Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.

Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
III.1. Il Libro I.
Il Libro I degli Elementi di Euclide è stato in parte analizzato in precedenza, riportando, di fatto, gli
enunciati di tutte le Proposizioni presenti in esso. Sicuramente dall’antichità in poi è stato quello
che ha attirato più l’attenzione, poiché in esso si pongono le basi per tutta la trattazione successiva,
stabilendo lo stile espositivo che verrà adottato nei tredici Libri; inoltre è quello che contiene
Postulati e Nozioni comuni valide in tutti i Libri.
III.1.1. La struttura del Libro I. Si possono vedere ‘momenti’ diversi nella costruzione del libro che
si analizzano separatamente. Una suddivisione grossolana delle Proposizioni è la seguente:
I.1 – I.3
Costruzioni per il problema del trasporto di segmenti.
I.4 – I.9
Proprietà dei triangoli.
I.10 – I.12 Costruzioni legate alla perpendicolarità ed ai triangoli.
I.13 – I.15 + corollario Proprietà degli angoli.
I.16 – I.17 Studio degli angoli interni di un triangolo (senza parallelismo)
I.18 – I.22 Proprietà dei lati ed angoli di un triangolo.
I.23 – I.26 Altre proprietà dei triangoli.
I-27 – I.33 Rette parallele e loro proprietà (compresa la Prop. I.32 sugli angoli
interni di un triangolo).
I.34 – I.46 Parallelogrammi (gnomoni e triangoli visti come metà di un
parallelogramma).
I.47 – I.48 Teorema di Pitagora.
La traduzione italiana del testo degli Elementi reca utili informazioni. Infatti, al termine d’ogni
dimostrazione è presente una specie di specchietto in cui sono specificati i risultati (precedenti)
impiegati nella dimostrazione (Postulati e Proposizioni) e poi le Proposizioni in cui il risultato
appena provato viene utilizzato. Queste informazioni permettono allora, con un semplice controllo,
di costruire una specie di albero delle derivazioni delle Proposizioni, trovando così quale sia la
Proposizione che viene utilizzata solo all’interno del Libro in cui è presentata, qual è quella più
citata nel seguito. Ne risulta una strutturazione sintetica del Libro in esame. E’ da notare che lo
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specchietto non è sempre affidabile, potendosi trovare esempi nel contesto degli interi Elementi, in
cui vengono utilizzati risultati non riportati poi esplicitamente nello specchietto posto al termine
della dimostrazione.
Una possibile presentazione dei risultati del Libro primo è sintetizzata dalla seguente tabella:
In essa, con Z si indicano i prerequisiti e con X le applicazioni.
Questa analisi è in ogni modo interessante ed importante perché permette, ad esempio, di
evidenziare i risultati che sono inseriti come Proposizioni, ma che, di fatto, sono dei Postulati, non
indicati come tali dal testo euclideo. Nel Libro I ciò avviene per la Prop. I.4. che non dipende da
alcun altro risultato precedente, ma da essa ne dipendono poi altri.
Con * sono indicate le Proposizioni che non sono usate altri Libri, nel Libro I ciò avviene solo per
la Prop. I.40 (cfr. II.4.6.) che ha, evidentemente, motivazioni di carattere ‘metafisico’, piuttosto che
geometrico, in quanto non è più utilizzata negli Elementi. Per questo, Heiberg pone dubbi sulla sua
autenticità, essa sarebbe stata introdotta per una sorta di ‘proporzionalità’ teorica, in quanto la Prop.
I.35 ‘sta alla’ Prop. I.36 come la Prop. I.37 ‘sta alla’ Prop. I.38 (cfr. II.4.6.) e bisognava proseguire
questa catena di ‘proporzioni’ con le Propp. I.39 (cfr. II.4.6) e I.40.
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Nella tabella precedente, con $ si indicano le Proposizioni del Libro I che vengono però utilizzate
solo nei Libri successivi: forse tali Proposizioni sono collocate nel primo Libro per motivi di
contiguità con altri argomenti, ma potrebbero essere spostate in Libri successivi. Ciò avviene per
Proposizione del Libro I
Usata per la prima volta nel Libro
6
II
12
III
17
III
21
III
25
IX
28
IV
32
II
39
VI
45
II
Sono evidenti poi le Proposizioni strumentali, veri e propri Lemmi, che sono impiegate solo nelle
Proposizioni immediatamente successive, come, ad esempio la Prop. I.7, rispetto alla Prop. I.8; lo
stesso per la Prop. I.22.
III.1.2. La geometria del triangolo. Dopo l’introduzione della Geometria analitica e delle
trasformazioni, si identifica abbastanza la cosiddetta Geometria euclidea dei manuali scolastici
come la Geometria del triangolo, ciò può trovare conferma dall’elenco precedente: molti risultati
(almeno 23) sono sul triangolo e le sue proprietà. Anche la Prop. I.1 (cfr. II.4.6.) utilizza un
triangolo equilatero, prodromo del trasporto. Di fatto questa figura geometrica viene vista come
quella “generatrice” di molti risultati e dei poligoni. Eccone spiegata l’importanza.
I triangoli poi intervengono con un nuovo ‘postulato’ quello che viene chiamato Prop. I.4 (cf.
II.4.6.), perché è l’unica del Libro I che non richieda né di Postulati esplicitati, né di Proposizioni
precedenti. E si tratta di un postulato di eguaglianza. Qui è stabilito per i triangoli, ma viene poi
esteso per applicarlo ad altre figure.
Un importante risultato che mette a confronto due diverse uguaglianze (segmenti e angoli) è dato
dalla
«Proposizione I.5. Nei triangoli isosceli gli angoli alla base sono uguali fra loro, e venendo prolungati i lati
uguali gli angoli sotto la base saranno [pure] uguali tra loro.
Dimostrazione. Sia ABC un triangolo isoscele avente il lato AB uguale al lato AC, e si prolunghino per diritto i
lati AB, AC in BD, CE; dico che l’angolo ABC è uguale all’angolo ACB e l’angolo CBD uguale all’angolo BCE.
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Infatti, si prenda su BD un punto a piacere F, dalla retta maggiore AE si
A
sottragga la retta AG uguale alla minore AF (Prop. I.3.) e si traccino le
congiungenti FC, GB (Post. 1.)
Poiché dunque AF è uguale ad AG, ed AB è uguale ad AC, i due lati FA,
AC sono uguali rispettivamente ai due altri GA, AB; e comprendono
B
F
D
[gli uni gli altri] l’angolo FAG comune [ai due triangoli], per cui la
C
base FC è uguale alla base GB, il triangolo AFC sarà uguale al
triangolo AGB, e gli angoli rimanenti del primo saranno uguali ai
G
E
rispettivi angoli rimanenti del secondo, quelli cioè ai lati uguali:
l’angolo ACF uguale all’angolo ABG, e l’angolo AFC uguale all’angolo AGB (Prop. I.4.)
Ora, poiché tutto quanto il lato AF è uguale a tutto quanto il lato AG, e di essi la parte AB è uguale alla parte AC,
le parti restanti, cioè BF, CG, sono uguali (Noz. com. 3). Ma fu dimostrato che pure FC, GB sono uguali: i due
lati BF, FC sono così uguali rispettivamente ai due lati CG, GB; e l’angolo BFC è uguale all’angolo CGB, e BC
è la loro base comune, per cui anche il triangolo BFC sarà uguale al triangolo CGB, e gli angoli rimanenti del
primo saranno uguali ai rispettivi angoli rimanenti del secondo, quelli cioè opposti ai lati uguali: l’angolo FBC è
quindi uguale all’angolo GCB e l’angolo BFC è uguale all’angolo CBG (Prop. I.4.). E poiché fu dimostrato che
tutto l’angolo ABG è uguale a tutto l’angolo ACF, e di essi la parte CBG è uguale alla parte BCF, le parti restanti,
cioè gli angoli ABC, ACB che sono angoli alla base del triangolo ABC, sono uguali (Noz. com. 3.). Ma fu
dimostrato che anche gli angoli FBC, GCB sono uguali, e sono angoli sotto la base. »
Già la Prop. I.4 aveva posto le basi per l’interazione tra lati (segmenti) ed angoli di due triangoli
‘diversi’. Ora si sta lavorando all’interno dello stesso triangolo e si confrontano angoli. E’ questa il
primo caso degli Elementi in cui ciò avviene. Ma la dimostrazione della seconda parte anticipa, di
gran lunga, problemi che saranno poi affrontati nel Libro V. Infatti, forse basandosi troppo
sull’evidenza grafica, qui Euclide utilizza gli angoli come «cose», grandezze, che è possibile
sommare o sottrarre, ed infatti impiega la Noz. com. 3. Ovviamente tutto ciò non porta scompiglio,
visto che poi si può sistemare in modo adeguato la richiesta teorica. Dunque non basta più la sola
uguaglianza tra angoli, desunta da quella dei lati, ma è necessario operare su di essi come se si
trattasse di grandezze o di quantità. Il rapporto tra lati ed angoli di un triangolo viene a costituire
una sorta di corrispondenza con caratteri di omomorfismo, dato che conserva anche le
disuguaglianza, come prova, ad esempio le Propp. I.24 e I.25. (cf. II.4.6.)
Questa Prop. I.5 è stata vista nel tempo come uno dei primi e più grandi scogli all’apprendimento
della Geometria, tanto da meritarsi l’epiteto di Pons asinorum, cioè come il primo ostacolo selettivo
tra chi capisce e chi non capisce la Geometria. Anche studiosi
importanti hanno criticato l’approccio di Euclide che qui, lasciate le
prime costruzioni e il postulato non enunciato come tale, Prop. I.4.,
inizia le vere e proprie dimostrazioni, ma in questo caso, di una
Hieronymous Georg Zeuthen
(1839 – 1920)
proprietà evidente dei triangoli. Anzi alcuni hanno criticato non tanto il
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fatto che ci sia una dimostrazione, ma la dimostrazione scelta, che sarebbe stata più semplice
mediante l’uso della bisettrice dell’angolo BAC (eventualmente con l’uso della Noz. com. 6,
spuria). Zeuthen ha trovato in questo la conferma del procedimento genetico,
A
utilizzato da Euclide nella sua presentazione, in quanto la bisettrice verrà
introdotta solo nella Prop. I.9 (cfr. II.4.6.). Ora per ottenere tale Proposizione
servono le Propp. I.1, I.3 e I.8 (cfr. II.4.6.) e la I.8 dipende esclusivamente dalla
B
D
C
Prop. I.5, dunque ci sarebbero problemi a premettere alla Prop. I.5 la Prop. I. 8 e
la Prop. I.9, oppure basterebbe un postulato di continuità che aleggia nel testo euclideo, ma non
viene mai enunciato.
Nella successiva Proposizione si prosegue il trattamento congiunto dei segmenti e degli angoli:
«Proposizione I.6. Se in un triangolo due angoli sono uguali fra loro, anche i lati opposti agli angoli uguali
saranno uguali fra loro.
Dimostrazione. Sia ABC un triangolo avente l’angolo ABC uguale all’angolo ACB; dico che anche il lato AB è
uguale al lato AC. Infatti, se AB fosse disuguale rispetto ad AC, uno dei lati sarebbe maggiore. Sia
maggiore AB, dal lato maggiore AB si sottragga DB uguale al lato minore AC (Prop. I.3.), e si
A
tracci la congiungente DC. Poiché dunque DB è uguale ad AC e BC è comune, i due lati DB, BC
D
sono uguali in tal caso rispettivamente ai due lati AC, CB, e l’angolo DBC è uguale all’angolo
ACB; quindi la base DC è uguale alla base AB, ed il triangolo DBC sarà uguale al triangolo ACB
B
C
(Prop. I.4.), il minore al maggiore: il che è assurdo (Noz. com. 8); AB non è quindi disuguale
rispetto ad AC, e perciò uguale.»
Nella Prop. I.6 c’è la prima esplicita utilizzazione della dimostrazione per assurdo, se si ritiene
spurio l’inciso presente nella Prop. I.4
«Se difatti, mentre B coincide con E e C con F, la base BC non coincidesse con la base EF, due rette verrebbero
a comprendere uno spazio: il che è impossibile.»
Per quanto riguarda il triangolo introdotte diverse nomenclature o definizioni, Deff. I.19, I.20 e I.21,
a riprova dell’importanza del triangolo e della distinzione tra i suoi caratteri geometrici, mentre per i
quadrilateri bastano due Definizioni (Deff. I.19 e I.22.).
Le proprietà del triangolo danno modo a Euclide di sfoggiare varie tecniche di dimostrazione. Ad
esempio la Prop. I.5 e la Prop. I.6 sono teoremi uno inverso dell’altro, ottenuti scambiando ipotesi e
tesi.
A proposito della dimostrazione della Prop. I.9 si osservi che Euclide cita la Prop. I.3, ma potrebbe
applicare solo il Postulato 3. Però ci sarebbe poi da aprire il compasso con una arbitraria ampiezza e
questo provoca problemi ad Euclide in quanto non è chiaro come individuarla.
III.1.3. Il parallelismo. Euclide ha ben chiaro che uno degli obiettivi del Libro I è quello di stabilire
una teoria delle parallele, teoria per chi ha forgiato il Postulato 5. Si tratta della richiesta che più di
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altre richiama l’infinito ed utilizza un quantificatore esistenziale non costruttivo. Per questo il nostro
autore non sembra trovarsi a suo agio ed allora lo vediamo provare il maggior numero possibile di
risultati, anche relativi al parallelismo, senza per altro, utilizzare il Postulato 5.
Sono in questa condizione le Propp. I.27 e I.28 che parlano di rette parallele e ne provano proprietà,
senza far uso del Postulato.
«Proposizione I.27. Se una retta che venga a cadere su altre due rette forma gli angoli alterni interni uguali fra
loro, le due rette saranno fra loro parallele.
Dimostrazione. Infatti, la retta EF cadendo sulle due rette AB, CD, formi gli angoli alterni AEF, EFD uguali fra
loro: dico che AB è parallela a CD.
E
A
Se difatti non lo fosse, le rette AB, CD, prolungate, si incontrerebbero dalla
B
parte di B, D, o da quella di A, C. Si prolunghino e vengano ad incontrarsi
G
F
C
D
dalla parte di B, D nel punto G. Dunque, nel triangolo GEF l’angolo
esterno AEF è in tal caso uguale all’angolo interno ed opposto EFG: il che
è impossibile (Prop. I.16.); quindi AB, CD, prolungate non potranno
incontrasi dalla parte di D. Similmente si potrà dimostrare che non verranno ad incontrarsi neppure dalla parte di
A, C; ma rette che non si incontrano da nessuna delle due parti sono parallele (Def. I.23.), per cui AB è parallela a
CD. »
Talvolta ci si riferisce a questa Proposizione (ed alla successiva Prop. I.28.) col nome di teorema
diretto delle parallele. Nella dimostrazione si adopera la contronominale della Prop. I.16 (cfr.
II.4.6.). Nella dimostrazione infatti si è assunta l’ipotesi che è negazione della tesi della Prop. I.16 e
se ne desume la negazione dell’ipotesi della Prop. I.16, vale a dire che le due rette AB e CD si
incontrino e con EF costituiscano un triangolo.
La Prop. I.28 è del tutto analoga alla Prop. I.27 e si ottiene sostituendo gli angoli alterni interni con
quelli alterni esterni oppure i con i corrispondenti.
Come detto anche il precedenza, la prima occasione di uso del Postulato 5 è dato dalla
«Proposizione I.29. Una retta che cada su due rette parallele forma gli angoli alterni uguali tra loro, l’angolo
esterno uguale all’angolo interno ed opposto, ed angoli interni dalla stessa parte la cui somma è uguale a due
retti.
Dimostrazione. Infatti, la retta EF venga a cadere sulle rette parallele AB, CD; dico che essa forma gli angoli
alterni AGH, GHD uguali, l’angolo esterno EGB uguale all’angolo interno ed opposto GHD, e gli angoli interni
BGH, GHD, dalla stessa parte, la cui somma è uguale a due retti.
Se l’angolo AGH fosse difatti disuguale rispetto all’angolo GHD, uno di essi sarebbe
E
G
A
C
H
B
D
maggiore. Sia maggiore l’angolo AGH; si aggiunga in comune l’angolo BGH; la
somma degli angoli AGH, BGH è quindi maggiore della somma degli angoli BGH,
GHD (Noz. com. IV). Ma la somma di AGH, BGH è uguale a due retti (Prop. I.13.). La
F
somma di BGH, GHD è perciò minore di due retti. Ma rette che vengono prolungate
illimitatamente a partire da angoli la cui somma sia minore di due retti, si incontrano (Post. 5); quindi AB, CD,
prolungate illimitatamente, si incontreranno; ma non si incontreranno invece, poiché per ipotesi sono parallele;
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l’angolo AGH non è perciò disuguale rispetto all’angolo GHD, e dunque è uguale. Ma l’angolo AGH è uguale
all’angolo EGB (Prop. I.15); quindi sono uguali pure gli angoli AGB, GHD (Noz. com. 1). Si aggiunga in
comune [ad essi] l’angolo BGH; la somma di EGB, BGH risulta allora uguale alla somma BGH, GHD. E poiché
la somma degli angoli EGB, BHG è uguale a due retti (Prop. I.13.), anche la somma degli angoli BGH, GHD è
uguale a due retti (Noz. com. 1).»
Questo risultato, forse la forma più usata del Post. 5, viene detta teorema inverso delle parallele.
Nella Prop. I.29, dall’ipotesi di parallelismo si ottengono le relazioni angolari. Ma si tratta di una
dimostrazione puramente logica, non geometrica, perché si riduce a provare la contronominale del
Post. 5.
Per alcuni commentatori questa Proposizione è la prima della Geometria che si può dire euclidea, in
contrapposizione alle Geometrie non euclidee.
Uno dei punti più importanti in tutto di questo Libro è rappresentato dalla Prop. I.32, di cui qui si
ripete l’enunciato, integrandolo con la dimostrazione.
«Proposizione I.32. In ogni triangolo, se si prolunga uno dei lati, l’angolo esterno è uguale alla somma dei due
angoli interni ed opposti, e la somma dei tre angoli interni del triangolo è uguale a due retti.
Dimostrazione. Sia ABC un triangolo, ed un suo lato BC sia prolungato oltre C sino a D; dico che l’angolo
esterno ACD è uguale alla somma dei due angoli interni ed opposti CAB, ABC, e che la somma dei tre angoli
interni del triangolo, ABC, BCA, CAB, è uguale a due angoli retti.
Infatti, per il punto C si conduca la parallela CE alla retta AB (Prop. I.31.).
E poiché AB è parallela a CE, e su essa cade AC, gli angoli alterni BAC, ACE
A
sono uguali fra loro (Prop. I.29.). Di nuovo, poiché AB è parallela a CE, e su
E
esse cade la retta BD, l’angolo esterno ACD è uguale all’angolo interno ed
opposto ABC (Prop. I.29.). Ma fu dimostrato che pure gli angoli ACE, BAC
B
C
D
sono uguali; quindi tutto quanto l’angolo ACD è uguale alla somma dei due
angoli interni ed opposti BAC, ABC (Noz.com. 2).
Si aggiunga in comune l’angolo ACB [all’angolo ACD e alla somma degli altri due]; la somma degli angoli
ACD, ACB è perciò uguale alla somma dei tre angoli ABC, BCA, CAB (Noz.com. 3). Ma la somma degli angoli
ACD, ACB è uguale a due retti (Prop. I.13.); quindi anche la somma degli angoli ACB, CBA, CAB è uguale a due
retti (Noz.com. 1).»
La proprietà è centrale nell’economia degli Elementi: Euclide vuole mettere alla prova la sua teoria
delle parallele dimostrando una delle proprietà più ‘indubitabili’ della Geometria, tanto da essere
ritenuta da Aristotele come l’essenza del concetto (universale) di triangolo, posizione reiterata quasi
2000 anni dopo da Kant. In un certo senso questa proprietà dei triangoli sembra ‘rassicurare’
Euclide sui dubbi e tentennamenti nati dalla scarsa evidenza del Postulato delle parallele, nella
versione da lui scelta: se in quella forma si riesce a provare la proprietà degli angoli interni di un
triangolo, allora potrebbe davvero funzionare.
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Come si vede le nozioni di parallelismo di rette ed angoli sono strettamente connesse, pertanto si
tornerà a parlare di parallelismo e angoli nel paragrafo III.1.6.
Analizzando la dimostrazione della Prop. I.32 si osserva che il postulato delle parallele non è
utilizzato esplicitamente, ma si fa ricorso alla Prop. I.29 che ne è la versione contronominale, ed alle
conseguenze dirette di quest’ultima Proposizione.
Secondo Enriques
«Si osservi che essa esprime uno dei due teoremi veramente significativi del libro primo (l’altro è la prop. 47,
cioè il teorema di Pitagora), ed anzi i due teoremi di cui si parla sembrano costituire i due fuochi rispetto a cui
viene ordinata la trattazione euclidea.»
Il teorema si presenta duplice: la proprietà dell’angolo esterno e la sua conseguenza immediata della
somma degli angoli interni. Per quanto riguarda l’angolo esterno esso ha come conseguenza le
Propp. I.16 e I.17 (cfr. II.4.6.). Infatti con la Prop. I.16, si ha che l’angolo esterno è maggiore di
ciascuno degli angoli non adiacenti, mentre con la Prop. I.17, la somma di due angoli di un
triangolo è sempre minore di due retti. Ma tali Proposizioni si dimostrano senza fare ricorso al
Postulato delle parallele. Si possono quindi vedere le due ultime proposizioni citate come il punto di
maggiore avvicinamento possibile, alla proprietà della somma degli angoli interni di un triangolo,
senza fare uso del 5° postulato.
Di fatto Legendre proverà il risultato sulla somma degli angoli interni del
triangolo (cfr. VI.3.4.2.), reiterando risultati analoghi alla Prop. I.16 e con
l’ausilio della Prop. X.1 (cfr. III.8.3.2.), equivalente al cosiddetto Principio
di Eudosso-Archimede (cfr. III.5.2.2.), senza il postulato delle parallele, ma
Adrien-Marie Legendre
(1752 – 1833)
applicando il concetto di limite (e, di fatto, la struttura dei numeri reali). Ora,
come mostrato anche da Wantzel, l’insieme numerico che risulta dalle
costruzioni euclidee non esaurisce l’insieme dei numeri reali. Per giungere a tale tipo di struttura,
indispensabile per poter parlare di limiti, punti di accumulazione, continuità, ecc, bisogna
aggiungere altre richieste ed è sfruttando queste che si riesce a prescindere dal postulato delle
parallele.
Prima di Legendre, padre Giovanni Girolamo Saccheri (1667 – 1733), gesuita ed insegnante a
Pavia, nella sua opera Euclides ab omni nævo vindicatus, aveva tentato di dimostrare in modo
sintattico, cercando di provare la contraddittorietà della negazione del quinto postulato rispetto agli
altri quattro.
A
D
β1 α γ1
E
Proclo riferisce che a parere di Eudemo (350 – 290 a.C.), il risultato
relativo alla somma degli angoli interni del triangolo sarebbe stato
β
B
γ
intuito e dimostrato dai pitagorici, conducendo dal vertice opposto alla
C
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base una retta parallela alla base stessa, e sfruttando l’uguaglianza degli angoli alterni interni.
III.1.4. La Geometria dei parallelogrammi. Come detto sopra (cfr. II.2.2.), Aristotele lamentava la
poca elaborazione della teoria delle parallele per cui gli sembrava che i risultati trovati in essa
fossero poco affidabili. Era quindi una necessità che si è presentata ad Euclide, di fondare questa
parte così importante (che forse nei suoi aspetti generali era già nota a Talete ed ai pitagorici). La
scelta cade sul Post. 5 che utilizza l’infinito, seppure in via potenziale, ed una quantificazione
esistenziale non costruttiva.
Una delle esigenze fondamentali della teoria delle parallele è quella di offrire una buona descrizione
delle proprietà dei quadrilateri ‘interessanti’ ed in particolare dei parallelogrammi. Ed infatti, l’altro
argomento frequente nel primo Libro è dato dai quadrilateri, figure introdotte e descritte nella Def.
I.22, che rispetto ai gusti di oggi sembra un poco strana. In essa infatti si specificano i quadrati, i
rettangoli, distinguendoli espressamente dai quadrati, i rombi (le trottole), i romboidi, di fatto
scomparsi dalla ‘scena’ successivamente. E poi i trapezi (tavolini), ben diversi da quelli che noi
oggi chiamiamo con tale nome, ma di fatto mai considerati indipendentemente nel resto degli
Elementi.
Per quanto riguarda la distinzione in due classi disgiunte di quadrati e rettangoli, nella tavola delle
categorie pitagoriche o tavola degli opposti di Filolao (470 - 385. a.C.), riportata da Aristotele nella
Metafisica, sono presenti dieci casi:
determinato - indeterminato,
pari - dispari,
unità - pluralità,
destro - sinistro,
maschio - femmina,
quiete - movimento,
diritto - curvo,
luce - tenebre,
bene - male,
quadrato - figure con lati diseguali.
Quindi anche in questa definizione ci sarebbe una reminiscenza della antica Geometria pitagorica.
Ma ben presto ci si accorge che la figura più frequente è il parallelogramma, cui sono dedicate 13
Proposizioni, a scapito del rettangolo (che però verrà trattato altrove), ma manca la definizione di
tale figura. Essa compare nella
«Proposizione I.34. I parallelogrammi hanno i lati ed angoli opposti eguali tra loro, e sono divisi dalla diagonale
in due parti uguali.
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Dimostrazione. Sia ABCD un parallelogrammo, e sia BC una sua diagonale; dico che i lati e gli angoli opposti
del parallelogrammo ABCD sono uguali tra loro, e che la diagonale BC
lo divide in due parti uguali.
A
B
Infatti, poiché AB è parallela a CD, e su esse cade la retta BC, gli
angoli alterni ABC, BCD sono uguali fra loro (Prop. I.29). Di nuovo,
poiché AC è parallela a BD, e BC cade su esse, gli angoli alterni ACB,
D
C
CBD sono uguali fra loro (id.) Dunque, ABC, BCD sono due triangoli
che hanno i due angoli ABC, BCA uguali, rispettivamente ai due angoli BCD, CBD, ed un lato uguale a un lato,
ossia quello adiacente agli angoli uguali e che è loro comune, cioè BC: avranno quindi uguali rispettivamente
anche i lati rimanenti ai lati rimanenti e l’angolo rimanente all’angolo rimanente (Prop. I.26), per cui il lato AB è
uguale al lato CD, il lato AC è uguale al lato BD, ed infine l’angolo BAC è uguale all’angolo CDB. Ora, poiché
l’angolo ABC è uguale all’angolo BCD, e l’angolo CBD all’angolo ACB, tutto quanto l’angolo ABD è uguale a
tutto quanto l’angolo ACD (Noz. com. 2). E fu dimostrato che pure gli angoli BAC, CDB sono uguali.
Dunque, i parallelogrammi hanno lati ed angoli opposti uguali fra loro.
Dico adesso che la diagonale divide il parallelogrammo in due parti uguali. Infatti, poiché AB è uguale a CD, e
BC è comune, i due lati AB, BC sono uguali rispettivamente ai due lati CD, BC; e l’angolo ABC è uguale
all’angolo BCD (Prop. I.29.). Quindi anche la base AC è uguale alla base DB, ed il triangolo ABC è uguale al
triangolo BCD (Prop. I.4.). »
La dimostrazione di tale risultato è semplice, si potrebbe dire ‘visuale’ e si avvale dei cosiddetti
Criteri di congruenza dei triangoli (Prop. I.26. e Prop. I.4.). Utilizza inoltre la Prop. I.29 e quindi il
Post. 5.
Può sembrare strano l’andamento della dimostrazione: prima si adopera il cosiddetto secondo
Criterio di congruenza dei triangoli (Prop. I.26.), per mostrare l’uguaglianza dei triangoli ABD e
ACB perché la diagonale genera tali triangoli che hanno un lato in comune e due angoli uguali, in
virtù del fatto che sono alterni interni rispetto a rette parallele tagliate da trasversale. Grazie a tale
Criterio si ottiene l’uguaglianza del restante angolo e dei restanti lati. Così facendo i triangoli ABD
e ACB hanno tutte le caratteristiche uguali (congruenti). Dunque non ci sarebbe bisogno di provare
che la diagonale divide il parallelogrammo in due parti uguali. Ed invece Euclide torna sui suoi
passi e ridimostra che gli stessi triangoli sono uguali, ma stavolta utilizzando il primo Criterio di
congruenza dei triangoli (Prop. I.4.).
Si tratta dunque di una dimostrazione strana, per la ripetizione di parte della dimostrazione.
Secondo alcuni commentatori, questo mostrerebbe che anche Euclide ritenesse la Prop. I.4 come
una sorta di postulato. Il fatto di aver introdotto eccezionalmente il movimento per provarlo non lo
deve soddisfare troppo. La coincidenza, frutto del movimento, porta con sé l’applicazione della
Noz. com. 7, che è presente nella ‘dimostrazione’ della Prop. I.4, mentre è assente nella
dimostrazione della Prop. I.26. Dunque Euclide non si accontenta dell’avere provato che i triangoli
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hanno gli stessi caratteri, per cui è bastato utilizzare la Prop. I.26, ma vuole proprio la loro
coincidenza, e per questo si trova costretto a ricorrere alla Prop. I.4.
Un’altra possibile interpretazione è che la dimostrazione della Prop. I.34 sia una sorta di prova che
se si riesce a dimostrare l’uguaglianza (congruenza) di due triangoli mediante un Criterio, allora
anche l’altro Criterio conferma l’uguaglianza (congruenza) delle figure interessate.
E’ sorprendente che il parallelogrammo non sia definito. Ma bisogna porre attenzione. Per noi
‘parallelogrammo’ è un sostantivo, in greco si parla di
, spazio
parallelogrammo, quindi di un aggettivo, riferendosi allo spazio compreso tra
rette parallele (che però potrebbe anche essere non un quadrilatero, come
l’esagono della figura a fianco. Questo è uno dei pochi punti in cui appare in
filigrana il concetto di spazio in Euclide, un altro lo si trova nella Prop. XI. 3.
(cfr. III.9.2.2.) e, in modo meno appariscente, nella Prop. I.4. (cf. II.4.6.).
Euclide aveva a disposizione il termine di romboide (
)
«è quella [figura] che ha i lati e gli angoli opposti uguali fra loro, ma non è equilatera né ha gli angoli retti»
Quindi la prima parte della Prop. I.34 potrebbe essere letta come l’affermazione che un
parallelogramma è un romboide, ma Euclide lo evita. Resta aperto il problema (di facile soluzione,
ma non affrontato direttamente da Euclide) se un romboide sia un parallelogrammo, togliendo così
definitivamente di mezzo questo termine, romboide, del tutto inutile. Probabilmente i nomi dei
quadrilateri rombo, romboide e trapezio sono un tributo alla geometria precedente, in cui tali figure
forse venivano analizzate, ma nell’economia degli Elementi risultano superflue.
Non vengono neppure mostrate altre proprietà fondamentali del parallelogramma, ad esempio il
fatto che il punto di incontro delle diagonali coincide col punto di incontro delle mediane dei lati (il
baricentro), e neppure il fatto che diagonali si bisecano. Tutte queste proprietà appaiono sui manuali
odierni e vengono solitamente fatti rientrare in quel complesso di Geometria che viene talvolta,
scorrettamente, chiamata euclidea.
Per quanto riguarda la diagonale, anch’essa definita con la Prop. I.34, Euclide forse non ritiene di
definirla esplicitamente, in quanto usa la parola greca
, diametro, il cui uso per indicare la
diagonale è attestato anche da Platone nel Menone, in cui il filosofo spiega che i sapienti (o i sofisti)
chiamano diametro la linea retta congiungente due vertici opposti di un quadrato.
Forse l’esigenza di introdurre prima i romboidi e poi i parallelogrammi deriva dalla ‘ritrosia’ di
Euclide all’uso del Post. 5, in quanto c’è bisogno delle rette parallele per definire la figura.
La definizione di diagonale sarà presa da Joseph Diez Gergonne (1771 – 1859), come esempio e
punto di partenza per la sua proposta del concetto di definizione implicita.
Altre proprietà dei parallelogrammi sono illustrate in III.2.
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III.1.5. La geometria degli angoli. Il Libro I, per gli angoli, presenta due distinte definizioni ed in
altre tre stabilisce un po’ di nomenclatura:
«Definizione I.8. Angolo piano è l’inclinazione reciproca di due linee su un piano, le quali si incontrino fra loro
e non giacciano in linea retta.
Definizione I.9. Quando le linee che comprendono l’angolo sono rette, l’angolo si chiama rettilineo.
Definizione I.10. Quando una retta innalzata su una [altra] retta forma angoli adiacenti uguali fra loro, ciascuno
dei due angoli uguali è retto, e la retta innalzata si chiama perpendicolare a quella su cui è innalzata.
Definizione I.11. Angolo ottuso è quello maggiore di un retto.
Definizione I.12. Angolo acuto è quello minore di un retto. »
Si noti che dalla Def. I.8 è escluso l’angolo piatto, ma questo fatto si è già osservato in precedenza.
Nel Libro XI pone poi un ulteriore definizione di angolo:
«Definizione XI.11. Angolo solido è l’inclinazione [reciproca] di più di due linee [rette], che si tocchino fra loro,
ma non siano sulla stessa superficie. O altrimenti angolo solido è quello compreso da più angoli piani, che non
siano nello stesso piano ed abbiano in comune un punto [vertice].»
Manca la definizione di angolo diedro, anche se implicitamente è presente nelle Definizioni XI.6 e
XI.7.
Per arrivare all’angolo (anche solido) si usa la nozione di inclinazione (strada seguita nel XVIII
secolo da altri matematici), nozione non definita, ma si nota una differenza tra le Deff. I.8 e I.9:
nella prima si pone attenzione alle linee, nella seconda allo spazio ‘racchiuso’ da esse con il termine
«comprendono». Si noti che anche il concetto espresso dalla parola «adiacenti» nella Def. I.10 non è
definito.
La Def. XI.11, e pure le Deff. XI.6 e XI.7 lasciano a desiderare dal punto di vista della precisione,
di fatto andrebbero appesantite da altre considerazioni perché non è chiaro cosa significa che le
rette si tocchino o come sono disposti i più (più di due?) angoli piani.
Nel Libro I si parla spesso di angoli senza esplicitare che siano rettilinei.
Gli angoli non rettilinei forse sono indicati tra le definizioni del Libro I perché erano noti nella
Geometria pre-euclidea. Ciò si può desumere da un passo degli Analitici primi di Aristotele, in cui il
filosofo sta parlando delle caratteristiche del sillogismo e tenta di dimostrare l’eguaglianza degli
angoli alla base di un triangolo isoscele. La ‘dimostrazione’ di Aristotele è la seguente:
«[…] Tutto ciò diventa più chiaro a proposito delle dimostrazioni mediante figure geometriche, ad esempio nel
caso in cui si voglia provare che gli angoli alla base del triangolo isoscele sono eguali. Siano A e B due raggi,
condotti dal centro. Orbene, se si assume che l’angolo AC sia eguale all’angolo BD, senza aver fatto valere in
modo universale l’eguaglianza degli angoli di un semicerchio, se si assume, per altro verso, che l’angolo C sia
eguale all’angolo D, senza precisare che la cosa vale per ogni angolo di un segmento, ed infine, se si dichiara
che, quando vengono sottratti degli angoli eguagli da angoli eguali che rispettivamente li comprendono, gli
angoli che rimangono, E e Z, risultano eguali, si postulerà la conclusione che si è stabilito da principio di
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dedurre, a meno di assumere che quando oggetti eguali vengono sottratti da oggetti eguali, rimangono degli
oggetti eguali.»
Può stupire la coincidenza quasi letterale dell’ultima frase del testo aristotelico con la Noz. com. 3
degli Elementi.
Il testo qui utilizzato 1 presenta una nota a piede di pagina che chiarisce cosa intenda Aristotele.
«Per il significato e la distribuzione delle lettere usate da Aristotele, seguiamo la chiara esegesi di Ross, come
risulta dalla figura.
I due raggi A e B siano i lati eguali del triangolo isoscele. In tal caso l’angolo E
+ C (che Aristotele esprime come AC) è eguale all’angolo Z + D (che
Aristotele esprime come BD), poiché si tratta di “angoli di semicerchio”.
A
E
C
B
Z
D
D’altra parte, l’angolo C è eguale all’angolo D poiché si tratta di “angoli di un
segmento” (circolare) (le espressioni “angoli di un semicerchio” e “angoli di
un segmento” sono usate in questo senso da Euclide). Ma quando oggetti
eguali vengono sottratti da oggetti eguali, rimangono degli oggetti eguali:
dunque l’angolo E sarà eguale all’angolo Z. »
Di fatto la nota rimanda al Libro III in cui nella
«Definizione III.7. Ed un angolo di un segmento [circolare] è l’angolo compreso da una retta e da un arco della
circonferenza del cerchio.»,
si parla di angolo di un segmento, mentre si parla di angolo del semicerchio nella
«Proposizione III.16. In un cerchio, una retta che sia tracciata perpendicolare al diametro partendo da un estremo
di questo, cadrà esternamente al cerchio, nessun’altra retta potrà interporsi nello spazio fra la retta e la
circonferenza, e l’angolo del semicerchio è maggiore. E quello che rimane [fra la retta e la circonferenza]
minore, di ogni angolo acuto rettilineo.»
L’angolo tra la tangente e l’arco viene detto oggi angolo di contingenza. Questi sono gli unici passi
degli Elementi in cui vengono utilizzati gli angoli non rettilinei. Tale nozione pone un conflitto tra
angoli rettilinei, e non, in relazione alla richiesta che le grandezze soddisfino il Principio di
Archimede, richiesto nella Def. V.4. Questa difficile relazione tra angoli rettilinei e no ha spinto
Euclide e probabilmente prima di lui Eudosso, ad abbandonare gli angoli curvilinei.
Può essere interessante un’osservazione a proposito della Prop. III.16 di Newton:
«cioè la misura dell’angolo di contingenza mette in gioco non più le direzioni delle tangenti (prime derivate),
bensì le curvature (seconde derivate).»
La ‘dimostrazione’ di Aristotele lascia a desiderare perché richiede che gli angoli di un segmento
siano eguali e questo non è provato, se non dal disegno o da una teoria degli angoli non rettilinei di
cui non abbiamo altra documentazione.
Torniamo al Libro I.
1 Aristotele: 1991, Opere vol. 1, Laterza, Bari.
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Le Propp I.13 e I.14 (una inversa dell’altra che qui, per comodità, si ripresentano) si possono vedere
come spiegazioni di cosa siano gli angoli adiacenti.
«Proposizione I.13. Se una retta innalzata su un’altra retta forma degli angoli, essa verrà a formare o due angoli
retti od angoli la cui somma è uguale a due retti.[…]
Proposizione I.14. Se per un punto di una retta, da parti opposte rispetto ad essa, si tracciano due rette, e queste
formano con la prima angoli adiacenti la cui somma sia uguale a due retti, esse saranno per diritto fra loro. » 1
Interessante la frase ipotetica, che l’italiano traduce (male) con l’indicativo mentre il latino col
congiuntivo, questa mette il dubbio che innalzando una retta su un’altra si possano non formare
angoli.
La dimostrazione di questa proposizione è ‘stranamente’ lunga ai nostri occhi, dato che noi
consideriamo l’angolo piatto. Euclide invece fa una costruzione più complessa considerando la
perpendicolare nel punto comune alle due rette ed osservando che uno dei due angoli retti si può
esprimere come ‘somma’ di due angoli uno di quelli formati dalla retta innalzata e che l’altro è dato
dalla somma dell’angolo retto e del ‘pezzo in più’.
Un’altra Proposizione in cui l’oggetto della trattazione è l’angolo è la proprietà di trasporto degli
angoli, che si aggiunge alle Propp. I.2 e I.3 sul trasporto dei segmenti.
«Proposizione I.23. Costruire su una retta data e [con vertice] in un [dato] punto di essa, un angolo rettilineo
uguale ad un angolo rettilineo dato.
D
F
Dimostrazione. Siano AB la retta data, A il punto [dato] di essa e
DCE l’angolo rettilineo dato; si deve dunque costruire sulla retta
C
D'
A
AB e [con vertice] nel suo punto A, un angolo rettilineo uguale
E
all’angolo rettilineo DCE.
Si prendano a piacere su ciascuna delle due rette CD, CE i punti
G
D"
F'
B
[rispettivi] D, E, si tracci la congiungente DE, e con tre rette
eguali CD, DE, CE si costruisca il triangolo AFG, in modo che
CD sia uguale a AF, sia CE uguale ad AG, ed infine DE sia
uguale a FG (Prop. I.22).
Quindi poiché i due lati DC, CE sono uguali, rispettivamente ai due lati FA, AG, e la base DE è uguale alla base
FG, l’angolo DCE è uguale all’angolo FAG (Prop. I.8).
Dunque, sulla retta data AB, e con vertice nel punto A di essa, è stato costruito l’angolo rettilineo FAG uguale
all’angolo rettilineo dato DCE. »
Si noti che il trasporto dell’angolo è ricondotto a quello del segmento, Propp. I.2 e I.3, che per altro
il testo non cita, dato che presenta una figura in cui ci sono dei parallelismi evidenti. La
dimostrazione sfrutta la ‘rigidità’ del triangolo garantita dalla Prop. I.8 (il terzo Criterio di
1 Il latino riporta «13. Si recta super rectam linea erecta angulos effecerit , aut duo rectos aut duobus rectis aequales angulos efficiet.
[…]. 14. Si duae rectae ad rectam aliquam et punctus eius non in eadem parte positae angulos deinceps positos duobus rectis
effecerint, in eadem erunt linea recta. »
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congruenza dei triangoli). Inoltre visto che un triangolo viene costruito, ne discende che con gli
stessi segmenti se ne possa costruire un altro, congruente a quello dato.
Questa proposizione viene direttamente citata ed esplicitamente utilizzata in successive 17
proposizioni nei Libri I, III, IV, VI e XI: si tratta quindi di una proprietà importante negli Elementi.
Proclo riferisce che Eudemo dice che la scoperta di questa proprietà è dovuta a Enopide di Chio.
Allo stesso matematico è attribuita la Prop. I.12 in cui si costruisce la perpendicolare ad una retta
per un punto esterno alla retta. Ora data l’elementarità delle costruzioni sembra strano dare
un’attribuzione specifica ad Enopide. Ma solo si tratta della forma della presentazione. Sia nella
Prop. I. 12, che in questa, di fatto si realizza la costruzione di un triangolo mediante il compasso.
