare delle ragionevoli supposizioni circa la natura
del materiale; supposizioni che possono anche essere convalidate da altre
prove, sempre di tipo empirico.
Un materiale insolubile in tutte le fasi di prova descritte sopra, e che sia
immediatamente solubile in acido acetico glaciale (intendendo questa come
una semplice prova puntuale, estremamente circoscritta ad una limitatissima
zona!) è quasi sicuramente un materiale proteico.
Analogamente, un film di olio di lino invecchiato, anche se non più solubile,
sarà generalmente suscettibile al prolungato contatto di solventi come il
diacetonalcol o il metiletilchetone (intendendo anche queste come semplici
prove localizzate ad una zona molto ristretta): e questa suscettibilità potrà
mostrarsi magari come un certo rigonfiamento dello strato (il materiale proteico
in queste condizioni sarebbe invece assolutamente inerte). Un semplice test di
tipo chimico, come quello di Lugol, può immediatamente identificare materiale
amilaceo. Questo test si basa sul fatto che una soluzione di iodio e potassio
ioduro (commercialmente disponibile già pronta, senza neanche bisogno di
doverla preparare, come reagente di lugol) vira al bruno/blu in presenza di
amido. È pertanto sufficiente prendere poche scaglie del materiale incognito,
solubizzarlo (se solubile ovviamente) in poche gocce di acqua riscaldata, e
aggiungere una goccia di reattivo: l'eventuale colorazione bruna/blu
identificherebbe positivamente quel materiale come amido.
Nell'appendice II sono descritte alcune semplici reazioni micro-analitiche, che
il restauratore stesso può fare del proprio laboratorio, e che possono fornire
informazioni utili sulla composizione dei materiali.
Queste considerazioni, oppure una precisa risposta diagnostica, quando
disponibile, possono dunque guidarci nella prima scelta: lipasi, proteasi o
amilasi.
Immaginiamo di aver concluso, dopo avere ottenuto esito negativo dalla serie di
prove sopra elencate, che il materiale sia di tipo oleoso
Decidiamo così di utilizzare una lipasi
ma anche questa non sortisce effetto
Proviamo dunque anche una proteasi
questa volta funziona
Quali rischio ha comportato l'uso della lipasi?
Praticamente irrilevante, rispetto ad altri metodi
Una svolta decisa la classe di idrolasi, il tipo commerciale di quell'enzima
viene scelto in base alle condizioni ottimali che esso richiede: queste devono
essere compatibili col tipo di dipinto, o più in generale di manufatto da trattare.
Ad esempio è evidente la ragione per cui non possiamo utilizzare per la
pulitura di un dipinto quegli enzimi che sono comunemente aggiunti ai detersivi
per uso domestico, che hanno temperature ottimali di 80-90 gradi centigradi.
Per quanto riguarda proprio la temperatura, il primo parametro fondamentale,
diciamo che generalmente gli enzimi, in quanto catalizzatori biologici operanti
all'interno di sistemi viventi, hanno una temperatura ottimale di lavoro intorno
ai 36-40 gradi centigradi. Le eccezioni sono comunque numerose
particolarmente nel caso di enzimi prodotti da microrganismi, che vengono
quindi secreti all'esterno dall'organismo stesso. Non è infrequente allora
trovare la temperatura ambiente (25 gradi centigradi) come temperatura
ottimale. In generale i cataloghi forniscono informazioni circa la temperatura
ottimale per ogni particolare tipo di enzima. E’ evidente che se si utilizza
enzimi con temperatura ottimale elevata, bisognerà considerare l'ipotesi di
surriscaldamento della miscela enzimatica e della superficie stessa da trattare.
Torneremo più oltre su questo punto.
Una svolta decisa la classe di idrolasi, il tipo commerciale di quell'enzima
viene scelto in base alle condizioni ottimali che esso richiede: queste devono
essere compatibili col tipo di dipinto, o più in generale di manufatto da trattare.
la temperatura
il primo parametro fondamentale, poichè gli enzimi, in quanto catalizzatori
biologici operanti all'interno di sistemi viventi, hanno una temperatura ottimale
di lavoro intorno ai 36-40 gradi centigradi
attività specifica
un altro parametro importante da considerare nella scelta tra i possibili tipi di
enzima; è caratteristica di ogni preparazione enzimatica commerciale, espressa
solitamente in unità di substrato trasformato per mg di preparazione
enzimatica, in condizioni standard di temperatura e ad un certo valore di pH
Un altro parametro importante da considerare nella scelta tra i possibili tipi di
enzima è la cosiddetta attività specifica, caratteristica di ogni preparazione
enzimatica commerciale, espressa solitamente in unità di substrato
trasformato per mg di preparazione enzimatica, in condizioni standard di
temperatura e ad un certo valore di pH. In prima approssimazione questo
parametro può essere spiegato così: l'enzima è disponibile come polvere
solida; quanto di questa polvere è effettivamente enzima? Quanta cioè di
questa polvere è dotata di attività catalitica? Più alto è il valore di attività
specifica, maggiore è la capacità catalitica di una certa quantità di insulina.
Alcuni prodotti commerciali, tra cui certe lipasi e la pepsina, hanno attività
specifiche molto elevate (fino a 1500-2000 unità per mg), mentre altri
(soprattutto certe proteasi microbiche) hanno mediamente valori molto inferiori
(0,1-1 unità per mg).
È evidente che nel caso di preparazioni a bassa attività diventa maggiormente
importante avvicinarsi il più possibile alle condizioni ottimali di lavoro (pH e
temperatura).
pH ottimale
un altro parametro da considerare è specifico per ogni tipo di enzima.
Se il mezzo acquoso in cui l'enzima si trova ha un pH che si discosta da
questo valore l’attività può esserne compromessa
costo.
il parametro certo non ultimo come importanza, varia fortemente a seconda dei
tipi e della loro purezza. Maggiore purezza significa indubbiamente maggiore
specificità e attività, ma il costo può diventare proibitivo.
Occorre comunque fare alcune considerazioni: l'attività specifica viene definita
per ogni enzima come la quantità di solido necessaria ad ionizzare in un certo
tempo, ad una certa temperatura, una quantità predeterminata di un certo
substrato. Normalmente per la proteasi si utilizza caseina, per per l’amilasi
amido, per le lipasi trioleina, il trigliceride dell'acido oleico, nelle condizioni di
temperatura e pH descritte di volta in volta. Il valore di attività specifica
misurato si riferisce dunque a quella operazione: ma nei nostri casi di utilizzo,
il più delle volte utilizzeremo lo stesso enzima ma con altri substrati. In
generale ad esempio, i trigliceridi con cui avremmo a che fare noi saranno
quelli di oli siccativi, principalmente trilinoleina e trilinolenina. Se volessimo
dunque avere un valore preciso di riferimento dell'attività specifica dovrebbe
misurarla utilizzando i nostri substrati. Questo serve a far capire come, in fin
dei conti, anche questo parametro sia da considerare come indicativo.
Preparazione.
ambiente esclusivamente acquoso
giusto pH
•
(acqua distillata, esente dei ioni metallici pesanti)
sostanze tampone o buffers biologici, che sono compatibili con
proteine e quindi non denaturano gli enzimi
Il tampone Tris
sono
particolarmente
utili in quanto
permettono di
ottenere diversi
valori di pH
compresi tra 7,2 e
9, semplicemente
variando la
quantità relative
dei due componenti
utilizzati: la base
tris e suo sale
(cloridrato) Tris
HCl.
Per l'ambiente acido, necessario
ad esempio nel caso della
pepsina, il tampone acetico,
composto di acido acetico e
sodio acetato, o il tampone
fosforico, composto di acido
fosforico e suoi sali sodici, a
pH 5-5, 5,
Un altro parametro da considerare è il pH ottimale per quel certo tipo di
enzima. Se il mezzo acquoso in cui l'enzima si trova ha un pH che si discosta
da questo valore l’attività può esserne compromessa. La relazione tra pH e
attività enzimatica è rappresentata dalla figura 6. Un enzima con una curva
come quella superiore, decisamente a picco, richiede un controllo
particolarmente rigoroso del pH del mezzo in cui si trova: il 100% di attività
infatti si ha solo in questo stretto intervallo intorno al a pH 7,5: discostandosi
anche poco da questo valore si ha notevole perdita di attività.. Nel caso della
curva inferiore invece la massima attività è intorno a pH 3. Però, per la
pendenza molto minore della curva, fino a pH 7 abbiamo attività residua
superiore al 75%. Un enzima di questo tipo sarà decisamente più versatile.
Queste curve sperimentali sono spesso disponibili dal produttore per varie
preparazioni enzimatiche o sono riportate nella letteratura specializzata.
Infine certo non ultimo come importanza, è il parametro del costo. Il costo di un
enzima varia fortemente a seconda dei tipi e della loro purezza. Maggiore
purezza significa indubbiamente maggiore specificità e attività, ma il costo può
diventare proibitivo. Un tipico esempio è la collagenasi, una proteasi specifica
per il collagene, che sarebbe quindi ottimale per tutte le operazioni del
restauro in cui si chiede la rimozione di una colla. Il costo di tale enzima ne
preclude di fatto ogni possibilità di utilizzo reale.
Di seguito vengono suggeriti per ogni classe alcuni possibili enzimi.
Condizioni sperimentali: da enzimi a preparazioni enzimatiche.
Preparazione.
Per prima cosa occorre preparare la soluzione (libera o addensata) in cui
l'enzima verrà disciolto.
• Per quanto riguarda l'utilizzo sui dipinti, è preferibile lavorare in un
ambiente esclusivamente acquoso, in quanto l'attività ottimale è
associata alla particolare conformazione che l'enzima possiede in questo
mezzo. Sono disponibili infatti studi circa l'utilizzo in ambiente acquoso e
di solventi organici ma riguardano solo il materiale cartaceo: sembra
comunque che la possibilità o no di lavorare in questo modo dipenda
fortemente dal tipo di enzima scelto. Ovviamente si tratta di acqua
distillata, esente dei ioni metallici pesanti che potrebbero inibire l'enzima.
• Si deve poi assicurare al mezzo acquoso il giusto pH, e fare in modo che
si mantenga costante entro certi limiti, attraverso l'aggiunta di sostanze
tampone o buffers, che hanno la capacità di mantenere pressoché
invariato il pH, anche qualora la soluzione venga in contatto con altre
sostanze a carattere acido o basico. È comune infatti ritrovare materiali
che a seguito di invecchiamento sono diventati acidi (principalmente oli e
resine naturali): se la soluzione basica in cui l'enzima è sciolto non è
tamponata, la sua variazione di pH, causata dal contatto con questi
materiali acidi, può essere tale da rallentare o addirittura inattivare
l'attività enzimatica. Il pH ottimale per un tipo specifico di enzima è
un'informazione che si può ottenere da fonti bibliografiche, da cataloghi o
dallo stesso fornitore. È importante utilizzare i cosiddetti buffers biologici,
che sono compatibili con proteine e quindi non denaturano gli enzimi. Il
tampone Tris sono particolarmente utili in quanto permettono di ottenere
diversi valori di pH compresi tra 7,2 e 9, semplicemente variando la
quantità relative dei due componenti utilizzati: la base tris e suo sale
(cloridrato) Tris HCl. Per l'ambiente acido, necessario ad esempio nel
caso della pepsina, il tampone acetico, composto di acido acetico e
sodio acetato, o il tampone fosforico, composto di acido fosforico e suoi
sali sodici, a pH 5-5, 5, rappresentano sovente una buona scelta; anche
in questo intervallo di pH sono comunque disponibili numerosi altri
buffers biologici.
