LA STRUTTURA DELL’ATOMO – PARTE II L’insuccesso dei modelli interpretativi dei fenomeni atomici e la necessità di spiegare correttamente il comportamento dei sistemi microscopici, spinse i fisici del secolo scorso alla formulazione di una nuova teoria, la meccanica dei quanti “Se, nel corso di un qualche cataclisma, dovesse andare distrutto tutto il sapere scientifico, e si potesse trasmettere alla successiva generazione solo una frase, quale proposizione conterrebbe il massimo d’informazione nel minor numero di parole? Io credo che sia l’ipotesi atomica (o il fatto atomico, o comunque vogliate chiamarlo), che tutte le cose sono composte da atomi...” – (Feynman, R.P.- 1963). Nel 1859 il fisico G.R. Kirchoff scoprì che ogni elemento chimico presenta uno spettro di emissione caratteristico, cioè una distribuzione delle intensità di una radiazione in funzione della frequenza o della lunghezza d’onda, formato solo da poche componenti monocromatiche. In fig.1 viene mostrato lo spettro di emissione di alcuni elementi che appaiono come serie di righe, cioè l’intensità della radiazione è diversa da zero solo per un numero discreto di frequenze. Il significato delle righe è rimasto sconosciuto finché non si è riusciti a collegarle tra loro mediante la legge empirica di J.J. Balmer Figura 1 – Spettri di emissione di alcuni e J.R. Rydberg: elementi chimici. Lo spettro si ottiene separando la radiazione elettromagnetica emessa dalla sostanza nelle radiazioni di diversa lunghezza d’onda di cui è costituita L’interpretazione di questa legge in termini di struttura atomica si deve al fisico N. Bohr, che nel 1913 diede la prima spiegazione teorica dello spettro dell’atomo di idrogeno basata sul concetto di quantizzazione. La teoria quantistica nasce dal tentativo di M. Planck di spiegare la distribuzione dell’energia emessa da un corpo incandescente. In generale, un corpo emette radiazioni a qualsiasi temperatura; per temperature molto basse il massimo di emissione cade nella zona dell'infrarosso fino a raggiungere, per temperature bassissime le microonde mentre a temperature di alcune migliaia di gradi si sposta nella banda del visibile. La radiazione dipende dal tipo di sostanza mentre è indipendente nel caso di un “corpo nero”, Figura 2 – Il corpo nero può essere cioè un corpo in grado di assorbire completamente le schematizzato come una cavità nella quale l’energia entra da un radiazioni che lo colpiscono. Un corpo nero, anche se è piccolo foro e viene assorbita dalle un oggetto teorico, può essere approssimato da un pareti che si riscaldano ed corpo in cui è ricavata una cavità che comunica emettono radiazione mediante un foro con l’esterno. Le radiazioni entranti 1 vengono intrappolate nella cavità e assorbite dal corpo il quale riscaldandosi emette radiazioni. In fig. 3 sono riportati le curve spettrali ottenute sperimentalmente a diverse temperature. Al crescere della temperature aumenta anche l’energia totale della radiazione e la lunghezza d'onda in corrispondenza della quale si ha la massima intensità luminosa dipende solo dalla temperatura del corpo emittente. Se la temperatura aumenta, il massimo si sposta verso le lunghezze d’onda minori. Il grafico mostra che a qualsiasi temperatura l’energia associata ai valori estremi delle lunghezze d’onda tende a zero. J.W. Rayleigh e J. Jeans, applicando le equazioni di Maxwell e le leggi della fisica classica, ottennero una formula che era in grado di riprodurre i dati sperimentali solo per valori di elevati, mentre per frequenze nell’ultravioletto essa prevedeva un’intensità della luce infinita. Tutto ciò, in netta contraddizione con la distribuzione spettrale ottenuta sperimentalmente per la quale invece, per λ 0, anche l’intensità va a zero (fig.3). A questo risultato i fisici diedero il nome di catastrofe ultravioletta. La fisica classica pertanto sembrava non essere in grado di spiegare il fenomeno del corpo nero. Nel 1901, Planck ipotizzò che gli scambi di energia avvenissero sempre per multipli interi di una quantità elementare di energia