Pertanto forse le due ‘scoperte’ di Enopide sarebbero le Prop. I.12 e I.22 che qui si enunciano e
dimostrano
«Proposizione I.12. Ad una data retta illimitata, da un punto dato ad essa esterno costruire una linea retta
perpendicolare.
Dimostrazione. Sia AB la retta illimitata, e C il punto dato, ad essa esterno: si deve dunque condurre alla retta
illimitata data AB, dal punto C ad essa esterno, una linea retta perpendicolare. Si prenda dall’altra parte della
retta AB un punto a piacere D, con centro C e raggio CD si descriva il
cerchio EFG (Post. 3), si divida la retta EG per metà in H (Prop. I.10) e
C
si traccino le congiungenti CG, CH, CE; dico che CH è la
F
G
A
B
E
H
D
perpendicolare condotta alla retta illimitata AB dal punto C ad essa
esterno.
Infatti, poiché GH è uguale a HE, e HC è comune, i lati GH, HC sono
uguali rispettivamente ai lati EH, HC e la base CG è uguale alla base CE, per cui l’angolo CHG è uguale
all’angolo EHG (Prop. I.8). Ed essi sono adiacenti. Ma quando una retta innalzata su un’altra retta forma gli
angoli adiacenti uguali tra loro, ciascuno dei due angoli è retto, e la retta innalzata si chiama perpendicolare a
quella su cui è innalzata (Def. I.10).
Dunque, alla retta illimitata AB, dal punto dato C, ad essa esterno, è stata condotta la perpendicolare CH. […]
Proposizione I.22. Con tre rette uguali a tre rette date, costruire un triangolo: occorre dunque che la somma di
due di esse, comunque prese sia maggiore della rimanente.
Dimostrazione. Siano A, B, C tre rette date, e la somma di due di esse, comunque prese, sia maggiore della
rimanente, cioè la somma di A, B sia maggiore di C, la somma di A, C sia maggiore di B, ed infine quella di B e
C sia maggiore di A; si deve dunque costruire un triangolo i cui lati siano tre rette rispettivamente uguali ad A, B,
C. Si assuma una retta DE terminata in D ed illimitata dalla parte di E, e si ponga DF uguale ad A, sia posta FG
uguale a B, e si ponga GH uguale a C (Prop. I.3). Con
K
centro F e raggio FD si descriva il cerchio DKL
(Post. 3); di nuovo, con centro G e raggio GH si
D
descriva il cerchio KLH (id.) e si traccino le
F
A
G
H
B
congiungenti KF e KG; dico che con tre rette uguali
ad A, B, C è stato costruito il triangolo KFG.
C
Infatti, poiché il punto F è centro del cerchio DKL, si
L
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ha che FD è uguale a FK; ma FD è uguale ad A, per cui pure KF è uguale ad A (Noz. com. 1). Di nuovo, poiché
il punto G è centro del cerchio LKH, si ha che GH è uguale a GK; ma GH è uguale a C; anche KG è quindi
uguale a C. Ed è uguale a B la retta FG; perciò le tre rette KF, FG, GK sono uguali alle tre rette A, B, C.
Dunque, con le rette KF, FG, GK che sono alle tre rette date A, B, C, è stato costruito il triangolo KFG. »
Il punto fondamentale delle due dimostrazioni sono le posizioni reciproche di circonferenza e retta e
di due circonferenze. Sono infatti determinate le condizioni di esistenza di punti di intersezione,
vale a dire quando la retta è una secante o quando le due circonferenze sono secanti.
Questi sono esempi di
, diorismi, cioè condizioni per l’esistenza (si veda l’Elenco dei
Geometri di Proclo). Condizioni analoghe avrebbero dovuto essere poste anche in Proposizioni
precedenti, così come dovrebbero essere esplicitato un postulato che richiede un misto di continuità
e ordine, in base al quale se un segmento ha estremo interno ad un cerchio ed uno esterno, allora
esso taglia la circonferenza, che viene usato più volte, mai menzionato, data la sua ‘ovvietà’.
III.1.6 Angoli e parallelismo. La necessità di rendere il parallelismo tra rette (e tra piani) una
relazione di equivalenza (per la qual cosa basta la riflessiva e la proprietà euclidea della Noz. com.
1), serve per definire la direzione di una retta mediante una definizione per astrazione. Questa
esigenza è stata puntualizzata da Vailati per giustificare la nozione di punto improprio della
Geometria affine-proiettiva. Si noti solo che la proprietà transitiva, o meglio euclidea, Noz. com. 1,
del parallelismo è data negli Elementi come
«Proposizione I.30. Rette parallele ad una stessa retta sono parallele anche fra loro.
Dimostrazione. Ciascuna delle due rette AB, CD sia parallela ad EF: dico che anche AB,
A
CD sono parallele.
E
B
G
C
F
H
K
D
Infatti, venga a cadere su esse la retta GK.
Ora poiché la retta GK cade sulle rette parallele AB, EF, l’angolo AGK è uguale
all’angolo GHF (Prop. I.29.). Di nuovo, poiché la retta GK cade sulle rette parallele EF,
CD, l’angolo GHF è uguale all’angolo GKD (id.). Ma fu dimostrato che pure l’angolo
AGK è uguale all’angolo GHF; sono quindi uguali anche gli angoli AGK, GKD (Noz.
com. 1), e sono gli angoli alterni. Perciò AB è parallela a CD (Prop. I.27).»
Tale Proposizione si dimostra come conseguenza delle Propp. I.27 e I.29 e quindi l’uso (indiretto)
del Post. 5.
Dalla Prop. I.30. discende un risultato di unicità, che Euclide non rileva, anche se poi indirettamente
impiega in alcune dimostrazioni. Infatti se due rette r e s fossero incidenti ed entrambe parallele ad
una stessa retta t, allora r e s sarebbero parallele tra loro e quindi se fossero distinte, non avrebbero
punti in comune.
Nei manuali odierni, il postulato delle parallele viene espresso come l’affermazione che data una
retta ed un punto che non le appartenga, esiste una (ed una sola) retta passante per i punto, parallela
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alla retta data. Questo forse perché in tal modo si ha una formulazione più intuitiva di quella
presentata da Euclide.
Dunque si deve ritenere che il Post. 5 sia equivalente a questa versione che, come si vede in seguito,
è data dalla combinazione delle Propp. I.30 e I.31.
Ma il fatto che data una retta ed un punto che non le appartenga si possa condurre per il punto una
retta parallela alla retta data è una conseguenza della Prop. I.23. Euclide lo dimostra come in una
Proposizione che dall’enunciato sembra più una costruzione geometrica.
«Proposizione I.31. Condurre per un punto dato una linea retta parallela ad una retta data.
Dimostrazione. Sia A il punto dato, e BC la retta data; si deve dunque condurre per il
punto A una linea retta parallela alla retta BC.
E
Si prenda su BC un punto a piacere D, si tracci la congiungente AD, sulla retta DA e con
A
F
B
D
vertice nel suo punto A si costruisca l’angolo DAE uguale all’angolo ADC (Prop. I.23.) e
si prolunghi EA mediante la retta AF.
C
E poiché la retta AD, cadendo sulle due rette BC, EF, è venuta a formare gli angoli
alterni EAD, ADC uguali fra loro, EAF è parallela a BC.»
Può allora sembrare strana la collocazione della Prop. I.31 dopo la Prop. I.29, cioè dopo la prima
applicazione del Post. 5 nella Prop. I.29. Anche la dimostrazione riportata ha un punto non chiarito
quando afferma «e si prolunghi EA mediante la retta AF». Infatti, dalla Prop. I.23, data una retta BC ed un
punto A esterno ad essa, è possibile considerare un ulteriore punto D della retta BC e,
congiungendolo con A ottenere una retta AD che «viene a cadere» sulla retta BC. Ora si è in grado di
trasportare l’angolo ADC con vertice in A ottenendo l’angolo DAE e la retta AE anche sulla quale
«viene a cadere» la retta AD in modo da formare angoli alterni interni eguali con la retta BC. Si può
rifare la costruzione dall’altra parte ed ottenere un’altra retta, AF. Ma non è detto che i punti EAF
siano allineati. Tuttavia osservando che gli angoli formati hanno per somma due angoli retti, per la
Proposizione I.14, tali due rette, EA e AF, «saranno per diritto tra loro».
Per la Prop. I.27, che è conseguenza solo della Prop. I.16, le due rette BC e EF sono parallele. Si
può così provare l’esistenza per un punto A esterno di una retta parallela ad una retta data senza
avere bisogno del Postulato delle parallele, Post. 5.
La condizione che il punto A non appartenga alla retta viene richiesto perché nella definizione di
Euclide non si considera il caso del cosiddetto parallelismo ‘esteso’.
La costruzione contiene un elemento arbitrario, vale a dire la scelta di D su BC. Si poteva evitare
prendendo D coincidente con B o con C. Ma può venire il dubbio che la costruzione di EF dipenda
dalla scelta di D. E questo dubbio rimane perché per dipanare la questione bisogna ricorrere o alla
precedente Prop. I.30, oppure alla seguente Prop. I.32.
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Se al variare di D cambiasse la retta per A parallela a BC, allora ci sarebbero due rette parallele a
BC passanti per A, e quindi ciò è da escludere per le considerazioni svolte al termine della Prop.
I.30.
In altro modo si considerino sulla retta BC due punti D e D’ e si esegua la
E
costruzione così come detto nella dimostrazione della Prop. I.31, poi si
A
congiunga A e D’. In tal modo si forma il triangolo AD’D. per la
B
D'
D
C
costruzione gli angoli EAD e ADC sono uguali (per costruzione). Grazie
alla Prop. I.32, l’angolo ADC è uguale alla somma degli angoli AD’D e D’AD. Ma EAD è anche la
somma di EAD’ e DAD’, quindi per la Noz. com. 3, EAD’ è uguale a AD’D, quindi EA è anche la
retta che si otterrebbe rifacendo la costruzione a partire da D’ dato che trasportando l’angolo AD’D,
si otterrebbe l’angolo D’AE.
Resta il problema di capire perché nella dimostrazione della Prop. I.31, Euclide non osservi il ruolo
della Prop. I.30 e non formuli l’enunciato della Prop. I.31 non venga esplicitamente detto che la
parallela sia unica.
Potrebbe essere un problema di traduzione, «Condurre […] una linea retta […] » sia da intendere «una»
come un aggettivo numerale e non un articolo indeterminativo, per cui si dovrebbe ritenere la
presenza della unicità.
III.2. Il Libro II.
E’ un Libro assai breve, componendosi di sole due definizioni e 14 Proposizioni. Si potrebbe
ritenere una continuazione del Libro I, spezzato solo perché rischiava di divenire troppo lungo.
Delle due definizioni, una, la seconda, si è già vista, trattandosi della definizione dello gnomone.
La prima definizione invece è sorprendente:
«Definizione II.1. Ogni parallelogrammo rettangolo si dice esser compreso dalle due rette che comprendono
l’angolo retto.»
Siamo quindi in presenza di due definizioni di rettangolo: la prima come quadrilatero e come
sostantivo nella Def. I.22, il greco in questo caso usa
aggettivo di parallelogrammo, e il greco usa
ϑ
, oblungo, mentre nella Def. II.1, è
. La traduzione italiana (e quella latina)
non rende la differenza che compare in greco.
Il Libro II usa quasi sempre rettangolo nella seconda accezione, anzi si può dire dedicato a
ristabilire alcuni dei risultati visti nel Libro precedente coi parallelogrammi, coi rettangoli e i
quadrati. Frajese commenta questo fatto come se si passasse da un riferimento cartesiano con assi
obliqui ad un riferimento cartesiano ortogonale.
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Questa scelta implica delle dimostrazioni più semplici, ma richiede, è ovvio, l’esistenza del
parallelogramma rettangolo. Ma come è stato mostrato dai commentatori di Euclide, la sola
esistenza di una tale figura geometrica richiede il Post. 5.
Una filo rosso che lega i Libri I e II è dato dalla teoria dell’equivalenza dei poligoni. Nella
«Proposizione I.42. Costruire in un dato angolo rettilineo un parallelogrammo uguale ad un triangolo dato.»
Euclide mostra, dato un triangolo ed un angolo, come sia possibile costruire un parallelogrammo
equivalente, basta considerare un parallelogramma avente la stessa altezza del triangolo e il lato
corrispondente all’altezza dato dalla metà della ‘base’ del triangolo. Di fatto si tratta di una
semplice costruzione che però richiede l’esistenza ed unicità della parallela. Con la
«Proposizione I.44. Applicare ad una retta data, in un dato angolo rettilineo, un parallelogramma uguale ad un
triangolo dato.
Dimostrazione. Siano AB la retta data, C il triangolo dato e D l’angolo rettilineo dato: si deve dunque applicare
alla retta data AB in un angolo uguale all’angolo D, un parallelogramma uguale ad un triangolo dato C.
Si costruisca nell’angolo EBG che sia eguale all’angolo D, il parallelogramma BEFG uguale al triangolo C
(Prop. I.42) e lo si ponga in modo da essere BE in linea retta con AB, si prolunghi FG oltre G sino ad H, per A si
conduca AH parallela all’una o all’altra indifferentemente delle rette BC, EF (Propp. I.31 e I.30), e si tracci la
congiungente HB. Ora poiché la retta HF cade sulle parallele AH, EF, la somma degli angoli AHF, HFE è eguale
a due retti (Prop. I.29). la somma degli angoli BHG, GFE è perciò minore di due retti; ma rette che vengano
prolungate illimitatamente, a partire da angoli minori di due retti si incontrano (Post. 5), per cui HB, FE, se
prolungate, si incontreranno. Si prolunghino esse e si incontrino in K, per il punto K si conduca KL parallela
all’una o all’altra indifferentemente delle rette EA, FH (Propp. I.31 e I.30), e si prolunghino HA, GB oltre A, B
rispettivamente sino ai punti L, M. Quindi HLKF è un parallelogramma, HK è una sua diagonale, ed AG, ME
sono parallelogrammi posti attorno a HK, mentre LB, BF sono i cosiddetti complementi; LB è perciò uguale a BF
(Prop. I.43). Ma BF è uguale al triangolo C; quindi anche LB è uguale a C (Noz.com. 1).
Dunque, è stato applicato alla retta data AB nell’angolo ABM, che è uguale all’angolo D (Noz.com. 1), il
parallelogramma LB uguale al triangolo dato C.»
spiega come sia possibile costruire un parallelogramma equivalente al triangolo con
fissati ‘base’ e angolo. Di fatto insegna come risolvere l’equazione algebrica bx = A,
ove b è la ‘base’, x è l’altezza del parallelogrammo e A è (l’area del) il triangolo.
Tale esempio introduce le cosiddette applicazioni delle aree, in particolare le
applicazioni paraboliche, dal termine greco παραβολ
per ‘applicazione’ usato
nell’enunciato della Prop. I.44. E’ quindi l’inizio della cosiddetta Algebra
Paul Tannery
(1843-1904)
geometrica, termine proposto da Paul Tannery.
Strumento essenziale per la Prop. I.44 è la
«Prop. I.43. In ogni parallelogrammo i complementi dei parallelogrammi [posti] intorno alla diagonale sono
uguali fra loro.
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
Dimostrazione. Sia DGLF un parallelogramma, FG una sua diagonale ed CE e AH siano parallelogrammi posti
intorno a FG, mentre siano BL e BD i cosiddetti complementi; dico che il complemento BL è uguale al
complemento BD. Infatti poiché DGLF è un parallelogramma e FG la sua diagonale, il triangolo FDG è eguale
al triangolo FLG (Prop. I,34). Di nuovo CBEF è un parallelogramma e FB è una sua diagonale, il triangolo BFC
è uguale al triangolo BEF (id.) E per la stessa ragione, pure il triangolo BAG è eguale al triangolo BGH (id.).
Poiché dunque il triangolo CBF è uguale al triangolo BEF ed il triangolo BGH al triangolo BAG, il triangolo
BFC insieme col triangolo BAG è eguale al triangolo BEF (Noz. com. 2); ma anche tutto quanto il triangolo
GFD è eguale a tutto il triangolo GLF: il complemento BD che (così) rimane è quindi uguale al rimanente
complemento BL (Noz. com. 3) ».
Questo è il cosiddetto Teorema dello gnomone.
F
E
L
a
C
Già questo testo, che pure per secoli è stato l’esempio della letteratura
scientifica, ha bisogno di essere “tradotto”. Nel testo sono presenti
B
x
H
b
D
A
G
disegni che aiutano a spiegare il testo. Di fatti il termine
“complemento” non è definito, ma la presentazione iconica permette di comprendere.
Il testo accompagnato dal disegno chiarisce perfettamente cosa si vuole provare. Si noti che alcuni
parallelogrammi vengono indicati da Euclide mediante le lettere che nominano i quattro vertici, altri
nominando solo due vertici opposti, anticipando, di fatto, la Def. II.1.
Dal punto di vista aritmetico-algebrico si può ritenere tale
risultato come la costruzione del quarto proporzionale X
dopo tre segmenti dati, A, B e C come mostra la figura.
A
B
X
C
B'
Una costruzione del quarto proporzionale sarà ottenuta
A'
C'
successivamente da Euclide nella
«Proposizione VI.12. Date tre rette, trovare la quarta proporzionale.
Dimostrazione. Siano A, B, C le tre rette date; si deve dunque trovare la
A
B
E
C
G
B'
A'
D
quarta proporzionale dopo A, B, C.
Si assumano le due rette DE, DF tali da comprendere un angolo qualsiasi
EDF, si ponga DG uguale ad A, si pongano GE uguale a B, ed ancora DH
uguale a C, e tracciata la congiungente GH, si conduca per E la retta EF ad
essa parallela (Prop. I. 31).
C'
Poiché dunque, nel triangolo DEF, la retta GH risulta condotta parallela ad
H
uno dei lati, cioè ad EF, si ha: DG : GE = DH : HF (Prop. VI.2). Ma DG è
X
F
uguale ad A, mentre GE è uguale a B, e DH è uguale a C; perciò A sta a B
come C sta a HF.
Dunque date le tre rette A, B, C è stata trovata la quarta proporzionale HF [dopo di esse].».
Tale costruzione che potrebbe essere quella ricavata da Talete, visto che su alcuni testi tale risultato
è noto col nome di Teorema di Talete, motivato forse dall’aneddoto che mediante esso Talete
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
avrebbe misurato l’altezza di una piramide, mediante un bastone e l’ombra del bastone e della
piramide.
Ci si chiede allora perché Euclide si preoccupi di fornire due dimostrazioni profondamente diverse.
Intanto nella Proposizione I.43 non compare la parola proporzionalità che è esplicita nella Prop.
VI.12. Il fatto che entrambe permettano di determinare la quarta proporzionale mostra però che ciò
può essere fatto con due strumenti diversi: la teoria dell’equivalenza (uguaglianza) e quella delle
proporzioni tra grandezze che occupa tutto il Libro V e viene applicata nel seguito. Sembra quasi
che Euclide voglia provare quanti più risultati possibili senza mettere in gioco la teoria delle
grandezze, tradizionalmente attribuita ad Eudosso, come se volesse dire: alcuni risultati si possono
ottenere senza le grandezze! E’ questo lo spirito presente nel Libro II.
Poi con la
«Proposizione I.45. Costruire un parallelogrammo uguale ad una figura rettilinea data in un dato angolo
rettilineo.
Dimostrazione. Sia ABCD la figura rettilinea data, ed E sia l’angolo rettilineo dato; si deve dunque costruire
nell’angolo dato E un parallelogrammo uguale alla figura rettilinea ABCD.
Si tracci la congiungente DB, si costruisca nell’angolo HKF, che sia uguale all’angolo E, il parallelogrammo FH
uguale al triangolo ABD (Prop. I.42), e si applichi alla retta GH nell’angolo GHM, che è uguale all’angolo E
(Prop. I.29), il parallelogrammo GM uguale al triangolo DBC (Prop. I.44). Ora poiché l’angolo E è uguale a
ciascuno dei due angoli HKF, GHM, anche gli angoli HKF, GHM sono uguali (Noz. com. 1). Si aggiunga in
comune ad essi l’angolo KHG; la somma di FKH, KHG è quindi uguale alla somma di KHG, GHM. Ma la
somma degli angoli FKH, KHG è uguale a due retti (Prop. I.29), per cui pure la somma KHG, GHM è uguale a
due retti. Dunque, le due rette KH, HM, che giacciono da parti opposte rispetto alla retta GH, formano con essa,
e coi vertici nel punto H, angoli adiacenti la cui somma è uguale a due retti; quindi KH è in linea retta con HM
(Prop. I.14). E poiché la retta HG cade sulle parallele KM, FG, gli angoli alterni MHG, HGF sono fra loro uguali
(Prop. I. 29). Si aggiunga in comune ad essi l’angolo HGL; la somma MHG, HGL è perciò uguale a due retti
(Prop. I.29), per cui anche la somma degli angoli HGF, HGL è uguale a due retti (Noz. com. 1); quindi FG è in
linea retta con GL (Prop. I.14). E poiché FK è uguale e parallela a HG (Prop. I.34), ma pure HG lo è rispetto a
ML (id.), anche KF, ML sono uguali e parallele (Noz. comune 1 e Prop. I.30). e le congiungono le rette KM, FL:
quindi KFLM è un parallelogrammo (Prop. I.33). E poiché il triangolo ABD è uguale al parallelogrammo FH, ed
il triangolo DBC al parallelogrammo GM, tutta quanta la figura rettilinea ABCD è uguale a tutto quanto il
parallelogrammo KFLM (Noz. Com. 2).
Dunque, è stato costruito nell’angolo FKM, che è uguale all’angolo dato E, il parallelogrammo KFLM uguale
alla figura rettilinea data ABCD.»
Euclide insegna come costruire una parallelogramma equivalente ad un poligono, o meglio una
«figura rettilinea», assegnato, con un angolo assegnato, anche se nella dimostrazione utilizza un
quadrilatero: il procedimento di scomposizione in triangoli può essere applicato ad un poligono
qualunque.
Si noti che la Prop. I.23 viene applicata, ma non menzionata.
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
Nel Libro II invece di generici parallelogrammi con angoli arbitrari assegnati, si fissano tali angoli
come retti e pertanto come caso particolare delle costruzioni date nelle Propp. I.44 e I.45, si possono
ora costruire rettangoli equivalenti a triangoli, parallelogrammi e poligoni qualunque. Un altro
fondamentale risultato del Libro I è dato dal Teorema di Pitagora, Prop. I.47 che insegna come
costruire un quadrato che sia equivalente alla somma o alla differenza di due quadrati. Resta ora il
problema di come passare da un rettangolo assegnato ad un quadrato equivalente (quadratura del
rettangolo). Tale risultato ha una corrispondenza con la teoria delle proporzioni, vale a dire, la
costruzione del medio proporzionale. Il passo è compiuto dalle Propp. II. 5 e II.6 e giungere così
alla Prop. II.14 che è quella di quadratura del poligono.
«Proposizione II.5. Se si divide una retta in parti eguali e diseguali, il rettangolo compreso dalle parti diseguali
della retta, insieme col quadrato della parte compresa tra i punti di suddivisione, è uguale al quadrato della metà
della retta.
Dimostrazione. Infatti si divida una retta AB in parti eguali in C ed in parti diseguali in D; dico che il rettangolo
compreso da AD, DB, insieme col quadrato di CD, è uguale al quadrato di CB. Su CB difatti si descriva il
quadrato CEFB (Prop. I.46) e si tracci la congiungente BE, per D si conduca DG perpendicolare all’una o
all’altra indifferentemente delle rette AB, EF, per H si conduca
ancora KM parallela all’una o all’altra indifferentemente delle rette
B
D
C
CL, BM (Propp. I.31 e I.30). E poiché il complemento CH è uguale
O
A
L N
K
al complemento HF (I.43), si aggiunga in comune [ai due] DM;
M
tutto quanto CM è quindi uguale a tutto quanto DF. Ma CM è uguale
H
E
ad AL, poiché pure AC è uguale a CB (Prop. I.36); anche AL, DF
F
P
G
sono perciò eguali (Noz. com. 1). Si aggiunga in comune ai due
CH; quindi tutto quanto AH è uguale al (sic!) gnomone NOP. Ma
A
AH è il rettangolo di AD,DB – difatti DH è uguale a DB-; anche il
C
gnomone NOP è perciò uguale al rettangolo di AD, DB (Noz.
B
com. I). Si aggiunga in comune ai due LG, che è uguale al
K
D
O
L
N
uguale al quadrato di CD (Noz. com. 3). Ma la somma del
H
gnomone NOP e di LG costituisce tutto quanto il quadrato CEFB,
P
E
quadrato di CD; quindi la somma del gnomone NOP e di LG è
M
G
che è descritto su CB; il rettangolo compreso da AD, DB, insieme
col quadrato di CD, è perciò uguale al quadrato di CB.
Proposizione II.6. Se si divide per metà una linea retta, ed
F
un’altra le è aggiunta per diritto, il rettangolo compreso da tutta la
[prima] retta più quella aggiunta e dalla retta aggiunta, insieme col quadrato della metà [della prima], è uguale al
quadrato della retta composta dalla metà [della prima] e dalla retta aggiunta.
Dimostrazione. Infatti, si divida per metà una retta AB nel punto C, ed un’altra retta BD sia aggiunta per diritto
ad essa; dico che il rettangolo compreso da AD, DB, insieme col quadrato di CB, è uguale al quadrato CD.
Su CD difatti si descriva il quadrato CEFD (Prop. I.46), si tracci la congiungente DE, per il punto B si conduca
BG parallela all’una o all’altra indifferentemente delle rette EC, DF, si conduca KM per il punto H parallela
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all’una o all’altra indifferentemente delle rette AB, EF, ed infine per A si conduca AK parallela all’una o all’altra
indifferentemente delle rette CL, DM (Prop. I.31 e I.30).
Poiché dunque AC è uguale a HF (Prop. I.43). Quindi anche AL, HF sono uguali (Noz. com. 1). Si aggiunga in
comune ai due CM, per cui tutto quanto AM è uguale allo gnomone NOP. Ma AM è il rettangolo di AD, DB –
difatti DM è uguale a DB -; anche lo gnomone NOP è perciò uguale al rettangolo AD, DB. Si aggiunga in
comune ai due LG, che è uguale al quadrato di BC; quindi il rettangolo compreso da AD, DB, insieme col
quadrato di CB, è uguale alla somma dello gnomone NOP e di LG (Noz. com. 2). Ma la somma dello gnomone
NOP e di LG costituisce tutto quanto il quadrato CEFD, che è descritto su CD; il rettangolo compreso da AD,
DB, insieme col quadrato di CB è perciò uguale al quadrato CD. »
Come si vede l’enunciato (e la dimostrazione) di questa Proposizione ricorda quello della
Proposizione precedente. La differenza importante che nella Prop. II.5 è dato il segmento ed un suo
punto, qui si dà un segmento e si considera un punto esterno, grazie alla ‘retta aggiunta per diritto’,
noi diremo il prolungamento del segmento.
Ed infine si ha la
«Proposizione II.14. Costruire un quadrato uguale ad una figura rettilinea data.
Dimostrazione. Sia A la figura rettilinea data: si deve dunque costruire un quadrato uguale alla figura rettilinea A.
Infatti si costruisca il rettangolo BD uguale alla figura rettilinea A (Prop. I.45); se dunque BE risultasse in tal
caso uguale a ED, si sarebbe conseguito già quanto proposto: si sarebbe difatti costruito un quadrato BD uguale
alla figura rettilinea A. Se invece non è così, una delle rette BE, ED è maggiore. Sia maggiore BE e si prolunghi
BE oltre E, sul prolungamento si ponga EF uguale a ED (Prop. I.3 o Post. 3), e si divida BF per metà in G (Prop.
I.10); con centro G e per raggio una delle rette GB, GF si descriva il semicerchio BHF (Post. 3), si prolunghi DE
oltre E sino al punto H, e si tracci la congiungente GH.
Poiché dunque la retta BF è stata divisa in parti uguali in G ed in parti disuguali in E, il rettangolo compreso da
BE, EF, insieme col quadrato di EG, è uguale al quadrato di GF (Prop. II.5). Ma GF è uguale a GH, per cui il
rettangolo di BE, EF, insieme col quadrato di GE, è uguale al quadrato di GH. Ma la somma dei quadrati di HE,
EG è uguale al quadrato di GH (Prop. I.47); Quindi il rettangolo di BE, EF, insieme col quadrato di GE, è uguale
alla somma dei quadrati di HE, EG. Si sottragga il quadrato di GE da ambedue le somme; il rettangolo che
rimane della prima, compreso da BE, EG è perciò uguale al quadrato di EH che rimane dalla seconda (Noz. com.
3). Ma il rettangolo di BE, EF è BD – difatti EF è uguale ad ED – ; quindi il parallelogrammo rettangolo BD è
uguale al quadrato di HE. Ma BD è uguale alla figura rettilinea A. Anche la figura rettilinea A è perciò uguale al
quadrato che venga descritto su EH (Prop. I.46).
Dunque è costruito un quadrato, cioè quello che può essere descritto su EH, uguale alla figura rettilinea data A. »
III.3. Il Libro III.
Con il Libro III degli Elementi cambia il ‘protagonista’ geometrico: non più poligono, ma cerchio e
circonferenza. Si tratta però di un libro ancora connesso ai primi due, perché anche in questo
Euclide dimostra proprietà che sarebbe più semplice ricavare con la teoria della proporzioni,
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evitando sia le grandezze che le proporzioni. Questi risultati saranno poi il punto di partenza per
ricondurre, nel Libro IV proprietà di proporzionalità ai poligoni regolari.
III.3.1 Le definizioni. Si noti che cerchio, circonferenza, diametro e raggio sono già stati definiti nel
Libro I (Deff. I.15 – I.18), tuttavia la ‘anatomia’ del cerchio e della circonferenza richiede ancora
undici definizioni, con cui si apre il Libro III.
«Definizione III.1. Sono uguali i cerchi i cui diametri sono uguali, o di cui sono uguali i raggi.
Definizione III.2. Si dice che è tangente ad un cerchio una retta, la quale raggiunge il cerchio e, prolungata, non
la taglia.
Definizione III.3. Si dicono tangenti fra loro i cerchi i quali si raggiungono e non si tagliano scambievolmente.
Definizione III.4. Si dice che in un cerchio linee diritte distano ugualmente dal centro, quando le perpendicolari
condotte ad esse dal centro sono uguali.
Definizione III.5. E si dice che dista maggiormente dal centro quella su cui cade la perpendicolare maggiore.
Definizione III.6. Segmento di un cerchio è la figura compresa da una retta e da un arco della circonferenza del
cerchio.
Definizione III.7. Ed angolo di un segmento è l’angolo compreso da una retta e da un arco della circonferenza
del cerchio.
Definizione III.8. E quando sull’arco di un segmento [circolare] si prenda un punto e si traccino da esso le
congiungenti alle estremità della retta che è base del segmento, l’angolo che è compreso dalle rette congiungenti
è un angolo [che si dice iscritto] in un segmento circolare.
Definizione III.9. E quando le rette che comprendono un angolo vengono a tagliare un arco, si dice che l’angolo
insiste su quello.
Definizione III.10. E quando [con vertice] nel centro del cerchio si costruisca un angolo, la figura che è
compresa dai lati dell’angolo e dall’arco da essi tagliato è [detto] settore di un cerchio.
Definizione III.11. Segmenti simili di cerchi sono quelli che contengono angoli uguali, ossia quelli i cui angoli
sono fra loro uguali. »
Alcuni commenti.
La Def. III.1 difficilmente potrebbe oggi essere pensata una definizione e non una proprietà o
Teorema. Infatti Proclo attribuisce a Talete il risultato che i cerchi aventi raggi uguali sono uguali.
Ma alla nozione intuitiva di uguaglianza si oppone quella definita nel Libro I. Si potrebbe ottenere
l’eguaglianza dei cerchi mediante sovrapposizione, ma per fare questo, come si è osservato, Euclide
è un poco restio. Resta solo la strada definitoria: si definisce l’eguaglianza di due cerchi come la
proprietà desunta dalla congruenza di segmenti. Ma quando si tratterà dell’eguaglianza di segmenti
circolari, Prop. III. 24, Euclide sarà costretto ad utilizzare il movimento.
La parola diametro usata nella Definizione III.1 ha in sé il prefisso
che significa attraverso,
essendo la ‘retta’ che attraversa il centro, ma significa anche che separa, in due parti eguali, come
specifica la
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«Definizione I.17. Diametro del cerchio è una retta condotta per il centro e terminata da ambedue le parti della
circonferenza del cerchio, la quale retta taglia anche il cerchio per metà. »
D’altra parte il termine che noi indichiamo con la parola diagonale, in greco è ancora diametro.
Il testo greco non ha una parola per ‘raggio’ ma usa una perifrasi: [che parte] dal centro,
sottintendendo la parola linea.
La Def. III.2 introduce la nozione di retta tangente e la Definizione successiva parla di
circonferenze tangenti, usando lo stesso schema: raggiungere ma non attraversare. Questa nozione è
stata criticata in tempi moderni perché sembra sottintendere postulati di continuità ed ordine,
accettando per scontato che se una retta (opportunamente prolungata) ‘entra’ taglia una
circonferenza entrando nel cerchio, da qualche parte deve uscire. Di fatto si tratta di una definizione
data al negativo, sappiamo cosa non fa una tangente. Ma da questa nozione traspare anche cosa fa
una secante.
La maggiore differenza tra il caso della tangenza retta-circonferenza e circonferenza-circonferenza
è che nel secondo caso bisognerebbe distinguere tra tangenza interna e tangenza esterna. Si noti
però che nel caso di circonferenze tangenti internamente la più piccola divide la più grande in due
parti, ma non avviene che la più grande divida la più piccola: questo spiega l’avverbio
«scambievolmente» usato nella definizione, dal che si comprende che viene considerato anche il caso
della tangenza interna.
Il problema, già osservato anche a commento di alcune Proposizioni del Libro I, e qui
maggiormente rilevante, del fatto che esistano i punti di intersezione di rette e circonferenze e di
circonferenze tra loro è stato puntualizzato da diversi studiosi, tanto che si parla di un sesto
Postulato di Euclide. La certezza dell’esistenza di tali punti di intersezione proviene dall’ovvietà
suggerita dal disegno, ma se si utilizzano gli strumenti “astratti” della riga e compasso, quelli che
non servono per tracciare righe né disegnare le circonferenze, l’esistenza dei punti di intersezione
non appare assodata a priori.
Nella Def. III.6 si introduce la nozione di arco, termine che non traduce letteralmente quanto detto
da Euclide che letteralmente dice “da una retta e da una circonferenza di cerchio”, mentre il termine
arco è di origine araba, assieme a corda.
Il confronto tra le Deff III.7 e III.8 mette in mostra che nella prima si parla di angolo del segmento
(
), nella seconda di angolo nel segmento (
): il primo è l’angolo non rettilineo, di
cui si è detto in precedenza, l’altro è l’angolo inscritto nel segmento, angolo rettilineo.
La Def. III.11 introduce il concetto di similitudine,
, relativamente a segmenti circolari, ma il
concetto generale di similitudine di figure sarà sfruttato in libri successivi.
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III.3.2. I collegamenti con i Libri precedenti e successivi. Il Libro III si può dire che sia una
continuazione diretta del Libro I. Infatti scorrendo le 37 Proposizioni che vi sono presentate, le
prime 34 usano solo Proposizioni del Libro I (meno frequentemente) del Libro III. La Prop. III.35
utilizza anche la Prop. II.5 e la Prop. III.36 usa la Prop. II.6, che a loro volta dipendono
esclusivamente da Proposizioni del Libro I.
Si rivela in questo modo che sarebbe stata possibile un’altra organizzazione del testo, includente le
Prop. II.5 e II.6 in un Libro I ‘maggiorato’ per saltare a piedi pari il Libro II ed approdare
direttamente al Libro III.
Analizzando il Libro IV si vedrà che esso è una sorta di breve (16 Proposizioni soltanto) appendice
del Libro III, come fosse una raccolta di problemi risolubili con i metodi e i risultati presentati nel
Libro precedente. Quindi un primo blocco degli Elementi è costituito dai primi quattro libri che
presentano la Geometria piana indipendentemente da grandezze e proporzioni, che entrano in scena
col Libro V. Questo, a sua volta, ha un aspetto meramente teorico, perché non utilizza alcun
risultato ottenuto nei quattro Libri precedenti.
A questo seguono i tre libri aritmetici e lo sterminato Libro X che tratta delle irrazionalità
quadratiche. Dunque si costituisce così un secondo gruppo di Libri che sono dedicati ai ‘numeri’
così come se ne poteva parlare nella cultura greca del tempo. Il Libro V tratta delle grandezze,
senza distinguere se tra loro costituiscono coppie commensurabili o no; i successivi tre sono
dedicati alle coppie di grandezze commensurabili e il Libro X, che si potrebbe pensare composto da
tre libri dato che in esso le definizioni vengono introdotte in tre momenti diversi, è dedicato alle
coppie di grandezze incommensurabili.
Infine gli ultimi tre libri riprendono a parlare di Geometria solida (Libri XI e XIII) e di Geometria
sia piana che solida con metodi che utilizzano talora la presenza dell’infinito.
In particolare il Libro XIII è dedicato alla costruzione dei poliedri regolari, i cosiddetti solidi
platonici, visti come una sorta di coronamento dell’indagine geometrica del tempo.
III.3.3. Analisi di alcune Proposizioni del Libro III. Vediamo alcune Proposizioni, quelle che
potrebbero essere ritenute più significative.
«Proposizione III.1. Trovare il centro di un cerchio dato.
Dimostrazione. Sia ABC il cerchio dato: si deve dunque trovare il centro del cerchio ABC.
Si tracci in esso a caso una retta AB e la si divida per metà nel punto D (Prop.
I.10), da D si innalzi DC perpendicolare ad AB (Prop. I.11), si prolunghi CD oltre
E
D sino ad E, e si divida CE per metà in F (Prop. I.10); dico che F è il centro del
B
cerchio ABC.
F
D
Infatti, supponiamo che non lo sia, ma, se possibile, sia esso G, e si traccino le
congiungenti GA, GD, GB. Ora, poiché AD è uguale a DB, e DG è comune, i due
A
G
C
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lati AD, DG sono uguali, rispettivamente ai due lati BD, DG; e la base GA è uguale alla base GB – difatti sono
raggi -; quindi l’angolo ADG è uguale all’angolo GDB (Prop. I.8). Ma quando una retta innalzata su un’altra retta
forma gli angoli adiacenti uguali fra loro, ciascuno dei due angoli è retto (Def. I.10), per cui l’angolo GDB è
retto. Ma pure l’angolo FDB è retto, perciò FDB è in tal caso uguale a GDB (Post. 4), l’angolo maggiore uguale
al minore: il che è impossibile (Noz. com. 8). Non è quindi G il centro del cerchio ABC. Similmente potremo
dimostrare che nessun altro punto lo è, eccetto F.
Dunque F è il centro del cerchio ABC. »
Il punto debole di questa dimostrazione, e di molte altre presenti in Euclide, è di usare punti per
descrivere un ente geometrico, nel caso la circonferenza, mediante punti che devono ancora essere
individuati. Intanto la sua costruzione non prevede che G sia generico e la sua conclusione sugli
angoli è basata sul disegno. Si potrebbe però concludere perché essendo gli angoli coinvolti retti DF
e DG sono ‘per diritto’, per la Prop. I.14, quindi G o
coincide con F o è diverso, ma in tale caso GC è diverso
da GE. Il che è impossibile.
C
Si osservi che per assegnare una circonferenza, mediante
N
il compasso, bisogna assegnare il centro e poi un suo
F
γ
M
B
punto. Quindi, come osserva anche Zeuthen, non si può
concepire un cerchio senza specificarne il centro ed un
A
punto, per avere un esempio del raggio. Questo non può
essere fatto nel caso in esame.
Si noti inoltre che la dimostrazione prova un asserto non esplicitato nell’enunciato della Prop. III.1,
vale a dire che il centro della circonferenza è unico, provando per assurdo che ogni altro punto del
cerchio non può essere il centro, tranne il punto F.
Sia assegnata una circonferenza γ, ma di cui non è noto il centro. C’è la possibilità di avere un suo
punto, A, e niente altro, pensando ad una costruzione mediante compasso. Ma un punto solo non
basta per individuare la circonferenza. Se se ne conoscono altri due distinti tra loro e da A, tre in
tutto, la circonferenza è individuabile mediante due segmenti adiacenti (aventi un estremo in
comune) e la costruzione di asse del segmento, riportata in figura, che utilizza solamente le Propp.
I.10, I.11, ma sfrutta dell’asse di un segmento, che si può costruire, come la retta perpendicolare al
punto medio del segmento, ma di cui non si sono ancora provate le proprietà come luogo di punti.
Anzi si può dire che il seguente
«Corollario alla Proposizione III.1. E’ da ciò evidente che in un cerchio il centro si trova sulla retta
perpendicolare ad una corda qualsiasi nel suo punto medio.»
presente nella versione greca, ma mancante nel manoscritto Vaticano, e che il testo latino commenta
con la frase
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«Nam in Γ∆ in media ΑΒ perpendicolari erecta centrum erat positum ; ceterumque hoc corollarium quasi
parenthetice ponitur.»
potrebbe esser usato a provare le proprietà dei punti dell’asse di un segmento, vale a dire la loro
equidistanza dagli estremi del segmento, sfruttando la Def. I.15 e il Post. I.3.
Di un certo interesse anche la seguente
«Proposizione III.2. Se in un cerchio si prendono sulla circonferenza due punti a piacere, la retta che congiunge i
punti cadrà internamente al cerchio.
Dimostrazione. Sia ABC un cerchio, e sulla circonferenza si prendano i due punti A, B a piacere; dico che la retta
la quale congiunge A con B cadrà internamente al cerchio.
Infatti non cada in tal modo, ma se possibile, venga a cadere esternamente, come fa la retta AEB, si prenda il
centro del cerchio ABC e sia esso D (Prop. III.1), si traccino le congiungenti DA, DB, e si tracci [infine] la retta
DEF.
Poiché dunque DA è uguale a DB, anche l’angolo DAE è uguale all’angolo DBE (Prop. I.5); e poiché nel
triangolo DAE un lato, AE, risulta prolungato oltre E sino a B, l’angolo DEB è maggiore dell’angolo DAE (Prop.