• A questo punto a seconda che si voglia lavorare con soluzioni addensate
(e quindi in trattamenti localizzati) o libere (come per bagni di
immersione per materiale cartaceo), la soluzione sarà o no addensata
con un agente gelificante. A questo scopo sono raccomandati eteri di
cellulosa, come la metilcellulosa (vari nomi commerciali: benecel,
culminal, glutofix, methocel A, Tylose MB) la idrossipropilcellulosa (unico
nome commerciale klucel G) che sono neutri e quindi compatibili con
tutte le condizioni di pH; al contrario, la sodiocarbossimetil cellulosa, in
quanto sale, può non essere stabile in condizioni acide. È consigliabile
utilizzare prodotti di qualità, che siano privi di colorazione e che
producano alta viscosità in concentrazioni relativamente basse
(tipicamente una viscosità di circa 4000 cps quando usati in
concentrazioni 2-4% peso volume). Quest'ultima considerazione è
importante ai fini di minimizzare la quantità di materiale solido utilizzato e
quindi indirettamente la potenziale permanenza di residui solidi.
Opportunamente conservate queste soluzioni sono stabili per prolungati
periodi di tempo. Conservarle refrigerate è sempre raccomandabile. Nel
caso di soluzioni addensate, c'è la possibilità che, se contaminate,
possano sviluppare muffe anche se la suscettibilità al bio-deterioramento
di questi eteri di cellulosa non è alta come nel caso della cellulosa. È
comunque preferibile non aggiungere un antifermentativo, a meno che si
abbia la certezza che esso non abbia azione inibitrice nei confronti
dell'enzima che verrà utilizzato. Pertanto nel caso dei gel, si raccomanda
di non prepararne quantità eccessive che debbano poi essere
conservate per tempi troppo lunghi.
• Al momento dell'uso, a queste soluzioni, libere o addensate, si aggiunge
l'enzima scelto, in forma di polvere. Tutti gli enzimi devono essere
conservati come specificato (per la maggior parte è refrigerazione a 2-8
C°).
• Prelevato dal frigorifero, il contenitore viene fatto rinvenire a temperatura
ambiente prima dell'apertura (per evitare l'assorbimento di umidità).
• L'enzima solido viene pesato (occorre una piccola bilancia analitica, con
portata limitata, ma precisione di 0, 1 grammi, cioè 100 milligrammi).
Questa è l'unica vera fase di rischio dell'uso enzimatico: occorre infatti
utilizzare le necessarie misure (maschera per polveri e occhiali) per
evitare il contatto cutaneo e con le membrane, in quanto gli enzimi
possono provocare sensibilizzazione e irritazione. Per quanto riguarda la
quantità, cioè la concentrazione di queste soluzioni, solitamente si usano
quantità di enzima da 100-200 mg (per quelli ad alta attività specifica)
fino a un grammo (per quelli a bassa attività specifica) per 100 ml di
soluzione libera o di gel. Sul materiale cartaceo si lavora con
concentrazioni molto inferiori, ma nel caso dei dipinti è raccomandabile
portare sulla superficie un’attività di circa mille unità.
• L'enzima pesato viene aggiunto alla soluzione, mescolando con oggetti
non metallici (sempre per evitare la possibilità di contatto con ioni
metallici): il contenitore viene posto bagno maria ad una temperatura di
35-40 gradi centigradi per una ventina di minuti, mescolando gentilmente
per non inglobale troppa aria (soprattutto nel caso di gel questo è
indispensabile per avere una miscela omogenea). Occorre per questo
riscaldamento una piastra riscaldante dotata di termostato di buona
precisione.
Il controllo della temperatura è critico, perché si raggiungono temperature
troppo elevate e l'attività enzimatica può essere compromessa.
Molti enzimi sono infatti irreversibilmente denaturati a temperature superiori a
50 gradi centigradi. Nel caso di gel, poi, alcuni eteri di cellulosa tendono a
precipitare a temperature intorno a 40 gradi centigradi. Si nota un
intorbidamento della gel, soprattutto nella parte bassa del contenitore. Questo
fenomeno non compromette l'attività enzimatica, semplicemente influisce sulla
viscosità del gel. È comunque reversibile: basta raffreddare leggermente il gel
al di sotto di 40 gradi centigradi e si torna ad una miscela omogenea e
trasparente.
•
agente gelificante
eteri di cellulosa, come la metilcellulosa (vari
nomi commerciali: Benecel, Culminal, Glutofix,
Methocel A, Tylose MB) la
idrossipropilcellulosa (unico nome commerciale
Klucel G) che sono neutri e quindi compatibili con
tutte le condizioni di pH;
•
al contrario, la sodiocarbossimetil cellulosa, in
quanto sale, può non essere stabile in condizioni
Al momento dell'uso, a queste
soluzioni, libere o addensate, si aggiunge
acide.
l'enzima scelto, in forma di polvere
Prelevato dal frigorifero, il contenitore viene fatto rinvenire a temperatura
ambiente prima dell'apertura
L'enzima solido viene pesato solitamente si usano quantità di enzima da 100200 mg (per quelli ad alta attività specifica) fino a un grammo (per quelli a
bassa attività specifica) per 100 ml di soluzione libera o di gel.
L'enzima pesato viene aggiunto alla soluzione, mescolando con oggetti non
metallici (sempre per evitare la possibilità di contatto con ioni metallici): il
contenitore viene posto bagno maria ad una temperatura di 35-40 gradi
centigradi per una ventina di minuti
Applicazione.
La temperatura ottimale per l'applicazione enzimatica è solitamente intorno ai
30-40 gradi centigradi: se le condizioni dell'ambiente di lavoro e quindi del
manufatto da trattare si discostano troppo da questa temperatura occorre
pensare a un blando riscaldamento della superficie da trattare (attraverso una
semplice lampada ad incandescenza da 50 watt e mantenuta a distanza di
lavoro). È comunque indispensabile non superare mai i 45-50 gradi centigradi
perché molti enzimi sono termolabili, e vengono irreversibilmente inattivati da
temperature relativamente elevate. Se si lavora per immersione, è opportuno
provvedere ad una leggera agitazione del bagno durante il trattamento.
La soluzione addensate contenente l'enzima alla temperatura desiderata viene
applicata a tampone o a pennello su una piccola superficie. Può essere
lasciata agire indisturbata, oppure lavorata leggermente con un pennello
morbido (soprattutto in caso di rilievi e irregolarità superficiali). Il tempo di
applicazione che deve comunque essere determinato di volta in volta è
generalmente compreso tra uno e dieci minuti. È comunque indispensabile
accertarsi dopo uno, due, tre minuti, e così via, a del progredire dell'azione,
saggiando con un piccolo tampone di cotone la zona trattata. È indispensabile,
con tempi lunghi di applicazione, evitare l’essiccamento del gel in opera.
Questo può essere fatto ad esempio coprendo la superficie del gel con un
pezzo di melinex.
Applicazione.
La temperatura ottimale per l'applicazione enzimatica è solitamente intorno
ai 30-40 gradi centigradi
La soluzione addensate contenente l'enzima alla temperatura desiderata
viene applicata a tampone o a pennello su una piccola superficie. Può
essere lasciata agire indisturbata, oppure lavorata leggermente con un
pennello morbido (soprattutto in caso di rilievi e irregolarità superficiali).
Il tempo di applicazione che deve comunque essere determinato di volta in
volta è generalmente compreso tra uno e dieci minuti
Rimozione.
Essendo la preparazione enzimatica costituita da un mezzo acquoso
contenente materiali solidi, non volatili ma idrosolubili, l'unica procedura in
grado di garantire completa rimozione di residui solidi non può che essere un
lavaggio acquoso. Pertanto al termine dell'applicazione si asporta il gel con un
tampone asciutto, poi si effettuano lavaggi acquosi. Meglio ancora, come da
esperienza personale, facendo i primi lavaggi con una soluzione acquosa di
un tensioattivo: bile bovina allo 0,2% peso/volume in acqua, tween 20 al 1-2%
in volume/volume in acqua, oppure saliva artificiale (si veda oltre).
Il lavaggio con un tensioattivo (i tipi raccomandati sono ad alto numero HLB, il
che vuol dire fortemente emulsionanti) è importante: l'azione enzimatica
produce dei frammenti delle macromolecole originarie, frammenti che sono
comunque grandi visto il tempo limitato d'azione e hanno spesso carattere
lipofilo, e quindi non sono facilmente idrosolubili. Questo vuol dire che la
possibilità che questi frammenti restino comunque adesi alla superficie,
piuttosto che inglobati nel gel che viene rimosso, è alta. L'azione del
tensioattivo, in quanto emulsionante, cioè in grado di solubizzare anche
materie lipofile, assicura questa completa rimozione dei residui. La conferma
di questo si ha molte volte nella fase operativa: il gel ha asportato con
tampone asciutto non mostra particolare colorazione (al punto, a volte da far
dubitare che ci sia stata azione enzimatica): i successivi tamponi di lavaggio
con la soluzione di tensioattivo, invece, hanno una colorazione molto più
intensa. A seconda dei casi è conveniente ripetere questa lavorazione
(perché tale è, più che un semplice lavaggio) col tensioattivo due o tre volte.
A questa fa seguito un ultimo lavaggio con tampone inumidito d'acqua, che a
questo punto serve solamente a rimuovere residui della soluzione precedente.
Si lascia asciugare la zona trattata, e dopo il tempo sufficiente (4-5 ore) si
effettuano lavaggi della zona trattato con solventi leggeri (idrocarburi come
ligroina, essenza di petrolio, White spirits, ecc.) allo scopo di risaturare
ottimamente la superficie(e anche di inibire eventuale attività enzimatica
residua). Se è necessario ripetere l'applicazione si deve farlo prima di questo
lavaggio finale a solvente in quanto gli idrocarburi hanno attività inibitoria nei
confronti degli enzimi.
Su un certo substrato gli enzimi possono anche essere usati in sequenza,
avendo l'accortezza di applicare per ultimi i proteolitici, perché per la loro
azione idrolitica nei confronti delle proteine potrebbero rallentare la azione di
altri enzimi applicati successivamente. È preferibile in generale operare in
questo modo (enzimi in sequenza) piuttosto che con un cocktail enzimatico
(cioè enzimi mescolati insieme).
Visto che sfruttiamo gli enzimi soprattutto in virtù della loro selettività, che ci
garantisce di avere meno reazioni secondarie indesiderabili, e che ci
preoccupiamo, acquistando gli enzimi, che siano in forma sufficientemente
pura, così da contenere una sola attività enzimatica (amilolitica, proteolitica o
lipolitica), non avrebbe poi molto senso pensare di mescolare tra loro
componenti diversi. Certo è allettante l'idea di agire su mescolanze di materiali
diversi, che comunemente si incontrano sui manufatti artistici, con un cocktail
enzimatico che faccia tutto il lavoro in una volta sola. In alcuni casi studi
specifici sono stati condotti con miscele di enzimi su materiale cartaceo, e si è
potuta dimostrare una azione sinergica. Lo scrivente ritiene però che se lo
stesso lavoro può essere fatto con interventi separati in sequenza, questa sia
una via più ragionevole, perché può dare maggiori garanzie di miglior controllo
e di minore interferenza con l'opera. Anche la natura del manufatto,
sicuramente, può influenzare una scelta così: su un'materiale inorganico,
quale il lapideo, inerte all'azione enzimatica (limitandoci chiaramente alle
idrolasi che stiamo considerando), anche un cocktail enzimatico può avere la
sua utilità, quando si tratta di rimuovere tutto il materiale organico
eventualmente presente sopra di esso. Ma su supporti organici come tele e
tavole policrome, il rischio di tale mescolanza potrebbe essere difficile da
prevedere.
