L`opera in breve - Teatro Alighieri

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L’opera
in breve
di Daniele Spini
A
Londra, al principio dell’epoca della regina Vittoria, alla fiera di Soho, dove “i mendicanti mendicano, i ladri rubano, le puttane puttaneggiano”. Si comincia con un
Prologo: un’ouverture per un’orchestrina bizzarra, in cui si mescolano e alternano
fiati classici e harmonium, pianoforte e banjo, sassofoni e percussioni, violoncello e chitarra e via così, poi un cantastorie intona la Moritat, la ballata funebre di Mackie Messer,
riassunto delle gesta di Macheath, soprannominato appunto “Mackie il coltello”, benvestito e sfrontato capo dei banditi di strada. È il più amato degli oltre venti amatissimi pezzi composti da Kurt Weill per L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht, rappresentata per la
prima volta il 31 agosto 1928 a Berlino, al culmine dell’indimenticabile ed eroica vicenda
culturale e artistica della Germania di Weimar. Ritmo, melodia, parole ci fanno capire subito che cosa stiamo per vedere e sentire: non ci aspetta un’opera vera e propria, magari
rivisitata modernamente, né un Singspiel come Il flauto magico, e neanche un’operetta
come La vedova allegra, ma qualcosa di nuovo e insieme di eterno, un apologo beffardo
ed estremo che rivisitando l’Opera del mendicante messa in scena a Londra giusto due
secoli prima, nel 1728, da John Gay, attraverso i vizi dei poveri vuol mostrarci quelli dei
ricchi, che scardina la storia grandiosa del dramma musicale con la proposta paradossale e parodistica di una recitazione trapunta di canzoni. Di queste e di quella possiamo
anche innamorarci (com’è successo a intere generazioni, rendendo la Dreigroschenoper uno dei prodotti più popolari del teatro e della musica del Novecento), ma sempre
restando noi stessi, ricordando che si tratta di una finzione, riflettendo piuttosto che
immedesimandoci nelle vicende e nei sentimenti di questi antieroi.
A questo mira Brecht ricreando, con la significativa collaborazione di Elisabeth Bachmann, che l’ha tradotto dall’inglese, il testo di Gay; a questo mira Kurt Weill, sostituendo
le melodie popolari dell’originale (a suo tempo arrangiate da un musicista vero, Johann
Christoph Pepusch) con canzoni moderne, senza paura di toccare i generi più commerciali, citando i balli di società, dal tango al fox-trot, come il cabaret, sapendo di scrivere
per cantanti-attori e non per i divi del melodramma o del dramma musicale di Richard
Wagner, dei quali, e dei cui epigoni attuali, L’opera da tre soldi vuole anzi essere dissacrante caricatura, come già avevano fatto Gay e Pepusch nei confronti dell’opera seria
italiana allora trionfante a Londra. L’impiego di linguaggi così estranei alla tradizione
colta, a prima vista etichettabili come volgari, concorre a scavare un solco fra ciò che
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si narra da un lato e gli spettatori, ma anche gli attori, dall’altro. Tutti sappiamo e dobbiamo sapere che niente è vero, che niente è del tutto credibile, se non una realtà cruda,
senza buoni sentimenti e senza, appunto, eroismi, che ci è mostrata con distacco dagli
interpreti stessi, in un percorso didattico che non è meno tale per il solo fatto di essere
anche divertente. Perché tale lo rendono sia il testo di Brecht, redatto con efficacia e
ironia senza pari, sia le canzoni di Weill, che proprio perché è compositore di solidissima
preparazione classica può permettersi queste incursioni in generi musicali finora non
ammessi nelle stanze più elevate dell’arte. E sono melodie e ritmi un po’ ribaldi ma anche
irresistibilmente affascinanti: fino al punto da piacere all’ascoltatore e diventare oggetto
di consumo e di culto perfino al di là dei desideri degli autori…
Così lungo tre atti si dipana il racconto: nel suo antro Jonathan Jeremiah Peachum,
capo della banda dei mendicanti, che gli debbono obbedienza e metà dei profitti, maltratta uno dei suoi protetti (o vittime), in una sorta di allegoria dello sfruttamento capitalistico. Poi, insieme con la signora Peachum, passa agli affari di famiglia: sua figlia
Polly non è rientrata per la notte. Certo è stata con Macheath; ma il padre-padrone saprà
metter termine a questa storia e far fuori l’odiato Macheath. Intanto in una stalla abbandonata Mackie Messer si prepara a sposare Polly, dopo che i ladri della sua banda gli
hanno procurato vettovaglie e mobilia. Si festeggia, e le canzoni si susseguono: c’è anche
Tiger Brown, il capo della polizia, che intona insieme con il suo vecchio amico Mackie la
Canzone dei cannoni. Di nuovo nell’antro di Peachum: Polly annuncia trionfante ai genitori di aver sposato Mackie, raddoppiando in loro il desiderio di vendetta. Ed è il Primo
finale da tre soldi.
Nel secondo atto Polly avverte Mackie che i due Peachum tramano il suo arresto e
la sua rovina e lo convince a fuggire. Mackie passa le consegne della ditta a Polly e va a
nascondersi in un bordello. Qui ritrova Jenny delle Spelonche, una sua ex: ma lei, comprata da Mrs Peachum, lo ha tradito, e Tiger Brown è costretto ad arrestarlo. In prigione,
Mackie riesce a far innamorare anche Lucy, la figlia di Brown, destando la gelosia di Polly.
Lucy riesce a farlo fuggire, ma Peachum ricatta Tiger Brown: se Macheath riuscirà a cavarsela, scatenerà tutti i suoi mendicanti durante l’incoronazione della regina, e gli farà
perdere il posto. Si chiude con il Secondo finale da tre soldi.
Terzo atto: Jenny va da Peachum chiedendo il compenso per aver tradito Macheath,
ma la signora rifiuta di pagarla. Jenny rivela allora il rifugio di Mackie: quando Brown arriverà, deciso ad arrestarlo di nuovo, apprenderà con spavento che i mendicanti sono già
pronti a scattare, e che solo Peachum potrà fermarli. Macheath è perduto: sarà arrestato
e impiccato. Nella cella della morte Mackie spera di salvarsi corrompendo questo e quello, ma né Polly né i suoi banditi riescono a raccogliere soldi sufficienti. Lo portano alla
forca: ma all’ultimo momento arriva un messaggero a cavallo, annunciando il perdono
della regina e addirittura la concessione di un titolo, di un castello e di una rendita. Il Terzo
finale da tre soldi sigla questo scioglimento volutamente incredibile, parodia sarcastica
del lieto fine consolatorio, troppe volte appiccicato alle vicende narrate in romanzi, testi
teatrali, e opere liriche.
In oltre ottant’anni di vita l’Opera da tre soldi ha conosciuto migliaia di allestimenti e di
rivisitazioni, e ha girato il mondo tradotta in tutte le lingue possibili, conquistandosi simpatia perenne da parte dei pubblici più diversi, compresi quelli meno disposti a raccogliere il
messaggio politico e morale che Brecht e Weill avevano inteso comunicare. E che però di
questa creatura straordinaria resta parte integrante, facendone anche il documento straordinario di una cultura e di un’epoca drammatiche e animate come poche altre.
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