I.16). Ma l’angolo DAE è uguale all’angolo DBE, per cui DEB è maggiore di DBE. E ad un angolo maggiore è
opposto lato maggiore (Prop. I.9); DB è quindi maggiore di DE. Ma DB è uguale a DF; perciò DF è in tal caso
maggiore di DE, il lato minore del maggiore: il che è impossibile (Noz. com. 8). Quindi la retta che congiunge A
con B non cadrà esternamente al cerchio. Similmente potremo dimostrare che essa non può cadere neppure sulla
circonferenza stessa; verrà quindi a cadere internamente [al cerchio].»
Questa proposizione afferma una proprietà fondamentale del cerchio: si tratta di una figura
convessa. La dimostrazione, pur semplice, fa però riferimento ad una figura impossibile, che riesce
difficile da visualizzare, perché ‘spuntano’ come funghi punti che non si sa dove collocare. Qui il
ruolo del disegno è fondamentale e il testo di per sé è insufficiente a contribuire alla comprensione.
Si tratta poi di una dimostrazione per assurdo.
Si noti che nella moderna teoria delle figure convesse, l’assunto che il cerchio
sia una figura convessa è fondamentale.
Importante è l’aggancio alla moderna topologia, con la nozione di punto interno
che Euclide non specifica, ma dà per ovvio.
Va inoltre osservato (lo fece per primo Todhunter) che nella Prop.
Isaac Todhunter
(1820-1884)
III.1 si assume che una retta come quella indicata come CE, condotta
per il punto D, tagli la circonferenza in due punti, C ed E, appunto;
C
D
A
E
ciò ha assonanze con quanto fatto nella dimostrazione della Prop.
I.22, in cui si conduce una retta che congiunge un vertice di un
F
B
triangolo con un punto interno e si deve provare che i punti della
retta sono interni. Ma per garantire l’esistenza di tali punti si deve
mostrare che D è un punto interno al cerchio, ciò che appunto è il risultato della Prop. III.2, con la
precisazione però che i punti A e B non sono interni del cerchio, ma sono punti della circonferenza.
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
La dimostrazione della Prop. III.2 è per assurdo su una figura impossibile in cui una retta è
rappresentata da una curva. La congiungente AB ha un punto E e la dimostrazione esclude che possa
essere un punto esterno, mediante considerazioni angolari. Poi Euclide sbriga con un «Similmente» il
caso che il punto E sia della circonferenza, ma di fatto suggerisce l’esistenza della dimostrazione
che non possono esistere tre punti allineati su una circonferenza.
La posizione reciproca delle Propp. III.1 e III.2 potrebbe essere scambiata e forse il testo originale
le elencava in ordine diverso da quello presentato qui. E’ vero che nella Prop. III.2 si usa il centro di
un cerchio, ma la sua funzione è solo quella di trovare un punto che si equidistante da due punti
della circonferenza e di qui nei chiosatori del testo originale potrebbe avere suggerito che si dovesse
alterare l’ordine, assegnando prima la costruzione del cerchio.
La Proposizione III.2 viene utilizzata solo nella successiva
«Proposizione III.13. Un cerchio non può toccare un altro cerchio in più di un punto, sia ad esso tangente
internamente, sia esternamente»
e questo viene attribuito all’importanza che Euclide aveva assegnato alla Prop. III.2.
Inoltre c’è un stretto legame tra le Propp. III.2 e I.12 (cfr. III.1.5.), quest’ultima relativa alla
costruzione della retta perpendicolare ad una retta data condotta per un punto esterno alla retta
stessa. Infatti nella citata Proposizione del Libro I si era presentato il problema di costruire una
circonferenza di cui era noto il centro, ma non il raggio, in modo che risultasse tra retta data e
circonferenza ci fosse più di un punto in comune, cosicché alla retta appartenessero punti interni al
cerchio.
D’altro canto anche la Prop. I.12 è inserita nel Libro I, ma viene utilizzata la prima volta nella
«Proposizione III.14. In un cerchio rette uguali distano ugualmente dal centro, e quelle che distano ugualmente
dal centro sono uguali tra loro.»
quindi si può supporre che la sua collocazione nel Libro I sia frutto di esigenze metateoriche.
Nel Libro III compare la parola ‘distare’, in greco
, nella Definizione III.4. e poi viene
ripresa nella Prop. III.14.
ma non viene introdotto il concetto di distanza tra punti o tra un punto ed una retta, solamente la
condizione di eguaglianza di distanze. Si parla solo di distanze di rette dal centro di una
circonferenza.
Indirettamente nella
«Proposizione III.15. In un cerchio il diametro è la corda massima, e delle altre corde quella che è la più vicina
al centro è sempre maggiore di quella più lontana.»
si introduce una relazione d’ordine tra le distanze.
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
Della Proposizione III.16 si è già parlato in rapporto alla nozione di angolo. Si vuole ora esibirne la
dimostrazione.
«Proposizione III.16. In un cerchio, una retta che sia tracciata perpendicolare al diametro partendo da un estremo
di questo, cadrà esternamente al cerchio, nessun’altra retta potrà interporsi nello spazio fra la retta e la
circonferenza, e l’angolo del semicerchio è maggiore, e quello che rimane [fra la retta e la circonferenza] minore,
di ogni angolo acuto rettilineo.
Dimostrazione. Sia ABC un cerchio, di centro D e diametro AB; dico che la retta tracciata perpendicolarmente ad
AB dal suo estremo A, cadrà esattamente esternamente al cerchio.
Infatti, supponiamo che non sia così, ma, se possibile, la retta cada internamente come fa CA, e si tracci la
congiungente DC.
Poiché DA è uguale a DC, anche l’angolo DAC è uguale all’angolo ACD (Prop. I.5). Ma DAC è retto, per cui
anche ACD è retto; dunque nel triangolo ACD la somma dei due angoli DAC, ACD sarebbe uguale a due retti: il
che è impossibile (Prop. I.17). Quindi la retta tracciata dal punto A perpendicolarmente a BA non cadrà
internamente al cerchio. Similmente potremo dimostrare che non verrà a cadere neppure sulla circonferenza;
dunque cadrà esternamente.
Cada essa come fa AE; dico ora che nessun’altra retta potrà interporsi fra la retta AE e la circonferenza CHA.
Infatti, se fosse possibile, venga un’altra retta ad interporsi, com’è della retta FA, e dal punto D si conduca DG
perpendicolare a FA (Prop. I. 12). E poiché l’angolo AGD è retto e
l’angolo DAG è minore di un retto, AD è maggiore di DG (Prop.
A
D
B
I.19). Ma DA è uguale a DH; quindi DH è in tal caso maggiore di
DG, la retta minore della maggiore: il che è impossibile (Noz. com.
H
8). Dunque nello spazio fra la retta e la circonferenza non potrà
G
interporsi nessun’altra retta.
Dico inoltre che l’angolo del semicerchio, ossia quello compreso
C
dalla retta BA e dalla circonferenza CHA, è maggiore di ogni
E
F
angolo acuto rettilineo, e che l’angolo restante, compreso dalla
circonferenza CHA e dalla retta AE, è minore di ogni angolo acuto
rettilineo. Infatti, se potesse esservi un angolo acuto rettilineo maggiore dell’angolo compreso dalla retta BA e
dalla circonferenza CHA, e minore invece di quello compreso dalla circonferenza CHA e dalla retta AE, nello
spazio fra CHA e la retta AE verrebbe ad interporsi una retta, la quale formerebbe un angolo rettilineo che
sarebbe maggiore di quello compreso dalla retta BA e dalla circonferenza CHA, e minore invece dell’angolo
compreso dalla circonferenza CHA e dalla retta AE. Ma nessuna retta può interporsi; non potrà quindi esservi
alcun angolo acuto rettilineo che sia maggiore dell’angolo compreso dalla retta BA e dalla circonferenza CHA, né
che sia minore dell’angolo compreso dalla circonferenza CHA e dalla retta CE. »
Di fatto la proposizione si può pensare come la sintesi tra risultati diversi:
1. caratterizzazione della tangente ad cerchio data nella Def. III.2, mediante le perpendicolarità
(anche se nell’enunciato della Prop. III.16 non si parla di tangente);
2. posizione speciale della tangente rispetto al cerchio ed alle altre rette;
3. definizione di angolo di contingenza;
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
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4. rapporto tra angolo del semicerchio e angolo acuto di vertice il punto di tangenza e con un
lato dato dalla tangente;
5. rapporto tra angolo di contingenza ed angolo acuto di vertice il punto di tangenza e con un
lato dato dalla tangente.
La dimostrazione è, di conseguenza, abbastanza complessa. Si nota poi che tale Proposizione non
viene più utilizzata negli Elementi.
Attenzione che il disegno potrebbe ‘imbrogliare’. Il testo di Heiberg propone la figura qui a sinistra
in cui la retta DG è perpendicolare a AC e non a AF. Con questa scelta H,
l’intersezione tra DG la circonferenza viene a trovarsi tra D e G, D centro e
B
quindi punto interno, mentre G esterno. Non ha quindi senso il testo «AD è
maggiore di DG. Ma DA è uguale a DH; quindi DH è in tal caso maggiore di DG, la retta
D
minore della maggiore: il che è impossibile ».
C
H
assurda che la retta AF sia esterna alla circonferenza, quindi il punto G,
deve essere esterno.
G
F
A
Questa figura nasce dall’ipotesi
E
Conducendo correttamente da D la perpendicolare a AF si ottiene un punto
G interno, come fatto nella figura qui inserita nella dimostrazione, e
quindi il passo precedente «AD è maggiore di DG. Ma DA è uguale a DH; quindi
DH è in tal caso maggiore di DG, la retta minore della maggiore: il che è impossibile »
A
D
non trova corrispondenza con la figura.
B
H
G
Inoltre giocando sullo ‘spessore’ delle linee utilizzate, la retta AF
potrebbe sembrare interposta tra la retta AE e la circonferenza (e i punti
C
G ed H essere di fatto indistinguibili).
E
Sul primo punto dell’elenco precedente si ha il conforto di un
F
«Corollario alla Proposizione III.16. E’ da ciò evidente che la retta tracciata perpendicolarmente al diametro di
un cerchio, da un estremo del diametro, è tangente al cerchio. »
Questo corollario è ritenuto da Heiberg un’interpolazione certamente attribuibile a Teone. Ci sono
altri testi greci che dicono:
«e che una retta tangente ad un cerchio in un punto soltanto, poiché è stato infatti dimostrato che una retta la
quale lo incontri in due punti cade internamente ad esso.»
Questo Corollario trova applicazione in Proposizioni dello stesso Libro III, IV e XII, in tutto 10
casi.
Si presentano ora le due Proposizioni III.35 e III.36 che sono gli unici casi in cui si usano
Proposizioni del Libro II, rispettivamente le Propp. II.5 e II.6. Tali proposizioni sono dimostrabili
più agevolmente utilizzando la teoria delle proporzioni, ma Euclide vuole mostrare che si può
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
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evitarlo, forse perché ritiene la teoria delle proporzioni una concessione ad un ambito ‘aritmetico’
che interferisce con quello geometrico.
«Proposizione III.35. Se in un cerchio due corde si tagliano fra loro, il rettangolo compreso dalle parti dell’una è
uguale al rettangolo compreso dalle parti dell’altra.
Dimostrazione. Infatti nel cerchio ABCD le due corde AC, BD si taglino fra loro nel punto E; dico che il
rettangolo compreso da AE, EC è uguale al rettangolo compreso da DE, EB.
Se è dunque il caso in cui AC, BD passino per il centro del cerchio ABCD, è evidente che, essendo uguali AE,
EC, DE, EB, pure il rettangolo compreso da AE, EC è uguale al rettangolo compreso da DE, EB.
Sia adesso il caso in cui AC, DB non passano per il centro, si prenda il centro
D
A
rispettivamente alle due rette AC, DB (Prop. I.12), e si traccino le
congiungenti FB, FC, FE.
H
F
G
E
di ABCD e sia esso F (Prop. III.1), da F si conducano FG, FH perpendicolari
Ora, poiché una retta GF, che passa per il centro, è perpendicolare ad un’altra
retta AC che non passa per il centro, essa la divide per metà (Prop. III.3);
quindi AG è uguale a GC. Poiché dunque la retta AC è stata divisa in parti
B
uguali in G ed in parti diseguali in E, la somma del rettangolo compreso da
C
AE, EC e del quadrato di EG è uguale al quadrato di GC (Prop. II.5); si
aggiunga [alla somma ed al quadrato] il quadrato di GF; la somma del
rettangolo di AE, EC e dei quadrati di GE, GF è perciò uguale alla somma dei quadrati CG, GF (Noz. com. 2).
Ma alla somma dei quadrati di EG, GF è uguale il quadrato di FE, ed alla somma dei quadrati di CG, GF, è
uguale il quadrato di FC (Prop. I.47); quindi la somma del rettangolo di AE, EC e del quadrato di FE è uguale al
quadrato di FC. Ma FC è uguale a FB; la somma del rettangolo di AE, EC e del quadrato di FE è così uguale al
quadrato di FB. Per la stessa ragione, anche la somma del rettangolo di DE, EB e del quadrato di FE è uguale al
quadrato di FB. Ma fu dimostrato che pure la somma del rettangolo di AE, EC e del quadrato di FE è uguale
quadrato di FB, per cui la somma del rettangolo di AE, EC e del quadrato di FE è uguale alla somma del
rettangolo di DE, EB e del quadrato di FE (Noz. com. 1). Si sottragga da ambedue le somme il quadrato di FE; il
rettangolo compreso da AE, EC, che rimane sottraendo, è quindi uguale all’altro rettangolo compreso da DE, EB
(Noz. com. 3).
Prop. III.36. Se da un punto preso esternamente si conducono ad un cerchio due rette, una delle quali tagli il
cerchio, mentre l’altra sia ad esso tangente, il rettangolo compreso da tutta quanta la retta secante e dalla sua
parte esterna sarà uguale al quadrato della retta tangente.
Dimostrazione. Infatti si prenda un punto D esternamente al cerchio ABC, da D si conducano al cerchio ABC le
due rette DCA, DB, e DCA tagli il cerchio ABC, mentre DB sia ad esso tangente; dico che il rettangolo compreso
da AD, DC è uguale al quadrato di DB.
La retta DCA, dunque, o passa per il centro, oppure no. Passi dapprima per il centro. Sia F il centro del cerchio
ABC (Prop. III.1), e si tracci la congiungente FB; l’angolo FBD è quindi retto (Prop. III.18). E poiché la retta AC
è stata divisa per metà in F, e CD si aggiunge ad essa, la somma del rettangolo di AD, DC e del quadrato di FC è
uguale al quadrato di FD (Prop. II.6). Ma FC è uguale a FB, per cui la somma del rettangolo di AD, DC e del
quadrato di FB è uguale al quadrato di FD. Ma al quadrato di FD è uguale la somma dei quadrati di FB, BD
(Prop. I.47); la somma del rettangolo di AD, DC e del quadrato di FB è perciò uguale alla somma dei quadrati di
FB, BD (Noz. com. 1). Si sottragga il quadrato di FB da ambedue le somme; dunque il rettangolo di AD, DC, che
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rimane [della prima], è uguale al quadrato [che rimane della seconda, cioè a quello] della tangente DB (Noz.
com. 3).
Ma sia adesso il caso in cui DCA non passa per il centro del cerchio ABC, si prenda il centro E [del cerchio]
(Prop. III.1), da E si conduca EF perpendicolare ad AC (Prop. I.12), e si traccino le congiungenti EB, EC, ED;
l’angolo EBD è quindi retto (Prop. III.18). E poiché una retta EF, che
D
passa per il centro, è perpendicolare ad una retta AC che non passa per
C
il centro, essa la divide per metà (Prop. III.3); perciò AF è uguale a FC.
F
E
B
Ora poiché la retta AC è stata divisa per metà nel punto F, e si
A
aggiunge ad essa CD, la somma del rettangolo compreso da AD, DC e
del quadrato di FC è uguale al quadrato di FD (Prop. II.6). Si aggiunga
in comune il quadrato di FE [alla somma ed al secondo quadrato]; la
somma del rettangolo di AD, DC e dei quadrati di CF, FE è così
uguale alla somma dei quadrati di FD, FE (Noz. com. 2). Ma il quadrato di EC è uguale alla somma dei quadrati
CF, FE – difatti l’angolo EFC è retto (Prop. I. 47) – mentre alla somma dei quadrati di DF, FE è uguale il
quadrato di ED (id.); la somma del rettangolo di AD, DC e del quadrato di EC è quindi uguale al quadrato di ED.
Ma EC è uguale ad EB, per cui la somma del rettangolo di AD, DC e del quadrato di EB è uguale al quadrato di
ED. Ma al quadrato di ED è uguale la somma dei quadrati di EB, BD – all’angolo EBD è difatti retto (Prop. I.47)
-; quindi la somma del rettangolo AD, DC e del quadrato di EB è uguale alla somma dei quadrati di EB, ED
(Noz. com. 1). Si sottragga il quadrato di EB da ambedue le somme; il rettangolo di AD, DC rimanente [della
prima], è perciò uguale al quadrato di DB [rimanente della seconda] (Noz. com. 3).»
Si osservi che in entrambe le Proposizioni si procede con dimostrazioni per casi.
Le costruzioni indicate sono relative solo ai casi meno banali.
La Prop. III.35 non è più applicata nel seguito degli Elementi, mentre la Prop. III.36 è usata nella
successiva che poi ha conseguenze in Proposizioni del libro successivo.
Della Prop. III.24, che usa il movimento, si è già detto in precedenza.
III.4. Il Libro IV.
Come detto a commento del Libro III, il successivo Libro IV è una sorta di appendice di costruzioni
che realizzano parte delle proprietà studiate nel Libro III. Alcune delle costruzioni proposte nel
Libro sono quelle che vengono proposte ancora oggi nei manuali scolastici.
I Libri III e IV hanno un carattere ‘terminale’, come mostra il fatto che delle 37 Proposizioni del
Libro III + 2 Corollari e delle 16 Proposizioni del Libro IV, + 2 Corollari (per un totale di 57
proprietà) 27 sono utilizzate solo all’interno dei Libri III e IV, contro i soli 6 proprietà non più
utilizzate dei Libri I e II (le Propp. I.40, II.1, II.9, II.10, II.12, II.13).
Il Libro IV si apre con 7 definizioni, relative a figure iscritte e circoscritte, specialmente a
circonferenze:
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Carlo Marchini
«Definizione IV.1. Si dice che una figura rettilinea è iscritta in un’altra figura rettilinea, quando il vertice di
ciascuno degli angoli della figura iscritta si trova su un lato della figura in cui è iscritta, cioè sul lato rispettivo.
Definizione IV.2. Si dice similmente che una figura è circoscritta ad un’altra figura, quando ciascun lato della
figura circoscritta passa per il vertice di un angolo della figura a cui è circoscritta, e cioè per il vertice
dell’angolo rispettivo.
Definizione IV.3. Si dice che una figura rettilinea è iscritta in un cerchio quando il vertice di ciascun angolo della
figura iscritta si trova sulla circonferenza del cerchio.
Definizione IV.4. Si dice che una figura rettilinea è circoscritta ad un cerchio, quando ciascun lato della figura
circoscritta è tangente alla circonferenza del cerchio.
Definizione IV.5. Si dice similmente che un cerchio è iscritto in una figura, quando ciascun lato della figura è
tangente alla circonferenza del cerchio.
Definizione IV.6. Si dice che un cerchio è circoscritto ad una figura, quando la circonferenza del cerchio passa
per [il vertice] di ciascun angolo della figura a cui esso è circoscritto.
Definizione IV.7. Si dice che una retta è adattata in un cerchio, quando i suoi estremi sono sulla circonferenza
del cerchio.»
Nell’analisi delle relazioni tra i risultati del Libro IV si nota che nelle Proposizioni solo 5 volte si
utilizzano risultati dello stesso Libro.
La Proposizione più citata nel seguito è la prima, che viene utilizzata nei Libri X, XI e XII, le altre
sono utili per Proposizioni dello stesso Libro oppure dei tre ultimi Libri geometrici.
«Proposizione IV.1. Adattare in un cerchio dato una retta uguale ad una retta data, che non sia maggiore del
diametro del cerchio.
Dimostrazione. Siano ABC il cerchio dato, e D la retta data che non sia maggiore del diametro del cerchio. Si
deve dunque adattare nel cerchio ABC una retta uguale alla retta D.
Si conduca nel cerchio ABC il diametro BC (Prop. III.1). Di
D
A
B
conseguenza, se BC risulta uguale a D, sarebbe già conseguito
quanto proposto; difatti nel cerchio ABC sarebbe stata adattata la
E
retta BC uguale alla retta D. Se invece BC è maggiore di D, si ponga
C
CE uguale a D (Prop. I.3), si descriva con centro C e per raggio CE
il cerchio EAF, e si tracci la congiungente CA.
Poiché dunque il punto C è il centro del cerchio EAF, si ha che CA è
uguale a CE. Ma CE è uguale a D; anche D, CA sono quindi uguali (Noz. com. I).
Dunque, nel cerchio dato ABC è stata adattata la retta CA uguale alla retta data D.»
La Prop. IV.1 riprende direttamente la Def. IV.7. Di fatto essa esprime una nuova proprietà di
trasporto di un segmento, stavolta con un punto su una circonferenza.
L’enunciato si apre con un diorisma, dato che pone la condizione di esistenza nel fatto che il
segmento dato sia minore del diametro del cerchio (che invece non è dato, ma bisogna determinare).
Questo perché grazie alla
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Carlo Marchini
«Proposizione III.15. In un cerchio il diametro è la corda massima, e delle altre corde quella che è più vicina al
centro è sempre maggiore di quella più lontana.»
che non è esplicitamente indicata, ma utilizzata, se il segmento dato D fosse maggiore del diametro,
il problema non sarebbe risolvibile.
L’uso della Prop. III.1. per determinare il diametro è, come già detto a commento di tale
Proposizione, superfluo, in quanto una circonferenza è data dal centro ed un punto, sicché per
trovare un diametro basta prolungare un raggio e ‘sperare’ che intersechi la circonferenza in un
punto, nel disegno A, che come al solito è dato prima. Si applica poi il trasporto della Prop. I.3 e si
determina il punto E.
Resta da vedere se le due circonferenze si tagliano, ma questo è ottenibile anche come visto a
commento della Prop. I.22. Euclide non dimostra esplicitamente che le circonferenze si incontrano,
ma si mette nelle condizioni perché questo avvenga (distanza dei centri, misura dei raggi
opportune), ma non volendo parlare di misure può solo annuire a queste condizioni, come fa
appunto nella Prop. I.22.
Dunque la Prop. IV.1 fa allusione a postulati espressi ed inespressi e questo fa sì che le prime
Proposizioni di ogni libro abbiano un carattere introduttivo ed un poco avulso dalle restanti
Proposizioni.
Le costruzione restanti del Libro riguardano le costruzioni di figure inscritte e circoscritte ad una
cerchio:
- le Propp. IV.2 – IV.5 + Corollario a IV.5, relative ai triangoli;
- le Propp. IV.6 – IV.9 relative ai quadrati;
- le Propp. IV.10 – IV.14 relative ai pentagoni;
- la Prop. IV.15 e il suo Corollario, relativo agli esagoni iscritti;
- la Prop. IV.16, relativa ai pentadecagoni iscritti.
Le proprietà relative ai triangoli, quadrati, pentagoni serviranno di preparazione alla Prop. XIII.18,
l’ultima degli Elementi, che presenterà i cinque solidi platonici iscritti in una stessa sfera.
Di fatto in queste costruzioni verrà dato largo spazio anche a considerazioni angolari, identificando
(in modo incompleto) quali sono gli angoli in cui si può suddividere con riga e compasso un angolo
giro.
La risoluzione completa di questo, detto problema della ciclotomia, sarà individuata da Gauss.
Il concetto di similitudine, presente nella Def. III.11, viene ripreso, ma non nominato, nella
«Proposizione IV.2. Iscrivere in un cerchio dato un triangolo equiangolo rispetto ad un triangolo dato.»
Di fatto si proverà nel Libro VI:
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
«Proposizione VI.4. Nei triangoli aventi angoli rispettivamente uguali, i lati che comprendono gli angoli uguali
sono proporzionali, essendo omologhi (cioè corrispondenti) quelli opposti agli angoli uguali.»
che ‘scolasticamente’ viene indicato come uno dei Criteri di similitudine dei triangoli (assieme alle
Propp. VI.6 e VI. 7).
Uno degli ‘incubi’ del disegno geometrico è la costruzione del pentagono regolare iscritto in un
cerchio. Il pentagono aveva (ed ha mantenuto) significati esoterici, che traggono origine da
Pitagora. Come detto prima, il pentagono è ‘coinvolto’ nella costruzione dei solidi platonici. E’
quindi una figura che Euclide ritiene importante e per questo le dedica cinque proposizioni in
questo libro. In realtà la Prop. IV.10 insegna a costruire un decagono regolare, da cui, congiungendo
alternativamente i vertici, si ottiene il pentagono.
La strada per la costruzione del decagono regolare passa per la suddivisione dell’angolo giro in
dieci parti eguali. Facendo i conti ‘moderni’, si tratta di ottenere un angolo di 36°. Se ora si
considera un triangolo isoscele in cui ‘l’angolo rimanente’ come dice Euclide ha ampiezza 36°, la
somma degli altri due angoli (tra loro uguali) è data da (180° - 36°) = 144°. Quindi ciascun angolo
alla base avrà ampiezza 72°, vale a dire il doppio dell’angolo rimanente. Ecco spiegato il motivo
della
«Proposizione IV.10. Costruire un triangolo isoscele avente ciascuno dei due angoli alla base che sia doppio
dell’angolo rimanente.
Dimostrazione. Si assuma una retta AB, e la si divida nel punto C in modo che il rettangolo compreso da AB, BC
sia uguale al quadrato di CA (Prop. II.11); si descriva con centro A e con raggio AB il cerchio BDE (Post. 3), si
adatti nel cerchio BDE la retta BD uguale alla retta AC, che non è maggiore del diametro del cerchio BDE (Prop.
IV.1), si traccino le congiungenti AD, DC, e si circoscriva il cerchio ACD al triangolo ACD (Prop. IV. 5).
Ora poiché il rettangolo di AB, BC è uguale al quadrato di AC, ed AC è uguale a BD, il rettangolo di AB, BC è
uguale al quadrato di BD. E poiché esternamente al cerchio ACD è stato preso un punto B, da B risultano
condotte al cerchio ACD le due rette BA, BD, ed una di esse [, cioè BA,] lo taglia, mentre l’altra [, cioè BD,] ha
l’estremo D sulla circonferenza del cerchio, ed il rettangolo AB, BC è uguale al quadrato BD, si ha che BD è
tangente al cerchio ACD (Prop. III.37). Poiché dunque BD è tangente [al cerchio], mentre la corda DC è stata
tracciata in esso dal punto di contatto D, l’angolo BDC è uguale all’angolo iscritto nel segmento alterno del
cerchio (Prop. III.32). Poiché dunque l’angolo BDC è uguale all’angolo DAC, si aggiunga ad essi in comune
l’angolo CDA; tutto quanto l’angolo BDA è quindi uguale alla somma dei
due angoli CDA, DAC (Noz. com. 2). Ma alla somma degli angoli CDA,
B
C
A
DAC è uguale l’angolo esterno BCD (Prop. I. 32), per cui anche gli angoli
D
BDA, BCD sono fra loro uguali (Noz. com. 1). Ma l’angolo BDA è uguale
all’angolo CBD, poiché pure il lato AD è uguale al lato AB (Prop. I.5);
cosicché anche gli angoli DBA, BCD sono uguali. Quindi i tre angoli BDA,
DBA, BCD sono uguali fra loro. E poiché l’angolo DBC è uguale
all’angolo BCD, pure il lato BD è uguale al lato DC (Prop. I.6). Ma BD è
per ipotesi uguale a CA, per cui anche CA, CD sono uguali fra loro;
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
cosicché pure l’angolo CDA è uguale all’angolo DAC (Prop. I.5); perciò la somma degli angoli CDA, DAC è il
doppio dell’angolo DAC. Ma l’angolo BCD è uguale alla somma degli angoli CDA, DAC; anche BCD è quindi
doppio di CAD. Ma l’angolo BCD è uguale a ciascuno dei due angoli BDA, DBA; perciò anche ciascuno dei due
angoli BDA, DNA è doppio dell’angolo DAB.
Dunque è stato costruito il triangolo isoscele ABD avente ciascuno dei due angoli alla base DB uguale al doppio
dell’angolo rimanente.»
Nella dimostrazione si utilizza la
«Proposizione II.11. Dividere una retta data in modo che il rettangolo compreso da
tutta la retta e da una delle sue parti sia uguale al quadrato della parte rimanente. »
F
B
H
A
Anche questa Proposizione viene inquadrato nell’Algebra geometrica. La
E
costruzione che risolve il problema secondo la Prop. II.11 è data dalla
K
C
figura qui a fianco: il quadrato di AH è equivalente al rettangolo BD, HB.
D
Questo problema viene proposto e risolto anche come
«Proposizione VI.30. Dividere in estrema e media ragione una retta terminata data.»
mediante le proporzioni ed è nota pure una costruzione, attribuita ad Erone, che sarà poi ripresa e
generalizzata da Cartesio per la soluzione geometrica delle equazioni di secondo
grado.
Con questa costruzione si sfrutta la Prop. III.36.
Si ha pertanto che posto se con a si indica la misura di AB e di BC che per
René Descartes
(1596-1650)
costruzione è congruente ad AB, con x la misura di AF, si
C
ha a2 = x(a+x), da cui svolgendo i calcoli, a2 – ax = x2, vale a dire a(a-x) =
E
x2.
Oggi ci si riferisce a tutte queste con il termine di costruzione della sezione
D
F
aurea di un segmento.
L’importanza estetica e matematica della sezione aurea è manifesta in tutta
A
G
B
l’arte greca classica (dimensioni del Partenone) ed è sfruttata anche da
Euclide quando deve studiare i solidi platonici, nel Libro XIII.
III.5. Il Libro V.
III.5.1. L’importanza del Libro V. Già nell’antichità la teoria delle proporzioni era attribuita ad
Eudosso, tuttavia sembra poco probabile che Euclide non ci abbia messo del suo ed abbia solo
ricopiato il trattato di Eudosso, che purtroppo non conosciamo. Forse Euclide non ha aggiunto
risultati nuovi, ma sicuramente ha fatto delle scelte espositive, fornendo una chiara ed esauriente
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
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Carlo Marchini
spiegazione di quella che sicuramente era uno dei punti di maggiore complessità teorica della
conoscenza matematica, non solo geometrica.
Anche la scelta del matematico alessandrino, già vista e commentata, di trattare in precedenza
quanto poteva essere fatto senza utilizzare le proporzioni, rivela un’attenzione pedagogica notevole:
infatti, incominciare con questa teoria astratta, che introduce enti non precisati quali le grandezze e,
di fatto, richiede l’uso dell’infinito, poteva spaventare i lettori, facendo perdere l’aggancio con
l’ovvietà dell’esperienza. Di conseguenza la presenza del Libro V è una cesura tra quanto forse
avevano fatto i geometri precedenti per spostare l’indagine geometrica su di un livello più alto.
Questo salto verso l’astrazione spesso non è presente in modo esauriente neppure sui moderni
manuali scolastici di Geometria, a riprova della complessità e della difficoltà del tema.
Il Libro V ha come scopo il trattamento dei rapporti razionali ed irrazionali. L’esigenza dei rapporti
irrazionali si era manifestata nella cultura greca con la cosiddetta crisi degli irrazionali, provocata
dall’applicazione del Teorema di Pitagora, testimoniata dal dialogo platonico Menone, e presente
anche in uno scolio, non di mano euclidea, aggiunto alla
«Proposizione IV.9. Circoscrivere un cerchio ad un quadrato dato»
Lo scolio che fu accettato nell’edizione di Clavio, constata che il
quadrato circoscritto è doppio del quadrato
inscritto nello stesso cerchio, risolvendo così il
problema posto nel Menone.
Ciò che riesce nel Libro V è presentare una
nozione di grandezza e poi di grandezze omogenee, sulle quali si può applicare
sia l’operazione di confronto che quella determinazione del rapporto.
Christoph Schlessel
(Clavio)
(1538-1612)
Nell’intuizione è presente un principio di omogeneità che forse si può porre a
fondamento della teoria degli insiemi.
I giovani che hanno un primo approccio agli insiemi, sembrano essere in difficoltà se viene loro
mostrato un insieme di oggetti disomogenei, ad esempio lettere dell'
alfabeto, numeri ed
automobiline.
La richiesta di omogeneità emerge proprio in situazioni di questo tipo.
L'
analisi di testi scolastici sembra ribadire il principio di omogeneità, come se si trattasse di una
richiesta non esplicitata, ma ben presente, una sorta di convenzione tra libro e docenti e tra i docenti
e gli studenti. Va invece combattuta questa posizione, almeno al momento della introduzione degli
insiemi per fare cogliere agli studenti la totale arbitrarietà della natura degli elementi.
Viene da chiedersi se tale concetto (un universale?) sia presente anche nei filosofi che si sono
occupati del problema.
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
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La risposta non è banale, perché bisognerebbe affrontare i testi originali.
Nella teoria degli insiemi è facile provare che la considerazione di insiemi arbitrari porta a
considerare anche collezioni di oggetti che non sono identificabili con proprietà del linguaggio, dato
che tali proprietà sono al più una infinità numerabile.
Se quindi l'
omogeneità si presta ad essere espressa in termini linguistici, strumento usato i filosofi
antichi e moderni, ci sono sicuramente insiemi i cui elementi non soddisfano tale criterio.
Ora essere omogeneo non è la proprietà di un oggetto in sé, dato che l'
omogeneità è una proprietà di
un oggetto in rapporto ad altri.
Ad esempio si trovano esercizi sulla Settimana Enigmistica che chiedono di trovare "l'
intruso" in
certe situazioni verbali o grafiche in cui sono elencati o raffigurati quattro o cinque elementi.
In questo senso se si accetta un principio di omogeneità, non ha senso considerare insiemi di un solo
elemento.
Essere omogeneo ad altri si può esprimere dicendo avere la stessa proprietà. Ma così facendo si
introduce la tematica della identità e della eguaglianza: due oggetti sono omogenei se hanno eguali
proprietà. Ma l'
identità è un problema filosofico antico.
I Fisici, da tempo si sono cimentati col problema dell’omogeneità. Una delle loro proposte è di
ritenere omogenee due grandezze se possono essere misurate con lo stesso strumento. Ma a ben
vedere questa posizione non regge: l’elettrone, un sasso ed un pianeta hanno tutti e tre massa, ma
per misurarla non è possibile usare lo stesso strumento. Allora per definire la massa, nei fatti si usa
un’intuizione della loro omogeneità.
Questo concetto difficile è invece presentato ed utilizzato in modo coerente e senza bisogno
dell’infinito.
III.5.2. Le definizioni del Libro V. Data l’importanza di questo argomento, si riportano per intero le
diciotto definizioni con cui si apre il Libro V, commentandone alcune in modo più approndito.
«Definizione V.1. Una grandezza è parte di una grandezza, la minore di quella maggior, quando essa misuri la
maggiore.
Definizione V.2. La grandezza maggiore à multipla di quella minore, quando sia misurata dalla minore.
Definizione V.3. Rapporto (λ γος) fra due grandezze omogenee è un certo modo di comportarsi secondo la
quantità.
Definizione V.4. Si dice che hanno rapporto tra loro le grandezze le quali possono, se moltiplicate, superarsi
reciprocamente.
Definizione V.5. Si dice che [quattro] grandezze sono nello stesso rapporto, una prima rispetto ad una seconda
ed una terza rispetto ad una quarta, quando risulti che equimultipli della prima e della terza [presi] secondo un
multiplo qualsiasi, ed equimultipli della seconda e della quarta [presi pure] secondo equimultipli qualsiasi, sono
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gli uni degli altri, cioè ciascuno dei due primi del suo corrispondente fra i secondi, o tutti e due maggiori, o tutti e
due eguali, o tutti e due minori 1, se considerati nell’ordine rispettivo.
Definizione V.6. Le grandezze che hanno lo stesso rapporto si chiamano proporzionali (
λογον).
Definizione V.7. Quando degli equimultipli 2, il multiplo della prima grandezza è maggiore del multiplo della
seconda, ma il multiplo della terza non è maggiore del multiplo della quarta, si dice allora che la prima
grandezza ha, rispetto alla seconda, rapporto maggiore di quello che la terza ha rispetto alla quarta.
Definizione V.8. Una proporzione che consista di tre termini è la minore possibile.
Definizione V.9. Quando tre grandezze sono proporzionali, si dice che la prima ha con la terza rapporto
duplicato rispetto a quello che ha con la seconda.
Definizione V.10. Quando quattro grandezze sono proporzionali, si dice che la prima ha con la quarta rapporto
triplicato a quello che ha con la seconda, e si procederà sempre così di seguito, comunque sia la proporzione data
in principio.
Definizione V.11. Si dicono grandezze omologhe gli antecedenti rispetto agli antecedenti ed i conseguenti
rispetto ai conseguenti.
Definizione V.12. Si ha rapporto permutato quando si prenda in considerazione l'
antecedente rispetto
all'
antecedente ed il conseguente rispetto al conseguente.
Definizione V.13. Si ha rapporto inverso quando si prenda in considerazione il conseguente come antecedente
rispetto all'
antecedente come conseguente.
Definizione V.14. Si ha composizione di rapporti quando si consideri la somma dell'
antecedente e del
conseguente in rapporto al conseguente preso da solo.
Definizione V.15. Si ha scomposizione di rapporti quando si consideri la differenza tra l'
antecedente ed il
conseguente in rapporto al conseguente preso da solo.
Definizione V.16. Si ha conversione di rapporti quando si consideri il conseguente in rapporto alla differenza tra
l'
antecedente ed il conseguente.
Definizione V.17. Date più grandezze ed altre in ugual numero, [disposte le une e le altre in un determinato
ordine], se delle prime grandezze vengono prese a due a due quelle consecutive ed esse sono nello stesso
rapporto delle corrispondenti consecutive fra le seconde grandezze, si ha rapporto ex aequo quando delle prime
grandezze la prima stia all'
ultima come delle seconde grandezze la prima stia all'
ultima; o altrimenti: è il
prendere in considerazione gli estremi con omissione dei medi.
Definizione V.18. Date tre grandezze ed altre grandezze in ugual numero si ha una proporzione perturbata
quando avviene che, delle prime grandezze, la prima sta alla seconda come delle seconde grandezze la seconda
sta alla terza, mentre, delle prime grandezze, la seconda sta alla terza come delle seconde la prima sta alla
seconda.»
Da questo impianto teorico si derivano molte delle proprietà dei numeri reali (e non soltanto quelli
algebrici o, ancora più restrittivamente, quelli che sono elementi di estensioni quadratiche di
).
1 Cioè: a : b = c : d se, in qualunque modo si scelgano due numeri interi m, n, secondo si abbia ma maggiore, uguale o minore di nb è
corrispondentemente mc maggiore, uguale o minore di nd.
2 Equimultipli della prima e della terza grandezza, ad esempio ma, mc, ed equimultipli della seconda e della quarta grandezza, ad
esempio nb, nd.
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Ora si ponga mente a quanto ‘ostici’ sono i numeri reali come enti matematici, utili, ma ‘irreali’ e
quanto difficile è il trattamento algebrico o dell’ordine degli elementi di tale struttura, forse proprio
perché ricca di proprietà, ciascuna delle quali cerca di mettere in luce solo certi aspetti (campo,
insieme ordinato completo, denso, spazio vettoriale, spazio metrico,…). Molto spesso nella pratica
scolastica si ammicca ai numeri reali, senza darne un’esplicita definizione o un modello su cui
applicare le conoscenze. Le difficoltà che hanno palesato nei secoli anche pensatori poderosi, ad
esempio Galilei, hanno messo in luce tali aspetti di criticità.
Vediamo ora più nel dettaglio alcune di queste definizioni.
III.5.2.1. Le Definizioni V.1 e V.2. La prima definizione si apre col termine non definito (e non lo
sarà neppure nel seguito) di «grandezza», quasi per mettere sull’avviso il lettore che si parlerà di
questo concetto. Poi presenta la parola «parte»,
, col significato di sottomultiplo, dunque non si
sta usando esclusivamente quel concetto generale espresso dalla Noz. com. 8, ma si attribuisce ora
alla parte la prerogativa di ‘misurare’. La distinzione tra questi due modi di essere parte è presente
anche in un brano della Metafisica di Aristotele:
«In un senso parte è ciò in cui una quantità può essere comunque essere divisa; infatti ciò che è sottratto da una
quantità, in quanto quantità, è sempre chiamato ‘parte’ di essa, come ad esempio due è detto essere, in un senso,
parte di tre, Ma in un altro senso parte è soltanto ciò che misura delle quantità, così due, in un senso è detto esser
parte di tre, in un altro, no.»
La Def. V.2 specifica meglio cosa si può intendere per misurare, introducendo il rapporto intero tra
le grandezze.
III.5.2.2. Le Definizioni V.3 e V.4. La Def. V.3 è stata oggetto di critiche in quanto presenta un
circolo vizioso: ha bisogno del concetto di omogeneità, ma non lo definisce, poi nella successiva
definizione, dimentica l’omogeneità, ma richiede che le grandezze soddisfino al Postulato di
Eudosso-Archimede, che di fatto diviene il criterio di omogeneità.
Di fatto Euclide, come in molte altre parti della sua opera, non fornisce definizioni, atte a
discriminare il concetto, ma semplicemente pone le basi per spiegare a chi sa già le cose, di che
cosa intende occuparsi.
Il concetto di omogeneità, viene dato per scontato, senza definirlo, in quanto dovrebbe essere
considerato come un termine primitivo, forse anche perché nel greco del tempo era un termine
linguisticamente diffuso e di uso comune, mentre il suo trasporto nelle lingue moderne ne ha fatto
un termine specifico di un contesto scientifico, per il quale noi sentiamo maggiormente il bisogno di
una definizione precisa.
Si tratta comunque del migliore compromesso possibile, ai tempi di Euclide, per parlare di numeri
(o meglio della categoria aristotelica della quantità) in questo contesto qualitativo, rappresentato dal
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concetto di grandezza. Così non ci sarà da stupirsi in seguito se gli enti, non sufficientemente
precisati di questo Libro: i rapporti e le proporzioni si comporteranno come numeri, soggetti a
relazioni d’ordine e di eguaglianza.