Come abbiamo detto sopra, gli enzimi in forma solida come polveri hanno
comunque durata di diversi mesi pare (9-12 solitamente) se conservati
appropriatamente. Una volta in soluzione però si alterano rapidamente. E
soluzioni contenenti enzimi devono essere conservate refrigerate quando non
in uso: in questo modo possono essere utilizzate per circa 2-3 settimane, con
progressiva diminuzione di attività fino ad essere inservibili. Per questo motivo
si raccomanda di non preparare eccessive quantità, a meno che si abbia la
certezza di usarle in tempi brevi. Nelle applicazioni del restauro, dove non è
quantificabile la quantità di materiale che sarà il substrato dell'enzima, è
impossibile predire quanto enzima servirà per la pulitura di una certa
superficie. Di fatto se si utilizzano enzimi in forma gelificata, si considera come
“resa” la quantità di superficie che può essere coperta da una certa quantità di
gel, sia esso enzimatico o no. Generalmente quindi si può dire che 100 ml di
gel enzimatico sono sufficienti per un metro quadro di superficie..
Rimozione.
lavaggio acquoso
Si asporta il gel con un tampone asciutto, poi si
effettuano lavaggi acquosi. Meglio ancora facendo i
primi lavaggi con una soluzione acquosa di un
tensioattivo: bile bovina allo 0,2% peso/volume in
acqua, Tween 20 al 1-2% in volume/volume in
acqua, oppure saliva artificiale
fa seguito un ultimo lavaggio con tampone inumidito
d'acqua, che a questo punto serve solamente a
rimuovere residui della soluzione precedente.
Si lascia asciugare la zona trattata per un tempo
sufficiente (4-5 ore)
Poi si effettuano lavaggi della zona trattato con
solventi leggeri (idrocarburi come ligroina, essenza
di petrolio, White spirits, ecc.)
Su un certo substrato gli enzimi possono anche essere usati in sequenza
Come abbiamo detto sopra, gli enzimi in forma solida come polveri hanno
comunque durata di diversi mesi pare (9-12 solitamente) se conservati
appropriatamente. Una volta in soluzione però si alterano rapidamente.
Le soluzioni contenenti enzimi devono essere conservate refrigerate quando
non in uso: in questo modo possono essere utilizzate per circa 2-3 settimane,
con progressiva diminuzione di attività fino ad essere inservibili.
Possibili modificazioni.
Aggiunta di un tensioattivo.
In generale, le reazioni catalizzate dagli enzimi nei sistemi viventi sono
reazioni in fase omogenea: il substrato è sciolto nello stesso mezzo acquoso
in cui si trova l'enzima. Nelle applicazioni a manufatti quali le opere d'arte, la
situazione è invece ben diversa: l'enzima sciolto nel mezzo acquoso è in
contatto superficiale con la sostanza filmogena solida. La reazione, che può
avvenire solo all'interfaccia, è chiaramente in fase eterogenea. Ciò equivale a
dire più difficile, o quanto meno più lenta. Il requisito fondamentale perché una
tale reazione abbia qualche possibilità di avvenire è che il contatto tra le due
fasi all'interfaccia sia eccellente. Anche questo purtroppo non è facile da
ottenere in molti casi. Molte superfici, soprattutto se costituite di materiali
oleosi, grassi (oli, resine, cere), sono estremamente idrofobe, e quindi
difficilmente bagnabili. Sicuramente l'utilizzo di un gel ha proprietà bagnanti
migliori di una soluzione acquosa non addensata (in quanto gli eteri di
cellulosa sono di per sé dei tensioattivi che, abbassando la tensione
superficiale dell'acqua, la rendono più bagnante superficialmente e meno
penetrante in profondità); questo però può non essere ancora sufficiente.
L'aggiunta al gel di un tensioattivo non ionico (a bassa concentrazione
micellare critica CMC, cioè dotato di forte potere emulsionante anche in bassa
concentrazione) può migliorare decisamente il contatto superficiale, e quindi
favorire la reazione enzimatica. L'unica nota di cautela riguarda la quantità
aggiunta: non conviene eccedere, visto che non sono da escludere effetti
inibitori nei confronti degli enzimi. È sufficiente una quantità di tensioattivo pari
allo 0, 1% in volume/volume per un tensioattivo liquido come il tween 20, o
peso/volume per uno solido come il Brij 35, rispetto al volume di gel.
Possibili modificazioni.
Aggiunta di un tensioattivo.
Aggiunta di un attivatore
Aggiunta di substrato fresco
L'aggiunta al gel di un tensioattivo non ionico (a
bassa concentrazione micellare critica CMC, cioè
dotato di forte potere emulsionante anche in bassa
concentrazione) può migliorare decisamente il
contatto superficiale, e quindi favorire la reazione
enzimatica.
A seconda del tipo particolare di enzima utilizzato,
può essere necessario aggiungere una attivatore,
cioè una specie la cui presenza è indispensabile ai
fini dell'attività catalitica. Generalmente si tratta di
ioni metallici
la velocità della reazione enzimatica,
all'aumentare della concentrazione di substrato,
cresce iperbolicamente fino ad un valore limite, che
è la velocità massima. Perché allora non sfruttare
questa velocità massima? E questo era stato fatto
aggiungendo all'enzima del substrato, lo stesso che
l'enzima doveva rimuovere dal supporto
Aggiunta di un attivatore.
A seconda del tipo particolare di enzima utilizzato, può essere necessario
aggiungere una attivatore, cioè una specie la cui presenza è indispensabile ai
fini dell'attività catalitica. Generalmente si tratta di ioni metallici. In alcune
preparazioni enzimatiche disponibili commercialmente sono già contenuti
anche questi fattori, se necessari; in altre no. È quindi opportuno fare
riferimento al fornitore, se le informazioni contenute nei cataloghi non sono
sufficienti..
In certi casi sarà dunque indispensabile aggiungere un sale contenente lo ione
metallico necessario, in forma di sale solubile nel mezzo acquoso utilizzato. In
generale, concentrazioni di 50 a 100 milligrammi di sale per un grammo di
enzima solido sono più che sufficienti. Alcune lipasi, ad esempio, richiedono la
presenza di ioni calcio: un opportuno sale solubile di calcio, ad esempio calcio
cloruro, deve quindi essere aggiunto alla preparazione enzimatica.
Aggiunta di substrato fresco.
In seguito a considerazioni sulla cinetica enzimatica, Bonomi ha riportato un
particolare uso enzimatico. Come abbiamo descritto in precedenza, la velocità
della reazione enzimatica, all'aumentare della concentrazione di substrato,
cresce iperbolicamente fino ad un valore limite, che è la velocità massima.
Perché allora non sfruttare questa velocità massima? E questo era stato fatto
aggiungendo all'enzima del substrato, lo stesso che l'enzima doveva
rimuovere dal supporto. Nei casi specifici veniva utilizzata una proteasi per la
rimozione di colle animali: sul manufatto veniva prima stesa della colla animale
fresca, così da saturare l'enzima applicato successivamente, e permettergli di
operare a velocità massima. Si ottenevano così tempi di reazione brevi. Non
sono comunque riportati altri dati sperimentali come il tipo di enzima e le
concentrazioni relative dell'enzima e del materiale proteico aggiunto.
Questo elegante approccio al metodo enzimatico sembra sperimentalmente
aver dato buoni risultati (ad esempio nella rimozione di strati preparatori a
base di gesso e colla animale applicati sopra la policromia originaria di
sculture lignee). È comunque difficile prevedere se possa essere considerato
di generale applicabilità a tutti i casi di utilizzo enzimatico. Come abbiamo già
sottolineato infatti in un'operazione enzimatica nel restauro siamo solitamente
in condizioni di reazione eterogenee: cioè con l'enzima sciolto in soluzione, e il
substrato in fase solida (nel caso di materiale oleoso addirittura in una fase
decisamente eterogenea, in quanto idrofoba e idrorepellente). Le cinetica
invece e in particolare la teoria di Michaelis-Menten a cui abbiamo accennato
in precedenza si basano su condizioni di reazione omogenee: l'enzima e
substrato sciolti nel mezzo acquoso di reazione.
Perché questa teoria sia valida, inoltre, la concentrazione di substrato deve
essere molto maggiore di quella dell'enzima: e questo porta alla
considerazione se sia opportuno aggiungere all'opera una certa quantità dello
stesso materiale che vogliamo rimuovere. Indubbiamente la valutazione
dipenderà da caso a caso. La validità ed efficacia del trattamento, nei casi
descritti, sembra comunque dimostrata dagli esiti sperimentali.
Sezioni stratigrafiche e analisi chimica dei campioni di dipinti.
Introduzione e sguardo generale del lavoro precedente.
È diventato ora abbastanza normale per i restauratori considerare un dipinto
come una struttura stratificata, in questo modo sono stati sviluppati metodi per
studiare gli strati interni di un dipinto. Esempi di questi metodi sono i raggi X e
la fotografia infrarossa.
In questo caso però vengono ottenute immagini sovrapposte degli strati
(tranne che nel caso dei raggi X e in circostanze molto speciali).
Un metodo più diretto è osservare il dipinto in sezioni stratigrafiche. Questo è
spesso difficile da realizzare in situ sul dipinto, anche con un buon microscopio
movibile, poiché anche nel caso in cui esistono delle fratture i cui spigoli
possano essere esaminati, tali spigoli sono approssimativamente
perpendicolari al piano focale del microscopio e in questo modo al massimo
può esser ottenuta una immagine obliqua e piuttosto fuori fuoco.
Generalmente è più conveniente staccare un frammento minuto di pittura dal
dipinto e osservarlo separatamente con un microscopio.
Anche, in questo caso, allo scopo di vedere gli strati separatamente, il
frammento di pittura deve essere adagiato su uno spigolo e per un adeguato
esame microscopico il campione deve essere incastonato in un adeguato
mezzo ed avere uno spigolo o un lato tagliato in modo tale da fornire una
superficie piana per la focalizzazione del microscopio.
Questa è la "ragion d'essere" per tutti metodi di preparazione delle sezioni
stratigrafiche.
Come ulteriore metodo scientifico per l'esame di un dipinto la tecnica è
complementare alla radiografia e la fotografia infrarossa, poiché la sezione
della pittura dà una notevole quantità di informazioni precise in una in un'area
molto piccola del dipinto, dove invece la radiografia o la fotografia infrarossa
danno piuttosto informazioni più generali su un’area estesa del dipinto stesso.
La preparazione delle sezioni stratigrafiche dei dipinti fu iniziata più di 40 anni
fa. Il primo lavoro fu scritto agli inizi nel 1914. Lo scopo di questo metodo era
di estendere la tecnica sperimentata al museo di Fogg Art, Cambridge,
Massachusetts nel 1930. A quei tempi fu usata della cera come mezzo per
inglobare le sezioni della pittura che era tagliata in sezioni sottili.
La friabilità della maggior parte dei film pittorici antichi ha reso questa
operazione difficile, e quindi successivamente il processo è stato semplificato
usando delle resine moderne sintetiche come mezzo di incastonatura con
successiva scartavetratura e levigatura delle sezioni.