chiamata “quanto”. Fu dimostrato, inoltre, che la quantità di energia di ciascun quanto era proporzionale alla frequenza della radiazione secondo la relazione: = h , dove h rappresenta la costante di Planck il cui valore è: 6,626 10-34 J s. Sviluppando la teoria quantistica del corpo nero, Planck ottenne una formula che presentava un ottimo accordo con i dati sperimentali per tutti i valori di e T : Figura 3 - Spettro emesso da un corpo nero a varie temperature. La teoria classica riproduce bene la curva del corpo nero alle grandi lunghezze d’onda, ma fallisce alle lunghezze d’onda corte e non mostra nessun massimo di emissione dove I(ν,T) è la quantità di energia per unità di superficie, h è la costante di Planck, c è la velocità della luce e k è la costante di Boltzmann. La spiegazione dell’effetto fotoelettrico e dell’effetto Compton sono due delle più importanti conferme della teoria quantistica. L’effetto fotoelettrico ha luogo quando una superficie metallica colpita da una radiazione emette elettroni. Nel 1905, A. Einstein ipotizzò che l’energia non solo veniva emessa o assorbita in modo discontinuo, ma che si propagava anche in modo quantizzato. Le radiazioni sono quindi costituite da corpuscoli, chiamati fotoni, ciascuno dei quali possiede un’energia:Efotone = h . L’effetto Compton descrive l’urto tra un fotone ed un elettrone. Indirizzando un fascio monocromatico di raggi X contro un bersaglio di grafite si osserva che la lunghezza d'onda f della radiazione diffusa finale è maggiore della lunghezza d'onda i della radiazione incidente. Secondo l’interpretazione quantistica, nell’urto gli elettroni 2 assorbono arte dell’energia dei fotoni che quindi risultano avere una frequenza minore dipendente dall’angolo di diffusione (scattering). La teoria quantistica porta, dunque, alla conclusione che la luce presenta una natura duplice ondulatoria e corpuscolare assieme. Nel 1913, N. Bohr propose un modello atomico basato su quello di Rutherford, introducendovi due postulati. Il primo afferma che gli elettroni occupano solo determinate orbite circolari attorno al nucleo nelle quali si muovono senza emettere energia (stati stazionari), il secondo che ogni orbita corrisponde ad un ben preciso valore di energia. Bohr applicò la teoria quantistica di Planck e stabilì che la condizione perché un elettrone ruotando intorno al nucleo si trovi in uno stato stazionario, è che il valore del suo momento angolare sia un multiplo della grandezza h/2ν: dove r = raggio dell’orbita stazionaria; m = massa dell’elettrone; v = velocità dell’elettrone. Questo implica che il momento angolare non po’ assumere tutti i valori possibili, ma solo alcuni sono permessi e pertanto può variare unicamente per multipli interi di un valore minimo, cioè in maniera quantizzata. Il numero intero n, che può assumere i valori di 1, 2, 3, …. n, è detto numero quantico principale. Bohr fu in grado di derivare l’espressione del raggio delle orbite dei diversi stati stazionari: Il raggio dell’orbita nello stato fondamentale (n=1) risulta essere 5,292 10-11 m, ed è detto raggio di Bohr . L’energia calcolata da Bohr per ogni stato stazionario risulta: Di conseguenza, poiché l’elettrone può avere valori di energia definiti dalla (1) che corrispondono agli stati stazionari, se si fornisce energia all’elettrone che si trova sullo stato stazionario n=1, essa potrà essere assorbita solo se è sufficiente a far avvenire la transizione dalla prima orbita ad una successiva. L’elettrone, che si dice essere in uno stato eccitato, tende a tornare spontaneamente allo stato di minore energia riemettendo l’energia assorbita nell’eccitazione sotto forma di radiazione elettromagnetica. Dati due valori di energia Ea e Eb, con a>b, la transizione da a a b è accompagnata dall’emissione di un fotone la cui frequenza v è data dalla relazione di Planck (fig. 4): Dalla (1) si ottiene una relazione (3) in accordo con la formula di Balmer e tale da consentire un calcolo della costante di Rydberg in ottimo accordo con il valore trovato sperimentalmente (R= 1,09737 107 m-1). 