Nella Def. V.4, senza nominarla, viene data la definizione di omogeneità, quindi non è che se le
grandezze sono omogenee si può fare il rapporto di grandezze omogenee, ma l’esistenza stessa del
rapporto, con i suoi aspetti quantitativi, è equivalente all’omogeneità.
A ben guardare sotto alla definizione di rapporto c’è già ben presente il numero. Ad esempio nella
Prop. VI.20. si parla di rapporto di poligoni, sottintendendo il rapporto tra le misure delle loro aree.
Quindi una grandezza all’interno di un rapporto può essere sostituita da un’altra uguale, senza
cambiare il rapporto (Prop. V.7) , ma la grandezza in questione può essere la misura.
La Def. V.4, che si avvale della relazione d’ordine tra grandezze, nonché dei multipli e
sottomultipli, si può assumere come nozione di omogeneità. In tale caso la nozione di omogeneità si
basa sui numeri, ed ha come risultato la nozione di rapporto, cioè di numero reale “à la grècque”. Di
fatto quindi il concetto di numero reale diventa dipendente dal concetto di numero naturale, di
numero razionale e di ordinamento, in una sorta di Aritmetizzazione dell’Analisi ante litteram.
Grazie ad essa Euclide può escludere gli angoli di contingenza, in quanto non sono confrontabili
secondo il Principio di Eudosso-Archimede con gli angoli rettilinei. Ed è questa la vera ragione
della Prop. III.16, retaggio di una geometria pre-euclidea, che Euclide vuole espungere.
Confrontando queste definizioni con le due precedenti si ha immediatamente che se una grandezza è
parte di un’altra, nel senso della Def. V.1, allora le due grandezze hanno rapporto.
Nel secolo XIX viene enunciato un principio di
continuità da parte di Cantor, Dedekind, Peano
e Hilbert. Le varie enunciazioni sono diverse e
non equivalenti. Ci si sofferma principalmente
Georg Cantor
(1845-1918)
Giuseppe Peano
(1858-1932)
David Hilbert
(1862-1943)
su quelli di Dedekind e di Cantor.
Secondo Dedekind, se un segmento orientato
AB è diviso in due parti in modo tale che:
a.
ogni punto del segmento AB appartenga ad una delle due parti;
b. l’estremo A appartiene alla prima parte e B alla seconda;
c.
un punto qualunque della prima parte preceda un punto qualunque della seconda
allora esiste un punto C del segmento AB (che può appartenere all’una o all’altra parte) tale che per
ogni punto di AB che precede C appartiene alla prima parte, ed ogni punto di AB che segue C
appartiene alla seconda parte della divisione stabilita.
Da questo postulato, in Geometria elementare si possono dimostrare le seguenti proprietà.
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- Se nel piano sono dati una circonferenza C e due punti A e B, di cui uno interno e l’altro
esterno a C, il segmento rettilineo AB che congiunge i punti A e B ha un punto in comune con
C.
- Se nel piano è data una circonferenza C, ogni arco di circonferenza avente un estremo interno
ed uno esterno a C ha un punto comune con C.
- Dato un segmento ed un angolo qualsiasi esiste il segmento o l’angolo sua parte n-esima.
- Dati due segmenti qualunque, esiste sempre un multiplo dell’uno che sia maggiore dell’altro.
Quest’ultima affermazione garantisce che i segmenti costituiscono una classe di grandezze che
hanno rapporto. Quindi i segmenti soddisfano il Principio di Eudosso-Archimede.
Una diversa presentazione è dovuta a Peano, ed è equivalente a quella proposta da Dedekind.
Data una classe di segmenti non maggiori di un dato segmento, esiste sempre un segmento che
abbia le seguenti proprietà:
a.
non sia superato da alcun segmento della classe;
b. ogni segmento minore di esso sia superato da qualche segmento della classe.
La proposta di Cantor è la seguente:
Date due classi di segmenti di retta, se
a.
nessun segmento della prima classe è maggiore di qualche segmento della seconda;
b. fissato un segmento σ, esiste sempre un segmento della seconda classe ed uno della prima
tali che la loro differenza sia minore di σ;
allora esiste un segmento che non è minore di alcun segmento della prima classe né maggiore di
alcuno della seconda.
Dal Principio di Dedekind (o da quello di Peano) può dedursi quello di Cantor ed anche il Principio
di Eudosso-Archimede. Viceversa il Principio di continuità di Cantor non implica il Principio di
Dedekind, e quindi neppure il Principio di Eudosso-Archimede. Ma assumendo assieme i principi di
Cator e di Eudosso-Archimede, si ottiene il Principio di Dedekind.
Sono dunque possibili esempi di Geometria con continui cantoriani, ma non
archimedei, come ha provato Veronese.
Dunque quella che qui viene postulata mediante la Def. V.4 è una richiesta
(debole) di continuità, che non basta però per ottenere le varie richieste di
continuità sparse negli Elementi.
Giuseppe Veronese
(1854-1917)
A partire dal Libro V in poi, si osserva che Euclide si mostra più disposto a
considerare la continuità come una cosa ovvia, come si vede nella dimostrazione della
«Proposizione V.18. Se quattro grandezze sono proporzionali, esse saranno proporzionali anche componendo.»
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in cui si è osservato che Euclide date tre grandezze, ammette che esista la quarta proporzionale
dopo le tre grandezze date nel passo
«[…] Infatti, se (A+B) non stesse a B come (C+D) sta a D, starebbe (A+B) a B come (C+D) sta ad un’altra
grandezza […]».
I tentativi di ricorre a codici differenti che sembrano evitare questo passaggio non sono però
convincenti. D’altronde l’ammissione di continuità gioca un ruolo rilevante anche nel Libro XII a
proposito del metodo di esaustione.
III.5.2.3. La Definizione V.5. La Def. V.5 è un monumento alla sagacia di Eudosso. Si tratta di
definire l’eguaglianza tra numeri reali, e lo si fa, arretrando di un passo, usando le grandezze,
l’infinito in potenza e i numeri razionali. E’ una relazione di equivalenza tra grandezze, o meglio il
termine ‘relazione’ che oggi viene usato in senso globale, per indicare un sottinsieme di un prodotto
cartesiano, qui va inteso in senso locale, potendo affermarsi non che esiste la relazione data in modo
attuale, ma solo che si ottengono coppie ordinate di grandezze che sono relate.
Si considerino due coppie ordinate di grandezze A,B , C,D si pone
A,B
C,D per:
∀ n,m ∈( *× *)(nA
Banalmente la relazione
Si supponga ora che A,B
nA
mB, allora nC
nE
mF, pertanto A,B
mB ↔ nC
mD) 1.
è simmetrica, ed è pure riflessiva.
C,D e C,D
mD, ma da nC
E,F , allora per ogni scelta di n,m ∈( *× *), se
mD discende anche che nE
mF, quindi se nA
mB, allora
C,D .
Questa semplice dimostrazione si può pensare come una rilettura moderna della
«Proposizione V.11. Rapporti che siano uguali ad un medesimo rapporto sono uguali tra loro»
Dalla presenza di una relazione di equivalenza è facile passare ad un’eguaglianza, purché siano
soddisfatte le proprietà di ‘invarianza’ dell’equivalenza rispetto ad operazioni e relazioni, ma queste
si determinano mediante altre definizioni e Proposizioni del Libro V.
Ne è esempio
«Proposizione V.13. Se una prima grandezza ha rispetto ad una seconda grandezza lo stesso rapporto che una terza ha
con una quarta, e la terza ha rispetto alla quarta rapporto maggiore che una quinta rispetto ad una sesta, anche la prima
avrà rispetto alla seconda rapporto maggiore che la quinta rispetto alla sesta.»
1 Con questo simbolo un po’ inconsueto si vuole indicare che se nA > mB, allora contemporaneamente nC > mD e viceversa; se nA <
mB, allora contemporaneamente nC < mD e viceversa, ed anche che se nA = mB, allora contemporaneamente nC = mD e viceversa.
Non sono riuscito a trovare tra i caratteri disponibili sul computer quello che ha inserita una stanghetta tra minore e maggiore, per
indicare anche il caso dell’eguaglianza.
Si ponga attenzione alla scrittura ‘moderna’ in cui si mette in evidenza l’insieme infinito di variazione della coppia ordinata di
numeri naturali. Euclide non può pensare in questo modo, non ha a disposizione neppure lo strumento linguistico ed adopera degli
aggettivi indeterminati: «multiplo qualsiasi». Infatti la Definizione V.5 in latino si esprime :«In eadem ratione magnitudines esse dicuntur
prima ad secundam et tertia ad quartam, si primae et tertiae aeque multiplices secundae et quartae aeque multiplices aut simul superant aut simul
aequales sunt aut simul minore sunt suo ordine sumptae.», dunque non ci sono aggettivi indeterminati.
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vale a dire, se A:B = C:D e C:D > E:F, allora A:B > E:F, compatibilità dell’eguaglianza di rapporti
con l’ordine.
Per confrontare questa definizione con quella di numero reale, data una coppia ordinata di
grandezze omogenee, A,B , si consideri l’insieme H dei numeri razionali assoluti
1
(razionali
positivi)
p
n
n
tali che
A < B , vale a dire nA < mB, e l’insieme K dei numeri razionali assoluti
m
m
q
tali che
p
A ≥ B , cioè pA ≥ qB. Ogni numero razionale assoluto appartiene ad uno dei due insiemi,
q
vale a dire (H∪K) =
a.
Inoltre non ci sono numeri razionali assoluti che appartengano
contemporaneamente a H ed a K, cioè (H∩K) = ∅. Visto che le grandezze sono archimedee,
esistono s,r∈ * tale che sA > B e rB > A, pertanto
vuoti. Se poi
1
s
∈ H ∧ ∈ K , quindi i due insiemi non sono
r
1
p
n p
n
p
n
∈ H e ≤ , allora A ≤ A < B , dunque ∈ H . Si prova in tale modo che
r
s r
s
r
s
una coppia ordinata di grandezze omogenee individua una sezione di Dedekind di
a.
Per dare
questo concetto c’è però bisogno di considerare esistente in un ‘unico blocco’ l’insieme dei
razionali assoluti e due suoi sottinsiemi non vuoti e, per la densità di
, infiniti. Pertanto questo
‘semplice’ passaggio dalla coppia ordinata di grandezze omogenee alle sezioni di Dedekind richiede
un cambiamento profondo di attitudine verso gli enti infiniti.
La Def. V.5, date due coppie ordinate di grandezze tra loro omogenee, sta a significare che le
sezioni di Dedekind associate alle due coppie ordinate sono le stesse.
Si tratta quindi della definizione di uguaglianza tra i numeri reali, definizione che di per sé è assai
complessa, tanto da non riuscire ‘effettiva’ nel senso della calcolabilità.
D’altra parte la presenza di una relazione di equivalenza fa sì che si possa giungere (oggi, dopo tutta
l’Aritmetizzazione dell’Analisi del XIX e XX secolo) ad identificare il rapporto A : B come la
‘sostantivizzazione’ della classe di equivalenza della coppia ordinata A,B .
In questo senso i vari numeri razionali assoluti
n
n
tali che
A < B si possono pensare come
m
m
approssimazioni per difetto di A : B.
Gli scienziati sperimentali sono andati a lezione da Euclide (e quindi da Eudosso). Ad esempio i
Fisici sono giunti alla definizione di temperatura considerando i possibili corpi e suddividendoli in
classi di equivalenza se messi a contato non mutavano stato (ad esempio davano origine alla stessa
1 Gli unici numeri razionali ‘disponibili’ ai tempi di Euclide, che non conosceva né 0 né numeri negativi.
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dilatazione del mercurio contenuto in un bulbo di vetro (termometro)). La temperatura poteva essere
individuata come una classe di equivalenza rispetto a questa relazione.
Si osservi come la scelta di Eudosso e di Euclide di introdurre l’eguaglianza di rapporti, invece che
parlare di eguaglianza di sezioni di Dedekind, ha fatto la ‘fortuna’ della nozione di proporzione.
Tale concetto viene introdotto già nella scuola primaria e è un capitolo importante di tutta la
preparazione matematica elementare.
III.5.2.4. La Definizione V.6. E’ una ‘coda’ della definizione precedente. Il terreno è già pronto, si
può finalmente usare il termine proporzione o l’aggettivo proporzionale, come risultato della
definizione per astrazione offerta dalla precedente Definizione. Il greco usa il termine
cui è presente
, in
, ragione (opportunamente coniugato).
III.5.2.5. La Definizione V.7. Dopo avere lavorato per definire l’eguaglianza dei rapporti e quindi le
proporzioni, Eudosso e Euclide passano ad introdurre l’ordine non tra grandezze, ma tra numeri
reali, o meglio tra i loro surrogati eudossiani.
Per affermare che due rapporti sono uguali è indispensabile attestare che c’è concordanza di
disuguaglianza tra i multipli delle grandezze coinvolti nelle coppie, quindi in infiniti casi. Per
parlare di diversità di rapporti, vista come negazione di eguaglianza, basta trovare una sola coppia
ordinata di numeri naturali che non conservi l’ordine delle disuguaglianze, passando da
a . Resta
il problema di vedere se il primo rapporto è maggiore o minore del secondo.
Ma questo problema ipotizza che anche tra rapporti sia possibile non solo parlare di uguaglianza e
diversità, ma stabilire una relazione d’ordine che per di più si vuole di ordine lineare.
In questa Def. V.7, in un certo senso, si impone che i rapporti assomiglino molto da vicino ai
numeri. Il ragionamento di Euclide per decidere la relazione d’ordine potrebbe essere il seguente.
Siano date le due coppie ordinate di grandezze
A,B ,
C,D , esista una coppia ordinata
n,m ∈( *× *) tale che nA > mB e nC ≤ mD. Si può allora pensare che A : B >
sia una stima per difetto di A:B; invece C : D ≤
stima per eccesso di C:D. Pertanto C : D ≤
m
m
, vale a dire
n
n
m
m
, cioè lo stesso numero razionale
sarebbe una
n
n
m
< A : B . E’ chiaro che già queste relazioni poste tra
n
rapporti e numeri fanno pensare ai rapporti come numeri. Ne segue che la conclusione A:B > C:D è
a questo punto obbligata.
La Prop. V.13 ‘regolamenterà’ cosa avviene tra eguaglianza e disuguaglianza di rapporti.
III.5.2.6. Le Definizioni V.8 – V.10. Con queste definizioni si fornisce un poco di nomenclatura
sulle proporzioni, in particolare con le proporzioni continue.
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
Nella Def. V.8. compare un’indicazione di ordine, in latino:
«Proportio autem in tribus terminis consistens minima est.»
ma non si tratta dell’ordine tra rapporti, essendo solamente una constatazione. In realtà basterebbero
due grandezze per scrivere una proporzione A:B = A:B. Tale proporzione richiede solo due termini.
Per noi oggi è indispensabile per potere affermare la proprietà riflessiva della relazione
, ma forse
ad Euclide sembra troppo ovvia. Il passo successivo è considerare tre termini. Ne viene quello che
nella letteratura scolastica italiana è chiamata proporzione continua. Una caratteristica della
proporzione continua A:B = B:C è che il termine medio B deve essere omogeneo con le grandezze A
e C. Ora essere omogeneo dovrebbe essere una relazione di equivalenza, pertanto le grandezze A e
C dovrebbero essere omogenee. Bisogna però prestare attenzione perché un oggetto potrebbe essere
studiato secondo più aspetti e quindi essere
omogeneo con due oggetti non omogenei tra loro.
Ad esempio si considerino l’insieme di rettangoli
che hanno una dimensione data da 1 ed i rettangoli
A
C
B
che hanno una dimensione uguale a 4.
Forse la preoccupazione di Euclide è quella di chiedersi se possono esistere proporzioni con solo tre
termini, ma è un problema che è già stato risolto, ad esempio, nella Proposizione II.11.
Nella Def. V.9 si parla di rapporto duplicato, ma bisogna intendersi, non è che se A:B = B:C allora
A:C = 2(A:B), ma se si usa la scrittura mediante la linea di frazione si può esprimere la proporzione
con la scrittura suggestiva, ma scorretta se non si passa alle misure,
A B
= , quindi procedendo con
B C
un’aritmetica che ci è consueta, ma non lo era al tempo dei greci,
A
A
A A A
ricordando l’eguaglianza precedente, si ha ⋅ = , quindi
=
C
B
B B C
A B A
⋅ = . D’altra parte
B C C
2
. Questi passaggi che sono
illeciti, lo divengono ancora di più se non è garantita l’omogeneità di A e C. Pertanto quello che
Euclide definisce doppio è il quadrato.
Così nella Def. V.10, se A:B = B:C = C:D, scritte con le linee di frazione,
A A B C A A A
A
= ⋅ ⋅ = ⋅ ⋅ =
D B C D B B B
B
A B C
= = . Quindi
B C D
3
. Pertanto il triplicato di Euclide consiste nella terza potenza.
III.5.2.7. La Definizione V.11. Anche questa è una definizione che introduce una nomenclatura.
Nella proporzione A:B = C:D, le grandezze A e B sono omogenee, cioè di natura simile. Il nuovo
termine introdotto in questa definizione è che A e C; B e D sono grandezze omologhe, in latino
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ϑ , e questo nuovo termine, omologo contiene
«respondentes magnitudines», in greco,
ancora una volta la parola
, ragione. Quindi si potrebbe dire, omologo come di ragione simile.
III.5.2.8. Le restanti definizioni. In queste ultime definizioni si introducono termini che riguardano
operazioni che si possono eseguire sulle proporzioni. Talvolta bisogna però prestare attenzione a
condizioni di omogeneità.
Nascono così le cosiddette leggi del comporre e dello scomporre.
III.5.3. Alcuni risultati del Libro V. Il Libro V consta di 25 Proposizioni + 2 Corollari. Le figure
presenti sul testo dello Heiberg (ed anche su quello di Frajese) sono assai poco suggestive,
trattandosi, quando ci sono, di segmenti con opportuni nomi che richiamano il testo.
Lo stesso avviene nei Libri VII, VIII e IX ed è abbastanza frequente anche nel Libro X. Questo fa
comprendere meglio che non si tratta di veri e propri libri geometrici, essendo questi segmenti
incaricati di rappresentare numeri.
Nella versione in italiano di Frajese e Maccioni sono non infrequenti in nota le ‘traduzioni’ delle
dimostrazioni originali con il linguaggio moderno, spesso utilizzando lo strumento grafico che
potrebbe definirsi la ‘linea dei numeri’. La presentazione degli Elementi è di non immediata
comprensione perché viene a mancare questo strumento rappresentativo (che richiede i numeri reali
dati e la biezione tra l’insieme dei punti di una retta e l’insieme dei numeri reali, una sorta di
assioma di completezza nelle versioni moderne della Geometria). Per esigenza di chiarezza Frajese
e Maccioni si avvalgono di questo linguaggio a noi contemporaneo, che rende immediate e banali
alcuni risultati, per ottenere i quali Euclide deve produrre dimostrazioni complesse, basate
esclusivamente sui multipli di grandezze.
I rapporti di ordine o molteplicità tra grandezze sono suggeriti dalla lunghezza dei segmenti usati
nella figura. Agli occhi dello studioso di oggi, questa sostituzione della quantità con grandezze
geometriche genera fastidio, riuscendo forse più semplice ragionare in termini numerici. E’ come se
Euclide si nascondesse dietro un paravento, per non sentire «le strida dei beoti», come dirà, per altro
argomento, Gauss più di duemila anni dopo Euclide.
Una suddivisione grossolana delle proposizioni presenti nel Libro V è data da
- Le Propp. V.1 – V.3 trattano di rapporti interi.
- La Prop. V.4 mostra che se si altera una proporzione considerando multipli delle grandezze
omologhe, si ottiene ancora una proporzione.
- Le Propp. V.5 e V.6 ripetono con la sottrazione le Proposizione V.1 e V.2 rispettivamente.
- Le Proposizioni V.7 – V.10 hanno lo stesso oggetto, ma differiscono per la forma logica
(quadrilatero delle proposizioni di stampo aristotelico).
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- La Prop. V.11 è già stata commentata, stabilendo la proprietà transitiva dell’eguaglianza di
rapporti.
- Le Propp. V.12 – V.16 sono di fatto un unico blocco che ha come fine, la Prop. V.16 il caso
della permutazione dei medi di una proporzione con quattro grandezze omogenee. Per
giungere a ciò si studiano le trasformazioni date mediante somma ed eguaglianza e
disuguaglianza di rapporti.
- Le Propp. V.17 – V.18 trattano del comporre e dello scomporre.
- La Prop. V.19 è analoga alla Prop. V.12, ma usa la differenza, invece della somma.
- Le Propp. V.20 – V.23 trattano di proporzioni in cui intervengono variamente sei grandezze.
- La Prop. V.24 è una generalizzazione della Prop. V.2.
- La Prop. V.25 tratta delle medie geometrica e aritmetica.
Per dare qualche indicazione sulle tecniche dimostrative usate da Euclide in questo Libro, si vedano
le dimostrazioni di alcune proposizioni.
III.5.3.1. Un quadrilatero delle proposizioni. Interessante l’uso del cosiddetto quadrilatero delle
proposizioni, messo in atto nel complesso delle Propp. V.7 – V.10. Non è questo il primo caso di
applicazione di questo strumento logico, utilizzato in precedenza da Euclide nel Libro I: un
quadrilatero di proposizioni è costituito dal Post. 5, dalla Prop. I.17, dal complesso delle Propp. I.27
e I.28 e dalla Prop. I.29. In seguito sintetizzerà un quadrilatero di proposizioni nella Prop. X.9.
Per spiegare meglio in cosa consista un quadrilatero di proposizioni si consideri schematicamente
una proprieà in forma implicativa come I(ipotesi) → T(tesi) e si prenda questa come proposizione
diretta. La proposizione inversa è data da T → I. La proposizione contraria è data da ¬I → ¬T,
mentre la contronominale è costituita da ¬T → ¬I.
Grazie a leggi della logica proposizionale, diretta e contronominale sono logicamente equivalenti,
così come l’inversa e la contraria, anzi la contronominale della contronominale è la diretta e la
contronominale della inversa è la contraria.
Questi rapporti sono dimostrabili semplicemente mediante tavole di verità, a patto di collocarsi
nella cosiddetta logica classica, quella in cui si accetta il Principio del terzo escluso. In altre logiche
non sussistono più rapporti di questo tenore, ma solo condizioni più deboli.
Per illustrare queste tecniche si è preferito aspettare le Proposizioni del Libro V, in quanto le quattro
Proposizioni sono “vicine”, dato che la situazione del Libro I è complicata dalla scelta di Euclide di
provare ciò che si può senza il Post. 5 e questo provoca un allontanamento dei vertici del
quadrilatero, all’interno del Libro I.
Ovviamente il complesso di proposizione diretta e inversa può essere sintetizzato da un connettivo
di doppia implicazione, o come è piaciuto a matematici successivi, di parlare di condizioni
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necessarie e sufficienti. Delle quattro proposizioni del quadrilatero sono da provare solo due, ad
esempio la diretta e l’inversa. Ma questa non è la strada prescelta da Euclide che spezza le
dimostrazioni in quattro casi, come si ha nel Libro V.
«Proposizione V.7. Grandezze uguali hanno il medesimo rapporto rispetto ad una stessa grandezza, ed una stessa
grandezza ha il medesimo rapporto rispetto a grandezze uguali.
Dimostrazione. Siano A, B delle grandezze uguali e C sia un’altra grandezza a caso, dico che ciascuna delle due
grandezze A, B ha lo stesso rapporto rispetto a C, e che C ha lo stesso rapporto rispetto a ciascuna delle due
grandezze A, B. Infatti si prendano le grandezze mA, mB equimultiple di A, B ed un’altra grandezza nC, che sia
una multipla qualsiasi di C.
Poiché dunque mA è multipla di A lo stesso numero di volte che mB lo è di B, ed A è uguale a B, si ha che mA è
uguale a mB. Ma nC è un’altra grandezza [che è una multipla di C] presa a caso. Se quindi mA supera nC, anche
mB supera nC, se mA è uguale a nC, è [pure] uguale mB, e se mA è minore di nC, pure mB è minore. Ma mA, mB,
sono equimultiple di A, B, mentre nC è una grandezza multipla di C presa a caso; perciò A:C = B:C (Def. V.5)1.
Dico adesso che anche C ha lo stesso rapporto rispetto a ciascuna della due grandezze uguali A, B.
Infatti, eseguita la medesima costruzione, potremo dimostrare similmente che mA è uguale a mB; e nC è un’altra
grandezza[, e multipla di C]; se quindi nC supera mA, essa supera anche mB, se nC è uguale a mA, nC è [anche]
uguale a mB, e se minore di mA, nC è minore di mB. Ora, nC è una grandezza multipla di C, mentre mA, mB
sono equimultipli qualunque di A, B, perciò C:A = C:B (Def. V.5).
Dunque grandezze uguali hanno il medesimo rapporto rispetto
alla stessa grandezza.
Corollario alla Proposizione V.7. E’ da ciò evidente che, se
delle
grandezze
sono
proporzionali,
esse
saranno
proporzionali anche invertendo[, vale a dire che se è: A:B =
A
mA
B
mB
C
nC
C:D, è anche B:A = D:C].»
Il testo della Prop. V.7 è accompagnato dal seguente disegno in cui sono evidenti le scelte di m = n
= 2.
La Prop. V.7 si può fare rientrare nel complesso dei risultati che vogliono provare proprietà di
invarianza del rapporto rispetto alle relazioni tra grandezze, in questo caso rispetto all’eguaglianza
di grandezze. Si tratta di un’affermazione che sembra decisamente ovvia, ma è egualmente
importante perché chiarisce che la Def. V.5 soddisfa la condizione che, accanto alla omogeneità era
stata richiesta nella Def. V.3, vale a dire che il rapporto è legato alla quantità, al numero. Così il
rapporto di due figure piane non è legato alla forma ma soltanto all’area. Quindi qui si sta provando
che l’eguaglianza di due grandezze comporta la sostituibilità dell’una all’altra nei rapporti.
Poiché nel quadrilatero delle proposizioni la Prop. V.7 svolge il ruolo di proposizione diretta ed è
della forma: (A = B) → (A:C = B:C), la successiva Prop. V.8 che ha il ruolo di proposizione
1 Questa scrittura non può essere di Euclide perché il segno di eguaglianza compare solo nel XVI secolo e impiega altro tempo a
venire accettato universalmente. Il testo greco dice
,
forse “A sta a Γ come B sta a
Γ”, dizione usata anche in italiano, che non utilizza l’uguaglianza.
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contraria sarà ¬(A = B) → ¬(A:C = B:C). Ma usando la linearità dell’ordine, l’enunciato della Prop.
V.8 è
«Proposizione V.8. Di [due] grandezze disuguali, la maggiore ha rispetto ad una stessa grandezza rapporto
maggiore che quella minore; ed una stessa grandezza ha rispetto alla minore rapporto maggiore che rispetto a
quella maggiore.
Dimostrazione. Siano A = PQ e B due grandezze disuguali, [delle quali] A sia maggiore, e sia C un’altra
grandezza [presa] a caso; dico A = PQ ha rispetto a C rapporto maggiore che B rispetto a C, e che C ha rispetto a
B rapporto maggiore che rispetto ad A[, cioè se A > B, è anche A:C > B:C, ed è inoltre C:B > C:A].
Infatti, poiché A è maggiore di B, si ponga RQ uguale a B; di conseguenza, (Def. V.4), la minore delle grandezze
PR, RQ, se moltiplicata, finirà ad un certo punto con l’essere [un multiplo] maggiore di C. Sia dapprima PR
minore di RQ, si moltiplichi PR [un numero m di volte], e sia SU = mPR = m(A-B) una grandezza multipla di PR
che risulti maggiore di C. Di quante volte allora SU è multipla di PR, siano [prese] anche UZ multipla di RQ e D
multipla di B, sia cioè UZ = mRQ, D = mB; si prendano così di seguito successive grandezze multiple di C, fino a
che la grandezza presa sia multipla di C, ma essendo insieme il primo multiplo di C ad essere maggiore di D =
mB (Def. V.5). Risulti presa, e sia essa[, ad esempio,] 4C, che è il quadruplo di C ed è insieme il suo primo
multiplo che è maggiore di D = mB.
Poiché dunque D = mB è grandezza che è la prima ad essere minore di 4C, si ha che D = mB non è minore di 3C.
E poiché SU, UZ sono equimultiple, [rispettivamente] di PR, RQ, si ha che SU è multipla di PR lo stesso numero
di volte che [la somma] SZ lo è della somma PQ (Prop. V.1). Ma SU è multipla di PR lo stesso numero di volte
che D = mB lo è di B; perciò [la somma] SZ è multipla di PQ lo stesso numero di volte che D = mB lo è di B. Si
ha quindi che SZ, D sono equimultipli di PQ, B[: e difatti SZ, cioè SU+UZ, equimultipli rispettivamente
rispettivamente di PR, RQ, è equimultipla della somma PQ, cioè SZ = mPQ. Ma anche D è multiplo di B so
stesso numero m di volte che SU lo è di PR, per cui SZ, D sono equimultipli rispettivamente di PQ = A e di B,
ossia SZ = mA, D = mB]. Di nuovo, poiché UZ è multipla di B lo stesso numero di volte che D è multipla di B, e
RQ è uguale a B, si ha che UZ è uguale a D. Ma D non è minore di 3C, per cui neppure UZ è minore di 3C. Ma
SU è maggiore di C; quindi tutta quanta SU+UZ è maggiore della somma 3C+C, Ma la somma 3C+C è uguale a
4C, e così la somma SU+UZ, ossia tutta la SZ, è maggiore di 4C, mentre D non è maggiore di 4C. Ora SZ, D
sono equimultiple di A, B, mentre 4C è una grandezza multipla qualunque della grandezza C[, ossia si è trovato
che è mA > 4C, mentre è mB ≤ 4C], quindi A ha rispetto a C rapporto maggiore che B rispetto a C ( Def. V.7).
Dico adesso che anche C ha rispetto a B rapporto maggiore che C rispetto a A.
Infatti, eseguita la medesima costruzione, potremo similmente dimostrare che 4C supera D, mentre non supera
SZ. Ora, 4C è grandezza multipla di C, mentre SZ, D sono delle altre grandezze, equimultiple a piacere di A, B;
perciò C ha rispetto a B rapporto maggiore che rispetto ad A (Def. V.7).
Ma sia adesso il caso in cui PR sia maggiore di RQ. La grandezza minore RQ, se moltiplicata, sarà così ad un
certo punto maggiore di C (Def. V.6). Risulti essa moltiplicata, sia UZ multipla di RQ e maggiore di C, e di
quante volte UZ è multipla di RQ, altrettante volte siano multiple anche SU di PR, e D di B. Similmente allora
potremo dimostrare che SZ, D sono equimultiple di A,B; si prenda inoltre similmente la grandezza 4C multipla di
C, ma che sia la prima ad essere maggiore di SU; cosicché, di nuovo SU non è minore di 3C. Ma UZ è maggiore
di C, per cui tutta quanta SZ supera la somma C + 3C, cioè 4C. Ma D non supera 4C, dal momento che pure SU,
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
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maggiore di UZ, cioè di D, non supera 4C. Nella stessa maniera poi, proseguendo gli argomenti di cui sopra,
completiamo la dimostrazione.»
La scrittura con le frazioni di grandezze mostrerebbe facilmente l’asserto: se A > B, allora
A B
>
e
C C
C C
> . Ma questo modo di procedere è estraneo al pensiero euclideo. Si deve quindi procedere
B A
mediante i multipli e quindi la dimostrazione si complica.
Un’altra osservazione: nella dimostrazione si sono utilizzate scritture quali 3C oppure mA = D, che
non sono usate nel testo greco. Euclide introduce numerose lettere per indicare le grandezze: per
indicare ad esempio 3C usa un’altra lettera.
La dimostrazione si apre con «Siano A = PQ e B due grandezze disuguali [delle quali] A sia maggiore» e ad una
prima lettura, pensando alle grandezze astratte, verrebbe da pensare che il fatto che A sia maggiore
si esprima come un prodotto. Andando avanti nella dimostrazione proposta da Euclide, ed anche dal
disegno annesso, si scopre che PQ è un segmento che viene visto come somma di PR e RQ, o
meglio quando afferma « e così la somma SU+UZ, ossia tutta la SZ». Ora si poteva pensare che i disegni di
segmenti utilizzati nelle altre proposizioni potessero essere usati come rappresentazioni sensibili del
concetto di grandezza. Ma già dalla Prop. V.2, si utilizzano esplicitamente segmenti per le
generiche grandezze, in quanto si specificano i punti estremi del segmento.
Nella prova si usa la dimostrazione per casi e soprattutto il Principio di Eudosso-Archimede. E’
interessante anche il fatto che il generico multiplo è secondo 3 o 4.
Alcuni altri aspetti interessanti sono dati dalla presenza di una proprietà distributiva del multiplo
rispetto alla somma: « Ma SU è multipla di PR lo stesso numero di volte che D = mB lo è di B; perciò [la somma]
SZ è multipla di PQ lo stesso numero di volte che D = mB lo è di B».
Questo aspetto sarà ancora più
conclamato nella dimostrazione delle Propp. V.17 e V.18. Si ricava da queste considerazioni una
forte impressione che invece di parlare di grandezze, si pensi a tali enti geometrici in termini di
numeri.
Inoltre c’è una importante estensione del Principio di Eudosso-Archimede. Infatti in base ad esso
date due grandezze esiste un multiplo della minore che supera la maggiore. In realtà scrivendo di
tali multipli ne esistono infiniti: se A < B e B < 7A, si ha anche B < 15A e così via per tutti i multipli
di A secondo numeri maggiori di 7 (ed anche maggiori di 15,…). Ma nella dimostrazione si usa il
minimo multiplo di una grandezza data che sia maggiore di una grandezza assegnata. L’esistenza di
tale minimo è garantibile solo sfruttando proprietà dell’insieme dei numeri naturali quali il
Principio della discesa (che verrà utilizzato da Euclide in Libri successivi) oppura dal Principio di
induzione, o ancora proprio dal Principio di minimo, l’affermazione che ogni sottinsieme non vuoto
di numeri naturali ammette minimo. Sotto questa luce il Principio di Eudosso-Archimede può
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interpretarsi come l’affermazione che date comunque due grandezze (omogenee) l’insieme dei
multipli di una che superino l’altra non è vuoto. Di qui per il Principio di minimo, si conclude che
esiste un minimo multiplo dell’una che superi l’altra.
Si tratta dunque di utilizzare in contesto geometrico una proprietà dei numeri naturali, a ribadire la
stretta unità tra Aritmetica e Geometria e l’unitarietà della Matematica.
Il fatto che Euclide non si ponga il problema del Principio di minimo sta forse nell’ovvietà del
Principio stesso: se si trova un multiplo di A che supera B, allora basta confrontare B con i multipli
della stessa grandezza A, ma secondo numeri naturali minori e “sicuramente” si troverà il minimo
multiplo di A richiesto.
La proposizione inversa della proposizione diretta (Prop. V.7) nel quadrilatero è la
«Prop. V.9. Grandezze che abbiano lo stesso rapporto rispetto ad una medesima grandezza sono uguali fra loro;
e grandezze rispetto alle quali una medesima grandezza abbia lo stesso rapporto, sono uguali.
Dimostrazione. Infatti, ciascuna delle due grandezze A, B abbia rispetto a C lo stesso rapporto; dico che A è
uguale a B.
Se difatti non lo fosse, non potrebbero le due grandezze A, B avere ciascuna lo stesso rapporto rispetto a C (Prop.
V.8); ma lo hanno, quindi A è uguale a B.
Di nuovo, sia adesso il caso in cui C ha lo stesso rapporto rispetto a ciascuna delle due grandezze A, B; dico che
A è uguale a B.
Infatti se non lo fosse, C non potrebbe avere lo stesso rapporto rispetto a ciascuna delle due grandezze A, B
(Prop. V.8); ma lo ha, quindi A è uguale a B.»
Si noti che Euclide non usa esplicitamente la Prop. V.8, che parla di rapporti maggiori, ma sfrutta la
vera proposizione contraria cioè che se due grandezze sono diseguali, allora i loro rapporti con una
terza grandezza sono diseguali.
La dimostrazione è suddivisa in due parti, considerando sia A:C, sia C:A.
La dimostrazione è apparentemente per assurdo. Avrebbe potuto essere ottenuta mediante il modus
tollens, vale a dire la regola di deduzione logica, elaborata nell’ambito della logica medievale, che
si può formulare come
α → β , ¬β
.
¬α
Per la Prop. V.8 si ha (A ≠ B) → (A:C ≠ B:C); si vuole provare (A:C = B:C) → (A = B). Basta allora
leggere (A:C = B:C) come ¬(A:C ≠ B:C) e indicare
( A ≠ B) → ( A : C ≠ B : C ), ¬( A : C ≠ B : C )
.
¬( A ≠ B)
Infine si ha la proposizione contronominale, data da
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«Proposizione V.10. Delle grandezze che abbiano rapporto rispetto ad una stessa grandezza, quella che ha
rapporto maggiore è maggiore; ed è minore la grandezza rispetto a cui una stessa grandezza abbia rapporto
maggiore.
Dimostrazione. Infatti, abbia A rispetto a C rapporto maggiore che B rispetto a C; dico che A è maggiore di B.
Se difatti non lo fosse, A sarebbe o uguale a B, o minore. Ora, A non è uguale a B; in tal caso, infatti, ciascuna
delle due grandezze A, B avrebbe rispetto a C lo stesso rapporto. Ma non lo ha[: ossia, si avrebbe in tal caso A:C
= B:C (Prop. V.7), ciò che non è]; perciò A non è uguale a B. Non è neppure, tuttavia, A minore di B, poiché in
tal caso A avrebbe rispetto a C rapporto minore che B rispetto a C (Prop. V.8); ma non lo ha; quindi A non è
minore di B. E fu dimostrato che non è neppure uguale [ad essa]; quindi A è maggiore di B.
Di nuovo, sia adesso il caso in cui C ha rispetto a B rapporto maggiore che C rispetto ad A; dico che B è minore
di A.
Infatti, se non lo fosse, essa sarebbe uguale, o maggiore. Ora, B non è uguale ad A; in tal caso difatti C avrebbe
lo stesso rapporto rispetto a ciascuna delle due grandezze A, B (Prop. V.7); ma non lo ha; quindi A non è uguale
a B. Né tuttavia B è maggiore di A; difatti in tal caso C avrebbe rispetto a B rapporto minore che rispetto a D
(Prop. V.8). Ma non lo ha; quindi B non è maggiore di A. E fu dimostrato che non è neppure uguale [ad essa];
perciò B è minore di A.»
Anche in questo caso la “vera” contronominale sarebbe la proposizione ¬(A:C = B:C) → ¬(A = B),
ma qui interessa la relazione d’ordine. Per questo la dimostrazione non usa solo la proposizione
diretta, Prop. V.7, ma serve anche la Prop. V.8, per dirimere la questione se quando A ≠ B, sia A > B
oppure A < B.
Per la parte che riguarda la diversità, non viene seguita la via più breve, usare il modus tollens, ma
si fa una dimostrazione che si avvicina ad una dimostrazione per assurdo.
III.5.3.2. Eguaglianza, scomporre e comporre. La Proposizione più citata nel seguito è la Prop.
V.11, quella che stabilisce la proprietà ‘euclidea’ dell’eguaglianza di rapporti. Si è vista una
versione ‘moderna’ di tale Proposizione, parlando della relazione di equivalenza suggerita dalla
Def. V.5.
Il testo di Frajese e Maccioni, a proposito della Prop. V.11, commenta che la dimostrazione della
transitività permette di concludere che l’eguaglianza di rapporti è una relazione di equivalenza e
quindi «ha pieno diritto di chiamarsi uguaglianza.», ma sembra un’affermazione incompleta. Infatti
un’eguaglianza si colloca in un contesto teorico in cui sono presenti relazioni e operazioni sugli enti
di cui si parla. Il fatto di essere una relazione di equivalenza non è sufficiente per dire che possa
ritenersi un’uguaglianza.
Si consideri il seguente esempio: sull’insieme ( *× *) siano date le relazioni, ,
- n,m
r,s se e solo se n+m = r+s
- n,m
r,s se e solo se n s = r m.
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definite da:
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Si mostra facilmente (con qualche calcolo) che entrambe sono relazioni di equivalenza sull’insieme
( *× *), ma
non è sostitutiva rispetto a , ⊕: ( *× *)×( *× *) → ( *× *), operazioni
definite da
- h,k
p,q = hp,kq
- h,k ⊕ p,q = hq+kp,kq ,
mentre
è sostitutiva e per questo delle due, solo
quale si costruisce l’insieme
si può considerare un’uguaglianza (con la
a).
Ed un primo passo per provare la sostitutività, è proprio provarla sull’eguaglianza stessa. E’ questo
il significato della Prop. V.11, che fornisce la proprietà ‘euclidea’ della uguaglianza di rapporti.
Ora molte delle Proposizioni del Libro V tendono a dare garanzia che l’eguaglianza di rapporti gode
delle proprietà sostitutive, ed è solo in base ad esse che ha senso affermare che si tratti di una vera
eguaglianza.
Si vedano ora alcuni risultati sul ‘comporre’ e lo ‘scomporre’ per mostrare come l’eguaglianza dei
rapporti sia sostitutiva rispetto all’addizione e sottrazione di grandezze.
«Proposizione V.17. Se quattro grandezze sono proporzionali, esse saranno proporzionali anche scomponendo.
Dimostrazione. Siano A, B, C, D quattro grandezze proporzionali, in modo che A stia a B come C sta a D; dico
che esse saranno proporzionali anche componendo, ossia che (A-B):B = (C-D):D.
Infatti, si prendano le grandezze m(A-B), mB, m(C-D), mD equimultiple di (A-B), B, (C-D), D e delle altre
grandezze nB, nD equimultiple qualunque di B, D.
Ora poiché m(A-B) è multipla di (A-B) lo stesso numero di volte che mB è multipla di B, si ha che la somma
m(A-B) + mB è equimultipla della somma (A-B) + B (Prop.V.1) ossia di A.