Ciò che deve essere sottolineato qui è che viene richiesta non una sezione
trasparente, per essere vista in luce in trasmittanza, come necessario nel caso
di molte sezioni di minerali, ma una sezione opaca, la superficie della quale
viene esaminata solamente per luce riflessa, il che rende la preparazione
della sezione decisamente più semplice.
Questo tipo di sezioni stratigrafiche di pitture sono eseguite in molti laboratori
dei musei, incluso il Laboratorio Centrale dei Musei del Belgio, dove le resine
di metacrilato sono usate come mezzo inglobante. Nella National Gallery, la
resina usata per le sezioni stratigrafiche di pittura è una resina di poliestere
che raffredda e solidifica a freddo.
TECNICA DELLE SEZIONI STRATIGRAFICHE
•
Prelievo del campione
•
Preparazione della sezione stratigrafica opaca
•
Sezioni stratigrafiche trasparenti
•
Osservazione al microscopio ottico
•
Documentazione
•
Archiviazione
Premessa
Un dipinto è una struttura a strati.
Strati della struttura:
Materiali
Numero
lo caratterizzano e diversificano
Successione
Tecnica del dipinto:
Modalità di esecuzione
ne condizionano nel tempo
Fattori ambientali
la costituzione fisico-chimica
Interventi successivi
ne determinano il continuo
trasformarsi.
Un esame strati grafico consente la lettura dello stato attuale degli strati che
costituiscono il dipinto.
Una sezione stratigrafica è
totale rispetto allo spessore del dipinto
Un prelievo
parziale rispetto la sua superficie.
Un prelievo, dal punto di vista conservativo, esercita una
•
Funzione positiva in quanto contribuisce ad affrontare problemi del
deterioramento e una
•
Funzione negativa in quanto mutila irreversibilmente il dipinto.
Solo quando la lettura dello stato attuale degli strati è essenziale ai fini della
conservazione, la funzione positiva del prelievo compensa quella negativa.
Prelievo del campione.
Punto del prelievo.
La sezione stratigrafica dà una risposta solo relativamente al punto del
prelievo. Di conseguenza, va attentamente individuato il problema da
affrontare e localizzato il punto dove effettuare il prelievo. Di regola, per
questo, vanno scelte zone ai margini di lacune o comunque di minore
importanza figurativa.
Strumenti.
Il prelievo va eseguito con tre tipi di bisturi:
•
Bisturi in acciaio con lama a punta,
•
Bisturi in acciaio con lama a taglio,
•
Bisturi il acciaio con lama a scalpello.
La grandezza minima utile di un prelievo è di 5-10 mm2 circa.
Tecnica di prelievo.
Una volta stabilita la zona, si esegue una prima incisione superficiale lungo un
perimetro quadrangolare usando il bisturi con lama a punta.
Delimitata la zona, si interviene col bisturi da taglio, incidendo la superficie in
profondità.
Le incisioni vanno praticate prima lungo due lati opposti, in modo da non
creare una intersezione a 90°, per ridurre al massimo l'indebolimento della
zona d'angolo e una sua conseguente rottura:
Praticate le quattro incisioni, il campione viene rimosso con l'aiuto del bisturi a
scalpello.
Protezione del prelievo.
Il campione prelevato va conservato in un contenitore adatto fino al momento
del montaggio.
•
Usare una provetta di vetro, pulita, ben chiusa, etichettata.
•
Evitare fogli di carta, buste, scatoline di fortuna- metalliche, lignee,
cartacee, ecc.-nonché la conservazione di più campioni in uno stesso
contenitore.
•
annotare su un registro: data-numero del campione-edificio-numero del
dipinto-autore/epoca-scopo del prelievo.
•
Indicare su una foto o rappresentazione grafica del dipinto il numero del
campione, facendolo coincidere con la zona del prelievo.
Preparazione della sezione stratigrafiche a opaca.
Per l'osservazione, il campione deve essere:
•
inglobato in una resina
•
Tagliato
•
Levigato
•
Inserito in un contenitore che ne consenta l'esame e la
conservazione.
Inglobamento del campione.
Materiali
Il campione va inglobato in una resina sintetica che risponda ai seguenti
requisiti:
•
Sia perfettamente trasparente
•
Abbia un basso indice di rifrazione (valore limite 1, 54)
•
Non scurisca invecchiando
•
Non depolimerizzi nel tempo
•
Non reagisca con il materiale inglobato (esempio: non liberi
sostanze acide)
•
Polimerizzi a freddo. (e comunque non oltre i 50°C).
Una resina dalle prestazioni soddisfacenti è la resina poliestere “Sniatron
5119”, prodotta dalla SNIA. Questa resina, particolarmente adatta per
l'indurimento a temperatura ambiente, utilizza come accelerante l'ottoato di
cobalto e come induritore il perossido di metil-etil-chetone.
Caratteristiche della Sniatron 5119 liquida
Colore
Leggermente paglierino
Aspetto
Limpido
Viscosità (Brookfield RUF) a 25°C
Cps 600-700
Stabilità a 25°C, al buio, senza
6 mesi, minimo
induritore
Peso specifico a 25°C
1,12 – 1,13
Caratteristiche della Sniatron 5119 indurita
Resistenza a compressione Kg/cm2
1.550 – 1.700
Ritiro, % in volume
7,5 -8,0
Attrezzatura.
Per creare il leggero vuoto necessario ad eliminare il gas (aria) contenuto dalla
resina sotto forma di bollicine, ci si serve di una campana pneumatica
(essiccatore munito di valvola) collegata ad una pompa a getto d'acqua..
Nel caso di campioni porosi si ha anche una certa penetrazione della resina.
L'attrezzatura indicata è di tipo semplice ed economico e consente operazioni
di facile realizzazione. Esistono naturalmente altre soluzioni sia per praticare il
vuoto: decompressori elettrici, che per la levigazione: levigatrice; ecc..
Campana reumatica
L'apparecchio è costituito da:
•
Base in polipropilene, completa di piano d'appoggio per il
campione
•
Campana in policarbonato , fornita di una
•
Valvola, cui è collegato un
•
Tubo di gomma.
Un anello in elastomeri, posto tra A e B, assicura la perfetta tenuta
dell’apparecchio.
Il vuoto all'interno della campana (B) si determina aprendo la valvola (C) e
collegando il tubo (D) con una pompa aspirante.
Questo tipo di campana pneumatica resiste fino pressioni di 5torr. (1 torr =1 /
760 mm Hg).
Pompa aspirante a getto d'acqua
Funzionamento
A) l'acqua entra nel condotto A con determinati valori P
(pressione) e V (velocità).
• P e V sono costanti nel tratto l1 perché le sezioni sono
uguali (S1=S2).
• nel tratto l2, al diminuire della sezione (S3), V aumenta e P
diminuisce.
B) nel condotto D, comunicante con la zona C, permane lo stato
di depressione con conseguente aspirazione dell'aria
proveniente dal condotto E.
C) l'aria viene espulsa insieme all'acqua, dalla bocca d'uscita F.
Con un’apparecchiatura di questo tipo, che richiede acqua a 1-2 atmosfere e
15-20°C, nella campana pneumatica viene crearsi un vuoto dell'ordine dei 2520 torr.
Per abbreviare il tempo di gelo del primo strato di resina si fa uso di una
normale stufetta provvista di termostato, in grado di garantire una distribuzione
uniforme del calore.
Per l'inglobamento del campione ci si serve di regola di piccoli contenitori (cubi
di 2 cm di lato circa) detti” pozzetti”.
I pozzetti sono in polietilene, ad evitare che la resina aderisca alle pareti, e
recano all'esterno un'etichetta per i dati di riferimento al campione.
Operazioni.
a.
Miscelare:
•
resina poliestere Sniatron 5119/n
•
Induritore: perossido di metil-etil-chetone
b. Versare la miscela nel pozzetto contrassegnato fino ad 1/3 della sua
altezza (1).
c.
Porre il pozzetto in stufa a 50°C per cinque minuti circa per abbreviare il
tempo di gelo.
d.
Poggiare il campione sulla resina gelificata, la superficie dipinta rivolta
verso l'alto, (2) e premere leggermente per farlo aderire alla resina.
e.
Versare altra miscela (con proporzioni differenti: 2-5 cc + 1 goccia, a
seconda della porosità del
campione) nel pozzetto, fino a 2/3 della sua altezza. (3)
f.
Porre il pozzetto in campana reumatica e lasciatelo finché non affiorano
più bollicine d'aria
(pochi minuti).
g.
Farla indurire a temperatura ambiente per 12-24 ore.
Taglio della sezione stratigrafica
Attrezzatura
•
Seghetto metallico
•
lima da ferro a grana media
•
lima da ferro a grana fine
•
morsetto metallico
Metodo di sezionamento
•
si estrae dal pozzetto il blocchetto di resina contenente il campione;
•
il blocchetto viene tenuto fermo per mezzo di un morsetto metallico;
•
Servendosi del seghetto e delle lime, il blocchetto viene sezionato così
da ottenere un parallelepipedo.
Il taglio avviene lungo un piano obliquo rispetto alla faccia piana orizzontale
del campione, in modo da ottenere una buona superficie di lettura.
Levigazione
Vanno ora eliminate dalla superficie del parallelepipedo le incisioni degli
strumenti adoperati per il taglio.
Materiali e attrezzatura.
Ci si serve di una serie di almeno tre “carte abrasive”, posti su un piano
inclinato inserito in una bacinella contenente petrolio rettificato in qualità di
lubrificante.
Gli abrasivi più normalmente impiegati sono silicon carbide ed emery. Il primo
è una polvere di carburo di silicio montata su carta, ottenibile in differenti
gradazioni (grit) di cui le più usate sono:240, 320 e 600. L'emery è una miscela
naturale di allumina e ossido di ferro, la si adopera montata su carta. La
gradazione 4/0 è adoperata per la levigazione finale.
Operazioni.
La Levigazione si ottiene sfregando la faccia della sezione contro la carta
abrasiva inumidita. È importante che le dita esercitino la pressione al centro
del blocchetto, oppure lungo i bordi, in maniera uniforme, ad evitare la
sfaccettature della superficie del campione. Un buon metodo da seguire è
quello di operare l'abrasione sempre in una direzione sulla prima carta e quindi
cambiare la direzione di 90° sulla seconda carta, e rifinire con la terza carta.
La superficie va controllata periodicamente per mezzo di un microscopio
stereoscopico a dieci x circa.
L'operazione ha termine quando non sono più leggibili striature o imperfezioni.
Scopo della levigazione è infatti quello di ottenere una superficie piana,
speculare, adatta all'osservazione a luce riflessa.
Montaggio nel contenitore finale.
Il montaggio ha più scopi:
•
Protegge la superficie dalla polvere;
•
Agevola la manipolazione della sezione;
•
Facilita l'osservazione al microscopio ottico;
•
Consente l'applicazione di segni di riferimento;
•
Semplifica l'archiviazione.
Un contenitore tipo è seguente:
Blocchetto in tre ex classe (lungo 8 centimetri, largo 3 cm, alto un centimetro)
nella cui spessore viene ricavato un pozzetto del diametro di circa due-tre
centimetri e della altezza di sette-otto millimetri.
Operazioni.
a. Sulla faccia levigata della sezione si applica un comune vetrino
copri oggetto, che viene fatto aderire per mezzo di un suo
sottilissimo velo di balsamo del Canada.