3 Dalla relazione (3) è possibile calcolare le frequenze emesse in una transizione da uno stato na a uno stato nb . In fig. 5 viene riportato lo spettro delle principali transizioni elettroniche dell’atomo di idrogeno. I sette livelli energetici vengono anche indicati con le lettere K, L, M, N, O, P e Q. Il modello di Bohr si è dimostrato valido solo per l’atomo di idrogeno e per le particelle idrogenoidi, vale a dire i cationi He+ e Li2+, ma inadeguato per spiegare la struttura di atomi con più elettroni. Negli spettri di atomi polielettronici si rilevano raggruppamenti di righe vicinissime fra loro, detti multipletti, che non si riescono a interpretare in base al modello di Bohr. Ciò significa che elettroni appartenenti ad uno stesso livello, quindi con uno stesso numero quantico n, possono trovarsi in condizioni energetiche diverse. A. Sommerfeld ipotizzò che le orbite percorse dagli elettroni, oltre che circolari, potevano essere ellittiche e che dato un certo valore di n si potevano avere n orbite con stesso asse maggiore ma con diverso asse minore, quindi con diversa ellitticità, a cui corrispondevano energie leggermente diverse. In tal modo, fu possibile Figura 6 – Orbite permesse nel modello di Bohr-Sommerfeld per i modificare il modello originario primi quattro numeri quantici n di Bohr così da tener conto della struttura fine delle righe spettrali. Sviluppando questi concetti sul piano teorico, Sommerfeld introdusse un secondo numero quantico detto azimutale indicato con la lettera l che può assumere i valori interi compresi tra 0 ed n-1. Il valore zero rappresenta il massimo dell’eccentricità dell’orbita, mentre quando il valore è n-1 l’orbita è circolare (fig.6). Il contributo di Sommerfeld si dimostrò ancora insufficiente per interpretare altri sdoppiamenti di righe spettrali che si riscontrano quando gli atomi sono sottoposti ad un campo magnetico esterno (effetto Zeeman). Fu ipotizzato che, come quando una corrente elettrica percorrendo una spira genera un campo magnetico, anche l’elettrone ruotando intorno al nucleo era in grado di generare un campo magnetico. Per tener conto di questo campo magnetico, fu introdotto un nuovo numero quantico, detto magnetico, che poteva assumere i valori 0, ±1, ±2, ±3,.. ±l. Ulteriori sviluppi del modello portarono a considerare un ulteriore numero quantico, detto di momento angolare di spin. Nel 1925 due fisici olandesi, G.E. Uhlenbeck e S.A. Goudsmit, formularono l'ipotesi che gli elettroni durante il loro moto intorno al nucleo, ruotassero su se stessi in senso orario o antiorario, generando così un secondo campo Figura 5 - Principali serie spettrali dell'atomo di idrogeno 4 magnetico nell’atomo. I valori di spin (indicati con il simbolo ms) che può assumere un elettrone sono ±½, a seconda del senso di rotazione. Nel 1925 il fisico W. Pauli enunciò un principio (detto di esclusione) secondo il quale non possono esistere in uno stesso atomo più elettroni aventi gli stessi valori dei quattro numeri quantici. L’applicazione del principio di Pauli, permette di determinare il numero massimo di elettroni che può essere presente in un livello o sottolivello. Ad esempio, per n=1, i valori di m e l sono uguali a 0 e pertanto è possibile una sola orbita con due elettroni di spin opposto. Il modello di Bohr, nonostante avesse introdotto il postulato quantistico, restava comunque un sistema sostanzialmente classico, cioè un sistema rappresentato da particelle soggette a forze di natura classica. Veniva mantenuta quindi l'idea che l’elettrone ruotasse su un’orbita ben definita, la cui posizione e velocità potevano essere determinate in qualsiasi istante. Nel 1932 il modello atomico si arricchì di una nuova particella. J.Chadwick effettuò un esperimento che consisteva nel bombardare atomi di berillio con nuclei di elio ottenuti dalla disintegrazione spontanea di materiale radioattivo. Egli osservò che dal berillio venivano emesse delle radiazioni secondarie costituite da particelle che non risentivano né di un campo