Ma m(A-B), m(C-D) sono rispettivamente equimultiple di (A-B), (C-D), per cui la somma m(A-B) + mB = mA è
multipla di A lo stesso numero di volte che m(C-D) lo è di (C-D). Di nuovo, poiché m(C-D), mD sono
rispettivamente equimultiple di (C-D), D, si ha che m(C-D) è multipla di (C-D) lo stesso numero m di volte che
m(C-D) + mD è multipla di C[, ossia è uguale a mC] (Prop. V.1). Ma [si è veduto che] m(C-D) era multipla di
(C-D) lo stesso numero di volte che m(A-B) + mB = mA è multipla di A, sicché m(A-B) + mB = mA è multipla di
A lo stesso numero m di volte che m(C-D) + mD = mC è multipla di C. Quindi le due somme sono equimultiple
rispettivamente di A, C. Di nuovo, poiché mB è multipla di B lo stesso numero di volte che mD lo è di D, e pure
nB, nD sono rispettivamente equimultiple di B, D, si ha che la somma mB + nB è multipla di B lo stesso numero
di volte che la somma mD + nD è multipla di D (Prop. V.2.)[, ossia :
mB + nB = (m + n) B
]. E poiché [per
mD + nD = (m + n) D
ipotesi] A:B = C:D, e sono state prese mA, mC equimultiple di A, C, e mB+nB, mD + nD equimultiple di B, D, si
ha che, se mA supera nB, anche mC supera nD, se mA è uguale a nB, corrispondentemente mC è uguale a nD, e
se mA è minore, mC è minore (Def. V.5). Supponiamo ora sia il caso in cui mA = m(A-B) + mB supera mB + nB,
e quindi, sottratta in comune da esse mB, anche m(A-B) supera nB. Ma [è risultato] che se mA superava mB + nB,
pure mC superava mD + nD, e sottratta in comune da esse mD, pure m(C-D) supera nD. Similmente, potremo
dimostrare che pure se m(A-B) è uguale a nB, anche m(C-D) sarà uguale a nD, e se m(A-B) è minore di nB, sarà
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
m(C-D) minore di nD. Ora, m(A-B), m(C-D) sono grandezze equimultiple di (A-B), (C-D), mentre nB, nD sono
altre equimultiple qualunque di B, D; quindi (A-B):B = (C-D):D.
Proposizione V.18. Se quattro grandezze sono proporzionali, esse saranno proporzionali anche componendo.
Dimostrazione. Siano A, B, C, D quattro grandezze proporzionali, in modo che si abbia: A:B = C:D; dico che
esse saranno proporzionali anche componendo, ossia che (A+B):B = (C+D):D.
Infatti se (A+B) non stesse a B come (C+D) sta a D, starebbe (A+B) a B come (C+D) sta ad un’altra grandezza
minore di D, o ad una maggiore.
Stia dapprima (C+D) in tale rapporto rispetto ad una grandezza E minore di D. Poiché (A+B):B = (C+D):E, tali
grandezze proporzionali saranno proporzionali anche scomponendo (Prop. V.17). Perciò (A+B-B):B = (C+DE):E, ossia A:B = (C+D-E):E. Ma pure, per ipotesi, A:B = C:D. Quindi anche (C+D-E):E = C:D (Pro. V.11). Ma
la prima grandezza (C+D-E) è maggiore della terza C[, essendosi supposta E minore di D]; perciò anche la
seconda E è maggiore della quarta D (Prop. V.14). Ma sarebbe anche minore di essa[, come si era supposto]; il
che è impossibile. Quindi (A+B) non sta a B come (C+D) ad una grandezza E minore di D. Similmente potremo
dimostrare che (C+D) non è in tale rapporto neppure rispetto ad una grandezza che sia maggiore di D; essa è
quindi in tale rapporto rispetto [precisamente] a D[, ossia: (A+B):B = (C+D):D].»
Il testo greco e latino della Prop. V.17 non usa le grandezze, ma i segmenti citati mediante i loro
estremi, non presenta figure a commento. Manca un’indicazione essenziale, cioè che A sia maggiore
di B, per cui si possa sottrarre B ad A. Siccome nella dimostrazione di tale Prop. V.17 si considera la
somma (di multipli) di grandezze potrebbe venire il sospetto che per provare la proprietà dello
scomporre si usi il comporre. Di fatto non è così, ma si usa un’altra proprietà data per scontata, che
valga una proprietà distributiva, o meglio pseudo-distributiva, essendo il termine mA non ottenuto
mediante moltiplicazione, bensì mediante somma ripetuta o prodotto di uno scalare per una
grandezza. Poi nella Prop. V.18 interviene una scrittura ambigua: (C+D-E), usata nel testo italiano.
L’ambiguità consiste perché non è indicata la priorità delle operazioni, ma si suppone che le
grandezze si comportino proprio come i numeri, rispetto a queste operazioni aritmetiche.
Nella dimostrazione della Prop. V.18 viene citata la
«Proposizione V.14. Se una prima grandezza ha rispetto ad una seconda grandezza lo stesso rapporto che una
terza ha rispetto ad una quarta, e la prima è maggiore della terza, anche la seconda sarà maggiore della quarta, se
la prima è uguale alla terza, la seconda corrispondentemente sarà uguale, e se la prima è minore, la seconda sarà
minore.»
III.5.3.3. Il ‘Teorema di Talete’. I problemi affrontati nel Libro V raramente sono presentati sui
manuali scolastici italiani. Si preferisce non porre troppi problemi che possano richiamare i numeri
reali. Ad esempio su Battelli, M., 1995, Corso di Matematica sperimentale e laboratorio, 2, Le
Monnier, Firenze, tutta la problematica dei rapporti e proporzioni è contenuta in meno di una pagina
che si conclude, dopo un esempio in cui si mostra la seguente figura con il commento che
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
A
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B
AB = 2
C
D
E
1
2
CD = CD
5
5
con la affermazione
F
«Più in generale, si può enunciare quanto segue:
TEOREMA 17. Il rapporto di due grandezze omogenee è uguale al quoziente delle loro misure, rispetto ad una
qualsiasi unità di misura prefissata.»
Seguono alcune considerazioni, poi in un paragrafo intitolato “3. Figure piane simili” si fa
riferimento alla trattazione di un argomento del libro precedente, Battelli, M., 1995, Corso di
Matematica sperimentale e laboratorio, 1, Le Monnier, Firenze, intitolato “4. La corrispondenza di
Talete” che qui si riporta.
«Consideriamo un fascio, , di rette parallele:
a, b, c, d, …
tagliate da due trasversali t e t’.
Si ottengono così due insiemi di punti di intersezione
∩ t = {A, B, C, D, …}
∩ t’ = {A’, B’, C’, D’, …}.
Come potete osservare nella figura 59, resta definita una funzione f che a punti di intersezione situati sulla prima
trasversale associa punti di intersezione situati sulla seconda trasversale, in modo tale che P e P’ = f(P) siano
appartenenti alla stessa retta del fascio .
t
a
b
C
c
d
D
t'
A
f
B
f
f
f
E’ evidente che f è una funzione biunivoca da
A'
∩ t verso
∩ t’;
essa è chiamata corrispondenza parallela di Talete, ove la
B'
denominazione “parallela” dipende dal fatto che è applicata ad un
C'
fascio di rette parallele.
D'
La corrispondenza parallela di Talete gode di due notevoli
proprietà:
PROPRIETÀ 1 Se due segmenti, appartenenti alla prima
trasversale, sono isometrici allora anche le loro immagini, ottenute mediante la corrispondenza di Talete, situate
sulla seconda trasversale, sono isometriche […]
PROPRIETÀ 2 L’immagine della somma di due segmenti situati sulla prima trasversale è uguale alla somma
delle loro immagini appartenenti alla seconda trasversale.»
Il testo riporta quindi questa proprietà, usando nella dimostrazione le proprietà delle rette parallele e
del fatto che formino con trasversali angoli opportuni uguali, nonché Criteri di congruenza dei
triangoli (per la prima proprietà). Meno convincente è la dimostrazione della seconda proprietà. Il
fatto che la funzione f sia una funzione tra insiemi di punti, non autorizza in alcun modo a ritenere
che le immagini siano isometriche, visto che non è assolutamente detto (e ciò soprattutto nel
contesto euclideo, che un segmento – retta terminata – sia un insieme di punti.
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Su un testo più vecchio, Palatini, A. & Reverberi Fagioli, V., 1963, Elementi di Geometria, Ghisetti
& Corvi, Milano, si trova una versione più astratta del ‘Teorema di Talete’ invocato prima, e
relativo a grandezze, senza utilizzare né insiemi, né parallelismo e neppure le misure.
«286. Teor. – Condizione necessaria e sufficiente affinché le grandezze di due gruppi in corrispondenza
biunivoca siano direttamente proporzionali è che a grandezze uguali dell’uno corrispondano grandezze
uguali dell’altro e alla somma di due o più grandezze qualunque del primo gruppo corrisponda la somma
delle grandezze corrispondenti del secondo gruppo.
a)
La condizione è necessaria:
Siano A, B, C, D,…, M, …; A’, B’, C’, D’, …, M’, … le grandezze dei due gruppi direttamente proporzionali e
sia quindi A:B = A’:B’. Se il primo rapporto ha valore 1, quindi risulterà anche A’:B’ = 1, ossia A’ = B’.
Dalla proporzione scritta, componendo, si trae (A+B):B = (A’+B’):B’, od anche, ponendo (A+B) = M, M:B =
(A’+B’):B’. .
Per le ipotesi fatte, la grandezza M appartiene al primo gruppo, quindi se si denota con M’ la grandezza
corrispondente del secondo gruppo, si deve avere M:B = M’:B’.
Dal confronto di questa proporzione con la precedente, in causa dell’unicità della quarta proporzionale, si ricava
M’ = (A’+B’), quindi resta provato che alla grandezza (A+B), corrisponde la grandezza (A’+B’).
Siccome il ragionamento vale, partendo da due qualunque grandezze del primo gruppo, abbiamo in questo modo
dimostrato che la condizione posta dal teorema è necessaria.
b) La condizione è sufficiente:
In primo luogo osserviamo che facendo la somma di n grandezze tutte eguali ad A, dall’ipotesi del teorema
risulta che alla grandezza nA del primo gruppo corrisponde la grandezza nA’ del secondo; e così pure alla
grandezza mB corrisponde la grandezza mB’.
Se nA = mB, si ha pure nA’ = mB’.
Supponiamo ora che sia nA > mB; vogliamo dimostrare che è pure nA’ > mB’. Infatti il dire che nA > mB
significa che nel primo gruppo esiste la grandezza C tale per cui risulta nA = (mB+C).
Se C’ è la grandezza corrispondente a C, per l’ipotesi fatta che alla somma di due grandezze del primo gruppo
corrisponde la somma delle grandezze corrispondenti del secondo, si avrà nA’ = (mB’+C’), il che significa che
nA’ > mB’.
Analogamente si dimostra che se fosse nA < mB, si avrebbe pure nA’ < mB’.
Dunque secondoché risulta A
m
B si ha in corrispondenza A’
n
m
B'. Da ciò deriva che i due rapporti A:B e
n
A’:B’ hanno gli stessi valori approssimati per difetto e per eccesso e sono perciò uguali.
Resta dunque dimostrato che il rapporto di due grandezze qualunque del primo gruppo è uguale a quello delle
grandezze corrispondenti del secondo gruppo, e se ne conclude che i due gruppi sono direttamente proporzionali.
Questo teorema sarà ricordato come Criterio generale di proporzionalità.»
Sicuramente il confronto tra l’accuratezza e la precisione espositiva tra i due testi è tutta a favore
del secondo, anche se evita il termine ‘insieme’, sostituendolo con ‘gruppo’, ma non si preoccupa
del fatto che tale ‘gruppo’ sia chiuso per addizione, sottrazione e multipli di grandezze che gli
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appartengono. Interessante anche il fatto che l’eguaglianza di rapporti venga desunta
dall’approssimazione, e non sia vista come definizione.
Questo ‘Criterio generale di proporzionalità’ rivela il ruolo centrale che hanno le Propp. V.11, V.17
e V.18 nella considerazione delle grandezze, per definire classi o gruppi di grandezze proporzionali.
Euclide che non ha nel suo lessico né le corrispondenze biunivoche e neppure gli insiemi, di fatto
prova nei Libri successivi al V che certe classi di grandezze sono direttamente proporzionali.
III.6. Il Libro VI.
III.6.1. Caratteri generali del Libro VI. Il Libro VI è dedicato di nuovo a contenuti più prettamente
geometrici, ricavati applicando la teoria delle proporzioni.
Sembra abbastanza probabile che tale tipo di Geometria fosse studiato e praticato in epoche
precedenti a Euclide ed una traccia di ciò si ha nella Def. III.11 in cui si parla di segmenti circolari
simili, senza avere definito la similitudine, come se fosse chiaro per il lettore a cosa ci si riferisse,
prima di affrontare l’argomento nella opportuna generalità.
D’altra parte non è pensabile che le conoscenze geometriche pratiche non si avvalessero della
similitudine. Dal passo:
«Possiederà in modo idoneo la scienza colui che, avendo la concezione del cerchio in sé, della sfera in sé divina,
ignora questa sfera umana e questi cerchi, e avendo bisogno per costruire una casa si serve di quelli e similmente di
altre rette (righe) e di altri cerchi?».
del Filebo di Platone abbiamo la conferma che gli strumenti geometrici erano usati dagli antichi
costruttori, e sicuramente nella fase di progettazione degli edifici, si saranno avvalsi di disegni in
scala che quindi utilizzavano la similitudine.
La crisi degli incommensurabili aveva però gettato dubbi sulla liceità del considerare rapporti
razionali, si trattava quindi di ‘salvare’ la conoscenza pregressa integrandola e completandola alla
considerazione di rapporti irrazionali. Questa fase di sviluppo è comunemente attribuita ad Eudosso.
L’avere ritardato la presentazione della teoria delle proporzioni, forse per motivi di carattere
didattico, non impedisce ora ad Euclide di rivolgersi al suo pubblico con toni più rassicuranti.
Infatti, dopo il livello di astrazione raggiunto col Libro V, si torna ora alla Geometria mostrando
come tale teoria possa essere utile per la presentazione di risultati, sicuramente noti anche prima, in
cui le proporzioni giocano ora un importante ruolo, ma ora senza porsi il problema se i rapporti
siano razionali oppure no.
Si deve provare se la similitudine di figure (uguaglianza di forma) è una nuova specie di
uguaglianza e analizzare in che rapporto stia con l’uguaglianza vista prima come equiestensione.
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Ciò sarà ottenuto con la Prop. VI.16. Ma proprio mediante questo risultato si potranno recuperare
alcuni risultati già provati nei primi libri senza fare ricorso alla teoria delle proporzioni, utilizzando
esclusivamente l’eguaglianza di equiestensione.
Un esempio è dato dalla determinazione della quarta proporzionale dopo tre grandezze date, la cui
esistenza, come si è già commentato, utilizza un’implicita richiesta di continuità, ad esempio nella
Prop. V.18, ma tale problema era stato risolto mediante l’applicazione parabolica delle aree, grazie
alla Prop. I.43. Questo quesito viene ripreso ora con la Prop. VI.12.
Analogamente la Prop. II.14 spiegava come fosse possibile, dato un rettangolo costruire il quadrato
ad esso equivalente ed ora viene presentata di nuovo come la Prop. VI. 13, di costruzione del medio
proporzionale in una proporzione continua.
Anche il problema della costruzione della sezione aurea di un segmento, che è trattato nella Prop.
II.11, con mezzi elementari viene nuovamente espresso come la costruzione della media
proporzionale tra una retta e la sua parte minore, è presente come definizione nel Libro VI come
Def. VI.3 e come Prop. VI.30.
Vi sono poi problemi presentati in libri precedenti che in questo vengono generalizzati, in
particolare invece di considerare angoli retti, ad angoli arbitrari. Di fatto anche alcuni risultati
precedenti, ad esempio le Propp. I.44 e I.45, si muovevano in questa ottica. Si collocano in questo
filone di ricerche le generalizzazioni delle Propp. II.5 e II.6 che divengono ora le Propp. VI.28 e
VI.29.
Dato il rapporto tra eguaglianza e similitudine, alcuni risultati sono ora relativi alla costruzione non
di figure ‘uguali’, ma simili, in condizioni date. Questo avviene nella Prop. VI.25.
L’importanza fu riconosciuta già nell’antichità. Narra Plutarco che questo risultato fu ottenuto da
Pitagora, attribuzione che risulta falsa, ma che da uno che viveva come schiavo nel mondo romano
poteva essere importante mostrare i ‘quarti di nobiltà’ intellettuale del suo popolo, in grado da
ricavare fin dai tempi più remoti, un risultato di grande interesse. Aggiunge Plutarco che Pitagora
avrebbe sacrificato agli dei in ringraziamento per l’ispirazione ricevuta.
Di fatto questo risultato, assieme ad altri che parlano di rapporto duplicato, sono utili, non a
Euclide, ma nella pratica, per determinare l’area delle figure piane, nota l’area del triangolo e del
rettangolo.
In questo Libro si presenta quindi la teoria della similitudine, che assieme a quanto visto nei primi
quattro libri fornisce quello che solitamente viene insegnato nella scuola e ‘etichettato’ col nome di
Geometria euclidea piana. Con gli occhi di oggi, si può quindi vedere la Geometria euclidea piana
come lo studio delle isometrie e della similitudine.
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Per identificare quella che solitamente viene ritenuta Geometria classica piana manca ancora il
metodo di esaustione che sarà presentato nel Libro XI. Alla Geometria dello spazio o Stereometria,
sono dedicati gli ultimi tra Libri, ma è sintomatico che oggi spesso non la Stereometria non è
oggetto di insegnamento, perdendo così un’importante occasione di contribuire alla visione
spaziale.
III.6.2. Le definizioni del Libro VI. Il Libro si apre con tre definizioni:
«Definizione VI.1. Sono figure rettilinee simili quante abbiano gli angoli, uno ad uno, rispettivamente uguali, e
proporzionali i lati che comprendono gli angoli uguali.
Definizione VI.3. Si dice che una retta risulta divisa in estrema e media ragione, quando tutta la retta sta alla
parte maggiore di essa come la parte maggiore sta a quella minore.
Definizione VI.4. In ogni figura, è altezza la perpendicolare condotta dal vertice sulla base.»
III.6.2.1. Altre definizioni. Il salto da 1 a 3, nella numerazione delle Definizioni non è un errore di
battitura, manca la Def. VI. 2, o meglio, sul testo di Heiberg è riportata in greco e in latino una Def.
VI.2, e solo in greco anche una Def. VI.5.
«Definizione VI.2. Reciprocae autem figurae sunt, ubi in utraque figura et praecedentes et sequentes rationes
sunt. »
che potrebbe essere tradotta come
«Definizione VI.2. E sono figure reciproche quelle in ciascuna delle quali i rapporti sono tra gli antecedenti e i
conseguenti.»
e
«Definizione VI.5. Un rapporto si dice composto di altri rapporti, quando le quantità di tali rapporti moltiplicate
tra loro ne danno un altro. ».
A proposito della Def. VI.2, Heiberg rileva che si tratta di un testo oscuro, cui non si riesce ad
attribuire un significato geometrico intelligibile, che non viene mai richiamata da Euclide. Inoltre
suppone che essa sia il risultato di una interpolazione originata da Erone, che la presenta in un suo
altro scritto.
Un giudizio analogo di Heiberg è relativo alla Def. VI.5. Altri commentatori la ritengono originale.
A favore della tesi di Heiberg c’è il fatto che non se ne fa menzione nella traduzione degli Elementi
dall’arabo di Giovanni Campano da Novara (1220-1296), è una definizione incompleta e di dubbia
utilità geometrica. Inoltre i manoscritti che riportano tale definizione, non sono concordi nell’assegnarla
al Libro VI. Si tratterebbe di un’interpolazione di un copista, probabilmente anteriore a Teone.
I fautori dell’autenticità rilevano che un qualcosa di analogo viene usato nel Libro VI, a partire dalla
Prop. VI.23 ed inoltre il fatto che essa è riportata nel manoscritto Vaticano, seppure solo a margine.
III.6.2.2. Commento alla tre definizioni date. Torniamo alle definizioni accettate come autentiche.
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La prima richiama la Def. I.19, in cui si precisa cosa debba essere inteso per trilatero, quadrilatero e
multilatero. Tale figura oggi prende il nome di poligono, spostando l’attenzione dagli spigoli agli angoli.
La definizione introduce ufficialmente la similitudine, anche se restano esclusi i segmenti circolari
(e tutte le figure non poligonali) che hanno meritato una menzione a parte anticipata al Libro III.
Per quanto riguarda la Def. VI.3 si può obiettare che essa sia fuori posto: o la si inseriva più che una
definizione vera e propria, dopo la Prop. II.11, ma in tal caso poteva essere espressa solo in termini
di rettangoli e quadrati, oppure essa ha senso solo dopo la Prop. VI.30, cioè solo dopo averne
provato l’esistenza.
Questa definizione però può essere vista anche solo per stabilire una nomenclatura di cose già note.
E forse questa ne è la vera origine, visto che di sezione aurea di un segmento si erano già interessati
artisti e architetti nello stabilire i canoni della bellezza. Come infatti detto sopra, gli architetti del
Partenone, Ictino e Callicrate ne avevano fatto uso e se ne può trovare traccia anche nella statuaria
greca.
Infine nella Def. VI.4, si parla genericamente di figura, non necessariamente rettilinea, ed allora
risulta assai difficile comprendere che cosa sia un’altezza. Il concetto richiede dei vertici, quindi
dovrebbe essere una figura rettilinea, o almeno parzialmente tale, ma bisognerebbe individuarne
«[…]la base», come viene richiesto dalla definizione stessa.
E’ poi assai rilevante l’uso (in italiano) degli articoli determinativi che sembrano fare pensare ad un
solo vertice e ad una sola base.
Già in altri casi si è parlato di base, ad iniziare dalla Prop.I.4, senza sentire bisogno di definirla e per
lo più con riferimento ai triangoli, ma finora si era evitato di parlare di altezza, preferendo indicare
la presenza di rette parallele. Così invece di affermare che due parallelogrammi con basi eguali ed
altezze eguali sono uguali, Euclide afferma
«Proposizione I.36. Parallelogrammi che siano posti su basi uguali e fra le stesse rette parallele sono uguali fra
loro.»
Invece già nella
«Proposizione VI.1. Triangoli e parallelogrammi che abbiano la stessa altezza stanno fra loro come le loro basi.»
è presente il concetto di altezza, appena definito.
Ci si può chiedere perché ci sia questo ritardo di presentazione del concetto di altezza, quando già
nel Libro I si parlava di rette perpendicolari, Def. I.10. Una possibile risposta è che l’analogo della
Prop. I.36 espressa con l’altezza non mette in luce che sotto tale concetto c’è la teoria delle rette
parallele, come invece viene evidenziata dal testo della Prop. I.36 e delle altre in cui si usa l’altezza,
ma non la si nomina.
D’altra parte Euclide nella Prop. VI.8 potrebbe semplificare l’enunciato usando l’altezza, ma
preferisce evitarla.
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III.6.3. Alcune Proposizioni del Libro VI. Il Libro presenta 33 Proposizioni + 2 Corollari. Quella più
citata nel seguito è la prima.
- Le Propp. VI.1 – VI.8 + Corollario e la Prop. VI.32 sono relativi ai triangoli; tra esse le Propp.
VI.4, VI.5 e VI.6, VI.7 sono i cosiddetti Criteri di similitudine dei triangoli. Esse
costituiscono l’ossatura della geometria della similitudine.
- Le Propp. VI.9 – VI.12 riguardano la costruzione del quarto proporzionale e nella Prop. VI.13
la media proporzionale.
- Le Propp. VI.14 e VI.15 sono relative a parallelogrammi e triangoli con proporzionalità
inverse.
- Le Propp. VI. 16 e VI.17 svolgono costruzioni a partire da rette date, sotto le condizioni di
proporzionalità.
- La Prop. VI.18 è la costruzione di un poligono simile ad uno dato, partendo da un lato
assegnato. Con la Prop. VI.25 si riesce a costruire un poligono simile ad uno dato, equiesteso
ad un secondo poligono assegnato. Come si diceva sopra, queste Proposizioni sono utili nella
pratica della misura per determinare l’area di un poligono.
- Le Propp. VI.19 – VI.20 + Corollario mostrano che nei triangoli e nei poligoni simili
l’estensione piana è proporzionale ai quadrati dei lati.
- Le Propp. VI.21 – VI.22 mostrano la proprietà transitiva della similitudine e rapporto tra
similitudine e proporzioni, di fatto definendo la similitudine come una relazione di
equivalenza compatibile con le altre relazione ed operazioni.
- Le Propp. VI.23 VI.24 e VI.26 – VI.29 parlano di parallelogrammi, e la Prop. VI.26 è
l’inversa della Prop. VI.24.
- La Prop. VI.30, come detto prima, permette di costruire una proporzione continua.
- La Prop. VI.31 è la generalizzazione del Teorema di Pitagora.
- La Prop. VI.33 mette in proporzione angoli e archi in una circonferenza.
III.6.3.1. La prima Proposizione. Scendiamo nei dettagli, esemplificando alcune di queste
Proposizioni.
«Proposizione VI.1. Triangoli e parallelogrammi che abbiano la stessa altezza stanno fra loro come le basi.
Dimostrazione. Siano ABC, ACD [due] triangoli ed EACB, CAFD [due] parallelogrammi, aventi la stessa altezza
AC; dico che la base BC sta alla base CD come il triangolo ABC
E
sta al triangolo ACD e come il parallelogrammo EACB sta al
A
F
parallelogrammo CAFD.
Infatti, prolungata da ambedue le parti la retta BD sino ai punti
H, L, si pongano così quantesivoglia rette BG, BH uguali alla
base BC, e quantesivoglia rette DK, KL uguali alla base CD e si
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H
G
B
C
D
K
L
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traccino [infine] le congiungenti AG, AH, AK, AL.
Ora poiché CB, BG, GH sono uguali fra loro, anche i triangoli ABC, AGB, AHG sono uguali fra loro (Prop. I.38).
Quindi la base HC è tante volte multipla della base BC quante volte è anche multiplo il triangolo AHC del
triangolo ABC. Per la stessa ragione, la base CL è tante volte multipla della base CD quante volte è anche
multiplo il triangolo ALC del triangolo ACD; e se la base HC è poi uguale alla base CL, pure il triangolo AHC è
uguale al triangolo ACL (Prop. I.38), se la base HC è maggiore della base CL, pure il triangolo AHC è maggiore
del triangolo ACL, e se la base HC è minore, anche il triangolo AHC è minore. Date così quattro grandezze, le
due basi BC, CD ed i due triangoli ABC, ACD, si sono prese altre grandezze equimultiple [qualunque] della base
BC e del triangolo ABC, cioè la base HC ed il triangolo AHC, e ancora altre grandezze equimultiple qualunque
della base CD e del triangolo ACD, cioè la base CL ed il triangolo ACL; ed è stato dimostrato che, se la base HC
supera la base CL, anche il triangolo AHC supera il triangolo ALC, se HC è uguale a CL, corrispondentemente
AHC è uguale ad ALC, e se HC è minore, AHC è minore; perciò la base BC sta alla base CD come il triangolo
ABC sta al triangolo ACD (Def. V.5).
E poiché il parallelogrammo EACB è il doppio del triangolo ABC (Prop. I.41), mentre il parallelogrammo CAFD
è il doppio del triangolo ACD, e due grandezze hanno fra loro lo stesso rapporto di grandezze equimultiple (cioè
A:B = mA:mB) (Prop. V.15), il triangolo ABC sta al triangolo ACD come il parallelogrammo EACB sta al
parallelogrammo CAFD. Poiché dunque fu dimostrato che la base BC sta alla base CD come il triangolo ABC sta
al triangolo ACD, e che il triangolo ABC sta al triangolo ACD come il parallelogrammo EACB tra al
parallelogrammo CAFD, si ha pure che la base BC sta alla base CD come il parallelogrammo EACB sta al
parallelogrammo CAFD (Prop. V.11).»
Alla luce delle considerazioni poste al termine di III.5, si possono riconoscere nell’enunciato e nella
dimostrazione della Prop. VI.1 i passi indispensabili per dire che le basi e i triangoli (i
parallelogrammi) di data altezza costituiscono due classi di grandezze direttamente proporzionali.
E’ evidente che il triangolo sta per la sua area e che sotto sotto c’è la determinazione dell’area del
triangolo.
Il testo euclideo sembra trattare un caso particolare, in cui i due triangoli considerati all’inizio della
dimostrazione sono rettangoli, con un cateto in comune. Nella versione di Teone si considerano
invece triangoli e parallelogrammi che abbiano altezza uguale, invece che la stessa altezza. Così il
generico parallelogramma è un rettangolo. Comunque queste limitazioni ai triangoli rettangoli ed ai
rettangoli non inficiano la generalità della Proposizione.
Il testo pone attenzione che i vari segmenti siano posti ‘per diritto’, in modo che AC sia l’altezza
comune, prendendoli sui prolungamenti di BC, considerando la retta ‘terminata’ HL, dopo di che il
« quantesivoglia rette» assume una connotazione di difficile accettazione oggi: se Euclide sa già dove
sono i punti H e L, non ha molta possibilità di indicare una quantificazione universale sui numeri
naturali, o meglio lo può fare solo da H ‘in giù’, a riprova che l’infinito che lui considera è un
infinito ‘sotto controllo’, quindi anche qui i multipli generici sono rispetto a 4.
Questa Prop. VI.1 è applicata a 54 altre Proposizioni degli Elementi ed è la più citata del Libro VI.
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
In questa Prop. VI.1 non si parla ancora di similitudine di figure, per confermare, ancora una volta
che le prime Proposizioni di un Libro hanno un ruolo introduttivo ai risultati che invece riguardano
il nucleo concettuale del Libro stesso. Nel Libro VI questa ‘introduzione’ riguarda le prime tre
Proposizioni:
«Proposizione VI.2. Se in un triangolo si conduce una retta parallela ad uno dei lati, essa divide
proporzionalmente i [due altri] lati del triangolo; e se due lati di un triangolo sono divisi proporzionalmente, la
retta che congiunge i punti di divisione sarà parallela al rimanente lato del triangolo […].
Proposizione VI.3. Se in un triangolo un angolo viene diviso per metà, e la retta che divide l’angolo divide anche
la base, le parti nelle quali viene divisa la base avranno lo stesso rapporto che i rimanenti due lati del triangolo; e
se le parti nelle quali la base [di un triangolo] viene divisa hanno lo stesso rapporto che i due rimanenti lati del
triangolo, la retta che congiunge il vertice, col punto di divisione dividerà per metà l’angolo del triangolo.»
La Prop. VI.2 insegna a disegnare triangoli simili ad uno dato, mediante rette
parallele, la Prop. VI.3 tratta di una proprietà fondamentale della bisettrice di un
angolo, dimostrandola mediante rette parallele.
Lo stretto legame tra similitudine e parallelismo, illustrato dalla Prop. VI.2 e dai
successivi Criteri di similitudine dei triangoli non è casuale. Infatti Wallis e
John Wallis
(1616-1703)
Saccheri mostreranno che il Post. 5, delle parallele, è equivalente all’esistenza di
triangoli simili diversi.
III.6.3.2. I Criteri di similitudine. Vediamo ora i cosiddetti Criteri di similitudine dei triangoli. C’è
uno stretto rapporto con alcuni dei Criteri di congruenza, potendosi ritenere quelli presentati nel
primo Libro un caso particolare di quelli presentati nel Libro VI.
«Proposizione VI.4. Nei triangoli aventi gli angoli rispettivamente uguali i
F
lati che comprendono gli angoli uguali sono proporzionali, essendo
omologhi (cioè corrispondentisi) quelli opposti agli angoli uguali.
A
Dimostrazione. Siano ABC, DCE triangoli aventi gli angoli rispettivamente
uguali, cioè aventi uguali l’angolo ABC all’angolo DCE, l’angolo BAC
all’angolo CDE, ed infine l’angolo ACB all’angolo CED; dico che nei
D
B
triangoli ABC, DCE i lati comprendenti gli angoli uguali sono proporzionali,
corrispondendosi (cioè, essendo omologhi) quelli opposti agli angoli uguali.
C
E
Infatti, si ponga BC in linea retta con CE. Ora poiché la somma degli angoli
ABC, ACB è minore di due retti (Prop. I. 17) e l’angolo ACB è uguale all’angolo DEC, la somma di ABC, DEC è
minore di due retti; BA, ED quindi, se prolungate si incontreranno (Post. 5). Risultino esse prolungate e si
incontrino in F.
E poiché l’angolo DCE è uguale all’angolo ABC, si ha che BF è parallela a CD (Prop. I.28). Di nuovo, poiché
l’angolo ACB è uguale all’angolo DEC, è parallela AC a FE (id.). Quindi FACD è un parallelogrammo; FA è
perciò uguale a DC, ed AC è uguale a FD (Prop. I.34). E poiché nel triangolo FBE risulta che AC è condotta
parallela ad uno dei lati, cioè a FE, si ha che BA:AF = BC:CE (Prop. VI.2). Ma AF è uguale a CD; quindi BA:AF
= BC:CE, e permutando: BA:BC = CD: CE (Prop. V.16). Di nuovo, poiché CD è parallela a BF, si ha: BC:CE =
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
FD:DE (Prop. VI.2). Ma FD è uguale ad AC, per cui BC:CE = AC:DE, e, permutando BC:AC = CE:DE (Prop.
V.16). Poiché dunque fu dimostrato che BA:BC = CD:CE, e che BC:AC = CE:DE, si ha, ex aequo, che BA:AC =
CD:DE (Prop. V.22).
BA
BC
AC
CD
CE
DE.»
La citazione dei rapporti ex aequo richiama direttamente la Def. V.17.
In questa dimostrazione si suppone che i due triangoli
abbiano un vertice in comune e due lati corrispondenti avente
il vertice in comune, uno sul prolungamento dell’altro
(caratteristiche non richieste dal testo). Si tratta di una
situazione assai speciale, ad esempio la dimostrazione non
contempla il caso, per altro possibile, che un triangolo sia
all’interno dell’altro e che i lati omologhi siano paralleli,
come nella figura qui a fianco) perché in un caso si ricadrebbe
nella Prop. VI.2 e in tutti i casi in un tipo particolare di similitudine, dato dall’omotetia, concetto
non presente in Euclide. Il centro di omotetia nei triangoli è evidenziato in rosso. E’ altresì escluso
il caso in cui un vertice sia in comune e che due coppie di lati omologhi siano tali che un lato sia sul
prolungamento del lato omologo. Anche in questo caso si ha un’omotetia. D’altra parte per i
risultati di trasporto di rette ed angoli, è sempre possibile ricondursi a queste situazioni.
Le dimostrazioni della proporzionalità dei lati andrebbero riconsiderate profondamente nel caso del
secondo triangolo interno e senza punti in comune col primo.
Nella dimostrazione compaiono delle proporzioni in cui sono utilizzate segmenti di triangoli
diversi, per poi riportarle a eguaglianza di rapporti tra lati di uno stesso triangolo, grazie alla Prop.
V.16.
Si ha poi
«Proposizione VI.5. Se due triangoli hanno i lati proporzionali, i triangoli saranno tra loro equiangoli ed avranno
[rispettivamente] uguali gli angoli opposti ai lati omologhi, cioè ai lati che si corrispondono nella proporzione.
Dimostrazione. Siano ABC, DEF due triangoli aventi i lati proporzionali, in modo che AB stia a BC come DE sta
a EF, che BC stia a CA come EF sta a FD, ed infine che AB stia a CA come DE sta a FD[, cioè in modo che
valgano le proporzioni AB:BC = DE:EF; BC:CA = EF:FD; AB:CA = DE:FD]. Dico che il triangolo ABC ha gli
angoli rispettivamente uguali a quelli del triangolo DEF e che nei due triangoli saranno uguali gli angoli opposti
ai lati monologhi, cioè l’angolo ABC uguale all’angolo DEF, quello BCA uguale a quello EFD, ed infine BAC
uguale ad EDF.
Infatti, si costruiscano sulla retta EF, e con vertici rispettivamente nei suoi punti E, F, l’angolo FEG uguale
all’angolo ABC, e l’angolo EFG uguale all’angolo ACB (Prop. I.23); il rimanente angolo in A è perciò uguale al
rimanente angolo in G (Prop. I.32).
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Carlo Marchini
Il triangolo ABC ha quindi gli angoli rispettivamente uguali a quelli del triangolo GEF. Perciò nei triangoli ABC,
GEF i lati comprendenti gli angoli uguali sono proporzionali, corrispondendosi quelli opposti agli angoli uguali
(Prop. VI.4); quindi AB:BC = GE:EF. Ma [per ipotesi] AB:BC = DE:EF, per cui si ha: DE:EF = GE:EF (Prop.
V.11).
Ciascuna delle due rette DE, GE ha quindi il medesimo rapporto rispetto ad EF, sicché DE è uguale a GE (Prop.
V.9). Per la stessa ragione, anche DF è uguale a GF. Poiché dunque DE è uguale ad EG, ed EF è comune, i due
lati DE, EF sono uguali ai due lati GE, EF; e la base DF è uguale alla base FG; l’angolo DEF è quindi uguale
all’angolo GEF (Prop. I.8), il triangolo DEF è uguale al triangolo EFG, e gli angoli rimanenti del primo, ossia
quelli opposti ai lati uguali, sono uguali ai rispettivi angoli rimanenti del secondo (Prop. I.4). Perciò sono uguali
pure l’angolo DFE all’angolo GFE, e l’angolo EDF all’angolo EGF. Ora poiché l’angolo DEF è uguale
all’angolo GEF, ma l’angolo GEF è uguale all’angolo ABC, anche gli angoli ABC, DEF sono uguali. Per la
stessa ragione, pure l’angolo ACB è uguale all’angolo DFE, infine l’angolo in A è uguale all’angolo in D; il
triangolo ABC ha quindi i suoi angoli rispettivamente uguali a quelli del triangolo DEF. »
Le Propp. VI.4 e VI.5 sono una l’inversa dell’altra, la prima ottenendo la proporzionalità dei lati
dall’uguaglianza degli angoli, la seconda ottenendo l’uguaglianza degli angoli dalla proporzionalità
dei lati. Ma il complesso delle Propp. VI.4 e VI.5 mostra come delle richieste contemporanee della
Def. VI.1, di eguaglianza degli angoli e proporzionalità dei lati, ne basterebbe una, potendosi
ottenere l’altra.
Questo Criterio di similitudine (il complesso delle Propp. VI. 4 e VI.5) generalizza il ‘terzo’
Criterio di congruenza dei triangoli,
«Proposizione I.8. Se due triangoli hanno due lati rispettivamente uguali a due lati, ed hanno anche la base
uguale alla base, avranno uguali anche gli angoli compresi dai lati uguali. »
in quanto se i lati sono uguali, il rapporto tra due lati omologhi è 1, quindi sono banalmente in
proporzione si ottiene a congruenza dei triangoli stessi. Tuttavia questa affermazione non è corretta
dal punto di vista sostanziale, attenendosi alla presentazione euclidea, dato che nella dimostrazione
della Prop. VI.5, che è quella che più assomiglia alla Prop. I.8, si richiama proprio la Prop. I.8.
Inoltre scorrendo le due dimostrazioni è indispensabile osservare che le proporzioni scritte mettono
dai due lati dell’eguaglianza i rapporti tra lati dello stesso triangolo, mentre il caso che porterebbe al
Criterio di congruenza è che il rapporto di lati omologhi, uno nel primo e il corrispondente nel
secondo sia 1. Tali rapporti non vengono utilizzati in quanto i lati dello stesso triangolo vengono
intesi come grandezze omogenee, mentre lati di triangoli diversi no.
La figura riportata nella dimostrazione inganna: il triangolo GEF è costruito con gli angoli uguali al
triangolo ABC, non come simmetrico di DEF, che ha i lati in proporzione con ABC, anche se così
appare nel disegno
«Proposizione VI.6. Se due triangoli hanno [rispettivamente] un angolo uguale ad un angolo, e proporzionali i
lati comprendenti i due angoli uguali, i triangoli saranno fra loro equiangoli; avranno cioè rispettivamente uguali
gli angoli opposti ai lati omologhi.
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Dimostrazione. Siano ABC, DEF due triangoli aventi rispettivamente un angolo, cioè BAC, uguale ad un angolo,
EDF, e proporzionali i lati comprendenti i due angoli uguali, in modo che BA sia ad AC come ED sta a DF; dico
che il triangolo ABC ha gli angoli rispettivamente uguali a quelli del triangolo DEF, e l’angolo ACB uguale
all’angolo DFE.
A
D
D, F, l’angolo FDG uguale all’uno o all’altro indifferentemente degli angoli
F
E
B
Infatti, si costruiscano sulla retta DF, e rispettivamente coi vertici nei suoi punti
G
C
BAC, EDF, e l’angolo DFG uguale all’angolo ACB (Prop. I. 23); quindi il
rimanente angolo in B [del primo triangolo dato] è uguale al rimanente angolo in
G [del triangolo costruito] (Prop. I.32).
Il triangolo ABC ha perciò gli angoli rispettivamente uguali a quelli del triangolo
DFG. Si ha quindi la proporzione BA:AC = GD:DF (Prop. VI.4). Ma anche, per ipotesi, BA:AC = ED:DF; quindi
anche ED:DF = GD:DF (Prop. V.11). Perciò ED è uguale a GD (Prop. V.9) e DF è comune [ai due triangoli
DEF, DGF], sicché i due lati ED, DF sono uguali ai due lati GD, DF; e l’angolo EDF è uguale all’angolo GDF;
la base EF è quindi uguale alla base GF, il triangolo DEF è uguale al triangolo DGF, e gli angoli rimanenti del
primo, ossia quelli opposti ai lati uguali, saranno uguali ai rispettivi angoli rimanenti del secondo (Prop. I.4).
L’angolo DFG è così uguale all’angolo DFE, e l’angolo DGF è uguale all’angolo DEF. Ma l’angolo DFG è
uguale all’angolo ACB, per cui anche gli angoli ACB, DFE sono fra loro uguali. Ma, per ipotesi, sono uguali
pure gli angoli BAC, EDF; quindi anche il rimanente angolo in B [del triangolo dato ABC] è uguale al rimanente
angolo in E [dell’altro] (Prop. I.32), il triangolo ABC ha perciò tutti gli angoli rispettivamente uguali a quelli del
triangolo DEF.»