Il vetrino copri oggetto, pulito e asciutto, va applicato
appoggiandone prima un lato con una certa inclinazione a e
premendo poi lentamente sul balsamo ad evitare al massimo che
restino bolle d'aria. Premere poi la superficie del vetrino con un
blocchetto rettangolare a facce lisce per eliminare le eventuali bolle
e l'eccesso di balsamo. Far solidificare.
Il balsamo del Canada è la sostanza più comunemente usata in
quanto ha un indice di rifrazione (1, 52-1, 54) prossimo a quello del
vetrino copri oggetto e delle lenti dell'obiettivo.; di conseguenza
non interferisce in maniera apprezzabile con l'osservazione al
microscopio. Lo spessore minimo del vetrino a facce piane e
parallele (qualche decimo di millimetro) viene già previsto dalla
maggior parte degli obiettivi del microscopio ottico..
b. I bordi del vetrino vanno fermati per impedire la fuoriuscita della
sezione dal contenitore e per evitare un eventuale accumulo di
polvere nel pozzetto.
Può esser usata una normale carica autoadesiva.
Sezioni stratigrafiche trasparenti.
La sezione stratigrafica trasparente rappresenta in linea di massima uno stadio
successivo a quello della sezione stratigrafiche opaca, ovvero al punto di
partenza per la sua preparazione può essere la sezione stratigrafiche opaca.
Per l'osservazione il campione deve essere:
• Fornito di supporto;
• Assottiglia atto e l'nevicato;
• Protetto.
Supporto .
La faccia levigata della sezione viene fatta aderire a un vetrino porta oggetto,
smerigliato, per mezzo di un sottile strato di Sniatron nel 5119/n
si preme la faccia levigata sul vetrino, facendo bene attenzione che non
restino bolle d'aria, la sezione viene mantenuta pressata contro il vetrino
mediante apposita pinzetta molla.
Si attende il tempo necessario l'indurimento della resina e (12-24 ore).
Assottigliamento e levigazione.
a. Assottigliamento.
Il vetrino viene inserito in un porta sezioni trasparenti.
Ruotando la manopole acidi i due settori (a, b) si accostano bloccando il
vetrino, lo spessore di alloggiamento consente di ottenere spessori finali
uniformi dell'ordine e 50 micron.
Il campione viene ora assottigliato per mezzo delle linee a grana media e fine.
Lospessore da raggiungere è di poco inferiore al millimetro; è importante che
le due facce del campione siano piane e parallele.
• L'operazione descritta si serve di strumenti semplici nella sua buona
riuscita è quasi interamente affidata all'esperienza manuale
dell'operatore. Esistono oggi microtomi (ad esempio rotanti, tipo
Pyramitome) in grado di dare sezioni dello spessore da 1 a 40 micron.. Il
loro uso prevede naturalmente una diversa preparazione del campione.
Comunque per materiali delicati, spesso si preferisce un procedimento
completamente manuale.
Levigazione.
Con questa operazione si porta a termine l'assottigliamento e
contemporaneamente si eliminano irregolarità e scabrosità della superficie.
Si opera con le carte abrasive già descritte.
Il campione deve raggiungere uno spessore uniforme di almeno 1/10 mm.
(100 micron). Il controllo viene effettuato a microscopio.
Uno spessore soddisfacente viene raggiunto quando possibile apprezzare i
colori di interferenza o dei grani di pigmento.
Protezione.
Sulla superficie così levigata si fa aderire un vetrino copri oggetto con balsamo
del Canada, secondo il metodo già descritto.
Osservazione al microscopio ottico.
Il microscopio ha il compito di fornire un'immagine ingrandita del campione per
consentirne l'esame dettagliato e delle caratteristiche. Un'apparecchiatura
raffinata si presta anche alla registrazione dell'immagine.. A tal scopo sono
disponibili dispositivi supplementari per la ripresa microfotografica.
Il microscopio ottico.
Il microscopio ottico è costituito essenzialmente da due sistemi diottrici
centrati: l'oculare e l'obiettivo.
Obiettivo ed oculare formano nel sistema ottico del microscopio un’unità.. A
determinati obiettivi corrispondono oculari specifici.
i.
Obiettivo.
Fornisce un'immagine reale ingrandita ( capovolta) situata tra obiettivo e
oculare.
Ogni obiettivo reca incisa l'indicazione della scala (rapporto di grandezza
tra immagine reale e campione). Generalmente vengono usati obiettivi che
danno i seguenti ingrandimenti:3, 8 X, 5 X, 6, 5 X, 11 X, 22 X.
ii.
Oculare.
L'oculare dà un'immagine virtuale ingrandita (diritta) dell'immagine reale
fornita dall'obiettivo.
Caratteristica essenziale di un oculare è il tipo di ingrandimento, che viene
indicato sulla montatura dell'oculare stesso. Gli ingrandimenti
maggiormente usati sono:6, 3 X, 8 X, 10 X, 12, 5 X.
L’ingrandimento effettivo che microscopio può fornire viene determinato
moltiplicando i valori degli ingrandimenti propri dell’obiettivo e dell’oculare:
I microscopio = I obiettivo x I oculare
qualora il microscopio abbia un'ottica intermedia incorporata:
I microscopio = I obiettivo x I oculare x F
Dove F è il fattore di ingrandimento relativo al porta obiettivi scelto.
Sorgenti di illuminazione.
Il microscopio è completato dalle sorgenti di illuminazione. A seconda della
sorgente impiegata si può ottenere:
i. Luce normale;
ii. Luce ultravioletta.
i. Luce normale.
La sorgente luminosa è costituita da una lampadina a incandescenza a basso
voltaggio (60 W). La lampadina è racchiusa in un corpo lampada esterno al
microscopio e comunicante con questo attraverso un apposito accordo.
La microscopia a luce normale prevede due diversi sistemi di illuminazione:
i. Luce normale trasmessa. Un questo caso la sorgente luminosa è posta a
un livello inferiore a quello del campione da osservare.
Il fascio di raggi viene proiettato, attraverso un sistema di lenti, sulla faccia
inferiore del campione. I raggi rifatti dal campione vengono raccolti sul
sistema obiettivo-oculare;
ii.
Luce normale riflessa. La sorgente luminosa è posta ad un livello
superiore a quello dell'obiettivo. Il fascio di raggi rifratto da un sistema di
lenti convergenti è proiettato sulla superficie del campione. I raggi, riflessi
dal campione, vengono raccolti dal sistema obiettivo-oculare.
Sia nel primo che nel secondo caso l'illuminazione può essere effettuata in
due modi:
a. Illuminazione in campo chiaro: tutti i raggi provenienti dalla
sorgente luminosa vengono accolti dall'obiettivo;
b. Illuminazione in campo oscuro: solo i raggi riflessi o rifatti dal
campione vengono accolti dall'obiettivo.
La sorgente di luce normale può esser polarizzata mediante dispositivi di
polarizzazione quali i prismi di Nicol, lastrine di Polaroid ecc.: luce polarizzata.
A seconda del diverso sistema di illuminazione si ha: luce polarizzata
trasmessa o luce polarizzata riflessa.
I dispositivi suddetti sono costituiti da un polarizzatore e da un analizzatore.
Quale che sia il tipo scelto, essi si basano su uno stesso principio: la luce
normale, composta da raggi vibranti in direzioni diverse, viene sdoppiata dalla
lamina polarizzatrice in due raggi che vibrano non più liberamente, ma su due
piani perpendicolari tra loro. Uno dei raggi viene assorbito dalla lamina
polarizzatrice, l'altro viene raccolto dalla lamina analizzatrice.
Il polarizzatore va inserito tra la sorgente luminosa e il campione da osservare.
L’analizzatore va inserito tra l'obiettivo e l'oculare.
Il polarizzatore può essere ruotato su se stesso di 90 gradi per permettere
l'osservazione con piani di polarizzazione paralleli o incrociati.; ciò rende
possibile esaminare sostanze cristalline e amorfe ed apprezzare fenomeni di
birifrangenza e di interferenza.
Luce ultravioletta.
La sorgente luminosa è comunemente sostituita da una lampada ad altissima
pressione al mercurio (50-200 watt.
Poiché essa produce anche una quantità di luce visibile che interferirebbe con
l'osservazione, si fa uso di un filtro di eccitazione posto tra la sorgente e il
campione, che assorbe le radiazioni visibili. Parte delle radiazioni ultraviolette
filtrate interagiscono con le zone del campione suscettibili di fluorescenza (le
sostanze organiche e alcuni minerali se esposti alla luce ultravioletta
(invisibile) hanno la proprietà di emettere luce visibile (luminescenza) con la
lunghezza d'onda maggiore di quella della radiazione di eccitazione. Se al
termine dell'esposizione l'emissione permane si ha fosforescenza, altrimenti
sia fluorescenza. Il colore emesso (la particolare lunghezza d'onda della luce
emessa) dipende dalla struttura chimica e fisica della sostanza ed è perciò
caratteristico) e producono luce visibile.
Le radiazioni visibili e le ultraviolette residue vengono accolte dall'obiettivo. Un
filtro di sbarramento, tra obiettivo e oculare, assorbe le radiazioni ultraviolette
(inutili e dannose all'occhio) e lascia passare le visibili attraverso l'oculare. A
seconda della posizione della sorgente luminosa, si ha fluorescenza in luce
trasmessa o fluorescenza in luce riflessa.
Sia a luce trasmessa che riflessa si opera con fondo scuro: fluorescenza in
campo oscuro, per consentire all'obiettivo di raccogliere solo le radiazioni
provenienti dal campione.
Attrezzatura. Va notato che sia il vetro che le resine adoperate per il
montaggio sono dotati di fluorescenza; nel caso dei vetrini porta e copri
oggetto questa è bassa e può anche essere accettata in condizioni normali;
altrimenti vanno adottati vetrini al quarzo (specie per materiali debolmente
fluorescenti o per riprese fotografiche).
Nella microscopia a fluorescenza le resine vengono di solito sostituite con
glicerina pura.
Filtri. Si hanno filtri di eccitazione a banda larga, a banda stretta e selettivi. La
scelta è legata alla conoscenza dei valori spettrali di eccitazione e di
emissione.
Per uno sfruttamento ottimale della fluorescenza è essenziale una corretta
combinazione tra filtri di eccitazione e filtri di sbarramento.
Avvertenze. L'operatore deve effettuare l'osservazione in ambiente con luce
attenuata per poter apprezzare anche fluorescenze ridotte. Inoltre, l’intensità
della luce fluorescente dipende anche dall'ingrandimento dato dagli oculari;
per l'esame visivo sono da preferire oculari a basso ingrandimento (6, 3 X).
È importante che la fluorescenza sia eccitata solo nel preparato, i vetrini porta
e copri oggetto devono quindi essere privi di sostanze luminescenti e vanno
pertanto lavati in miscela cromica e risciacquati in acqua e alcol
antiluminescente.
Osservazione della Sezione Stratigrafica Opaca.
Luce normale riflessa.
Vengono messe in evidenza le seguenti caratteristiche dei singoli strati che
costituiscono il campione:
• Spessore;
• Colorazione;
• Distribuzione delle particelle (è bene notare che solo un occhio molto
esercitato può azzardare ipotesi sulla natura dei pigmenti durante
l'osservazione della sezione stratigrafiche opaca. (uniformità, addensamenti
particolari, ecc.)
• Discontinuità di adesione e/o coesione;
• Penetrazione, all'interno degli strati, di sostanze sovramesse e/o,
genericamente, inclusioni.
Luce ultravioletta riflessa.