elettrico né di un campo magnetico. Ripetendo l'esperimento su altri materiali, dimostrò che tali particelle avevano tutte la stessa massa, all’incirca uguale a quella del protone, ma che a differenza di questo non erano dotate di carica elettrica a cui venne dato il nome di neutroni. La presenza di questa particella spiegava la differenza tra la massa dell’atomo e quella che si otteneva dalla somma dei soli protoni ed elettroni. La presenza dei neutroni, inoltre, chiariva l’esistenza degli isotopi che sono atomi di uno stesso elemento che esibiscono quasi le stesse proprietà chimiche (stesso numero di protoni), ma hanno massa diversa perché differiscono tra loro per il numero di neutroni. Nel 1925 L. de Broglie estese il concetto di Einstein sulla natura del fotone e dimostrò che ad ogni particella materiale di massa m e velocità v è associata una radiazione, la cui lunghezza d’onda è data dalla relazione: Il carattere ondulatorio degli elettroni fu messo in evidenza dimostrando che i fasci elettronici possono essere diffratti. L’esperimento fu effettuato nel 1925 da C.Davisson e L. Germer i quali bombardarono un cristallo isolato di nichel con un fascio di elettroni veloci ed ottennero un’immagine di diffrazione analoga a quella che ottenuta da raggi X con lunghezza d’onda pari a quella calcolata con la (4) L’interpretazione ondulatoria della materia permise a de Broglie di dimostrare che la condizione di quantizzazione del momento angolare, introdotta in modo artificioso da Bohr, poteva essere derivata direttamente dalla natura ondulatoria dell’elettrone. Partendo dalla condizione quantistica di Bohr, 2πr = nh/m , e tendendo conto della (4) si ottiene per sostituzione l’equazione: 2πr = nλ, che significa che le orbite quantizzate di Bohr devono contenere un numero intero n di lunghezze d’onda. L’onda associata all’elettrone è detta onda stazionaria. 5 Figura 7 - Perché l'onda sia stazionaria (i ventri e i nodi non si spostano nel tempo) è necessario che la circonferenza contenga esattamente un numero intero di lunghezze d'onda In fig. 7 è rappresentata l’immagine dell’onda associata ad un elettrone di un atomo che ruota circolarmente e la cui λ, perché l’onda sia costantemente in fase, deve essere un sottomultiplo intero della lunghezza della circonferenza su cui esiste il treno d’onde. Pertanto, il modello quantistico di Bohr acquisisce con de Broglie caratteristiche ondulatorie che ne giustificano i presupposti di base. Il dualismo onda-corpuscolo ha una conseguenza importante. Nella meccanica classica una particella segue una traiettoria ben definita, cioè un percorso in cui sono definiti sia la posizione che la quantità di moto. Non si può, invece, specificare l’esatta posizione di una particella che si comporta come onda e quindi, essendo privo di significato parlare di posizione di un’onda, non è possibile specificare l’esatta posizione della particella dotata di un preciso momento. Ciò impedisce di tracciare la traiettoria della particella. Tutto ciò viene espresso in forma quantitativa dal principio di indeterminazione di Heisenberg1, il quale asserisce che non si possono determinare simultaneamente con arbitraria precisione sia il momento sia la posizione di una particella. Se questa si muove lungo una retta con una quantità di moto p, il prodotto delle incertezze delle due determinazioni è espresso matematicamente dalla relazione: dove x è l’errore nella misura della posizione e p è l’errore nella misura della quantità di moto. Quindi non è possibile misurare nello stesso momento entrambe le grandezze con precisione arbitraria. Ciò significa, alla luce del principio di indeterminazione, che il modello di Bohr che descrive orbite ben precise attorno al nucleo, perde completamente di significato fisico. Nel 1926, i fisici W. Heisenberg e E. Schrödinger posero indipendentemente le basi di una nuova meccanica che rese possibile la trattazione del dualismo onda-corpuscolo della materia e dell’energia. La teoria di Heisenberg prese il nome di meccanica delle matrici, e si basa