Questo Criterio di similitudine è in relazione con il primo Criterio di congruenza dei triangoli, la
Prop. I.4 che viene utilizzata nella dimostrazione. La Prop. I.4 potrebbe ritenersi un caso particolare
della Prop. VI.6, così come detto prima, con tutti i distinguo del caso.
Euclide presenta un ulteriore Criterio di similitudine dei triangoli, il cosiddetto caso ambiguo, che
potrebbe avere un corrispettivo (di facile enunciazione) nel Libro I, ma che non è presente. Manca
quindi il cosiddetto secondo Criterio di similitudine, corrispondente al secondo Criterio di
congruenza, vale a dire il caso in cui sono assegnati opportunamente un lato e gli angoli adiacenti.
Si riporta qui, senza dimostrazione la
«Proposizione VI.7. Se due triangoli hanno rispettivamente un angolo uguale ad un angolo, proporzionali i lati
comprendenti un’altra coppia di angoli, ed i rimanenti [terzi ] angoli o tutti e due minori, oppure ambedue non
minori di un angolo retto, i triangoli saranno tra loro equiangoli: avranno cioè
rispettivamente uguali gli angoli compresi fra i lati proporzionali.»
D
A
Riferendosi al disegno, si chiede che gli angoli BAC e EDF siano eguali e
G
che AB:BC = DE:EF. Si parla di caso ambiguo perché si ha anche AB:CD
= DE:EG. Senza la condizione che gli angoli BCA e AFD siano
B
C
contemporaneamente maggiori o minori di un angolo retto, sarebbero
possibili due casi distinti: in uno si avrebbe la similitudine (F), nell’altro (G) no.
Non è difficile immaginarsi un Criterio di congruenza ambiguo analogo alla Prop. V.7.
- 112 -
E
F
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III.6.3.3. I sottomultipli. In precedenza si è già vista e dimostrata la Prop. VI.12. nel paragrafo III.2.
Si vuole ora mostrare come essa aprirebbe alla considerazione dei
A
sottomultipli di un segmento, il condizionale è d’obbligo, dato che
B
Euclide non sembra interessato al problema.
E
C
G
B'
Prima però un’osservazione sulla dimostrazione della Prop. VI.12, che
A'
D
qui si ricopia:
«Proposizione VI.12. Date tre rette, trovare la quarta proporzionale.
C'
Dimostrazione. Siano A, B, C le tre rette date; si deve dunque trovare la quarta
H
proporzionale dopo A, B, C.
X
F
Si assumano le due rette DE, DF tali da comprendere un angolo qualsiasi EDF, si
ponga DG uguale ad A, si pongano GE uguale a B, ed ancora DH uguale a C, e tracciata la congiungente GH, si
conduca per E la retta EF ad essa parallela (Prop. I. 31).
Poiché dunque, nel triangolo DEF, la retta GH risulta condotta parallela ad uno dei lati, cioè ad EF, si ha: DG :
GE = DH : HF (Prop. VI.2). Ma DG è uguale ad A, mentre GE è uguale a B, e DH è uguale a C; perciò A sta a B
come C sta a HF.
Dunque date le tre rette A, B, C è stata trovata la quarta proporzionale HF [dopo di esse].»
L’esistenza del punto di intersezione F tra le rette DF e la retta parallela per E a GH, non è
giustificata. Ma basta osservare che l’angolo DGH è uguale all’angolo DGF, per la:
«Proposizione I.29. Una retta che cada su due rette parallele forma angoli alterni uguali tra loro, l’angolo esterno
uguale all’angolo interno ed opposto ed angoli interni dalla stessa parte uguali a due rette.»
Considerato ora il triangolo DHG, per la
«Proposizione I.17. In ogni triangolo la somma di due angoli, comunque presi è minore di due retti.»,
quindi HDG + DGH è minore di due retti. Ma DGH = DEF, quindi per la Noz. com. 2, HDG +
DEF è minore di due retti. Di qui, per il Post. 5, le rette DH e EF tagliate da DE si incontreranno.
Esiste pertanto un punto F comune a DH e EF. (Si è conservato l’uso euclideo di citare dei punti
anche prima di averne dimostrata l’esistenza).
C
F
E
D
A
Queste
considerazioni
permettono
di
provare
l’esistenza
dei
sottomultipli. Infatti sia data una ‘retta’ AB. Si consideri un arbitrario
numero naturale, ad esempio 3 e due (semi)rette AB e AC distinte in
modo tale che esse comprendano un angolo qualunque AD si ottenga per
trasporto di AB sulla retta AC, e sia E un ulteriore punto di AC ottenuto
B
G
trasportando AB in DE. Così pure si considera un punto F che si ottenga
trasportando AB in EF, ed infine C tale che sia ottenuto trasportando AB in FC. In conclusione AF =
3AD e AC = 4AD, tenendo conto che AB e AD sono congruenti. Per la Prop. VI.12, esiste il quarto
proporzionale tra AF, FC, AB, ed esso sarò dato da BG. Ma da AF:FC = AB:BG, si ricava che
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3AB:AB=AB:BG, per cui AB = 3BG, vale a dire si è trovata una segmento BG tale che il suo
multiplo secondo 3 è AB, quindi si può porre BG =
1
AB .
3
Il fatto che qui si sia usato il multiplo secondo 3, è facilmente generalizzabile ad un multiplo
qualunque.
III.6.3.4. I teoremi di Pitagora e di Euclide. Il titolo non è corretto, ma il Libro VI contiene alcuni
risultati connessi o generalizzazione del più consueto e noto Teorema di Pitagora ed ai Teoremi di
Euclide.
Qui si mostrano e commentano alcuni di questi risultati geometrici, resi possibili col nuovo
linguaggio delle similitudini.
Un primo risultato è la
«Proposizione VI.8. Se in un triangolo rettangolo si conduce la perpendicolare dall’angolo retto sulla base, la
stessa perpendicolare divide il triangolo in due triangoli simili a tutto quanto il triangolo e fra loro.
Dimostrazione. Sia ABC un triangolo rettangolo avente l’angolo BAC retto, e si conduca da A su BC la
perpendicolare AD; dico che ciascuno dei due triangoli ABD, ADC è simile a tutto quanto il triangolo ABC, e che
essi sono inoltre simili fra loro.
Infatti, poiché l’angolo BAC è uguale all’angolo ADB – difatti ciascuno di
A
essi è retto -, e l’angolo in B è in comune ai due triangoli ABC ed ABD, il
C
rimanente angolo ACB del primo triangolo è uguale al rimanente angolo
BAD del secondo (Prop. I.32); il triangolo ABC ha così tutti gli angoli
D
B
rispettivamente uguali a quelli del triangolo ABD. Quindi BC, che nel
triangolo ABC è lato opposto all’angolo retto, sta ad AB, che nel triangolo
ABD è opposto all’angolo retto, come lo stesso lato AB, che nel triangolo
ABC è opposto all’angolo in C, sta a BD, che nel triangolo ABD è opposto all’angolo uguale BAD, e come infine
AC sta ad AD, che è opposto[, come AC] all’angolo in B comune ai due triangoli[, ossia: BC:AB = AB:BD =
AC:AD] (Prop. VI.4). Il triangolo ABC ha quindi i suoi angoli rispettivamente uguali a quelli del triangolo ABD
ed i due triangoli hanno, insieme, proporzionali i lati comprendenti gli angoli uguali. Perciò il triangolo ABC è
simile al triangolo ABD (Def. VI.1). Similmente potremo dimostrare che il triangolo ABC è simile anche al
triangolo ADC, per cui ciascuno dei due triangoli ABD, ADC è simile a tutto quanto il triangolo ABC.
Dico adesso che i triangoli ABD, ADC sono simili anche tra loro.
Infatti poiché l’angolo retto BDA è uguale all’angolo retto ADC, ma fu tuttavia anche dimostrato che l’angolo
BAD è uguale all’angolo in C, pure il rimanente angolo in B del primo triangolo è uguale al rimanente angolo
DAC del secondo (Prop. I.32); il triangolo ABD ha quindi i suoi angoli rispettivamente uguali a quelli del
triangolo ADC. Perciò BD, che nel triangolo ABD è lato opposto all’angolo BAD, sta ad AD, che nel triangolo
ADC è opposto all’angolo in C uguale all’angolo BAD, come lo stesso lato AD, che nel triangolo ABD è opposto
all’angolo in B, sta a DC, che nel triangolo ADC è opposto all’angolo DAC uguale all’angolo in B, e come infine
BA sta ad AC, quei lati cioè che sono opposti agli angoli retti[, ossia BD:AD = AD:DC = BA:AC] (Prop. VI.4); il
triangolo ABD è quindi simile al triangolo ADC (Def. VI.1).
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Corollario. E’ da ciò evidente che, se in un triangolo rettangolo si conduce la perpendicolare dall’angolo retto
sulla base, la retta così condotta è media proporzionale fra le parti nelle quali essa divide la base.»
In questa coppia di risultati ci sono molti punti interessanti che vale la pena di osservare.
Euclide usa l’altezza, ma sembra si sia dimenticato di averla definita nella Def. VI.4, forse perché in
quel contesto era troppo generale, per non dire vaga. Eppure parla di base e di perpendicolare alla
base mandata da un vertice!
In questa Proposizione si prova che, nel caso speciale di triangoli rettangoli, la relazione di
similitudine è transitiva, o meglio ‘euclidea’, vale a dire che due triangoli rettangoli simili ad un
terzo triangolo rettangolo sono simili tra loro. Il fatto che siano rettangoli è del tutto accidentale,
perché se i triangoli T e T’ sono simili al triangolo T”, allora gli angoli di T sono uguali a quelli di
T” e quelli di T’ sono uguali a quelli di T”, quindi gli angoli di T e T’ sono uguali, quindi T e T’
sono simili. La cosa avrebbe dovuta essere esplicitata meglio, ma lo spirito è questo. La
generalizzazione ai poligoni viene in qualche modo portata avanti dalla Prop. VI.20.
Nella dimostrazione compare una proporzione continua: «BD:AD = AD:DC» che viene poi evidenziata
nel Corollario. Sui manuali scolastici tale risultato prende il nome di 2° Teorema di Euclide,
risultato che ha numerose applicazioni, ad esempio nella successiva Prop. VI.13 che viene
presentata come un problema di costruzione geometrica:
«Proposizione VI.13. Date due rette trovare [fra esse] la media proporzionale».
Con tale costruzione si risolve il problema di quadrare il rettangolo, vale a dire
dato un rettangolo mediante i due lati, si costruisce il quadrato equivalente al
rettangolo. Il problema era stato già risolto nella Prop. II.14, ma con mezzi diversi
da quelli disponibili adesso.
Ora non è chiaro se sia proprio ed esclusivamente opera di Euclide. Quello che, sempre sui manuali
scolastici, è indicato col nome di 1° Teorema di Euclide è un’affermazione presente nella
dimostrazione della Prop. I.47, il Teorema di Pitagora. Se si accredita ad Euclide la scelta
espositiva, forse è corretto che i due risultati menzionati gli siano attribuiti.
La Prop. VI.8 è equivalente al Teorema di Pitagora, stavolta dimostrato col linguaggio delle
proporzioni. Di ciò ci sarà modo di convincersi con i risultati che seguiranno. La dimostrazione
presentata nel Libro VI è meno complessa e richiede poco o nulla, ben inteso, oltre alle proporzioni
ed alla proprietà della somma degli angoli interni di un triangolo.
Il Teorema di Pitagora viene generalizzato nella
«Proposizione VI.31. Nei triangoli rettangoli la figura descritta sul lato opposto all’angolo retto è uguale alla
somma delle figure simili e similmente descritte sui lati che comprendono l’angolo retto. 1
1 In latino: «In triangulis rectangulis figura descripta in latere sub recto angulo subtendenti aequalis est figuris in lateribus rectum
angulum comprehendentibus similibus et similiter descriptis»
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Dimostrazione. Sia ABC un triangolo rettangolo che abbia retto l’angolo BAC; dico che la figura descritta su BC
è uguale alla somma delle figure simili e similmente descritte su BA,
AC.
A
Si conduca la perpendicolare AD [su BC].
C
Poiché dunque nel triangolo rettangolo ABC è stata condotta la
perpendicolare AD dal vertice dell’angolo retto in A sulla base BC, i
D
B
triangoli ABD, ADC adiacenti alla perpendicolare sono simili a tutto
quanto il triangolo ABC e fra loro (Prop. VI.8). E poiché ABC è simile
ad ABD, si ha che BC:AB = AB: BD (Def. VI.1). Ma poiché tre rette
sono proporzionali, la prima sta alla terza come la figura descritta
sulla prima sta a quella simile e similmente descritta sulla seconda (Cor. alla Prop. VI. 19). Quindi BC sta a BD
come la figura descritta su BC sta alla figura simile e similmente descritta su AB. Per la stessa ragione, pure BC
sta a DC come la figura descritta su BC sta a quella descritta su AC. Cosicché anche, BC sta alla somma di BD,
DC come la figura descritta su BC sta alla somma delle figure simili e similmente descritte su AB, AC (Cor. alla
Prop, V.7 e Prop. V.24). Ma BC è uguale alla somma di BD, DC, per cui pure la figura descritta su BC è uguale
alla somma delle figure simili e similmente descritte su AB, AC.»
I risultati che vengono richiamate nella dimostrazione precedente sono nell’ordine
«Proposizione VI.19. I triangoli simili stanno fra loro in rapporto duplicato di quello dei lati omologhi. […]
Corollario alla Proposizione VI.19. E’ da ciò evidente che, se tre rette sono proporzionali, la prima sta alla terza
come la figura descritta sulla prima sta a quella simile e similmente descritta sulla seconda.»
«Proposizione V.24. Se una prima grandezza ha rispetto ad una seconda grandezza lo stesso rapporto che una
terza ha rispetto ad una quarta, e pure una quinta grandezza ha rispetto alla seconda lo stesso rapporto che una
seta ha rispetto alla quarta, anche la somma della prima e della quinta avrà lo stesso rapporto rispetto alla
seconda che la somma della terza e della sesta rispetto alla quarta.»
Non ha molta importanza seguire nei dettagli la dimostrazione. Nel testo non compare il fatidico
“quadrato”, ma quando Euclide parla di rapporto duplicato intende esattamente quello.
Siamo di fronte ad una generalizzazione forte del Teorema di Pitagora. Da questa Prop. VI.31 si
ricava facilmente la Prop. I.47, in quanto basta decidere che
le figure simili e similmente descritte possono essere anche
quadrati. Ma il risultato è applicabile a figure qualunque,
A
poligoni regolari o no, semicirconferenze, purché simili e
similmente poste.
T"
A proposito di questo risultato Proclo attribuisce ad Euclide
la dimostrazione «scientifica» del Teorema di Pitagora e
accredita all’autore degli Elementi, di avere ottenuta la
maggiore generalità ed estensione possibile grazie a questa
Prop. VI.31.
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T'"
T'
D
B
C
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
Un’ulteriore lettura possibile si ottiene considerando come poligoni simili dei triangoli rettangoli
simili al triangolo rettangolo dato. Si ottiene una figura un po’ particolare. I triangoli rettangoli T’,
T” e T’” ‘esterni’ sono simili a quelli interni avendo angoli eguali e sono similmente posti, nel
senso che i lati del triangolo di partenza vengono utilizzati come ipotenuse e sono triangoli
simmetrici di quelli interni, segnalati con lettere in colore. In base alla Prop. VI.31 il triangolo verde
è la somma di quello rosso e di quello blu. Ma considerando i triangoli interni questo vuol dire che
la somma dei triangoli ABD e ADC è uguale al triangolo ABC. Ma questo è ovvio, solo che
bisognerebbe sapere che i triangoli ABD e ADC sono simili al triangolo ABC, ma questo è proprio il
ruolo della Prop. VI.8.
Si ha pertanto che la Prop.VI.8 equivale alla Prop. VI.31 nel caso di triangoli rettangoli simili al
triangolo di partenza.
Il matematico francese George Bouligand (1889 – 1979) ha osservato che la Prop. VI.8 ha un
significato più profondo. Grazie ad essa si osserva che l’altezza relativa al lato maggiore divide il
triangolo rettangolo in due triangoli simili tra loro e simili al triangolo di partenza. Questa proprietà
è caratteristica del triangolo rettangolo, che lo identifica tra tutti i triangoli. Infatti se l’altezza
relativa al lato maggiore lo divide in due triangoli simili al triangolo di partenza, tali due triangoli
sono rettangoli, per definizione di altezza, quindi anche il triangolo di partenza deve essere
rettangolo. Si ha così una affermazione, la proposizione inversa della Prop. VI.8 che ha conclusione
analoga a quella della Prop. I.48, il cosiddetto Teorema di Pitagora inverso.
III.6.3.5. Similitudine ed estensione: il problema forte della trasformazione dei poligoni. Il rapporto
tra similitudine ed estensione, ovvero tra proporzionalità ed eguaglianza, è illustrato principalmente
da due risultati.
«Proposizione VI.16. Se quattro rette sono proporzionali, il rettangolo compreso dai termini estremi è uguale al
rettangolo compreso tra i termini medi; e se il rettangolo compreso da[lle rette che costituiscono in una
proporzione] i termini estremi è uguale al rettangolo compreso dai termini medi, le quattro rette saranno
proporzionali.
Dimostrazione. Siano AB, CD, E, F quattro rette proporzionali, in modo che AB stia a CD come E sta a F; dico
che il rettangolo compreso da AB, F è uguale al rettangolo compreso da CD, E.
Infatti, si conducano dai punti A, C le rette AG, CH rispettivamente perpendicolari alle rette AB, CD, si pongano
AG uguale a F e CH uguale ad E, e si completino i rettangoli ABKG, CDLH.
Ora poiché AB sta a CD come E sta a F, [per ipotesi,] ed E è uguale a CH, mentre F è uguale ad AG, si ha che
AB:CD = CH:AG. Nei parallelogrammi [rettangolari] ABKG, CDLH i lati intorno agli angoli uguali sono quindi
inversamente proporzionali. Ma sono uguali i parallelogrammi aventi gli angoli rispettivamente uguali, ed i cui
lati intorno agli angoli uguali siano inversamente proporzionali (Prop. VI.14), per cui il rettangolo ABKG è
uguale al rettangolo CDLH. Ma ABKG è il rettangolo di AB, F – difatti AG è uguale a F -, mentre CDLH è il
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
rettangolo di CD, E – difatti E è uguale a CH-; perciò il rettangolo compreso da AB, F è uguale [equivalente] al
rettangolo compreso da CD, E
Ma sia adesso il caso in cui il rettangolo compreso da AB, F è uguale al rettangolo compreso da CD, E; dico che
le quattro rette saranno proporzionali, ossia AB:CD = E:F.
Infatti, eseguita la medesima costruzione, poiché il rettangolo AB, F è [per ipotesi] uguale al rettangolo di CD, E
ed il rettangolo di AB, F è ABKG – difatti AG è uguale a F -, mentre il rettangolo CD, E è CDLH – difatti CH è
uguale a E -, si ha che ABKG è uguale a CDLH. Ed essi hanno gli angoli rispettivamente uguali. Ma nei
parallelogrammi uguali ed aventi angoli rispettivamente uguali, i lati intorno agli angoli uguali sono
inversamente proporzionali (Prop. VI.14). Quindi AB:CD = CH:AG, ma CH è uguale ad E, ed AG è uguale a F,
perciò AB sta a CD come E sta a F [AB:CD = E:F].»
Questa Proposizione è l’interpretazione geometrica, in termini di rette ‘terminate’ della definizione
moderna di proporzione tra numeri. Oggi si parla di prodotti e non di rettangoli, perché siamo più
abituati a sostituire le grandezze con le loro misure. Caso mai bisognerebbe osservare che essendo
la misura di una grandezza relativa ad una grandezza unitaria, la proporzione qui descritta è
invariante per cambiamento della grandezza unitaria. Questo risultato mette a confronto cosa si può
dire in termini di proporzionalità e di uguaglianza per estensione. Esso è anche alla base della
definizione di frazioni equivalenti, quindi alla costruzione dei numeri razionali, della localizzazione
di un anello privo di divisori dello zero in un campo, della costruzione del campo delle funzioni
razionali,… E’ dunque un punto focale di molteplici argomenti di Matematica, antica e moderna.
La chiave di volta per la dimostrazione della Prop. VI.16 è la Prop. VI.14, il cui enunciato non si
riporta perché è sostanzialmente presentato nella precedente dimostrazione.
Come detto sopra, il risultato per cui Pitagora avrebbe sacrificato agli dei è dato dalla
«Proposizione VI.25. Costruire un poligono che sia simile ad un poligono dato ed insieme uguale ad un altro
poligono dato.
Dimostrazione. Sia ABC il poligono dato, simile al quale occorre costruire un altro poligono, e D il poligono al
quale occorre sia uguale il poligono da costruire; si deve dunque costruire un poligono che sia insieme simile ad
ABC ed uguale a D.
Infatti, si applichi a BC [parabolicamente] il parallelogrammo BCEL uguale al triangolo ABC (Prop. I.44),
mentre a CE si applichi il parallelogrammo CEMF, uguale a D, e lo si applichi nell’angolo FCE che è uguale
all’angolo CBL (Prop. I.45). Quindi BC è in linea retta con CF, e LE è in linea retta con EM. Si prenda inoltre la
media proporzionale GH fra BC, CF (Prop. VI.13), e si descriva su GH il poligono KGH, simile ad ABC e
similmente disposto rispetto ad esso (Prop. VI.18).
Ora poiché BC sta a GH come GH sta a CF[ BC:GH = GH:CF], ma se tre rette sono proporzionali, la prima sta
alla terza come la figura descritta sulla prima sta a quella simile e similmente disposta descritta sulla seconda
(Cor alla Prop. VI.19), si ha che BC sta a CF come il triangolo ABC sta al triangolo KGH [BC:CF = ABC:KGH].
Ma anche, BC sta a CF come il parallelogrammo BCEL sta al parallelogrammo CEMF [BC:CF = BCEL:CEMF]
(Prop. VI.1). Perciò si ha pure ABC:KGH = BCEL:CEMF (Prop. V.11), e, permutando: ABC:BCEL =
KGH:CEMF (Prop. V.16). Ma il triangolo ABC è uguale al parallelogrammo BCEL, per cui sono uguali pure il
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triangolo KGH ed il parallelogrammo CEMF. Ma il parallelogrammo CEMF è uguale a D; anche KGH è quindi
uguale a D. E KGH è anche simile ad ABC. »
Nella dimostrazione compaiono dei “mostri”, ad esempio quando Euclide scrive «ABC:BCEL =
KGH:CEMF» in cui costruisce una proporzione utilizzando rapporti tra grandezze disomogenee. Qui
Euclide non sa come superare il problema, e la giustificazione della correttezza si può basare solo
sulla presenza della misura di queste figure, ma di misura non se ne parla!
Poi grazie alla Prop. V.16, permutando, si ripristina l’omogeneità dei singoli termini.
Per meglio comprendere questa dimostrazione, si ricopia il testo delle Proposizioni citate, che finora
non sono state riportate.
«Proposizione VI.18. Descrivere su una retta data una figura rettilinea, che sia simile ad una figura rettilinea
data. »
«Proposizione VI.11. Date due rette, trovare [dopo di esse] la terza proporzionale.»
«Proposizione V.16. Se quattro grandezze sono proporzionali, esse saranno proporzionali anche permutando.»
La scelta di Euclide di prendere il poligono dato (il testo di Heiberg dice, la figura rettilinea) come
ABC all’inizio fa pensare ad un triangolo, oppure, come talvolta fa negli Elementi, di indicare con
poche lettere quello che poi è un poligono effettivo. Ma più avanti afferma «il parallelogrammo BCEL
uguale al triangolo ABC», e questa indicazione geometrica del testo italiano compare anche nel testo e
in quello greco. La dimostrazione pare quindi svolta su un caso particolare, non generale.
Anche la scelta di prendere il poligono che fornisce l’estensione come un rettangolo appare
limitativa. Di fatto non è così. Infatti, il punto delicato è la costruzione è l’individuazione di un lato
del poligono cercato, che nella dimostrazione è individuato mediante la costruzione di GH come
medio proporzionale fra BC, il lato (omologo) del poligono assegnato e CF, il lato del
parallelogramma equivalente a D, determinato dopo avere individuato CE, lato del parallelogramma
avente il lato BC in comune col triangolo e equivalente al triangolo.
Se infatti si partisse da un poligono qualsiasi, sarebbe sempre possibile considerare un triangolo che
ha un lato uguale a quello del poligono ed è ad esso equivalente. Questo
viene garantito dalla seguente costruzione, esemplificata su un pentagono
(convesso). Preso quindi il lato BC come quello (in nero) del triangolo con
due lati viola, equivalente al pentagono, e ripetendo la costruzione indicata
si trova un triangolo simile al triangolo a lati viola ed equivalente a D con
un lato GH. E’ poi possibile ripercorrere all’indietro la costruzione qui
illustrata e riottenere una pentagono che ha gli angoli uguali a quelli del
pentagono di partenza ed è equivalente al rettangolo.
Tutto questo processo è garantito anche dalla
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«Proposizione VI.20. [Due] poligoni simili si dividono in ugual numero di triangoli simili [tra loro a due a due]
ed aventi lo stesso rapporto che hanno fra loro i poligoni; ed un poligono ha rispetto all’altro poligono rapporto
duplicato di quello che ha un lato rispetto al lato omologo. »
III.6.3.6. La Proposizione VI.33. Si chiude il libro (e questa analisi) con il risultato che mette a
confronto angoli e archi di circonferenza. Questo risultato mostra la importanza della teoria delle
proporzioni: non è possibile misurare un arco di circonferenza così semplicemente come un
segmento, ad esempio una cordicella che segua il contorno dell’arco, per poi rettificarla. D’altra
parte basta un goniometro per gli angoli di circonferenza. Quindi si devono confrontare due tipi di
grandezze archi ed angoli, e stavolta la proporzione non può portare al prodotto di medi e di
estremi, perché darebbe luogo ad un ente geometricamente poco significativo. E non è possibile
neppure permutare nella proporzione, come avviene per i segmenti, in base alla Prop. VI.16.
«Proposizione VI.33. In cerchi uguali, sia gli angoli al centro che quelli alla circonferenza hanno fra loro lo
stesso rapporto degli archi su cui insistono.
Dimostrazione. Siano ABC, DEF cerchi uguali, BGC, EHF siano angoli ai loro centri G, H e BAC, EDF angoli
alla circonferenza in ciascun cerchio; dico che l’arco BC sta all’arco EF come l’angolo BGC sta all’angolo EHF
e come l’angolo BAC sta all’angolo EDF.
Infatti, si pongano quanti si voglia archi successivi CK, KL uguali all’arco BC, e quanti si voglia archi successivi
FM, MN uguali all’arco EF, e si traccino le congiungenti GK, GL, HM, HN.
Poiché dunque gli archi BC, CK, KL sono uguali fra loro,
L
D
K
anche gli angoli BGC, CGK, KGL sono uguali fra loro
(Prop. III.27); l’arco BL è quindi tante volte multiplo
C
E
dell’arco BC quante volte è anche multiplo l’angolo BGL
H
dell’angolo BGC. Per la stessa ragione, pure l’arco EN è
G
A
B
F
tante volte multiplo dell’arco EF quante volte è anche
M
N
multiplo l’angolo EHN dell’angolo EHF. Se perciò l’arco
BL è uguale all’arco EN, pure l’angolo BGL è uguale
all’angolo EHN (Prop. III.27), se l’arco BL è maggiore dell’arco EN, anche l’angolo BGL è maggiore dell’angolo
EHN, e se BL è minore, BGL è minore. Date quindi quattro grandezze, cioè i due archi BC, EF ed i due angoli
BGC, EHF, sono state prese grandezze equimultiple dell’arco BC e dell’angolo BGC, cioè l’arco BL e l’angolo
BGL, ed altre grandezze equimultiple dell’arco EF e dell’angolo EHF, cioè l’arco EN e l’angolo EHN. Ed è stato
dimostrato che se l’arco BL supera l’arco EN, anche l’angolo BGL supera l’angolo EHN, se BL è uguale ad EN,
corrispondentemente BGL è uguale ad EHN, e se BL è minore, BGL è minore. Quindi l’arco BC sta all’arco EF
come l’angolo BGC sta all’angolo EDF (Def. V.5). Ma si ha la proporzione tra gli angoli BGC:EHF = BAC:EDF
(Prop. V.15) – difatti ciascuno è rispettivamente due volte dell’altro (Prop. III.20). Perciò l’arco BC sta all’arco
EF come l’angolo BGC sta all’angolo EHF e come l’angolo BAC sta all’angolo EDF.»
Nella dimostrazione, oltre alla Def. V.5, si richiama la
«Proposizione III.27. In cerchi uguali angoli che insistano su archi uguali sono uguali fra loro, sia che essi siano
angoli al centro o alla circonferenza.»
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e le Proposizioni
«Proposizione III.20. In un cerchio, l’angolo al centro è il doppio dell’angolo alla circonferenza, quando essi
abbiano lo stesso arco come base.».
«Proposizione V.15. Due grandezze e due loro equimultiple, presi le une e gli altri nell’ordine corrispondente,
sono nello stesso rapporto.»
quest’ultima di per sé semplice esempio di come da A:B = A:B si possa ottenere A:B = mA:mB; essa
può facilmente essere intuita sulla base della scrittura in forma di frazione. Queste Proposizioni
servono per trasferire la proporzionalità tra archi di circonferenza e angoli alla circonferenza, a
quella tra gli archi e gli angoli al cerchio.
Le Proposizioni del Libro III qui citati sono risultati che sono spesso presenti sui manuali scolastici
più consueti.
Può stupire il fatto che non si considerino angoli sulla stessa circonferenza, ma su circonferenze
diverse, pur essendo uguali. Si tratta di una generalizzazione, anzi sarebbe possibile una
generalizzazione a circonferenze simili, ma Euclide non ha ancora dimostrato che tutte le
circonferenze sono simili, anche se questo potrebbe essere ottenuto direttamente dalla Def. III.11.
Infatti per la
«Proposizione III.31. In un cerchio, l’angolo [alla circonferenza iscritto nel semicerchio è retto, quello [iscritto]
in un segmento [circolare] maggiore [del semicerchio] è minore di un retto e quello [inscritto] in un segmento
[circolare] minore [del semicerchio] è maggiore di un retto; ed infine l’angolo di un segmento [circolare]
maggiore [del semicerchio] è maggiore di un retto, l’angolo di un segmento [circolare] minore [del semicerchio]
è minore di un retto. »
Basta infatti osservare che due semicerchi di cerchi diversi possono vedersi come segmenti circolari
e aventi angoli uguali, sono quindi simili per la Def. III.11 e la circonferenza può vedersi come la
somma di due semicerchi.
Questa Prop. III.31, almeno nella parte che riguarda il semicerchio, secondo Diogene Laerzio, si
deve a Talete, il quale «avendo appreso la geometria presso gli Egiziani, per primo avrebbe iscritto nel cerchio il
triangolo rettangolo. »
Tornando alla Prop. VI.33, in essa si apprezza la forza espressiva della Def. V.5, perché stavolta le
grandezze che sono a primo membro della proporzione non sono omogenee con quelle del secondo
membro.
Viene però un sospetto: è possibile che « si pongano quanti si voglia archi successivi CK, KL uguali all’arco
BC». La risposta è ovviamente negativa, dato che è possibile che multipli di un arco “superino” la
circonferenza, in quanto la circonferenza è “intuitivamente” una linea chiusa. Lo stesso succede con
multipli di un angolo che può superare un angolo giro. Quindi il ragionamento mostrato è in parte
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scorretto, perché non è possibile applicare la Def. V.5 che richiede una quantificazione universale
sui numeri naturali, ‘tutti’, non solo ‘alcuni’.
Tuttavia Euclide lo fa egualmente.
Teone aggiunge a questo punto
«ed infine (hanno fra loro lo stesso rapporto) pure settori (dei cerchi) in quanto costruiti (insistendo) ai centri
[…] ed inoltre come sta il settore circolare GBOC al settore circolare HEQF […] Dico che si ha pure che l’arco
BC sta all’arco EF come il settore circolare GBC sta al settore circolare HEF.»
Che sia di pugno di Teone è attestato da un suo commentario e quindi la proporzionalità dei settori
circolari e degli archi si può ritenere un teorema di Teone.
III.7. I Libri aritmetici.
III.7.1. Legami dei Libri aritmetici con gli altri Libri degli Elementi. I Libri VII, VIII e IX hanno
per contenuto aritmetica, o se si vuole i rapporti razionali. Il contenuto geometrico di tali Libri è
assai ridotto. Questo lo si desume anche dalle figure che accompagnano il testo, costituite da
segmenti, stavolta spesso posizionati in verticale.
Dato che i due Libri precedenti, in particolare il Libro V, hanno cercato di “addomesticare” i numeri
reali trasformandoli in grandezze e rapporti, si sono però trattate solo le proprietà dell’addizione e
dell’ordine, desumibili da quelle dell’addizione. In realtà è presente anche un’operazione che
richiama, in qualche modo la moltiplicazione, vale a dire la costruzione del multiplo secondo un
numero naturale. Si tratta di quella che in teoria degli spazi vettoriali prende il nome di
moltiplicazione con uno scalare.
Nei Libri aritmetici il nuovo ‘personaggio’ è la moltiplicazione, stavolta una vera e propria
operazione, di cui si studiano diverse proprietà e le applicazioni (potenze), ed a cui è collegata la
relazione di divisibilità, nonché introduce la divisione (con resto) che spesso viene chiamata
divisione euclidea.
A differenza del Libro V, si tratta di tre Libri sostanzialmente autocontenuti. Infatti tra i vari
risultati dei tre Libri, solo quattro, le Prop. VIII.4 (usata nella Prop. X.12), IX.1 e IX.24 (usate nel
Lemma alla Prop. X.29) e IX.26 (usata nella Prop. X.29) sono richiamate al di fuori dei Libri
aritmetici e precisamente nel Libro X, anch’esso con forti connotati di aritmetica dei numeri reali.
Inoltre solo la Prop. IX.15 utilizza risultati di Libri precedenti al settimo, vale a dire le Propp. II.3 e
II.4:
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«Proposizione II.3. Se si divide a caso una linea retta, il rettangolo compreso da tutta la linea e da
una delle sue parti è uguale alla somma del rettangolo compreso dalle parti e del quadrato della
parte predetta. »
Questo, come quello successivo, è uno dei risultati della cosiddetta algebra
geometrica. Tradotto in termini odierni, la Prop. II.3 afferma che
(a+b)b = ab + b2,
in cui (a+b) rappresenta la retta già suddivisa in due parti. Se invece si assume come
a la retta e b una parte, (a-b) l’altra, si ha
(a-b)b + b2 = ab
«Proposizione II.4. Se si divide a caso una linea retta, il quadrato di tutta la retta è uguale alla somma dei
quadrati delle parti e del doppio del rettangolo compreso dalle parti [stesse].»
In questo caso il risultato della Prop. II.4 può scriversi, in termini simbolici odierni,
(a+b)2 = a2 + b2 + 2ab,
avendo assunto (a+b) la retta iniziale, a e b le sue parti. Se invece con a si indica tutta la retta
iniziale, b e (a-b) le sue parti, si ottiene
a2 = (a-b)2 + b2 + 2(a-b)b.
Come si vede si tratta di due risultati con forte connotato aritmetico-algebrico, che non stonano tra
quelli dei Libri VII, VIII e IX, anzi che permettono di estendere le proprietà delle operazioni, forse
ritenute banali se applicate ai numeri naturali, anche ai numeri reali.
Un’ulteriore caratteristica a favore di questa indipendenza sostanziale dai rimanenti Libri degli
Elementi, anche il fatto che siano presenti le definizione solo all’inizio del Libro VII.
A leggere bene, i Libri VII, VIII e IX si possono ritenere un caso particolare di quanto detto nel
Libro V, ma trattando di numeri naturali (escludendo sicuramente 0 e in qualche considerazione,
anche 1), le varie clausole che sono poste per considerare rapporti e proporzioni, sono ora
semplificate.
Si ha infatti che i numeri naturali sono omogenei, dato che con tale attributo si intendono grandezze
per cui si possano stabilire relazioni di eguaglianza, ordine e che possano venire addizionate tra loro
(da cui discendono anche i multipli). Il Principio di Eudosso-Archimede diviene ora banale, in
quanto dati i numeri naturali a e b, si può considerare il prodotto ab che sicuramente supera
entrambi (in quanto a,b >1) e può essere visto, secondo le necessità, come un multiplo del minore
dei due che supera il maggiore.
Sull’unità la posizione di Euclide non è ovvia, talora la considera un numero, talora no.
Tra le operazioni che sono utilizzate e studiate nei Libri aritmetici, c’è poca presenza dell’addizione
e della sottrazione, dato che le proprietà provate per questo operazioni sulle grandezze, si possono
trasferire ora anche ai numeri.
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Anche l’eguaglianza di rapporti ha ora un ‘suono’ diverso. Applicare in questo contesto la Def. V.5
è corretto, ma inutilmente complesso: si ha infatti che con numeri naturali (in senso di Euclide)
scrivere
a:b = c:d,
è possibile solo in ben precisi casi:
1. esiste m numero naturale tale che a = mb e c = md, per cui la proporzione diviene
mb:b = md:d;
2. esistono numeri naturali m,n tali che nb = ma e nd = mc, per cui a =
proporzione diviene
n
n
b; c = d e la
m
m
n
n
b:b = d :d .
m
m
Altri casi non sono possibili, come si incarica di provare la teoria e gli algoritmi del Massimo
Comune Divisore.
Euclide usa in modo inaspettato le proporzioni (continue) per poter parlare di potenze e progressioni
geometriche. Qualcosa a riguardo delle potenze poteva già venire intuito con la nozione di rapporti
duplicati e triplicati.
E’ da notare la proposta di Eudosso ripresa da Euclide: mediante la Def. V.5 si passa dai numeri
naturali ai numeri reali assoluti, evitando i razionali assoluti. La costruzione dei razionali assoluti è
un caso speciale di quella dei reali assoluti, invertendo il processo di aritmetizzazione dell’Analisi
che sarà uno degli oggetti di maggiore interesse culturale del XIX secolo.
III.7.2. Le definizioni. Il libro VII presenta ventidue definizioni, tutte che hanno per soggetto i
numeri (naturali) e le loro proprietà.
Si possono suddividere le Definizioni del Libro VII in questo modo:
da VII.1 a VII. 5 i numeri e operazioni e relazioni su di essi;
da VII.6 a VII.10 numeri pari e dispari;
da VII.11 a VII.14 sui numeri primi e composti;
VII.15 la moltiplicazione;
da VII.16 a VII.19 numeri figurati;
VII.20 e VII.21 proporzioni e similitudine tra numeri;
VII.22 numeri perfetti.
Qui vengono ricopiate e commentate.
III.7.2.1. Le prime cinque Definizioni. Si sono raggruppate queste definizioni per l’analogia di
contenuto.
«Definizione VII.1. Unità è ciò secondo cui ciascun ente è detto uno.»
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In latino si trova
«Unitas est ea, secundum quam unaquaeque res una nominatur».
Il greco usa
, termine tradotto talora in italiano con monade, che ha una tradizione filosofica
di tutto rispetto. Il termine è usato anche da Pitagora per indicare una concentrazione, in quanto
punto nella aritmo-geometria, che è una presenza costante nelle Definizioni del Libro VII, come si
vedrà nel seguito.
Questa definizione di unità può essere interpretata come «una sorta di idea platonica», come
commentano Frajese e Maccioni. Ponendo però l’accento sugli aspetti linguistici («è detto»,
«nominatur») sembra che l’unità non sia un aspetto insito nell’ente, ma sia piuttosto relativo al
soggetto che si esprime attraverso il linguaggio, e si basa sul ruolo numerale dell’articolo
indeterminativo. Per questo avrebbe senso parlare di “una coppia di tortore” cogliendo l’unità nella
molteplicità.
«Definizione VII.2. Numero è una pluralità composta da unità.»
Sulla base di questa definizione all’unità non compete un numero, ma solo il ruolo di componente
del numero. Ne consegue che per Euclide numero è sinonimo di numero naturale, e per di più, non
minore di 2. In altre parti, ad esempio nella Def. VII.22, in cui definisce i numeri perfetti, è costretto
ad ammettere che 1 sia una parte (divisore), mentre la Def. VII.3 sembra escludere che 1 possa
essere parte (divisore) di un altro numero. Ma si vede che la tradizione dei numeri perfetti, di
ascendenza pitagorica, ha costretto Euclide ad accettare ciò che in un primo tempo non voleva fare,
accettare cioè che 1 possa essere un numero.
Interessante il termine usato dal greco per parlare di numero:
ϑ
.
«Definizione VII.3. Un numero è parte di un [altro] numero, il minore di quello maggiore, quando esso misuri il
maggiore.
Definizione VII.4. E’ parti invece di un numero, quando non lo misuri.»
Queste due definizioni devono essere considerate assieme. Anche la forma linguistica sembra dire
che il soggetto della Def. VII.4 vada cercato nella Def. IV.3.
Sembra di sentire nelle parole di Euclide l’eco diretto di quanto proposto da Aristotele nella
Metafisica, sul concetto di parte, che sono già state riportate in III.5.2.1:
«In un senso parte è ciò in cui una quantità può essere comunque essere divisa; infatti ciò che è sottratto da una
quantità, in quanto quantità, è sempre chiamato ‘parte’ di essa, come ad esempio due è detto essere, in un senso,
parte di tre. Ma in un altro senso parte è soltanto ciò che misura delle quantità, così due, in un senso è detto esser
parte di tre, in un altro, no.»
Nel testo euclideo «parte» è da intendere come ‘divisore’ perché il termine ‘misurare’ è inteso che
un multiplo della parte è esattamente il numero maggiore. Invece l’uso del plurale «parti» sta a
significare che un numero minore è composto (mediante addizione) di parti, cioè di divisori. Per
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chiarire, 2 è parte di 6, perché lo divide; 5 è parti di 6, perché lo posso ottenere come somma di 2 e
3. Non è detto che 3 sia parti di 4, perché è ottenibile solo come somma di 2 e 1, e sul fatto che 1 sia
un numero e divisore di un numero, Euclide ha un atteggiamento ‘ondivago’. Però nella
«Proposizione VII.4. Di due numeri [disuguali] qualunque, il minore è parte o parti del maggiore.»,
dando credito che ogni numero possa scriversi come somma di unità, viste come parti uguali di un
numero. Un’altra interpretazione del plurale «parti», che però contrasta con quanto detto da
Aristotele, è che il numero sia somma di parti uguali; in questa accezione, 5 non è parti di 6.