Questo tipo di illuminazione:
a) evidenza la presenza di sostanze organiche (leganti, vernici, adesivi,
cariche);
b) aiuta a distinguere stratificazione, sovrapposizioni e infiltrazioni di sostanze
organiche di diversa natura, o a diversi stadi di invecchiamento, se queste
presentano una marcata differenza di colore di intensità nell'emissione
fluorescente.
Osservazione della sezione stratigrafiche a trasparente
L'esame della sezione stratigrafica trasparente in è piuttosto interessante in
quanto permette di:
•
identificare con una certa precisione i pigmenti inorganici
•
formulare ipotesi sui leganti di natura inorganica
•
riconoscere per classe di appartenenza, i leganti (o sostanze comunque
presenti) di natura inorganica.
Luce polarizzata trasmessa.
L'osservazione oltre consentire l'esame della successione e dello spessore
degli strati, permette nella maggior parte dei casi il riconoscimento di:
•
pigmenti inorganici
•
leganti inorganici, quali carbonato di calcio e gesso.
n.b.
Va ricordato che la presenza di carbonato di calcio o di gesso non sta sempre
ad indicare una loro funzione legante nei riguardi dello strato pittorico in
esame. Il carbonato di calcio può ad esempio essere presente perché
utilizzato come pigmento, ovvero perché depositatosi in superficie dopo essere
stato disciolto negli intonaci o nella muratura retrostanti e dall'acido carbonico
contenuto nell'acqua d'infiltrazione. La presenza di gesso in superficie è quasi
sempre indizio di una trasformazione del carbonato di calcio indotta da
composti inquinanti.
Anche in questo caso, l'esperienza dell'operatore è determinante.
Per l'esame il microscopio ottico dovrà essere dotato di piatto girevole (qualora
l'apparecchiatura adottata non sia provvista di questo dispositivo può essere
impiegato direttamente il microscopio a mineralogico). Per le istruzioni relative
al riconoscimento delle sostanze indicate vedi dimos 1.3.
Luce ultravioletta trasmessa.
Con questo tipo di illuminazione si ottengono informazioni del tipo descritto in
4.2.2, ma con maggiore chiarezza di dettagli. Lo spessore della sezione non
deve però eccedere i 40 micron, ad evitare sovrapposizione della luce emessa
da pigmenti inorganici e di quella emessa da sostanze organiche.
Le osservazioni in fluorescenza forniscono solo indicazioni di massima; ad
esempio: una sostanza organica (amorfa) emette luce omogenea in virtù della
continuità dello strato, mentre una sostanza inorganica (insieme di cristalli:
strato di discontinuo) emette luce disomogenea.
Sostanze organiche.
Come già detto, sia l'intensità che il colore della radiazione emessa sono
caratteristici per i vari materiali, in quanto dipendono dalla struttura chimica e
fisica della sostanza in esame.
Nella realtà verranno considerati:
•
presenza di impurezze
•
stadio di invecchiamento
•
eventuale miscela con altre sostanze.
Tali fattori, da soli o combinati, provocano variazioni nell'assorbimento della
luce e nella relativa emissione; essi, di conseguenza, mentre permettono di
identificare lo strato come tale, impediscono la elaborazione delle informazioni
precise.
Ad es.: cere organiche = fluorescenza bianca
ma questa indicazione può solo essere approssimativa:
nessuna cera organica è uguale all'altra, si avranno perciò
variazioni sia nell'intensità che nella gradazione di tono del
bianco emesso.
Sostanze inorganiche.
Sono pochi i minerali fluorescenti e solo alcuni di essi emettono una radiazione
definita; nella maggior parte dei casi infatti l'emissione è solo occasionale o
dovuta a particolari condizioni (ad esempio: presenza di impurezze che
fungono da attivatori della fluorescenza). Inoltre sono pochi i minerali
fluorescenti per qualsiasi lunghezza d'onda (
) degli e U.V. Vediamo ad
esempio come rispondono allo stimolo U.V. due minerali di interesse nel
campo dei dipinti murali:
o Calcite CaCO3
•
Fluorescenza molto comune: rosso a rosa
•
Fluorescenza molto comune: bianca, con fenomeni di fosforescenza
bianca o blu, anche persistente
•
Fluorescenza occasionale: arancione (in campioni esposti a lungo
all'aperto)
•
Fluorescenza occasionale: gialla, spesso unita a fosforescenza
•
Fluorescenza occasionale: blu, spesso unita a fosforescenza
persistente.
o Gesso CaSO4 2H2O
•
Fluorescenza solo occasionale (stimolata dall'U.V.lontano): giallo
chiarissimo o, a volte, bluastra.
Riconoscimento di sostanze organiche.
Dal 1970 sono in corso esperimenti per l'identificazione e la localizzazione di
sostanze organiche (leganti, fissativi, ecc.) nei differenti strati di un dipinto
mediante tecniche di colorazione selettiva proprie di analisi istochimiche.
Questo tipo di indagine, che ha dato ad oggi risultati di particolare interesse, è
ancora in fase di elaborazione ed approfondimento. È comunque opportuno
farne cenno in questa sede.
i.
ii.
Sostanze che possano essere messe in evidenza:
•
Proteine (colle animali, albume, caseina);
•
Lipidi (olio di lino, olio di noce, eccetera);
•
Parotite di-lipidi: miscele naturali (tuorlo dell'uovo);
•
Micelle artificiali (oli più colle, eccetera).
Metodo di rilevamento: l'sezioni sottili vengono colorate e correttivi
specifici per le sostanze da rivelare, ovvero: poste a contatto con coloranti
acidi (fucsina S, ad esempio.), le sostanze proteiche assumono una
colorazione caratteristica, così come una colorazione caratteristica viene
assunta dai lipidi se posti a contatto con coloranti lisocromi (Sudan nero
B, ad es.).
iii.
Limiti inerenti al metodo di rilevamento:
• il riconoscimento si ha solo per classi di appartenenza, non è cioè
ancora possibile distinguere un lipide da un altro o una proteina dall'altra;
• Nel campione vi è spesso una concentrazione troppo bassa della
sostanza organica da individuare;
• L'invecchiamento, in particolare di lipidi, ma spesso anche di complessi
lipo-proteici (esempio: tuorlo dell'uovo), rende difficile la colorazione dei
lipidi
L'osservazione della sezione sottile così colorata viene fatta a luce trasmessa
solo se lo spessore della sezione non eccede i 40 micron, altrimenti va
adottato il sistema a luce riflessa.
È bene notare che con la luce trasmessa si ottengono maggiori dettagli sulla
distribuzione delle sostanze, in particolare nei punti di contatto tra gli strati, ed
è possibile apprezzare anche reazioni molto deboli.
Documentazione.
Al termine dell'esame è sempre opportuno redigere una relazione e
documentarla con uno o più riproduzioni del campione osservato. Va però
ricordato che riproduzioni e ricostruzioni (grafiche, fotografiche, descrizioni
scritte) della “struttura reale” del campione esaminato richiedono
inevitabilmente una serie di “atti di giudizio” da parte del tecnico.
Documentazione microfotografica.
Fotografare in modo da esplicitare esattamente ciò che il tecnico ha letto al
microscopio nel corso dell'osservazione non è facile, in quanto lo studio di un
campione è fondamentalmente un interpretazione basata sui suggerimenti
della sintesi ottica operata dallo strumento, ed è necessario quindi che la
fotografia evidenzi soprattutto quegli stessi suggerimenti. Infatti, i dati forniti dal
microscopio dipendono dalle proprietà sia del sistema ottico che del tipo di
illuminazione scelti e combinati dal tecnico. Il fotografo dovrà perciò essere in
grado di evocare bidimensionalmente l'immagine mentale il tecnico si è creata
del campione (che comprende ad es. la minuta continua messa a fuoco,
mediante la quale si ottiene una certa sintesi spaziale delle sensazioni visive),
ricordando che l'emulsione sensibile registra l'intero contenuto ottico
dell'immagine e non “l'immagine ragionata”.
Attrezzatura.
Il microscopio Orthoplan è fornito di una apparecchiatura addizionale
fotoautomatica elettronica, l'Orthomat, per il formato 35 mm.
La “camera” viene fissata sul tubo fotografico (vedi figura). L'immagine
dell’oggetto viene riprodotta sia dall'oculare all'infinito sia, seguendo un
percorsoin linea retta, dall'obbiettivo della camera sulla pellicola. Sul formato
del negativo si ha un rapporto di ingrandimento di 1: 3,2 (riduzione).
Ingrandendo successivamente di3,2, volte si ottiene l'effettivo ingrandimento
totale del microscopio.
Operazioni.
• A scegliere sistema ottico;
• Scegliere l'illuminazione;
• Porre nel maggior rilievo ottico possibile gli elementi che devono figurare
nell'immagine fotografica. È necessario che i campioni siano
tecnicamente ineccepibili, allestiti con cura e pulitissimi (l’occhio scarta
istintivamente granelli di polvere, bollicine d'aria, eccetera, l'emulsione
fotografica no).
Segue tutta la serie di operazioni più strettamente tecniche: scelta della scala
di immagine, messa a fuoco, tempo disposizione, ecc.
Documentazione grafica.
La documentazione grafica può essere eseguita:
a. Disegnando la struttura del campione con l'aiuto di un oculare di misura,
cioè munito di una scala graduata. Il disegno deve essere riportato su
carta millimetrata; al termine dell'operazione si controlla il valore
micrometrico dell'obiettivo usato e si dà il rapporto di misura;
b. Eseguendo su carta trasparente lo schema grafico della struttura del
campione, quale si ricava dalla stampa di una microfotografia dello
stesso. In questo caso, scopo del grafico è di mettere in evidenza i punti
di interesse della fotografia.
I disegni vanno corredati da indicazioni di massima come ad esempio:
Seguono i riferimenti relativi a rapporto di misura e alla microfotografia dalla
quale si è ricavato il lucido.
Relazione.
Una relazione si articola in tre punti:
i.
Dati di riferimento;
ii.
Rapporto sull'osservazione al microscopio;
iii.
Documentazione grafica e/o fotografica.
i.
Dati di riferimento. Vengono riportati alcuni dei dati che compaiono sul
registro dei prelievi:
• numero del dipinto: questo dato rinvia alla scheda madre del dipinto, di
conseguenza vanno evitati riferimenti ripetitivi del tipo: edificio,
autore/epoca, eccetera.;
• data del prelievo;
• zona del prelievo: per questo dato si farà riferimento alla foto o alla
rappresentazione grafica del dipinto che funge da “mappa dei prelievi”;
• scopo del prelievo: questo è un dato della massima importanza (per il
riferimento alla relazione sullo stato di conservazione del dipinto, si
consulteranno la scheda-madre);
• numero della sezione (per l'organizzazione del numero di riferimento
vedi 6);
• tipo di sezione: (opaca o trasparente).
Rapporto sull'osservazione al microscopio. Usando un linguaggio per
quanto possibile sistematico, si riferirà su:
• Numero di strati
• Spessore (totale e dei singoli strati)
• Colorazione, di massima, degli strati
• Distribuzione dei cristalli o particelle (ad esempio: uniformità,
addensamenti particolari, ecc.)
• Discontinuità di adesione e/o coesione
• Presenza di sostanze sovramesse
• Penetrazione di sostanze sovramesse
• Inclusioni (ad es.: particelle anomale in quanto a numero,
distribuzione, colorazione, ecc.)
• Presenza di sostanze organiche ed eventuali differenziazioni tra
queste
• Ipotesi sulla presenza di leganti inorganici
• Identificazione di pigmenti
• Ecc.