sulla associazione fra osservabili fisiche e matrici; quella di Schrödinger prese il nome di meccanica ondulatoria e si basa sulla associazione di ogni particella con una funzione d’onda. L’aspetto caratteristico della teoria delle matrici risiede nel fatto che essa contiene esclusivamente grandezze rilevabili e misurabili, dette appunto osservabili, perché per Heisenberg solamente alle grandezze misurabili poteva essere attribuito un qualche valore di realtà. Heisenberg decise di tralasciare le orbite degli elettroni e cercare regole che avrebbero fornito direttamente ciò che era osservabile, cioè gli spettri. Egli dimostrò che un modo per trattare le proprietà degli spettri elettronici era quello di ricorrere a tabelle di elementi numerici (matrici), ognuna delle quali era in relazione 1 Principio di indeterminazione di Heisenberg – Lezione Treccani 6 con le varie transizioni elettroniche. Usando la teoria delle matrici fu inoltre in grado di calcolare l’energie dei vari stati elettronici. La descrizione matematica della meccanica ondulatoria di Schrödinger, invece, si basa su un equivalente quantistico dell’equazione delle onde dalla teoria ondulatoria. Le due teorie si svilupparono in completa indipendenza l’una dall’altra fornendo tutte e due eccellenti previsioni. Nonostante il diverso approccio matematico, esse rappresentano due forme diverse della meccanica quantistica. Lo stesso Schrödinger dimostrò che le due teorie sono equivalenti, nonostante fossero nate nel contesto di visioni diverse e avessero differenti presupposti teorici. La meccanica ondulatoria è matematicamente più semplice e intuitiva e, quindi, è quella più familiare alla trattazione quantistica dell’atomo da parte dei chimici. L’ipotesi fondamentale su cui si basa la meccanica ondulatoria consiste nel considerare l’elettrone come un’onda che deve soddisfare a un’equazione di propagazione. Schrödinger partendo dall’equazione di un’onda che si propaga nello spazio, conoscendo la massa e l’energia potenziale dell’elettrone e applicando la relazione di de Broglie, propose un’equazione matematica, detta equazione d’onda di Schrödinger, che descrive il comportamento dell’elettrone. L’equazione è espressa nella forma2: Le soluzioni dell’equazione di Schrödinger, indicate con ψ e chiamate funzioni d’onda, sono funzioni matematiche che descrivono gli stati possibili dell’elettrone. Hanno significato fisico solo le soluzioni ψ dell’equazione d’onda che corrispondono a stati di energia costante, gli stati stazionari. I valori di E per i quali l’equazione di Schrödinger ammette soluzioni si chiamano autovalori e le ψ corrispondenti autofunzioni. Il sistema più semplice che si può descrivere è l’atomo di idrogeno che contiene un solo elettrone ed è l’unico sistema per cui l’equazione di Schrödinger può essere risolta esattamente. Quando si risolve l’equazione d’onda per un atomo di idrogeno, nella funzione d'onda ψ compaiono tre coefficienti, tra i quali sussistono le stesse relazioni viste per i numeri quantici n, l, m nella trattazione dell’atomo di Bohr. La coincidenza è però solo formale. Mentre nella teoria quantistica ciascun numero quantico è associato ad una realtà fisica (forma dell’orbita, campi magnetici generati), nella teoria ondulatoria i numeri quantici rappresentano coefficienti numerici di equazioni matematiche ai quali non può attribuirsi alcun significato fisico visualizzabile. Una funzione d’onda alla quale vengano attribuiti opportuni valori numerici ai numeri quantici individua lo stato di un elettrone e prende il nome di funzione orbitalica o orbitale. Tuttavia, la funzione d’onda ψ non ha significato fisico diretto. La sua interpretazione si deve a M. Born che dimostrò che la funzione |ψ|2, nota come densità di probabilità, fornisce la probabilità di trovare l’elettrone nell’unità di volume, in un determinata posizione dello spazio ad una data distanza dal nucleo ed è quindi proporzionale alla densità di carica presente. 