Se l’unità viene considerata un numero, allora non ci sarebbe più differenza tra affermare che un
numero è parti di un altro o che è minore dell’altro, in quanto ogni numero si può ottenere come
somma di unità (Def. VII.2).
Si ha poi:
«Definizione VIII.5. Un numero maggiore è multiplo di un numero minore, quando sia misurato (=sia diviso)
dal minore. »
Questa è la stessa cosa della Def. VII.3, vista però nell’ottica del numero minore. E’ la stessa cosa
che dire che 6 è maggiore di 5 o che 5 è minore di 6, oppure, in modo più calzante, che 3 è
sottomultiplo di 6 o che 6 è multiplo di 3.
Dal punto di vista algebrico, qui si sta definendo una relazione d’ordine (non totale) sull’insieme dei
numeri naturali e Euclide si preoccupa di chiamarla nei due modi possibili, «parte» o «multiplo».
Dal punto di vista logico, nella teoria sottostante alla geometria euclidea, queste definizioni (come
quella di maggiore e minore tra grandezze) traducono tutte una formula contenente una
quantificazione esistenziale, che si cerca di eliminare, o almeno di sottintendere:
a < b sta per ∃c(b = a+c);
a > b sta per ∃c(a = b+c);
a parte di b sta per ∃c(b = a·c);
a multiplo di b sta per ∃c(a = b·c);
a | b sta per ∃c(b = a·c)
Questi non sono gli unici esempi matematici in cui si preferisce ‘inventare’ un nome piuttosto che
introdurre una quantificazione esistenziale. Didatticamente, se lo studente non è abituato a pensare
in termini formali, trova molte difficoltà ad accorgersi della presenza del quantificatore. Se ne
hanno varie conferme in aula ed anche sui manuali scolastici.
III.7.2.2. Le Definizioni VII.6-VII.10. Sono definizioni che si occupano della parità (e disparità) dei
numeri. Anche queste sono esempi di quanto si diceva prima, dell’invenzione di un nome per celare
uno o più quantificatori esistenziali.
«Definizione VII.6. Numero pari è quello che è divisibile in due parti (=numeri) uguali.
Definizione VII.7. Numero dispari è quello che non è divisibile in due parti (=numeri) uguali, ossia quello che
differisce di un’unità da un numero pari.»
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
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Sono due definizioni in uso tutt’oggi nella scuola di tutto il mondo, a riprova del successo euclideo.
E’ interessante di per sé che Euclide senta la necessità di due definizioni distinte, quando bastava
dire quali erano quelli pari e quali non lo erano. Ma questo avrebbe comportato di avere, come in un
unico ‘colpo d’occhio’, tutti i numeri. La sua definizione è invece ‘prudente’ e ‘locale’, in quanto
per vedere se un numero dato è pari (in greco
La nozione di numero dispari (in greco
), basta considerare i numeri minori di lui.
) presentato dalla Def. VII.7, è duplice, di fatto un
piccolo teorema: la prima parte dice che dispari è non pari, con una definizione per negazione, la
seconda parte commenta «ossia», in latino «sive» che c’è una proprietà (dell’addizione) che
garantisce il fatto che un numero sia dispari, cioè che differisca di una unità da un numero pari. Dal
punto di vista logico non si tratta di un’equivalenza logica, ma di un risultato della teoria (che si sta
costruendo).
In entrambi i casi si ha che il concetto viene presentato con la divisibilità, che non è da intendersi
come l’operazione, ma come la separabilità ‘concreta’ in due mucchietti. Avrebbe infatti potuto dire
che un numero era pari se due ne era una parte. E’ vero che Euclide non cita mai il numero 2, solo
nella
«Proposizione IX.32. Ciascuno dei numeri che si ottengono raddoppiando successivamente a partire da una diade non
può essere che un numero parimenti pari. »
compare il numero due sotto le spoglie di una diade. E’ come se mancasse il vero concetto di
numero, almeno nel senso attuale, ma si ‘misurassero’ le monadi coinvolte, utilizzando un termine
che ha connotati di grandezza.
Anche i concetti di pari e dispari sottintendono quantificatori esistenziali:
a è pari sta per ∃b(a = 2b)
a è dispari sta per ∃b(a -1 = 2b)
Controllando queste scritture si coglie meglio l’osservazione che la negazione del fatto che a sia
pari, non è logicamente equivalente al fatto che a differisca di una unità da un numero pari:
¬∃b(a = 2b) ⇔ ∀b(a ≠ 2b) e non ∃b(a-1=2b).
Quindi nella Def. VII.7 è contenuta l’affermazione che la somma (o sottrazione) con uno fa passare
da un pari a un dispari e da un dispari ad un pari.
Le successive tre definizioni introducono termini caduti in disuso nella prassi scolastica corrente:
«Definizione VII.8. Numero parimenti pari è quello che è misurato da un numero pari secondo un numero pari.
Definizione VII.9. Numero parimenti dispari è quello che è misurato da un numero pari secondo un numero
dispari.
Definizione VII.10. Numero disparimente dispari è quello che è misurato da un numero dispari secondo un
numero dispari.»
La prima delle tre è presente oggi come l’affermazione che un numero è multiplo (o divisibile) per
quattro.
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Ora se Euclide pensava di avere trovato, come fa in altre parti della sua opera una classificazione
dei numeri che fosse esaustiva e ‘disgiunta’, come fa ad esempio quando deve definire i triangoli in
base al numero dei lati uguali, vale a dire una classificazione tale che ogni numero appartenga ad
una ed una sola di questi tipi di numeri, il tentativo non è riuscito. Lasciando perdere il fatto che
ogni numero è divisibile per 1, quindi sarebbe parimente o disparimente dispari, ci sono esempi
semplici, ad esempio 12, che è multiplo di 4, oppure è il prodotto di 6 e 2, quindi è parimente pari,
ma è anche parimente dispari, in quanto prodotto di 4 e 3.
Euclide si accorge del problema nel Libro, quando grazie alla Prop. IX.32 ed a
«Proposizione IX.33. Se un numero ha la metà dispari, non può essere che parimenti dispari. […]
Proposizione IX.34. Se un numero non è fra quelli che si ottengono raddoppiando di seguito a partire da una
diade, né ha dispari la metà, esso è insieme parimente pari e parimente dispari.»
La Prop. IX.32, vista in precedenza garantisce che le potenze di 2 sono parimente pari; che se il
numero si ottiene moltiplicando 2 per un numero dispari è parimente dispari, ma negli altri casi
Prop. IX.34, ricade in entrambe le classi.
Il testo greco riporta, segnalandola come non autentica, la definizione di disparimente pari,
!
, che fa sospettare la non completa accettazione della commutatività della
moltiplicazione.
III.7.2.3. Le Definizioni VII.11. – VII.14. In queste definizioni compaiono i numeri primi e i numeri
composti. La parola greca per primo è
, mentre per composto, " ϑ
, ottenuto con sintesi.
Avendo visto le perplessità a considerare 1 un numero, la domanda che spesso viene posta, vale a
dire se 1 è un numero primo è storicamente priva di senso.
Vediamo le quattro definizioni.
«Definizione VII.11. Numero primo è quelli che è misurato soltanto dall’unità.
Definizione VII.12. Numeri primi fra loro sono quelli che hanno soltanto l’unità come misura comune.
Definizione VII.13. Numero composto è quello che è misurato da un qualche numero.
Definizione VII.14. Numeri composti fra loro sono quelli che hanno qualche numero come misura comune.»
E’ evidente la simmetria – contrapposizione, che genera queste quattro definizioni: primo al
singolare e al plurale (con significato diverso), composto, al singolare ed al plurale. L’ultima è alla
base del problema di determinare il massimo comune divisore.
Dalle prime due definizioni di questo gruppo sembrerebbe che 1 sia considerato come un numero,
ma questa impressione viene smentita dalla Def. VII.13 con quell’aggettivo «qualche», che
evidentemente, per la contrapposizione, espunge 1 dal novero dei numeri.
Stupisce che per esprimere questa contrapposizione non si siano usati aggettivi che non
evidenziassero la contrapposizione stessa, come primo e secondo, oppure semplice e composto,
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dicotomie che sono entrate, in altro contesto anche in Matematica. Forse meglio di tutti sarebbe
irriducibile e riducibile, pensando all’operazione di moltiplicazione, cioè un numero esprimibile
come prodotto di fattori entrambi minori del numero dato oppure no.
Alcuni commentatori ritengono che qui Euclide abbia mantenuto una dizione che era affermata ed
accettata dai suoi predecessori. Poi questa è passata nel lessico odierno, e quindi ha sulle spalle
migliaia di anni.
E’ anche strano che usi misura (terza persona singolare dell’indicativo presente), in greco
,
escludendo che un numero possa misurare se stesso. Pone rimedio a questa dimenticanza nella
dimostrazione della
«Proposizione VII.2. Dati due numeri che non siano primi fra loro, trovare il loro massimo comune divisore.»
in cui dice:
«[…] Supponiamo dapprima che CD misuri AB, ed anche misura se stesso».
Un’osservazione linguistica: sia in italiano che in latino appare ‘composto’ sia come aggettivo nella
Deff. VII. 2 e VII.13, sia come gerundio del verbo comporre, nella Def. VII. 15. Ciò può essere
fuorviante. Nella Def. VII.2 sottintende una somma, nella Def. VII.13 un prodotto. Il greco evita
questa ambiguità: la forma verbale in greco è
!
, come aggettivo è " ϑ
.
III.7.2.4. La Definizione VII.15. Dopo avere parlato di numeri primi, divisori comuni, numeri pari,
ecc. c’è una specie di ripensamento: ma come si definisce la moltiplicazione? Ed ecco la
«Definizione VII.15. Si dice che un primo numero moltiplica un secondo numero, quando si ottenga un terzo
numero componendolo con la somma di tante volte il secondo quante sono le unità del primo.»
Dunque la moltiplicazione si ottiene come addizione ripetuta ed Euclide specifica chi è il
moltiplicando e chi il moltiplicatore. La traduzione italiana pare poco felice. Già usare “primo”
come aggettivo numerale ordinale pare assai poco opportuna, visto che poco prima si era data la
Definizione di numero primo. Poi l’uso del verbo “comporre” al gerundio potrebbe fare pensare al
numero composto, ma non è così.
Il testo latino aggiunge una “coda” che manca in italiano:
«Numerus numerum moltiplicare dicitur, ubi quot sunt in eo unitates, toties componitur numerus multiplicatus,
et oritur aliquis numerus.»
In questo caso il greco usa la parola " ϑ
, che richiama la composizione per moltiplicazione.
In ogni modo Euclide riconduce la moltiplicazione al multiplo e fissa il ruolo di moltiplicando e
moltiplicatore. L’eguaglianza suggerita 2·3 = 3+3, pertanto il primo termine è il moltiplicatore e il
secondo il moltiplicando. Ovviamente non si pone problemi di dare significato a 0·3 e a 1·3, ma
neppure si pone problemi sull’associatività dell’addizione.
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La ‘forzatura’ della moltiplicazione come addizione ripetuta ha sicuramente una tradizione nella
cultura greca contemporanea ad Euclide ed inoltre il merito di ricondurre il numero alla grandezza.
Questa tensione è sicuramente presente, come mostrano anche i risultati sul massimo comune
divisore, che viene ricondotto alla sottrazione.
III.7.2.5. Le Definizioni VII.16. – VII.19. In queste definizioni si sente l’influenza della aritmogeometria di ispirazione pitagorica. Si vuole dare un connotato geometrico ai numeri, per poter poi
applicare ad essi la teoria delle proporzioni a tali numeri, come se fossero figure geometriche, che
riguarderanno le successive definizioni.
«Definizione VII.16. Quando due numeri, moltiplicandosi fra loro, producano un terzo numero, il prodotto si
chiama numero piano, ed i numeri che si moltiplicano fra loro si chiamano i suoi lati.
Definizione VII.17. Quando tre numeri, moltiplicandosi fra loro, producano un quarto numero, il prodotto si
chiama numero solido, ed i numeri che si moltiplicano fra loro si chiamano i suoi lati.
Definizione VII.18. Numero quadrato è quello che è prodotto di due numeri uguali, ossia è un numero piano che
ha per lati due numeri uguali.
Definizione VII.19. [Numero] cubo è quello che è prodotto di tre numeri uguali, ossia è un numero solido che ha
per lati tre numeri uguali. »
E’ abbastanza strana la forma con cui si presentano le Definizioni VII.16 e VII.17, in quanto l’uso
dell’avverbio di tempo «Quando» e del congiuntivo «producano» fanno nascere il sospetto che dati tre
numeri, questi possano essere tali che il loro prodotto non fornisca un numero. Forse il dubbio
potrebbe essere relativo alla associativa, ma si stenta a crederlo. Un altro dubbio è che si possa
contemplare anche il caso di fattori unitari. La loro presenza farebbe perdere di significato ovvio al
concetto
di
numero
piano
o
solido,
perché
tali
definizioni
potrebbero
convenire
contemporaneamente al numero 1.
Queste definizioni lasciano un poco a desiderare, dato che un numero, ad esempio 12 potrebbe
essere numero sia piano, sia solido (12 = 3·4 = 2·3·2) e questo potrebbe avvenire in più modi.
Sembra quasi che l’essere numero piano o solido dipenda dalle esigenze dello studioso, piuttosto
che dal numero in sé.
III.7.2.6. Le Definizioni VII.20. e VII.21. Si tratta di definizioni che estendono la proporzionalità ai
numeri.
«Definizione VII.20. [Quattro] numeri sono in proporzione quando, a seconda che il primo numero sia multiplo,
sottomultiplo, o una frazione qualunque del secondo numero, corrispondentemente il terzo sia lo stesso multiplo,
o lo stesso sottomultiplo, o la stessa frazione del quarto.
Definizione VII.21. Numeri piani e solidi simili [fra loro] sono quelli che hanno i lati proporzionali. »
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La Def. VII.20 fissa quali sono le proporzioni che possono sussistere tra numeri (naturali), si
possono considerare solo rapporti interi o razionali. Importante l’introduzione del concetto di
frazione, che è sicuramente quanto più simile alla misura si trovi in questi libri.
Nella Def. VII.21 si esplica la similitudine tra numeri, visti come configurazioni geometriche. Così
ad esempio 12 e 48 visti come numeri piani sono simili, perché 6:2 = 12:4 ed in questo caso il
rapporto è dato da 3, poiché 6 = 3·2; 12 = 3·4.
Tali numeri 12 e 48 sono numeri piani non simili se 12 = 3·4 e 48 = 4·12, e neppure se sono visti
come numeri solidi, vale a dire 12 = 2·2·3; 48 = 2·3·8. Quindi la similitudine non risiede nei numeri,
ma da come serve che essi siano presentati.
Nel caso particolare di numeri quadrati o cubi le proporzioni (tra i lati di ciascun quadrato o cubo)
diventano banali.
III.7.2.7. I numeri perfetti. Tale concetto viene introdotto nella
«Definizione VII.22. Numero perfetto è quello che è uguale alla somma delle proprie parti.»
L’utilità dei numeri perfetti è assai poca, se non per considerazioni specialistiche di teoria dei
numeri. Eppure Euclide attribuisce importanza al tema, tanto che l’ultima Proposizione del Libro
IX, la
«Proposizione IX.36. Se, partendo dall’unità, si prendano quanti si voglia numeri raddoppiando successivamente
sino a che la loro somma venga ad essere un numero primo, e se la somma stessa vien moltiplicata per l’ultimo
dei numeri considerati, il prodotto sarà un numero perfetto.»,
un sorta di coronamento dei tre libri aritmetici. Euclide vuole quindi mostrare la sua abilità
aritmetica, su un tema che forse aveva o aveva avuto grande interesse ai suoi tempi. Lo strumento
che usa per dare la regola generale per la costruzione di numeri perfetti, è data dalle proporzioni
continuate (altro nome delle progressioni geometriche).
III.7.3. Le assunzioni aritmetiche. Euclide ha cercato di costruire la Geometria forse con maggiore
accuratezza di quanto non abbia fatto per l’Aritmetica. Infatti, sembra avere dato per intuitive o
ovvie alcune proprietà aritmetiche che potrebbero essere prese nel ruolo di postulati, ma che non
vengono neppure menzionate come nozioni comuni, sono semplicemente sottintese e, quando serve,
utilizzate. Fondamentalmente vengono impiegate le seguenti assunzioni:
Ass1: Se un numero divide due altri, divide anche la loro somma.
Ass2: Se un numero divide due altri, divide anche la loro differenza.
Ass3: Se un primo numero divide un secondo, divide anche qualunque multiplo del secondo.
Da Ass2 discende immediatamente che se il numero n divide la somma di a e b, e divide anche a,
allora n divide b, in quanto b = (a+b) – a.
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Si hanno esempi di uso di tali assunzione, ad esempio, nella dimostrazione della Prop. VII.1
vengono usate Ass2 e Ass3, mentre nella Prop. VII.2 viene usata anche Ass1.
Il Libro X che si occupa dell’Aritmetica dei numeri irrazionali quadratici, utilizza analoghe
assunzioni, però riferite a grandezze, come avviene nella dimostrazione della
«Proposizione X.2. Se di due grandezze disuguali veniamo a sottrarre, sempre e vicendevolmente, la minore
dalla maggiore [quante volte sia possibile], e quella [ogni volta] restante non misura mai la grandezza ad essa
precedente, le grandezze saranno incommensurabili. »
in cui si applica il fatto che se una grandezza misura altre due, ne misura anche la loro differenza,
mentre nella dimostrazione della Prop. X.2 e della
«Proposizione X.3. Date due grandezze commensurabili, trovare la loro massima misura comune.»,
si utilizza che se una grandezza ne misura una seconda e questa ne misura una terza, allora la prima
misura la terza.
Data l’unitarietà di ispirazione che è presente negli Elementi, queste assunzioni del Libro VII e
quelle che le generalizzano del Libro X, hanno forse motivo di essere in affermazioni usate nei
Libri V e VI, grazie alla connessione tra moltiplicazioni e multipli offerta dalla Def. VII. 15.
Si ha, ad esempio, nella dimostrazione della
«Proposizione V.2. Se una prima grandezza è multipla di una seconda grandezza lo stesso numero di volte che
una terza è multipla di una quarta, ed anche una quinta grandezza è multipla della seconda lo stesso numero di
volte che una sesta è multipla della quarta, anche la somma della prima e della quinta sarà multipla della
seconda grandezza lo stesso numero di volte che la somma della terza e della sesta è multipla della quarta.»
che se si considerano le grandezze A e B e si considerano (le grandezze equimultiple) mA, mB; nA,
nB, allora (mA+nA) e (mB+nB) sono grandezze equimultiple. Letta come divisori questa
affermazione dice che se A divide mA e nA, allora a divide la somma (mA+nA). Il passaggio
(mA+nA) = (m+n)A non è richiesto, dunque, in base a quanto mostrato qui, potrebbe essere
(mA+nA) = kA, con m+n ≠ k.
Con la
«Proposizione V.6. Se due grandezze sono equimultiple di altre due, e [dalle prime] si sottraggono [due altre]
grandezze [rispettivamente minori] delle prime e che siano equimultiple delle stesse [due seconde], anche le
differenze o sono uguali [rispettivamente] alle stesse [seconde grandezze], o sono loro equimultipli»
si svolge una considerazione analoga a quella vista nella Prop. V.2, ma stavolta relativa alla
differenza (con la articolazione della conclusione dovuta al fatta che nella sottrazione potrebbe
accadere di dover considerare il multiplo secondo 1!). Si giustificherebbero così, rispettivamente, le
Assunzioni 1 e 2, come particolarizzazioni delle procedure utilizzate nel Libro V.
Il contenuto della terza assunzione è ricavabile dalla
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«Proposizione V.3. Se una prima grandezza è multipla di una seconda grandezza lo stesso numero di volte che
una terza è multipla di una quarta, e se si prendono delle grandezze equimultiple della prima e della terza, anche
ex aequo ciascuna delle due grandezze così prese sarà multipla lo stesso numero di volte di ciascuna delle altre
due, ossia l’una della seconda grandezza, e l’altra della quarta [- vale a dire equimultiple di equimultipli sono
equimultipli].»
Per le considerazioni di proporzionalità che si fanno nel Libro V serve che n(mA) e n(mB) siano
ottenibili come multipli lo stesso numero di volte, di A e B, rispettivamente, ma basta che n(mA) =
hA e n(mB) = hB, senza bisogno che sia h = nm. Qui interessa osservare che di fatto si richiede
anche che n(mA) sia un multiplo di A, quindi che siccome mA divide n(mA) e A divide mA, si ha che
A divide n(mA).
In tal modo si prova giustifica la terza assunzione e si ottiene la transitività della relazione “divide”
o, con linguaggio euclideo, “misura”.
VII.4. I contenuti del Libro VII. Il Libro VII, in tutto, comprende 39 Proposizioni + 1 Corollario. In
modo abbastanza grossolano si possono suddividere le Proposizioni come segue:
Propp. VII.1 – VII.3 con Corollario, problema del massimo comune divisore.
Prop. VII.4 sulle parti
Propp. VII.5 - VIII.10 compatibilità della relazione di divisibilità con le operazioni e
l’eguaglianza.
Propp. VII.11 – VII.15 e poi VII.17 – VII.20 ed anche VII.33 divisibilità, prodotti e
proporzioni.
Prop. VII.16 la commutatività della moltiplicazione.
Propp. VII.21 – VII.28 proprietà dei numeri relativamente primi.
Propp. VII.29 – VII.32 proprietà dei numeri primi.
Propp. VII.34 – VII. 36 e VII.39 minimo comune multiplo e sue proprietà.
Propp. VII.37 e VII.38 sugli inversi di numeri naturali come moltiplicatori.
Le prime tre Proposizioni si occupano del massimo comune divisore e lo ottengono con un
algoritmo, detto algoritmo euclideo, mediante il quale si raggiunge il massimo comune divisore
eseguendo sottrazioni. Qui si presentano le dimostrazioni delle prime due.
«Proposizione VII.1. Se si prendono due numeri disuguali e si procede [a sottrazioni successive], togliendo di
volta in volta il minore dal maggiore, [la differenza dal minore e così via], se il numero che [ogni volta] rimane
non divide mai quello che immediatamente lo precede, finché rimanga soltanto l’unità, i numeri dati all’inizio
saranno primi tra loro.
Dimostrazione. Infatti, dati i due numeri AB, CD e continuandosi a sottrarre di volta in volta il minore dal
maggiore, la differenza dal minore e così via, il numero che ogni volta rimane non divida mai quello che
immediatamente lo precede, finché rimanga soltanto l’unità; dico che AB, CD sono primi tra loro, vale a dire che
soltanto l’unità misura AB, CD.
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Se AB, CD difatti non fossero primi tra loro, un altro numero li dividerebbe. Li divida, e sia esso E;
A
H
F
CD d’altra parte, dividendo BF, lasci il [resto] FA minore di CD, mentre AF, dividendo DG, lasci [il
C
resto] GC minore di AF, e GC, dividendo FH, lasci [come resto] l’unità HA. Poiché dunque E
G
divide CD, e CD divide BF, anche E divide BF (Ass3); ma esso divide pure tutto quanto BA, per cui
E
B
dividerà anche la differenza AF (Ass2). Ma AF divide DG; anche E quindi divide DG (Ass3); ed
esso divide pure tutto quanto DC, per cui dividerà anche la differenza CG. Ma CG divide FH;
D
anche E quindi divide FH (Ass.3); ed esso divide pure tutto quanto FA, per cui dividerà anche la
differenza, cioè l’unità AH (Ass2), pur essendo un numero: il che è impossibile. Nessun altro numero può quindi
dividere i numeri AB, CD, dunque AB, CD sono primi tra loro (Def. VII.12). »
Euclide adopera la ‘versione geometrica’ dei numeri, rappresentati da segmenti. Di fatto più che
segmenti si potrebbe parlare di una rappresentazione della retta dei numeri, così come viene
introdotta anche oggi nella scuola elementare. Interessante anche la presenza dell’unità, di solito
poco usata negli Elementi.
Il punto delicato, che da Euclide viene dato come banale è «continuandosi a sottrarre di volta in volta il
minore dal maggiore […], finché rimanga soltanto l’unità», in cui egli dà per scontato che il procedimento
abbia termine. La cosa non è ovvia e questo è il Principio della discesa, equivalente al Principio di
minimo ed al Principio di induzione.
«Proposizione VII.2. Dati due numeri che non siano primi fra loro, trovare il loro massimo comune divisore.
Dimostrazione. Siano AB, CD i due numeri dati che non sono primi fra loro. Si deve dunque trovare il massimo
comune divisore di AB, CD.
Supponiamo dapprima che CD divida AB; ma esso d’altra parte, divide anche sé medesimo per cui CD [in tal
caso] è divisore comune di CD, AB. Ed è evidente che è anche massimo; infatti nessun numero maggiore di CD
può dividere CD.
Se invece CD non divide AB, ed a partire da AB, CD si continua a sottrarre di volta in volta il
A
numero minore dal maggiore, la differenza dal minore, e così via, rimarrà un numero che dividerà
E
C
quello immediatamente precedente. Infatti non si avrà come ultimo resto l’unità; in caso contrario,
AB, CD sarebbero primi fra loro (Prop. VII.1), il che non è per ipotesi. Si avrà quindi un numero,
F
G
B
D
come ultimo resto, che dividerà quello immediatamente precedente. E CD allora, dividendo BE,
lasci il resto EA minore di CD, mentre EA, dividendo DF, lasci il resto FC minore di EA, e si
supponga che CF divida AE. Poiché dunque CF divide AE, ed AE divide DF, si ha che CF dividerà pure DF
(Ass3); ma divide anche sé stesso, per cui dividerà tutta quanta la somma CD (Ass1). Ma CD divide BE; quindi
anche CF divide BE (Ass3); ma divide pure EA, per cui dividerà anche tutta quanta la somma BA (Ass1); ma
esso divide pure CD; quindi CF è divisore comune di AB, CD. Dico ora che è anche il massimo. Infatti se non
fosse il massimo comune divisore di AB, CD, un altro numero, che fosse maggiore di CF, dividerebbe i numeri
AB, CD. Li divida, e sia esso G. E poiché G divide CD, ma CD divide BE, anche G divide BE (Ass3); ma esso
divide pure tutta quanta la somma BA, per cui dividerà anche la differenza AE (Ass2). Ma AE divide DF; quindi
anche G dividerà DF (Ass3); ma esso divide pure tutta la somma CD, per cui dividerà anche la differenza CF
(Ass2), cioè un numero maggiore dividerebbe un numero minore – il che è impossibile; non può quindi un altro
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numero, che sia maggiore di CF, dividere i numeri AB, CD; dunque CF è il massimo comune divisore di AB,
CD.»
Usando i simboli di oggi, la dimostrazione si basa sul fatto che se m < n, si ha MCD(m,n) =
MCD(n,m-n). Questo procedimento ha termine, perché si ha una diminuzione dei valori numeri
coinvolti: m < n e (n-m) < m (Principio della discesa). Si può iterare ora scegliendo il minimo tra n
e n-m ed operare, senza alterare il valore del MCD.
Questo procedimento ha due grandi vantaggi: è un algoritmo che si è rivelato, più di duemila anni
dopo, di facile implementazione in un computer; è applicabile a grandezze generiche, non solo a
numeri, e nel caso che si abbia una coppia ordinata di grandezze commensurabili, fornisce un
risultato con un numero finito di passi.
Viene introdotta in questo modo l’operazione MCD che è, banalmente, commutativa e associativa
(per la Prop. VII.3).
In altre Proposizioni Euclide si preoccupa di individuare i mattoni per provare che ogni numero si
può scrivere come prodotto di fattori; non arriva però al Teorema fondamentale dell’Aritmetica, che
ogni numero ha una sola decomposizione in fattori primi fermandosi alla
«Proposizione VII.31. Ogni numero composto ha per divisore un numero primo.».
Nella precedente
«Proposizione VII.30. Se due numeri si moltiplicano fra di loro, ed un altro numero, che sia primo, divide il
prodotto, esso dividerà anche uno dei fattori.»
si individua la proprietà essenziale dell’essere numero primo, non già quella usata nella Def. VII.11,
che afferma la proprietà di essere irriducibile.
VII.5. I contenuti del Libro VIII. Il Libro VIII presenta 27 Proposizioni + 1 Corollario, tutte relative,
direttamente o indirettamente alle proporzioni continuate, che non vengono definite esplicitamente,
ma sono introdotte all’interno dell’enunciato della
«Proposizione VIII.1. Se si dànno quanti si voglia numeri [A, B, C, D, …] in proporzione continuata [vale a dire
A:B = B:C = C:D …] ed i loro estremi sono primi fra loro, A, B, C, D, … sono i numeri più piccoli fra quanti
abbiano tra loro a due a due lo stesso rapporto A:B. »
La terminologia per parlare di questa situazione non è quella consueta oggi. Si ponga q tale che B =
qA, vale a dire A:B =
1
1
. Siccome A:B = B:C, si ha che anche B:C = , quindi C = qB = q2A. Se la
q
q
proporzione è continua, si ferma qui, se è continuata procede e si ottiene la proporzione
A:qA = qA:q2A = q2A:q3A = …
Si ha così che il ruolo delle proporzioni continuate è quello di introdurre l’oggetto matematico che
oggi viene detto progressione geometrica.
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
Le affermazioni che non parlano esplicitamente delle proporzioni continuate si occupano di numeri
figurati.
VII.6. I contenuti del Libro IX. La suddivisione tra il Libro IX e il precedente è inavvertibile, infatti
il libro riprende il discorso sui numeri figurati laddove si era interrotto nel Libro VIII.
Il libro contiene 36 Proposizioni + 1 Corollario.
- Le Propp. IX.1. – IX.7. riguardano i numeri figurati.
- Le Propp. IX.8. – IX.19 + Corollario, riguardano le proporzioni continuate.
- La Prop. IX.20., una delle più famose e citate degli Elementi, riguarda i numeri primi.
- Le Propp. IX.21. – IX.34. riguardano l’addizione e sottrazione di numeri pari e dispari.
- La Prop. IX.35. fornisce la somma dei termini di una progressione geometrica.
- La Prop. IX.36. che fornisce la regola per determinare i numeri perfetti pari.
In questi appunti si illustrano le Propp. IX.20 e IX.35, data la loro importanza matematica.
«Proposizione IX.20. Esistono [sempre] numeri primi in numero maggiore di quanti numeri primi si voglia
proporre.
Dimostrazione. Siano A, B, C i numeri primi proposti; dico che esistono numeri primi in maggior numero che A,
B, C[, cioè che ne esiste almeno un altro, oltre ad A, B, C].
Infatti, si prenda il minimo comune multiplo di A,B,C (Prop. VII.36), e sia esso K; si aggiunga a K l’unità U. Ora
il numero K+U o è primo o non lo è. Dapprima, sia un numero primo; si sono dunque trovati i numeri primi
A,B,C, K+U che sono in maggior numero che A, B, C.
Ma sia adesso il caso in cui, per ipotesi, K+U non è primo, per cui
Η
Α
Β
∆
Γ
esso è diviso da un numero primo (Prop. VII.31). Sia diviso dal
Ε
Ζ
numero primo D; dico che D non è uguale a nessuno dei numeri A, B,
C. Infatti, se possibile, sia uguale a [a qualcuno di essi]. Ma A, B, C
dividono K; perciò anche D dividerebbe K. Ma D divide pure K+U;
ossia D dividerebbe, pur essendo un numero, anche l’unità U che rimane di K+U: il che assurdo. Quindi D non è
uguale a nessuno dei numeri A, B, C. Ed è, per ipotesi, primo.»
Questa Proposizione oggi viene citata come il fatto che esistano infiniti numeri primi, oppure che
l’insieme dei numeri primi è infinito, affermazioni entrambe insostenibili per Euclide (ed Eudosso).
La scelta fatta mette in risalto l’infinito in potenza: presi quanti si voglia numeri primi (ovviamente
tanti quanti si vuole, ma sempre in numero finito) se ne trova almeno uno che non è stato
considerato. La considerazione di un insieme infinito, è corretta in un approccio che accetti
l’infinito in atto.
Però a ben guardare compare il trasparenza il concetto di insieme. Dice infatti il testo italiano «si
sono dunque trovati i numeri primi A,B,C, K+U che sono in maggior numero che A, B, C». Ora se A, B, C fossero
grandezze non ci sarebbero dubbi, ma A, B, C sono numeri e il testo latino afferma «ergo inventi sunt
primi numeri A, B, C, K+U plures numeris A, B, C.» e il greco
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#
A, B, C, K+U
A,
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
B, C, quindi sembra che si parli del fatto che tra i numeri A, B, C e K+U ci sia un numero maggiore
che tra A, B, C, invece si sta solo confrontando la cardinalità dell’insieme {A,B,C,K+U} e
dell’insieme {A,B,C}.
E’ anche da notare che il disegno che accompagna la dimostrazione è scorretto perché è ΕΖ che è
aggiunto a ∆Ε.
«Proposizione IX.35. Se si dànno quanti si voglia numeri in proporzione continuata fra loro, e dal secondo e
dall’ultimo di essi si sottraggono numeri uguali al primo, si avrà che la differenza fra il secondo ed il primo sta al
primo come la differenza fra l’ultimo ed il primo sta alla somma di tutti i numeri che precedono l’ultimo.
Dimostrazione. Siano A, BC, D, EF quanti si voglia numeri in proporzione continuata fra loro, che inizino a stare
in proporzione dal numero minimo A, e da BC si sottragga BH = A, e da EF si sottragga KF = A; dico che (BCA):A = (EF-A):(A+BC+D)[, ossia HC:A = EK:(A+BC+D)].
Infatti si pongano FL = BC, e FM = D. Ora poiché FL è uguale a BC, e la parte FK
di FL è uguale alla parte BH di BC, la differenza ML = (FM-FL) risulta uguale a
A
A
(D-A). Ma poiché EF:D = D:BC = BC:A [dalla proporzione continuata dell’ipotesi,
C
H
B
invertendo], e D è uguale a FM, mentre BC è uguale a FL, ed A è uguale a FK, si
D
E
M
A
L
BC
D
K
ha che EF:FM = FM:FL = FL: FK. Scomponendo (Propp. VII.11 e VII.13), si ha
F
(EF-FM):FM = (FM-FL):FL = (FL-FK):FK. Quindi anche, uno dei termini
antecedenti sta ad uno dei conseguenti come la somma degli antecedenti sta alla
somma dei conseguenti (Prop. VII.22): perciò LK:FK = (EM+ML+LK):(FM+FL+FK)[, ossia LK:FK =
EK:(FM+FL+FK)]. Ma LK è uguale a (BC-A), mentre FK è uguale ad A, e la somma (FM+FL+FK) è uguale alla
somma (D+BC+A); perciò (BC-A):A = (EF-A):(D+BC+A). Dunque, [dati quanti si voglia numeri in proporzione
continuata fra loro,] la differenza fra il secondo e il primo numero sta al primo come la differenza fra l’ultimo ed
il primo sta alla somma di tutti i numeri che precedono l’ultimo.»
Nella dimostrazione si fa riferimento ad alcune Proposizioni del Libro VII, le VII.11, VII.13,
VII.22. Per comodità del Lettore si ricopiano il testi di tali risultati.
«Proposizione VII.11. Se un primo numero sta ad un secondo come un terzo numero, minore del primo, sta ad
un quarto, minore del secondo, anche la differenza fra il primo ed il terzo starà alla differenza fra il secondo e il
quarto come il primo sta al secondo. […]
Proposizione VII.13. Se quattro numeri sono proporzionali, anche permutando saranno proporzionali. […]
Proposizione VII.22. I numeri più piccoli, fra quanti abbiano tra loro a due a due lo stesso rapporto, sono primi
fra loro.»
In realtà la citazione del testo in Italiano della Prop. VII.22 è scorretta, perché nella dimostrazione
della Prop. IX.35 viene citata quasi letteralmente la
«Proposizione VII.12. Se quanti si voglia numeri sono in proporzione, uno degli antecedenti starà ad uno dei
conseguenti come la somma degli antecedenti sta alla somma dei conseguenti.»
C’è la prima parte della dimostrazione che sembra scorretta (ed inutile):
« Infatti si pongano FL = BC, e FM = D. Ora poiché FL è uguale a BC, e la parte FK di FL è uguale alla parte
BH di BC, la differenza ML = (FM-FL) risulta uguale a (D-A).»
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mentre dovrebbe essere uguale a (D-BC). Questa eguaglianza non compare più nel seguito.
Se si riscrive la dimostrazione in simboli odierni usando lettere minuscole per i numeri, invece di
segmenti, si ha, partendo da a:b = b:c = c:d, o, il che è lo stesso considerando la progressione
geometrica di primo termine a e ragione q, a, aq = b, aq2 = c, aq3 = d.
L’asserto della Prop. IX.35 garantisce che (b-a):a = (d-a):(a+b+c), vale a dire a+b+c =
=
a(d − a)
=
b−a
a (aq 3 − a )
q3 − 1
=a
. Si ottiene così la formula consueta per la somma della progressione
aq − a
q −1
geometrica (considerando, come fa Euclide, la somma di tre termini).
Non appare banale la generalizzazione ad un numero arbitrario di termini.
E’ interessante anche il fatto che si usino in questo contesto proprietà delle proporzioni,
particolarizzate ai numeri, che sono già state dimostrate in generalità, rispettivamente si ha la
seguente corrispondenza
- La Prop. VII.11 corrisponde alla Prop. V.17.
- La Prop. VII.13 corrisponde alla Prop. V.18.
- La Prop. VII.12 corrisponde alla Prop. V.16.
Oggi questo risultato si prova facendo uso del principio di induzione, in cui si considera la
progressione geometrica come una successione indicizzata a partire da 0: a = a0, a1 = aq1, a2 = aq2,
… e l’induzione si fa a partire da 1. Si assume il passo, vale a dire che
n +1
i =0
=a
aq i =
n
i =0
aq i + aq n +1 = a
n
aq i = a
i =0
q n +1 − 1
, si ha
q −1
q n +1 − 1 + q n + 2 − q n +1
q n +1 − 1
q n +1 − 1 + q n +1(q − 1)
+ aq n +1 = a
=a
=
q −1
q −1
q −1
qn+2 − 1
, quindi è provato l’asserto.
q −1
Un altro modo che apparentemente non utilizza l’induzione è sfruttare un ragionamento euristico:
Si suppone nota la somma cercate e sia T =
T + q n +1 =
n i
q + q n +1 = 1 +
i =0
n +1 i
i =1
q = 1+ q
n
n i
q , si ha S =
i =0
q j = 1 + qT .
j =0
T+qn+1=1+qT, da cui qn+1-1 = T(q-1) e quindi T =
Da
n
aq i = a
i =0
questa
n i
q = aT . E’ però
i =0
uguaglianza
si
ottiene:
q n +1 − 1
q n +1 − 1
e, di conseguenza S = aT = a
.
q −1
q −1
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La necessità anche in questa dimostrazione dell’induzione consiste nel fatto che una volta trovata
l’espressione T =
q n +1 − 1
, con un ragionamento euristico, bisogna poi dimostrarlo e quindi si
q −1
ricade nel Principio di induzione o analoga richiesta.
Questo ragionamento euristico si applica anche alle serie, con, stavolta, l’ipotesi forte che esista la
cosiddetta ‘somma’ della serie, vale a dire un limite. Se quindi stavolta T =
= 1+ q
∞
q j = 1 + qT , da cui, risolvendo rispetto a T, T =
j =0
∞ i
q = 1+
i =0
∞ i
q =
i =1
1
, formula accettabile (oggi) solo nel
1− q
caso che |q| < 1, ma che veniva usata nel XVIII secolo per qualunque q.
III.8 Il Libro X.
III.8.1. Le difficoltà del Libro X. Questo Libro è apparso interminabile e complicato a molti
matematici, tanto che la sua lettura da molti è stata iniziata e dopo poco
interrotta.
Fibonacci, a proposito del Libro X ha scritto:
«difficilior est antecedentium et quorundam sequentium librorum Euclidis […] et
cum studiose super hos quindecim numeros, et super eorum diversitatem
Leonardo Pisano – Fibonacci
(1170 – 1250)
cogitarem»
Anche Stevin ha detto che il Libro X è «la croix des
mathématiciens»
e Van der Waerden aggiunge «Book
X does not make easy reading».
Simon Stevin
(1548 – 1620)
Il Libro X nella traduzione italiana, assieme a note
e
commenti,
impegna
279
pagine.
Molto
probabilmente è la collazione di tre libri diversi, come si può
Bartel Leendert Van der Waerden
(1903 – 1996)
evincere dal fatto che le definizioni sono presentate, invece che all’inizio del libro, anzi dei libri di
uno stesso gruppo, in tre gruppi diversi.
III.8.2. Funzione del Libro X e sue radici storiche. Una questione che è stata al centro
dell’attenzione degli storici e dei commentatori è individuare a cosa serve il Libro X nell’economia
degli Elementi.
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I risultati presentati in questo Libro non hanno applicazioni, ma questo c’era da aspettarselo, visto
l’atteggiamento generale di Euclide, nel riguardo delle applicazioni.
Secondo Ruth Rebekka Struik:
«Se proprio Euclide ha composto il decimo [libro] per possedere quanto occorre alla trattazione dei poliedri
regolari, egli ha fabbricato una batteria di cannoni per sparare un solo colpo. »
Ma osserva che in relazione a quanto Euclide ha seminato nella cultura matematica dei suoi posteri,
«E tuttavia la batteria potrà servire, com’è avvenuto, per sparare in seguito altri colpi! »
Sembra quindi che l’esigenza di questo Libro sia ‘interna’ ad Euclide stesso, ed è forse la parte
degli Elementi in cui si sente di più la mano dell’autore. Si tratterebbe dell’esigenza
metamatematica di completezza di informazione che serpeggia talora nei vari libri, per una sorta di
equilibrio estetico: dopo avere trattato in tre libri i rapporti tra grandezze commensurabili, si doveva
dedicare altri tre libri, poi radunati in uno, forse dai copisti, a quelli di grandezze incommensurabili
(ma non troppo).
Secondo altri, uno dei motivi più significativi è quello di presentare in modo organico i risultati dei
matematici precedenti, sviluppatisi attorno al tema di grande impatto sociale culturale, della
cosiddetta crisi degli incommensurabili, secondo Speranza, una delle prime rivoluzioni del pensiero
matematico.