Specificando con quale tipo di illuminazione, numero di ingrandimenti,
ecc., si è operato e facendo gli opportuni rinvii alla documentazione
allegata.
iii. Documentazione grafica e/o fotografica. Vanno allegati sia disegni e
microfotografie completi di didascalie, sia una “mappa” del punto di
prelievo (campione singolo o serie di campioni) effettuati durante uno
stesso periodo (per la numerazione vedi 6). Va infatti evitata una
descrizione generica del tipo: “quarto inferiore destro, vicino al bordo”,o “
terza piega da sinistra del della Vergine”.
Archiviazione.
La sezione stratigrafica va ora archiviata. Ciascun contenitore, o vetrino, va
contrassegnato per l'archiviazione.
Può esser adoperata un'etichetta autoadesiva.
Dato che un archivio prevede sezioni stratigrafiche da dipinti con differenti tipi
di supporto, può essere utile assegnare all'etichetta una colorazione specifica
che consenta una prima identificazione rapida relativamente al tipo di
supporto. A questo scopo, ad esempio, si può impiegare:
• grigia per campioni da dipinti murali
• bruna per campione del dipinti su supporto ligneo
• gialla per campioni da dipinti su tela. Ecc.
Ogni contrassegno dovrà recare sia i dati relativi al dipinto da cui il campione è
stato prelevato, sia quelli relativi alla sezione, o serie di sezioni, da uno stesso
dipinto.
Ad esempio:
L’etichetta viene divisa in due settori: A e B.
• A: riporta i dati relativi al dipinto
• B: riporta i dati relativi alla sezione.
Fig.
Settore A: - prima viene indicato il numero che si riferisce al dipinto (dipinto:
scheda-madre);
- poi la data (mese ed anno) in cui dal dipinto è stato prelevato il
campione, o serie di campioni.
Settore B: - prima si ha il numero d'ordine crescente del registro archivio
sezioni, con l'indicazione 0
(opaca, oppure i (trasparente)
- Poi il numero d'ordine crescente relativo a ciascun prelievo
effettuato dal dipinto
- segue il numero totale dei prelievi effettuati l'altro stesso periodo.
Così
è la sezione opaca numero tre di un gruppo di sei
sezioni prelevate dal dipinto murale numero 121
nel marzo del 1978, ed è la 186ma sezione
archiviata dalla laboratorio.
L'archiviazione completa prevede l'esistenza di:
- Scheda-madre del dipinto
- Registro prelievi
- registro “archivio sezioni e documentazione”.
L'operazione perciò prosegue riportando i dati:
a. sul registro “archivio sezioni e documentazione”
b. scheda-madre.
a. Organizzato per numero d'ordine crescente, il registro da unicamente i
dati che compaiono sull'etichetta che contraddistingue la sezione. Lo
stesso numero contrassegna anche la documentazione (relazione e
relativi allegati grafici o fotografici), che rimane così sempre strettamente
legata alla sezione.
b. la scheda madre del dipinto ha un settore riservato ad analisi ed esami
e, sotto la voce sezioni stratigrafiche, riporta i dati relativi al numero di
prelievi per sezioni effettuate nel tempo (dati forniti dal registro prelievi)
con a fianco il numero di riferimento al registro “archivio sezioni e
documentazione”.
Il registro”prelievi” è un registro di lavorazione, utile durante la redazione della
relazione; esso rimanda principalmente alla scheda madre, che raccoglie tutti i
dati relativi al dipinto.
Per risalire alle informazioni si dovrà consultare la scheda madre; nel settore
riservato alle sezioni stratigrafiche si hanno le indicazioni sul numero di prelievi
e, quando effettuati, con a fianco numero di riferimento che permette a) di
rintracciare la sezione e b) di rintracciare la documentazione.
Vanno previsti contenitori adatti alla conservazione di:
• Sezioni stratigrafiche opache
• Sezioni stratigrafiche trasparenti
• Relazioni e documentazione grafica e/o fotografica.
Vantaggi e svantaggi del metodo.
Vantaggi.
I due principali vantaggi sono:
•
Può essere ottenuta una grande quantità di informazioni da una quantità
molto piccola di materiale. Con una sola analisi può essere identificata
allo stesso tempo la sequenza degli strati di pittura in un dipinto insieme
al loro colore e stesura, i loro spessori possono essere misurati insieme
con le particelle di pigmento e i pigmenti stessi possono essere
analizzati chimicamente come anche il legante.
•
Grazie al prelievo di un piccolo frammento di pittura dal dipinto è
possibile effettuare su di esso delle operazioni che sarebbero
inopportune o comunque pericolose se fossero realizzate sul dipinto
direttamente. In questo modo può essere trovata una miscela efficiente,
ma non dannosa di solventi per rimuovere le sovrapitture. Test con
reagenti forti possono essere eseguiti in sicurezza lontano dal dipinto,
finché i loro effetti sul dipinto non siano conosciuti. Non sarebbe
possibile portare avanti test di questo tipo in una così piccola scala sulla
superficie di un dipinto, anche utilizzando un microscopio bioculare,
aumentando notevolmente la difficoltà di fatto operando con un
reagente in zone così ristrette del dipinto.
Svantaggi.
•
Considerando che l'aspetto estetico non può esser danneggiato,
possono essere rimossi soltanto campioni di pittura estremamente minuti
dal dipinto e, in questo modo la quantità di materiale disponibile per
lavorare è molto poca e molto piccola. Il vantaggio di ciò è che in
qualche modo vengono usati dei metodi speciali.
•
Studi a lungo termine della tecnica pittorica di un artista o della struttura di
una pittura mediante questo metodo richiederebbe numerosi campioni e le
sorgenti per questo tipo di campioni sono piuttosto limitate. Nella National
Gallery, per esempio, i campioni sono stati fino ad oggi presi solo da dipinti
in corso di restauro e quindi di solito possono esser ottenute informazioni
che siano utili per il restauratore che sta lavorando su quel dipinto..
•
Esiste quello che può esser chiamato pericolo statistico, cioè non si può
esser certi che un millimetro quadro o meno di pittura sia rappresentativo
dell'intera area studiata che può esser di più di qualche centinaia di cm2,
anche se ad occhio nudo quell'area può sembrare uniforme in colore e
stesura.. Dove è stato possibile si sono fatte de sezioni nelle aree adiacenti
e simili del dipinto. D'altro canto, fattori imprevedibili, temperamento
artistico, una pulitura del pennello dell'artista su uno spigolo del dipinto
sono tutti fattori che devono essere considerati.
Procedura nella National Gallery.
Deve essere chiarito che nella collezione di sezioni di dipinti della National
Gallery (quelle che hanno attuale interesse ora sono un numero maggiore di
200) sono state eseguite in un primo momento allo scopo di risolvere problemi
specifici del restauratore. A partire da questo momento gli esempi dei dipinti
della National Gallery citati sono praticamente tutti da dipinti restaurati negli
ultimi cinque anni durante i quali è stato portato avanti il lavoro sulle sezioni
stratigrafiche.
Questa è la ragione per cui sembra qualche volta illogica ed eterogenea la
selezione delle illustrazioni. C'è la fortuna che gli esempi coprono un periodo
di tempo abbastanza vasto che comprende la maggior parte delle scuole
europee. In più bisogna ringraziare coloro che hanno donato campioni di
pittura da dipinti di altre collezioni e che hanno allargato considerevolmente
l'ambito di questo studio.
Quando un campione di pittura viene rimossa dal dipinto dal restauratore,
questo viene fatto con un piccolo coltello con punta affilata. Il coltello è inserito
in una fessura, di preferenza , nella pittura e quindi facendo leva viene
staccato un piccolo pezzo, l'operazione deve essere eseguita con l'ausilio di
un mezzo di una lente di ingrandimento o un binocolo o lavorando sotto
microscopio. È preferibile che il dipinto sia adagiato orizzontalmente, in questo
modo ogni particella che si stacca per quanto piccola può essere salvata. Lo
scalpello può essere umidificato con della saliva per aiutare il frammento di
pittura ad aderire ad esso. L'uso del balsamo del Canada o di vernice è
possibilmente da evitare, per le difficoltà che essi causano durante la
successiva analisi chimica. Il campione principale ed ogni piccolo grano di
pittura che cade da esso vengono prelevati con una leggera spazzola umida e
se è richiesto per un utilizzo immediato, vengono collocati su un vetrino di
microscopio, altrimenti tali campioni possono essere convenientemente
conservati in piccole capsule di gelatina usate per scopi farmaceutici.
Essi vengono etichettati con cura e se c'è qualche dubbio sull’esatta
collocazione di origine del campione dal quale sono stati presi possono
essere trovate e misurate le coordinate del punto di prelievo sul dipinto.
Bisogna ammettere che il metodo di rimozione del campione dal dipinto è in
qualche modo cruento e non totalmente soddisfacente. In passato sono stati
fatti numerosi tentativi per inventare un adatto strumento per questo genere di
intervento.
Laurie ebbe l'idea di usare un ago ipodermico affilato, ma tale metodo non è
stato adoperato poiché la pressione necessaria per il suo utilizzo tende a
frantumare la fragile pittura ed anche per la difficoltà di estrarre intatto il
campione fuori dal condotto interno dell'ago.
Il campione di pittura è rimosso nel laboratorio ed osservato sotto microscopio
a bassa potenza (30 x fino a 150 x di solito rappresentano un intervallo adatto
di ingrandimento).
I requisiti per il microscopio non sono molto precisi. Essi sono stati stabiliti da
Gettens e da un ulteriore lavoro di Gettens e Stout ( essi hanno anche fatto
un’analisi utile degli strumenti e dell'equipaggiamento). In aggiunta a un
microscopio ordinario (o per scelta ad uno chimico) è spesso utile un
microscopio stereoscopico binoculare. Un microscopio con polarizzatore e con
prisma analizzatoredi Nicol risulta anche valido se devono essere eseguite
identificazioni di molti pigmenti.. Una sorgente luminosa potente come una
"Pointolite" è essenziale, come anche una sorgente a luce bianca. A proposito
di quest'ultima il laboratorio della National Gallery possiede una piccola
lampada per microscopio a luce diurna con tubo fluorescente; essa è utile per
analizzare il colore a bassi ingrandimenti.
L'aspetto della superficie superiore ed inferiore di un dipinto viene annotata e il
frammento più grande viene usato per preparare la sezione stratigrafiche, il
resto è tenuto da parte per l'analisi chimica.
La sezione levigata viene quindi esaminata sotto microscopio con uno un
ingrandimento adatto.
Lo spessore degli strati di pittura e le particelle di pigmento più grossolane
possono essere misurate usando una oculare con una scala calibrata.
In più, mediante osservazione del colore, della misura e della forma della
particella, dell'opacità e della trasparenza, della cristallinità, eccetera, dei
pigmenti è possibile individuare abbastanza esattamente la gamma di possibili
pigmenti presenti anche molto prima di procedere l'analisi chimica.
Un inequivocabile aiuto in questo stadio è una collezione più completa
possibile di pigmenti conosciuti inseriti nelle medesime resine per confronto.
Quelle usate al momento alla National Gallery sono inglobate nel balsamo del
Canada, ma è inteso che nel prossimo futuro questo verrà rimpiazzato con
nuovi materiali mediante metodi più moderni come quelli descritti da Charlett.