2 L’energia totale dell’elettrone E è data dalla somma dell’energia cinetica T e dell’energia potenziale U, da cui T = E - U 7 Si abbandona, pertanto, il concetto di traiettoria definita e quindi di orbita per introdurre quello di orbitale, inteso come regione di spazio intorno al nucleo al quale associare una certa probabilità di trovarvi l'elettrone. La forma degli orbitali atomici dell’atomo di idrogeno si ottiene racchiudendo entro una superficie tutti i punti per i quali l'elettrone ha la massima probabilità di passare nel suo moto intorno al nucleo (95%). A definire dimensione, forma e orientamento di un dato orbitale, concorrono i numeri Figura 8 – Forme degli orbitali a partire da n=1 fino a n=3. La quantici. Il valore del numero crescita di n contribuisce anche all'aumento di complessità quantico n determina l’energia della forma dell’orbitale. dell’orbitale; le forme sono definite principalmente dal valore di l mentre le orientazioni spaziali dipendono dal valore di m. L’insieme degli orbitali che presentano gli stessi valori di n e l costituisce un sottostrato (subshell). In fig. 8 sono rappresentati gli orbitali per i diversi valori dei tre numeri quantici n. Solo per un sistema semplice come l’atomo di idrogeno è possibile trovare le soluzioni esatte della equazione di Schrödinger e quindi trovare le funzioni d’onda. Per un sistema più complesso si possono solo avere delle soluzione approssimate, analoghe a quelle ottenute per l’atomo di idrogeno e per i sistemi idrogenoidi. Ogni orbitale è caratterizzato da tre numeri quantici che hanno lo stesso significato e le stesse correlazioni viste per l’atomo di idrogeno. Negli atomi polielettronici, gli elettroni Figura 9 – Configurazione occupano orbitali simili a quelli dell’idrogeno, però l’energia elettronica dell’atomo di non è la stessa. Ciò è dovuto al fatto che è più grande la Potassio (Z=19) carica nucleare è ed diversa l’azione schermante dovuta agli altri elettroni che rimuove la degenerazione degli orbitali con lo stesso numero quantico principale. Da quanto detto finora, è quindi possibile prevedere quale sarà la struttura elettronica di un atomo allo stato fondamentale (cioè a energia minore), una volta noto il numero totale degli elettroni da esso posseduti. La configurazione elettronica di un atomo può essere realizzata immaginando di collocare uno alla volta gli elettroni, cominciando dal livello di energia più basso (principio di Aufbau) e rispettando il principio di Pauli e quello di Hund (o di massima molteplicità). 8 Il principio di Pauli esclude che in uno stesso atomo possano esistere più elettroni con gli stessi quattro numeri quantici e, pertanto, un orbitale può essere occupato al massimo da due elettroni, i quali hanno gli stessi valori di n, l e m , ma diverso valore si ms. Il principio di Hund afferma che gli elettroni tendono ad occupare il numero massimo possibile di orbitali degeneri. La configurazione elettronica può essere rappresentata in modo sintetico scrivendo gli elettroni come esponente del simbolo che identifica l'orbitale. Ad esempio, in fig.9 è Figura 10 Ordine in cui gli orbitali sono riempiti in atomi riportata la configurazione elettronica del potassio (19 polielettronici elettroni). L'ordine di riempimento degli orbitali segue la regola della diagonale. Come si può vedere esso non coincide con l’ordine progressivo del numero quantico principale. In particolare, nella fig.10 si nota che gli orbitali d ed f vengono riempiti sempre dopo che è stato occupato un orbitale appartenente ad un livello superiore. Pertanto, gli orbitali d ed f non possono mai trovarsi nello strato più esterno di un atomo. Come conseguenza, gli unici orbitali ammessi nel livello più esterno di qualsiasi atomo sono l’s ed il p, e dato che questi possono contenere al massimo 2 e 6 elettroni ne consegue che un atomo non può contenere nel livello esterno un numero di elettroni superiore a 8. Questo consente di dare una base razionale al sistema periodico degli elementi realizzato empiricamente da D. Mendeleev oltre 150 anni fa3. 3 Vedi: La tavola periodica degli elementi – Lezione Treccani 9