Dopo aver completato l'esame ottico, la sezione del dipinto può essere
soggetta ad una serie di test con solventi, test colorimetrici e altri testi chimici,
che saranno descritti più tardi in questo articolo. Ulteriori testi chimici sono
quindi fatti sul campione rimanente che non è stato inglobato nella resina. E’
inclusa una serie di test con solventi nel tentativo di identificare il legante
presente nel campione, ciascun reagente viene evaporato o rimosso
attraverso filtrazione o attraverso tubi capillari prima che il successivo sia
aggiunto.
Queste tecniche usate su così piccole quantità di materiali sono ampiamente
descritte nel manuale di Chamot e Masons.
Quanto detto sopra è quindi uno schema generale di analisi. La sua
applicazione e i risultati saranno esaminati ora in dettaglio. Le osservazioni
fatte sulle sezioni stratigrafiche saranno discusse e le conclusioni tratte
saranno confrontate con l'analisi chimica della pittura. I test chimici per i
pigmenti ed i leganti saranno descritti in dettaglio alla fine di questo articolo.
La struttura a strati di un dipinto.
La prima e la più ovvia caratteristica che deve essere osservata nella sezione
di una pittura è la sequenza degli strati presenti. Spesso viene stabilito che i
quattro principali strati di ogni pittura sono supporto, preparazione, pittura e
rivestimento superficiale.
È possibile fare una sezione per mostrare tutti questi strati, ma in pratica il
supporto viene spesso omesso poiché esso può normalmente venire
esaminato dal retro del dipinto. È consigliabile cercare di includere almeno
parte dello spessore della preparazione o imprimitura, anche solo per essere
sicuri che tutti gli strati della pittura siano presenti.
I primi tre esempi illustrati includono anche i supporti con lo scopo di mostrare
in scala gli strati e la loro correlazione con le differenti componenti di una
pittura:
figura 1 affresco romano 200 a.C.
L'intonaco del muro è straordinariamente ruvido e mescolato con polvere di
marmo grossolana. Anche le particelle di pigmento blu sono molto grossolane.
È stato trovato che sono circondate da cristalli di carbonato di calcio. Non c'è
vernice.. Una struttura così grezza è chiaramente tipica di tinture su muro.
Figura 2 pannello dipinto. Cristina di Danimarca, duchessa di Milano. Pittura
blu da retro.
Possono essere osservate le fibre di vetro sul pannello di quercia.
Ci sono due strati di carbonato di calcio e di colla e gesso.
La maggior parte dei pannelli hanno sempre uno spesso strato di gesso se
confrontato con lo spessore degli strati di pittura (pannelli olandesi del XVII
secolo sono una eccezione da notare). Sopra il gesso c'è una sola pittura di
bianco di piombo.
I due o tre strati di pittura mostrati dimostrano la presenza di ridipitture.
Sono presenti tracce di vernice, ma non nella parte della sezione mostrata
nella fotografia. Il legante dello strato di pittura è l'olio.
Figura 3 pittura su tela (scuola inglese XVII secolo).
Qui la tela appare in un ordito di filo in direzione della lunghezza della sezione
e con la trama di filo distanziata ad intervalli perpendicolari al piano della carta.
Questa pittura è piuttosto atipica avendo un così scarso strato di imprimitura. Il
singolo strato di pittura consiste di bianco di piombo e un pigmento blu, smalto,
in un legante oleoso.
Le pitture murali non saranno discusse qui ulteriormente, dopo questo breve
confronto. Il resto della discussione sarà trattata esclusivamente sui dipinti su
tela e pannelli.
Sezioni stratigrafiche come aiuto nel restauro dei dipinti
E’ già stato menzionato che la prima ragione per prelevare campioni di pittura
da dipinti nella National Gallery è stato quello di fornire informazioni al
restauratore che lavorava sul dipinto.. I pochi esempi seguenti sono quelli in
cui lo studio di sezioni stratigrafiche è risultato essere di grande valore per i
restauratori:
n.2475, Hans Holbein, il giovane, Cristina di Danimarca, duchessa di Milano.
Sono stati eseguiti test di pulitura su questo dipinto allo scopo di essere esibito
alla
Esibizione d'Inverno della Royal Academy dei lavori di Holbein e altri maestri
tenutasi nel 1950-19051.
Le radiografie che sono state fatte dell'intero dipinto hanno mostrato
chiaramente che oltre che sul viso c'erano dei danni in altre parti del dipinto,
compreso il fondo blu scuro. Un test di pulitura sullo sfondo ha mostrato che
sotto lo strato di vernice superficiale c'era una ridipittura blu scura, sotto la
quale ancora, sembrava esserci uno spesso strato grigio-verde di vernice
colorata.
Fu fatta così una sezione stratigrafica allo scopo di spiegare la presenza di
questi strati e la natura dei pigmenti nei vari strati di pittura e furono anche
analizzati i tamponi di pulitura.
La sezione stratigrafica è mostrata in figura 2.
I suoi strati sono già stati brevemente descritti nel paragrafo precedente. Sono
stati rinvenuti tre strati di pittura blu, lo strato v, vi, e vii nella figura 2.
Essi sono stati esaminati e si è trovato che:
v.
il sottile strato di blu scuro che si assottiglia e scompare completamente
nel centro della sezione è composto da azzurrite in legante oleoso.
vi.
lo spesso strato di pittura granulare grigio-verde ha alcune particelle blu
scuro e alcune particelle biancastre visibili ed legante è un olio e una
vernice ad olio-resina: che si è scolorita ed è diventata opaca. Sciogliendo il
legante, si possono vedere cristalli blu di azzurrite.
vii.
il sottile strato di pittura blu scura è una miscela di azzurrite, blu di Prussia,
e bianco di piombo in un legante olio-resina:.
La discontinuità dello strato (v) deve rappresentare una caduta di colore nel
dipinto originale di Holbein. Questo strato originale di pittura blu ha mantenuto
il suo colore blu brillante, a causa del legante oleoso che è stato usato
moderatamente e non sembra essersi scolorito. Lo strato (vi) si sovrappone
allo strato perso (v) e quindi è una ridipittura. Sciogliendo il legante è stato
trovato che era pigmentato con alcuni pigmenti cristallini di blu brillante,
azzurrite, come la pittura originale, ma il legante usato è stata una vernice di
olio-resina: in grande eccesso rispetto al pigmento.
Con il tempo questo legante è ingiallito, è diventato opaco e si è disintegrato
rivestendo i cristalli di pigmento blu con una uno strato opaco praticamente
giallo-marrone in modo tale che la pittura nel suo insieme appare di un colore
di grigio-verde.
Dopo essere stata effettuata questa modifica nella ridipittura, il colore dello
sfondo del dipinto doveva essere diventato davvero molto opaco.
Una seconda ridipittura fu quindi eseguita, ed è rappresentata dalla strato (vii).
Si trovò che sebbene questo strato finale contenesse lo stesso pigmento,
azzurrite, come il dipinto originale, esso conteneva anche blu di Prussia, e
poiché questo fu inventato non prima del 1704 non poteva essere stato usato
da Holbein.
Sfortunatamente, dopo questi test, la pulitura del dipinto fu temporaneamente
rimandata tenendo conto della lunghezza dei tempi che erano necessari per
rimuovere le dette ridipitture e riparare le aree danneggiate, e anche in
considerazione del piuttosto povero stato di conservazione del viso della
duchessa.
È interessante notare che nell'esibizione furono mostrate
contemporaneamente due versioni di questo stesso dipinto di Holbein (nel
catalogo n.22, studio di Hans Holbein, il giovane, e n. 23, dopo Holbein).
In entrambi questi dipinti lo sfondo delle figure era abbastanza brillante,
leggermente blu-verdastro molto simile allo sfondo delle miniature ritratto di
Holbein, e l'effetto della figura in contrasto con lo sfondo è molto più efficace.
Nel dipinto della National Gallery, oltre al cambiamento di colore provocato, la
ridipittura si è visto che è stata eseguita lungo i bordi della figura in alcuni
punti, specialmente intorno alla spalla destra e a fianco della testa.
N.292, Pollaiuolo, martirio di San Sebastiano.
Questo quadro presentava molti problemi complessi per il restauratore, alcuni
dei quali furono risolti con l'aiuto delle sezioni stratigrafiche.
Prima di tutto, dopo avere rimosso la vernice scolorata con a una miscela di
solventi organici normalmente usati, si trovò che dipinto era ancora coperto da
un film grigio opaco. Fu necessario accertarsi che questo fosse stato aggiunto
successivamente sul dipinto e non fosse una stesura originale prima di
rimuoverlo dal quadro. Furono fatte sezioni stratigrafiche su varie zone del
dipinto. Una di queste, dal cielo blu pallido, mostrò che lo strato grigio
penetrava attraverso una fessurazione nello strato di pittura blu. Questo viene
mostrato nella figura . La fotografia è stata presa con un'illuminazione
eccessiva che evidenziava la tonalità scura dello strato grigio per mostrare più
chiaramente il distacco delle figure. Si trovò, sia da un attento esame della
superficie del dipinto da parte del restauratore, sia mediante lo studio delle
sezioni, che sebbene lo spessore dello strato variava leggermente nelle
differenti zone del dipinto, ciò accadeva in maniera molto logica come ci si
sarebbe aspettato con una smaltatura e usata per modellare. Frammenti dello
strato grigio stesso furono esaminati al microscopio e sottoposti a test con
solventi. Si scoprì che era un film di olio essiccato, con la possibilità di piccole
aggiunte di resina. Esso era stato deliberatamente pigmentato, sebbene sono
state inglobate particelle di polvere sparse , probabilmente durante il suo
essiccamento. Il grigiore e l'effetto opalescente del film sul dipinto era dovuto
probabilmente allo scattering della luce sulla superficie a causa del fine
sgretolamento e disintegrazione del film, che poteva chiaramente esser
osservato microscopio. Si decise di rimuovere lo strato grigio dal dipinto.
Usando un solvente a media alcalinità.
Sezioni stratigrafiche furono inoltre effettuate da diverse zone verdi e marroni
delle foglie allo scopo di scoprire il loro stato di conservazione. In confronto
alcune zone erano di un verde brillante. Una sezione di queste è mostrata
nella figura 7.
Gli strati osservati sono:
• uno spesso strato di gesso e solfato di calcio e colla;
• una sottile linea marrone di imprimitura a colla;
• una sottopittura giallo-marrone consistente di bianco di piombo e
marrone e ocra gialla in mezzo oleoso;
• il principale colore a corpo che è un debole verde e contiene bianco di
piombo, probabilmente mischiato con ossido di piombo giallo, colorato di
verde con resinato di rame e contenente numerosi cristalli di verde scuro
di verdigris, alcuni molto grandi;
• tracce di un resinato di rame brunito a smalto (non facilmente visibile
nella fotografia).
Sfortunatamente su altre parti del dipinto il verde fu realizzato solo mediante
uno spesso strato di resinato di rame sopra una sottopittura gialla o marrone
lucente, quando lo smalto si è scolorito, il colore verde non è rimasto più
lungo. In alcuni casi la sola traccia visibile di verde è dovuto ai cristalli di
verdigris occasionale immersi nel resinato di rame brunito. Nonostante ciò
l'alta concentrazione di ioni rame e l'assenza di ogni altro pigmento marrone
mostra che questi strati marroni deteriorati hanno avuto origine dal resinato
verde.
Le antiestetiche bolle che compaiono sulla superficie in alcune zone scure del
dipinto dimostrano che è stato usato del pigmento bituminoso per le ombre
che è penetrato nello strato sottostante rovinandolo.
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