Ci sono infatti motivi di ritenere che alcuni risultati risalgano ai matematici che hanno preceduto
Euclide. Ad esempio si attribuisce a Teodoro di Cirene la Prop. X.2, che può essere utilizzata per
dimostrare l’incommensurabilità della diagonale del quadrato rispetto al lato.
Un altro caso è stato individuato nella
«Proposizione X.9. Quadrati di rette commensurabili in lunghezza hanno fra loro il rapporto che un numero
quadrato ha con un numero quadrato; ed i quadrati che abbiano fra loro il rapporto che un numero quadrato ha
con un numero quadrato, avranno anche i lati commensurabili in lunghezza. Invece, i quadrati di rette
incommensurabili in lunghezza non hanno fra loro il rapporto che un numero quadrato ha con un numero
quadrato; ed i quadrati che non abbiano fra loro il rapporto che un numero quadrato ha con un numero quadrato,
non avranno neppure i lati commensurabili in lunghezza.»
che viene accreditato a Teeteto.
Questa Proposizione è stata citata precedentemente a proposito dei quadrilateri di Proposizioni,
perché l’enunciato contiene un tale quadrilatero:
Se due rette sono commensurabili i loro quadrati sono in rapporto come due numeri quadrati
(diretta);
se i quadrati di due rette sono tra loro in rapporto come due numeri quadrati, allora le rette
sono commensurabili (inversa);
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Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
se due rette non sono commensurabili, i loro quadrati non sono in rapporto come due numeri
quadrati (contraria);
se i quadrati di due rette non stanno fra loro in rapporto come due numeri quadrati, allora le
due rette sono incommensurabili (contronominale).
L’attribuzione a Teeteto deriva da una nota di un manoscritto degli Elementi e dal dialogo Teeteto
di Platone, in cui si assiste ad un dialogo tra Socrate, Teodoro di Cirene e il giovane Teeteto.
Quest’ultimo è elogiato per il suo ingegno precoce da Teodoro e Socrate lo vuole mettere alla prova
chiedendogli cosa sia la scienza nell’accezione di
.
«Socrate – Se avessi maggiormente a cuore gli abitanti di Cirene, ti chiederei intorno a quelli, per sapere se
alcuni di essi, tra i giovani, dedichino le loro cure alla geometria, o ad alcun altro ramo di filosofia. […]
S – E’ forse pittore Teodoro?
Teeteto – No, a quanto io sappia.
S – Non è forse un geometra?
T – Ma certamente, Socrate.
S – Ma è anche un astronomo e un calcolatore e un musicista?
T – Mi sembra bene. […]
S – Ma dimmi, tu da Teodoro impari la geometria?
T – Sì.
S – Ed anche l’astronomia, e l’armonia e i calcoli?
T – Mi sforzo di farlo. […]
S – Ma dimmi, che cosa ti sembra che sia (la) scienza? […]
T – Mi sembra che tutte le discipline che sia possibile imparare da Teodoro siano scienze: la geometria e tutte le
discipline che hai or ora nominate.»
Ma Socrate interviene affermando che non vuole conoscere quali siano alcune scienze, ma cosa sia
la scienza e porta ad esempio il fatto che se si volesse definire l’argilla, non servirebbe enumerarne
le specie, basterebbe dire che è il risultato dell’azione di impastare terra con acqua. Teeteto risponde
«Teeteto – Posta così, la questione mi sembra facile: la tua domanda rischia di essere corrispondente a quella che
ci si è presentata quando discutevamo poco fa, io e questo tuo omonimo Socrate qui presente.
S – Di che si tratta, Teeteto?
T – Il nostro Teodoro ci disegnava qualcosa intorno alle potenze e precisamente intorno a quella di tre piedi e a
quella di cinque piedi, dimostrando che non erano commensurabili in lunghezza col piede e così via,
considerandole una per una, fino a quella di diciassette piedi, e a questa potenza si fermò. A noi allora venne in
mente questo: dal momento che le potenze ci apparivano in quantità infinita (
riunirle insieme, usando un sol termine, col quale potessimo designarle tutte.
S – E l’avete trovato un tal termine?
T – Mi sembra di sì: ma guarda tu ora se va bene.
S – Di’ pure.
- 141 -
ϑ ), tentare di
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Carlo Marchini
T – Tutti i numeri abbiamo diviso in due (gruppi): quelli che possono risultare dal prodotto di un numero per se
stesso li abbiamo assimilati come figura (geometrica) ad un quadrato e li abbiamo chiamati numeri quadrati ed
equilateri.
S – E va bene (fin qui).
T – E i numeri intermedi tra quelli (quadrati) prima considerati, come ad esempio il tre, il cinque e qualunque
altro sia impossibile risulti dal prodotto d’un numero per se stesso, ma invece risulti (necessariamente) o dal
prodotto d’un numero più grande per uno più piccolo o di uno più piccolo per uno più grande, e quindi (come
figura geometrica) sia compreso sempre da un lato maggiore e da uno minore, assimilandoli alla figura
rettangolare li abbiamo chiamati numeri rettangolari.
S – E va molto bene! Ma che avete fatto dopo di ciò?
T – Tutte le linee che quadrano un numero equilatero piano le definimmo lunghezze: quante invece quadrano un
numero rettangolare le definimmo potenze poiché sono non commensurabili in lunghezza con quelle, ma lo sono
per quanto riguarda le aree (dei quadrati) su di esse costruite. E circa i solidi qualcosa di simile.
S – Molto bene, ragazzi: sicché mi sembra che Teodoro non sarà da ritenere un falso testimone!»
Teodoro aveva presentato due quadrati (di 3 piedi quadrati e 5 piedi quadrati), e dimostrato che i lati
di tali quadrati non erano commensurabili (e quindi la non esistenza di un numero razionale il cui
quadrato fosse
3
. Teodoro aveva poi mostrato altri esempi, arrivando fino al quadrato di 17 piedi
5
quadrati, senza una dimostrazione generale che stabilisse l’irrazionalità. Per Teeteto questa serie di
esempi ha il ruolo del suo precedente catalogo di scienze.
Ma il matematico ateniese avrebbe poi trovato la condizione caratteristica per avere che un quadrato
abbia lato razionale, suddividendo i numeri in numeri quadrati e numeri rettangolari. Una volta
stabilita una unità di misura per le lunghezze, aveva distinto tra quadrati aventi per area un numero
quadrato, il cui lato definisce lunghezza oppure un numero rettangolare, il cui lato lo definisce
(lunghezza in) potenza. Solo i lati dei primi erano commensurabili con la prefissata unità. Ma in tale
modo Teeteto era riuscito, in un colpo solo, a risolvere i problemi particolari. Ed era questo,
secondo lui, una possibile caratteristica della scienza.
III.8.3. Definizioni e contenuti del Libro X. Il gusto analitico e classificatorio (di matrice
aristotelica) di Euclide lo porta a fornire classificazioni delle linee irrazionali, ed è questo il vero
tema principale del Libro X. Dice infatti Fibonacci che ha dovuto studiare molto per comprendere i
quindici tipi di linee «et cum studiose super hos quindecim numeros, et super eorum diversitatem cogitarem». Per
completezza di informazione si riportano qui le definizioni usate da Euclide, come sorta di
segnalazione degli argomenti di cui si occupa nel Libro
III.8.3.1. La prima serie di definizioni. Sono quattro, collocate all’inizio del Libro X, alcune relative
alle grandezze in generale, altre a casi particolari:
- 142 -
Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
«Definizione X.1. Si dicono grandezze commensurabili (
misura, ed incommensurabili (
"
) quelle che sono misurate da una stessa
) quelle di cui non può esistere nessuna misura comune.
Definizione X.2. Sono commensurabili in potenza (
) rette tali che i quadrati su esse costruiti possano
venir misurati da una stessa area, ed incommensurabili in potenza quando i loro quadrati non ammettono nessuna
area come misura comune.
Definizione X.3. Ciò premesso si dimostra che, rispetto ad una qualunque retta assunta come data, esistono in
quantità infinita rette commensurabili e rette incommensurabili con essa: queste ultime o incommensurabili
soltanto in lunghezza, od anche in potenza. Si chiami dunque razionale (
) la retta che si assume come data in
partenza, e razionali le rette con questa commensurabili, sia in lunghezza ed in potenza, sia soltanto in potenza, e
si chiamino invece irrazionali (
) quelle che sono incommensurabili con essa [tanto in lunghezza quanto in
potenza].
Definizione X.4. E razionale si chiami il quadrato della retta assunta come data, e pure razionali le aree
commensurabili con esso, mentre si chiamino irrazionali quelle con esso incommensurabili, ed irrazionali si
chiamino le rette che generano tali aree incommensurabili, e cioè nel caso in cui quest’ultime siano quadrati, i
loro stessi lati, se invece sono altre figure rettilinee, le rette che sono lati di quadrati ad essi uguali. »
Come si vede la prima definizione parla di grandezze in generale, e ne conseguiranno alcune
Proposizioni relative al caso più generale, come la Prop. X.2, altre trattano del caso speciale dato
dalle rette e dalle aree. Da notare che il testo italiano introduce il termine ‘area’ per chiarezza, ma
esso è assente dal testo latino e greco.
La Def. X.3 è un tipico esempio di definizione genetica: inizia con una presa di distanza. Richiede
infatti che prima si sia dimostrato qualcosa (e questa parte non dovrebbe fare parte esplicita della
definizione). La definizione vera e propria inizia con «Si chiami dunque…».
Un esempio della permanenza di Euclide nella cultura occidentale, ed una traccia del contributo
dato dal Libro X, è la parola inglese ‘rationale’ un sostantivo tradotto come: base, fondamento
logico; ragione effettiva, e più raramente come: analisi ragionata, spiegazione logica.
Per chiarire con un esempio quanto proposto in queste definizioni. L’esempio proposto a Teeteto da
Teodore di Cirene, di due quadrati di area 3 e 5 (piedi quadrati) sottintendono una commensurabilità
delle aree, anche se non c’è la commensurabilità dei lati dei quadrati con il ‘razionale’, la ‘retta’ di
un piede presa come non unità di misura, concetto che sarà sviluppato ben più tardi da Bombelli e
Cartesio, ma come metro di paragone della razionalità. Si tratta di un caso di razionalità in potenza.
C’è invece un altro caso: dato un segmento che misuri a, la sua sezione aurea, cioè tale che
a:x = x:(a-x),
si può esprimere (con i simboli di oggi) come soluzione dell’equazione x2 = a2 – ax, cioè
dell’equazione in forma normale x2 + ax – a2 = 0. Tale equazione ha soluzione
x=
a + a 2 + 4a 2 a + a 5
1+ 5
=
=a
. Si tratta di una lunghezza incommensurabile con a.
2
2
2
- 143 -
Appunti di Geometria classica A.A. 2005-2006
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L’altra soluzione x = a
Carlo Marchini
1− 5
non ha significato geometrico essendo la soluzione la misura di un
2
1+ 5 + 2 5
3+ 5
segmento. Il quadrato costruito sulla sezione aurea ha perciò area a 2
= a2
, che è
4
2
in rapporto irrazionale con l’area del quadrato di lato a. Si tratta quindi di un quadrato
incommensurabile anche in potenza.
Da notare che nell’ultima parte della Def. X.4 Euclide sottintende che una trasformazione per
equivalenza conservi la commensurabilità o l’incommensurabilità.
Il concetto di retta, ovvero segmento, spesso viene utilizzato nei libri aritmetici come sostituto di
numero. Però retta razionale si discosta ampiamente dal concetto di numero razionale, in quanto, in
questo contesto, la diagonale del quadrato è una retta razionale rispetto alla retta (segmento) preso
come lato.
III.8.3.2. La prima Proposizione, Anassagora e il ‘fantasma’ di Zenone. Dopo avere dato questa
prima serie di definizioni, Euclide presenta la
«Proposizione X.1. [Assumendosi come] date due grandezze disuguali, se si sottrae dalla maggiore una
grandezza maggiore della metà, dalla parte restante un’altra grandezza maggiore della metà, e così si procede
successivamente, rimarrà una grandezza che sarà minore della grandezza minore [inizialmente] assunta.
Dimostrazione. Siano AB, C due grandezze disuguali, e di esse AB sia
A
K
B
H
C
maggiore; dico che, se da AB si sottrae una grandezza maggiore della
metà, dalla parte restante un’altra grandezza maggiore della metà, e
D
F
G
E
così si procede successivamente rimarrà una grandezza che sarà
minore di C.
Infatti venendo C moltiplicata (cioè riportata più volte di seguito), finirà per essere maggiore di AB (Def. V.4). Si
moltiplichi [appunto] C, e sia DE multipla di C, e maggiore di AB. Si divida DE nelle parti uguali a C, cioè DF,
FG, GE, si sottragga da AB la grandezza BH maggiore della metà, da AH la grandezza HK maggiore della metà,
e così si proceda successivamente, fino a che le parti (disuguali) di AB siano uguali in numero alle parti di DE.
Siano dunque AK, KH, HB parti (disuguali) in ugual numero delle parti DF, FG, GE; e poiché DE è maggiore di
AB, da DE è sottratta EG minore della metà, e da AB è sottratta BH maggiore della metà, la grandezza rimanente
GD è maggiore della rimanente HA. Ora, poiché GD è maggiore di HA, da GD si è sottratta la metà GF, e da HA
la grandezza HK maggiore della metà, la grandezza rimanente DF è maggiore della rimanente AK. Ma DF è
uguale a C; perciò anche C è maggiore di AK. Sia quindi che AK è minore di C.
Dunque, della grandezza AB viene a rimanere la grandezza AK che è minore della grandezza minore C assunta
come data: il che si doveva dimostrare. E ciò similmente si potrà dimostrare anche se si sottraggono dalle
grandezze le loro metà.»
Nella dimostrazione riportata ci sono ipotesi implicite che vanno chiarite:
- le grandezze considerate in partenza sono omogenee, quindi si può applicare il Principio di
Eudosso-Archimede;
- 144 -
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
Carlo Marchini
- nella classe di grandezze considerate non c’è una grandezza minima, dato che il procedimento
è iterabile, per cui dopo avere trovato AH minore di C, scambiando i ruoli di C e AH si può
trovare ora una grandezza minore di AH e così via in modo potenzialmente infinito.
In un certo senso questo è un Principio di Eudosso-Archimede al contrario e questo sembra la
dimostrazione di un pensiero di Anassagora:
«Rispetto al piccolo non c'è un minimo, ma c'è sempre un più piccolo perché l'esistente non può essere annullato
[per divisione]. Così, rispetto al grande c'
è sempre un più grande e il più grande è eguale al piccolo come
pluralità, e in se stessa ogni cosa pensata come somma d'
infinite parti è insieme grande e piccola.»
Questo pensiero di Anassagora da una parte introduce le serie, parlando della somma d’infinite
parti, dall’altra sembra essere il punto d’appoggio di Zenone per scardinare le idee di Spazio,
Tempo, Movimento: la distanza tra Achille e la Tartaruga diventa piccola, sempre più piccola, ma
non può essere annullata. In realtà il procedimento di Euclide non è solo quello della divisione, lui
cerca di ‘parare il colpo’ sottraendo una parte maggiore della metà.
In termini più attuali, preso un ε, piccolo a piacere, siamo in grado di trovare un multiplo di ε che
supera una grandezza data (Principio di Eudosso-Archimede perché essere piccolo a piacere non
vuole dire essere infinitesimo in atto), ma sappiamo così costruire una parte della grandezza data
(mediante suddivisione per metà e somma delle metà) che è minore di ε. Così si trova un numero
naturale n tale che la differenza tra la grandezza e che la somma della progressione geometrica, di
ragione
1
e di primo termine la metà della grandezza data, di n (o n+1) termini di parti della
2
grandezza data, differisce dalla grandezza meno di ε. Siamo in presenza del limite di una
successione, certamente particolare, ma culturalmente significativa.
III.8.3.3. Le Proposizioni definitorie. Tra la prima e la seconda serie di definizioni, Euclide presenta
alcune Proposizioni che hanno il duplice scopo di dimostrare alcune proprietà e nel contempo di
fornire definizioni di enti che poi utilizzerà. Questo stile espositivo si distacca profondamente
dall’impostazione della Scienza deduttiva di Aristotele ed è stato ampiamente trascurato nella
matematica successiva.
I motivi di questa scelta espositiva euclidea non sono chiari. Sicuramente, visti con gli occhi di
oggi, la descrizione che Euclide fa mediante le Proposizioni definitorie potrebbe essere
semplificata, ma questo a patto di introdurre il concetto di radice, che sebbene presente in testi
mesopotamici, «tuštakkal», si affermerà solo con la Matematica araba.
Forse la complessità della materia che sta introducendo lo spinge a discostarsi dallo stile usato in
precedenza, oppure mentre negli altri Libri espone materiali ‘sedimentati’ che hanno avuto il tempo
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di dipanare la trama concettuale dall’ordito espositivo, ora Euclide sta scrivendo di getto e non ha il
tempo di riflettere più approfonditamente su questi argomenti innovativi (per il suo tempo).
Mediante questa prima serie di Proposizioni definitorie Euclide introduce altri 7 tipi di rette che si
aggiungono alle rette razionali e irrazionali (Def. X.3).
«Proposizione X.21. Un rettangolo compreso da rette razionali commensurabili soltanto in potenza è irrazionale,
e la retta, il cui quadrato sia ad esso uguale, è irrazionale: si chiami mediale.»
«Corollario alla Proposizione X.23. E’ da ciò evidente che un’area commensurabile con un’area mediale è
mediale.»
«Proposizione X.36. Se si sommano due rette razionali commensurabili soltanto in potenza, la retta che risulta
dalla somma è una retta irrazionale: sia chiamata binomiale.»
«Proposizione X.38. Se si sommano due rette mediali commensurabili soltanto in potenza e comprendenti
un’area mediale, la somma è una retta irrazionale: si chiami seconda bimediale.»
«Proposizione X.39. Se sommano due rette incommensurabili in potenza, tali che la somma dei loro quadrati sia
un’area razionale e sia invece area mediale il rettangolo da esse compreso, la somma è una retta irrazionale: si
chiami maggiore.»
«Proposizione X.40. Se si sommano due rette incommensurabili in potenza, tali che la somma dei loro quadrati
sia un’area mediale e sia invece un’area razionale il rettangolo da esse compreso, la somma è una retta
irrazionale: si chiami retta potenziante un’area razionale più un’area mediale.»
«Proposizione X.41. Se si sommano due rette incommensurabili in potenza, tali che la somma dei loro quadrati
sia un’area mediale ed il rettangolo da esse compreso sia pure un’area mediale, incommensurabile con la somma
dei quadrati delle due rette, la somma è una retta irrazionale: si chiami retta potenziante la somma di due aree
mediali.»
Le aree mediali non hanno neppure l’onore di essere introdotte con una Proposizione: si tratta dei
quadrati di lato mediale. Un poco di chiarimento lo si ottiene con i simboli moderni.
Siano a,b∈
a,
con b non quadrato perfetto, si può associare ad una retta mediale il numero
ad un’area mediale il numero a b . Ad una retta binomiale si può associare il numero
a b,
a + b , in
cui a potrebbe anche essere un quadrato perfetto.
Per individuare le varie rette bimediali, si considerino ora a,b,c∈
a,
con b non quadrato perfetto: e
si considerino le mediali a b e c b :
- se il prodotto abc è un quadrato perfetto, allora alla prima bimediale è associato
abc ;
- se il prodotto abc non è un quadrato perfetto, allora alla seconda bimediale è associato
abc .
Siano ora a,b numeri positivi ottenuti a partire dai numeri razionali, mediante operazioni di
addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione e estrazione di radici quadrate, quello che d’ora in
poi chiameremo numeri reali euclidei e il cui insieme sarà indicato con
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e
ed nel caso in oggetto,
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tali che il rapporto tra a e b non sia razionale e anche a2 e b2 non hanno rapporto razionale, ma (a2 +
b2)∈
a
ed esistano c,d∈
a
, con d non quadrato perfetto tali che ab = c d , a+b viene detta retta
maggiore.
Per le rette potenzianti si considerano come prima a,b∈
rispettivo rapporto razionale, ed esistano c,d∈
c d mentre (ab)∈
a,
a
e
tali che a e b e anche a2 e b2 non hanno
, con d non quadrato perfetto tali che (a2+b2) =
a+b è la retta potenziante un’area razionale più un’area mediale, il che
equivale ad associare a questo tipo di retta un numero del tipo
d + c ; se invece il prodotto e la
somma dei quadrati sono mediali, allora la somma di a e b è la retta potenziante la somma di due
aree mediali, cui + associato un numero della forma
c + d , dove stavolta anche il numero
razionale c non è un quadrato perfetto.
Tra la seconda e la terza serie di definizioni, Euclide presenta altre Proposizioni con contenuto
definitorio, in piena simmetria con quanto visto per la rette mediali e potenzianti.
«Proposizione X.73. Se da una retta razionale si sottrae un’altra retta razionale che sia commensurabile con la
prima soltanto in potenza, la parte che della prima rimane è una retta irrazionale: si chiami apotome. »
«Proposizione X.74. Se da una retta mediale si sottrae un’altra retta mediale che sia commensurabile con la
prima soltanto in potenza, e che, insieme alla prima, comprenda un’area razionale, la parte rimanente della prima
è una retta irrazionale: si chiami prima apotome di mediale.»
«Proposizione X.75. Se da una retta mediale si sottrae un’altra retta mediale che sia commensurabile con la
prima soltanto in potenza, e che, insieme alla prima, comprenda un’area mediale, la parte rimanente della prima
è una retta irrazionale: si chiami seconda apotome di mediale.»
«Proposizione X.76. Se da una retta se ne sottrae un’altra che sia con essa incommensurabile in potenza, e tale
che la somma dei rispettivi quadrati sia un’area razionale, ed area mediale, invece, il rettangolo da esse
compreso, la parte rimanente della prima è una retta irrazionale: si chiami minore.»
«Proposizione X.77. Se da una retta se ne sottrae un’altra che sia con essa incommensurabile in potenza, e tale
che la somma dei rispettivi quadrati sia area mediale, ed area razionale, invece, il rettangolo da esse compreso, la
parte rimanente della prima è una retta irrazionale: sia chiamata retta potenziante la differenza fra un’area
mediale ed un’area razionale.»
«Proposizione X.78. Se da una retta se ne sottrae un’altra che sia con essa incommensurabile in potenza, e tale
che la somma dei rispettivi quadrati sia un’area mediale, area mediale anche il doppio del rettangolo da esse
compreso, ed infine tale che la somma dei quadrati [delle rette di cui sopra] sia incommensurabile col rettangolo
da esse compreso, la parte che rimane della prima è una retta irrazionale: sia chiamata retta potenziante la
differenza fra due aree mediali.»
Il confronto con la prima serie di Proposizioni definitorie, mostra come Euclide non avesse il senso
che addizione e sottrazione sono la stessa operazione (nei numeri interi o più generalmente negli
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anelli.) E’ quindi costretto a costruire due ‘colonne’ identiche e separate del suo edificio
concettuale. Questo lo si vedrà anche a proposito della seconda e terza serie di definizioni.
III.8.3.4. La altre due serie di definizioni. Dopo 47 Proposizioni e numerosi Lemmi e Corollari,
definizioni seminascoste, dopo 104 pagine (nel testo in Italiano), un’estensione confrontabile con
quella di altri Libri, Euclide presenta una seconda serie di definizioni, introdotte da una sorta di
premessa.
«Qualora sia data in partenza una retta che si assume come razionale, se è data poi una retta binomiale divisa nei
suoi termini generatori e tale che il quadrato del termine maggiore superi il quadrato del minore del quadrato di
una retta commensurabile in lunghezza col termine maggiore:
Definizione X’.1. Se il termine maggiore è inoltre commensurabile in lunghezza con la retta razionale che si è
assunta [in principio], la retta binomiale sia chiamata prima binomiale.
Definizione X’.2. Se invece è il termine minore ad esser commensurabile in lunghezza con la retta razionale che
si è assunta in principio, la retta binomiale sia chiamata seconda binomiale.
Definizione X’.3. E se nessuno dei due termini è commensurabile in lunghezza con la retta razionale che si è
assunta [in principio], la retta binomiale sia chiamata terza binomiale.
Di nuovo, [data in partenza una retta che si assume come razionale], se [è data una retta binomiale, divisa nei
suoi termini generatori è tale che] il quadrato del termine maggiore superi quello del minore del quadrato di una
retta incommensurabile in lunghezza col termine maggiore:
Definizione X’.4 Se il termine maggiore è inoltre commensurabile in lunghezza con la retta razionale che si è
assunta [in principio], la retta binomiale si chiama quarta binomiale.
Definizione X’.5. Se invece è il termine minore ad essere commensurabile in lunghezza con la retta razionale che
si è assunta in principio, la retta binomiale sia chiamata quinta binomiale.
Definizione X’6. E se nessuno dei due lo è, [cioè nessuno dei due termini è commensurabile con la retta
razionale che si è assunta in principio,] la retta binomiale è chiamata sesta binomiale.»
Il linguaggio usato in questa seconda serie di definizioni fa pensare che si tratti di due sole infatti le
prime tre come le seconde tre hanno per incipit: «Se[…] Se invece[…] E se nessuno […]», come a
segnare una mancanza di interruzione del discorso espositivo.
Con queste definizioni si fa una distinzione fine tra le rette binomiale, distinguendole in sei casi,
individuati da un numero ordinale. Usando i simboli visti prima si ha, partendo da numeri razionali
assoluti a,b, con b non quadrato perfetto. La premessa alle prime tre definizioni richiede che il
quadrato del maggiore meno il quadrato del minore sia commensurabile in lunghezza con il termine
maggiore.
- prima binomiale
a + b , con a2 > b e a è razionale quindi a2 – b quadrato perfetto,
- seconda binomiale
a + b , con a2 < b e b – a2 è commensurabile con
- terza binomiale
b;
a + b , con a non quadrato perfetto e max(a,b) – min(a,b)
commensurabile con max(a,b);
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La premessa alle altre tre definizioni richiede che il quadrato del maggiore meno il quadrato del
minore non sia un quadrato perfetto.
- quarta binomiale
a + b , con a2 > b e a2 – b non quadrato perfetto,
- quinta binomiale
a + b , con a2 < b e b – a2 non quadrato perfetto;
a + b , con a non quadrato perfetto e max(a,b) – min(a,b) non
- sesta binomiale
quadrato perfetto;
Il primo dei tre tipi di rette binomiali sopra indicati è alla base di un ‘oggetto’ didattico che ha una
tradizione scolastica, ma che pare venga dimenticato ben presto dagli studenti, i radicali doppi, vale
a dire espressioni del tipo
a ± b che talvolta possono scriversi come somme o sottrazioni di
radicali ‘semplici’ (in realtà le rette binomiale dànno luogo solo all’addizione, con la sottrazione si
hanno le apotomi presentate in seguito). Infatti la condizione per la possibilità di trasformazione
nella forma indicata bisogna proprio considerare la differenza tra a2 – b per determinare se è un
quadrato perfetto, quindi si è nella condizione di una prima binomiale.
Ad esempio si consideri 3 ± 5 , (la prima binomiale è col segno +) in questo caso si ha 9 – 5 = 22.
3± 5 =
Quindi
5
1
±
2
2
2
=
3+ 2
3−2
±
=
2
2
5
1
±
.
2
2
Ed
infatti
si
ha
5 +1
5
±2
= 3± 5 .
2
4
Questa semplificazione non si ha nel caso (seconda binomiale, col segno +) 3 5 ± 5 , vale a dire
( )2
45 ± 5 , essendo 3 5 il termine maggiore e 45 − 25 = 20 = 2 5 , il rapporto tra questo valore e
il termine maggiore è
2
e neppure nel caso di una terza binomiale, come
3
18 ± 10 , col segno +,
( )2 e in questo caso il rapporto tra il termine maggiore
in quanto 18 – 10 = 8 = 2 2
2 2 è ancora
18 = 3 2 e
2
.
3
Dopo altre 80 pagine, 37 Proposizioni, Lemmi e Corollari, volti a studiare le proprietà dei vari tipi
di rette binomiali, Euclide introduce la terza serie di definizioni, che introducono altri sei tipi di
rette. Prima di introdurle il testo italiano fa una premessa di chiarimento, scritta in corpo minore del
resto del testo ed accompagnata da un disegno.
«Se AB, CB sono rette razionali commensurabili soltanto in potenza, la loro differenza AC è la
A
C
B
linea irrazionale detta apotome. La retta CB che viene sottratta da AB viene indicata col nome di
“retta congruente”, cioè retta che si sovrappone ad AB per lasciare la differenza AC. Tutta la
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retta AB viene invece indicata col nome di “retta totale” »
La differenza fondamentale con le rette binomiali è che le apotomi si ottengono per differenza
invece che somma di due radicali di numeri razionali assoluti, uno almeno dei quali non quadrato
perfetto:
«Se data una retta razionale, e sia data un’apotome[, generata come differenza fra una retta totale ed una retta
congruente]; ora se il quadrato della retta totale supera il quadrato della retta congruente di un’altra retta
commensurabile in lunghezza con quella totale:
Definizione X”.1. Se la retta totale è commensurabile in lunghezza con la retta razionale che si sia assunta data,
l’apotome si chiami prima apotome.
Definizione X”.2. Se la retta congruente è commensurabile in lunghezza con la retta razionale che si sia assunta
come data, l’apotome si chiami seconda apotome.
Definizione X”.3. E se né la retta totale, né la retta congruente sono commensurabili con la retta razionale che si
sia assunta come data, l’apotome si chiami terza apotome.
Di nuovo, se il quadrato della retta totale supera quello della retta congruente del quadrato di una retta
incommensurabile in lunghezza con la retta totale:
Definizione X”.4. Se la retta totale è commensurabile in lunghezza con la retta razionale che si sia assunta come
data, l’apotome si chiami quarta apotome.
Definizione X”.5. Se la retta congruente è commensurabile in lunghezza con la retta razionale che si sia assunta
come data, l’apotome si chiami quinta apotome.
Definizione X”.6. E se Né la retta totale né la retta congruente sono commensurabili in lunghezza con la retta
razionale che si sia assunta come data, l’apotome si chiami sesta apotome.»
Seguono poi i risultati che occupano la parte finale del Libro X sulle proprietà dei numerosi tipi di
rette introdotte. Un esempio:
«Proposizione X.100. Il quadrato di una retta minore applicato ad una retta razionale, forma [un rettangolo]
avente per altezza una quarta apotome.».
III.9. Il Libro XI.
Col Libro XI si torna alla Geometria vera e propria, che sarà di nuovo l’argomento degli ultimi tre
libri. Ora l’attenzione è per la Geometria dello spazio, Stereometria, in particolare relazioni tra piani
e rette nello spazio, le generalizzazioni delle considerazioni angolari e dei poligoni trattati nei primi
Libri.
Per il momento si evitano questioni riguardanti l’eguaglianza di solidi, perché tali questioni fanno
uso implicito o esplicito dell’infinito.
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Nello spazio anche corpi solidi che si possono pensare come generalizzazione dei poligoni, i
poliedri, non si prestano a definire l’eguaglianza sempre come equiscomponibilità in parti finite
equivalenti, servono quindi altre strategie.
Plutarco, ad esempio, sembra attribuire a Democrito l’idea della scomposizione in infinite parti, e
per di più infinitesime, a proposito del cono.
Nei tre Libri finali, in cui si studiano nuovi enti, compaiono definizioni raggruppate all’inizio del
Libro XI. L’introduzione della geometria dello spazio avrebbe forse richiesto nuovi postulati, ma
questi non sono presenti ed alcuni studiosi, commentando la posizione critica che Platone nella
Repubblica aveva preso nei riguardi della stereometria, ritengono che la materia non aveva
raggiunto la maturazione che era propria della Geometria piana.
«Socrate – Dopo la superficie, dissi, abbiamo considerato il solido in movimento, prima del solido stesso. Per
procedere ordinatamente dobbiamo dopo la seconda estensione considerare la terza, cioè quella dei cubi e degli
oggetti che hanno profondità.
- E’ giusto, dissi, ma mi sembra che questa disciplina non sia stata ancora trovata.
- Duplice è la causa di questo fatto, dissi. Anzitutto nessuno Stato tiene in onore questa disciplina, e si compiono
ricerche senza impegno in un campo che è irto di difficoltà: inoltre i ricercatori mancano di un direttore, senza
del quale non potrebbero trovare alcun risultato. Prima di tutto è difficile trovarne uno, ma poi se anche si
trovasse, così come stanno le cose, i presuntuosi ricercatori in questo campo non gli darebbero retta.
Ma se uno Stato tutto, onorando questi studi, partecipasse alla direzione, i matematici si lascerebbero persuadere
e le ricerche, condotte con assiduità ed ardore, metterebbero in luce risultati notevoli, poiché anche ora,
nonostante questi studi siano disprezzati dai più e vengano lasciati incompleti, e nonostante i ricercatori non si
rendano conto dell’utilità degli studi stessi, tuttavia questi progrediscono in forza della loro attrattiva; sicché non
vi sarebbe affatto da meravigliarsi se detti studi venissero in luce. […]
- E nel mio desiderio di procedere rapidamente m’è capitato invece di indugiare. Poiché le ricerche intorno agli
enti a tre dimensioni sono finora ridicole, son passato dalla geometria all’astronomia, che tratta di solidi in
movimento.»
Tali commentatori attribuiscono a questo motivo i difetti riscontrabili nelle dimostrazioni degli
ultimi tre Libri.
Sarebbe sempre da attribuire a Platone lo sviluppo del particolare argomento relativo ai poliedri
regolari, dato che nel Timeo Platone si serve di questi, con un vago sentore di atomismo, come
supporto matematico alla teoria degli elementi:
«- Anzitutto, che fuoco e terra e acqua e aria siano corpi è certamente chiaro a chiunque. Ma l’essenza propria di
tutti i corpi è di avere anche profondità (spessore). E necessariamente la profondità coinvolge la natura della
superficie, e la superficie piana limitata da rette si compone di triangoli. E tutti i triangoli hanno origine da due
(speciali) triangoli, ciascuno dei quali ha un angolo retto e due angoli acuti: ma uno di essi ha l’angolo retto
compreso da lati uguali, e l’altro da lati disuguali.»
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A questo punto Platone afferma che questo è il principio del fuoco e degli altri elementi e prosegue
basandosi sulla verosimiglianza. Afferma che chi avesse opinioni contrarie e riuscisse a trovare di
meglio, avrebbe la sua (di Platone) amicizia e prosegue:
«- (E degli scaleni sceglieremo) quello dal quale si forma, come terzo triangolo il triangolo equilatero […] Si
scelgono dunque due triangoli, dai quali sono formati il fuoco e i corpi degli altri elementi: l’isoscele e quello
(scaleno) tale che il quadrato del lato (cateto) maggiore triplo del quadrato del lato (cateto) minore.
Occorre ora precisare meglio quanto prima è stato detto non chiaramente. I quattro elementi ci sembrava
avessero tutti la loro origine scambievolmente l’uno dall’altro, ma non avevamo mostrato giustamente le cose:
infatti i quattro elementi hanno origine dai triangoli dei quali abbiamo discorso, e più precisamente tre di essi
hanno origine da un triangolo, cioè da quello che ha i lati diseguali, e il quarto soltanto è formato dal triangolo
isoscele. Perciò non è possibile che i quattro elementi si trasformino l’uno nell’altro, formando molti (corpi)
piccoli pochi grandi e viceversa. Ciò può avvenire solo per tre di essi. […]
- Cominciamo dalla prima specie […] elemento della quale è il triangolo avente
l’ipotenusa di lunghezza doppia del lato minore. Mettendo insieme due di questi triangoli
lungo la diagonale e ripetendo l’operazione tre volte, in modo che le ipotenuse e i lati
minori convergano in un punto che è come un centro, si viene così a formare un triangolo
equilatero da sei di quei triangoli (scaleni).
Quattro triangoli equilateri così formati, riuniti a tre a tre lungo gli angoli piani formano
un angolo solido, quello che si forma dopo il più ottuso degli angoli piani. E quattro di questi angoli solidi
formano la prima figura solida che divide la superficie (della sfera circoscritta) in parti uguali e simili. La
seconda figura è composta degli stessi triangoli: ponendoli insieme così da formare otto triangoli equilateri,
quattro dei quali formano coi loro angoli un angolo solido.
Sei di tali angoli solidi portano a compimento la seconda figura solida.
La terza figura solida è composta da due volte sessanta triangoli elementari, che formano dodici angoli solidi,
ciascuno compreso tra cinque triangoli piani equilateri, ed ha venti facce triangolari
equilatere.
E con ciò il primo dei triangoli elementari (lo scaleno) ha terminato il suo compito. Il
triangolo rettangolo isoscele ha invece generato la natura del quarto (elemento). Si
riuniscono quattro di quei triangoli ponendo verso il centro gli angoli retti, in modo da
formare un quadrato (equilatero). Sei di tali quadrati, riunendosi, formano otto angoli
solidi, ciascuno dei quali nasce dalla riunione di tre angoli piani retti: la figura del corpo
solido che così si genera è quella cubica, con sei facce piane quadrate (equilatere). Restando ancora soltanto una
quinta combinazione, Dio se ne servì per ornare il Tutto. »
L’attribuzione di Platone dei solidi agli elementi è la seguente: il tetraedro regolare al Fuoco, il
cubo, il più stabile dei poliedri, alla Terra, che così si guarda bene dall’essere una sfera. All’aria fa
corrispondere l’ottaedro e l’icosaedro all’acqua. Non si tratta di atomi, dato che ciascuno di questi
solidi ha mostrato che è scomponibile in triangoli, ma le particelle che costituiscono questi corpi
elementari sono così piccole da risultare invisibili.
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Il quinto poliedro, il dodecaedro a facce pentagonali non può essere ricondotto al triangolo e quindi
non ad un elemento. Il pentagono regolare è però legato alla sezione aurea: le diagonali e i lati sono
tra loro in tale rapporto, quindi ad esso attribuisce una funzione decorativa preordinata dalla
divinità.
Sullo specifico argomento dei poliedri regolari la trattazione euclidea è soddisfacente.
Meno soddisfacente, anzi completamente assente, è il problema della determinazione delle
superficie dei solidi che vengono trattati negli ultimi Libri.
Sarà Archimede a scoprire, ad esempio, il risultato della superficie della sfera, la sua equivalenza
con la superficie laterale del cilindro circoscritto, e lo riterrà così importante da chiedere che venisse
riprodotto sulla sua tomba.
III.9.1. I principi del Libro XI. Per l’argomento trattato i cinque postulati introdotti nel Libro I e il
Principio di Eudosso-Archimede non sono sufficienti. Ed infatti c’è bisogno di nuovi postulati
relativi ai piani, che però vengono introdotti senza un’esplicita menzione come postulati, ma sotto
forma di Proposizioni. Di questo si incaricano, come già osservato in altri libri, le prime tre
Proposizioni. Con esse e con le Definizioni si completa l’apparato necessario per lo svolgimento
dello studio della Stereometria. Come si è detto prima queste definizioni devono servire per gli
ultimi tre libri. Esse sono 28, tutte relative ai nuovi concetti della Geometria dello spazio.
La trattazione della Stereometria non ha mai avuto molta fortuna nella scuola italiana, al punto da
essere, oggi, di fatto completamente assente nelle aule (e assai ridotta nei programmi).
Le prime due Definizioni introducono solidi e superficie
«Definizione XI.1. E’ un solido ciò che ha lunghezza, larghezza e profondità.
Definizione XI.2. Limite di un solido è la superficie.»
La prima definizione è, come spesso avviene in Euclide, priva di alcun valore logico, dato che il
concetto di solido si basa su altri concetti non definiti. Essa ricalca da vicino la Def. I.5.
Lo stesso dicasi per la seconda, che però è interessante perché, sostanzialmente, è tratta dal dialogo
Menone, di Platone, in cui viene definita la figura geometrica a due dimensioni come limite di un
solido:
«Socrate – Allora da ciò puoi capire che cosa intendo per figura. Per qualunque specie di figure io dico che
figura è ciò con cui termina il solido, o più brevemente direi: “figura è il limite del solido”. (
$ ).»
Platone giunge alla definizione premettendo che gli interlocutori devono preventivamente
accordarsi su cosa si intenda per limite e per solido, conferendo così a questi due enti il ruolo di
termini primitivi. D’altra parte anche nelle Deff. I.3 e I.6 parlano di punti e linee come estremi. E
sia il limite che il termine vengono individuati con la parola greca
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Un secondo gruppo di definizioni riguardano posizioni reciproche di rette e piani nello spazio.
«Definizione XI.3. Una retta è perpendicolare ad un piano, quando forma angoli retti con tutte le rette che la
incontrano e che siano su quel piano.
Definizione XI.4. Un piano è perpendicolare ad un altro piano, quando le rette condotte, in uno dei due piani,
perpendicolarmente all’intersezione comune dei piani, sono perpendicolari all’altro piano.
Definizione XI.5. Inclinazione di una retta rispetto ad un piano: se si conduce una perpendicolare dal termine
superiore della retta al piano, e dal punto così originatosi [piede della perpendicolare] si traccia la congiungente
al termine inferiore della retta sul piano, è l’angolo che è formato dalla congiungente così condotta e dalla retta
sovrastante.
Definizione XI.6. Inclinazione di un piano rispetto ad un altro piano è l’angolo acuto compreso dalle rette
condotte in ciascuno dei due piani, perpendicolarmente alla loro intersezione comune per uno stesso punto.
Definizione XI.7. Si dice che un piano è inclinato rispetto ad un altro piano così come un terzo lo è rispetto a un
quarto, quando gli angoli d’inclinazione (di cui si è detto nella definizione precedente) sono uguali tra loro.
Definizione XI.8. Sono paralleli i piani che non si incontrino.»
Questo gruppo di definizioni, di per sé abbastanza omogeneo, sembra occupato a dare un nome a
cose ben note, piuttosto a stabilire termini primitivi. Nella Def. XI.3 non viene definito il piede di
una perpendicolare, anche se poi viene usato, anzi non è ben chiaro se una retta perpendicolare ad
un piano lo intersechi, dato che si usa il concetto non definito di appartenenza di una retta ad un
piano. Ma la
«Proposizione XI.4. Se una retta è innalzata perpendicolarmente nel comune punto di intersezione, a due rette
che si taglino fra loro, essa sarà perpendicolare anche al piano che passa per esse.»
permette di fugare i dubbi. Questa Proposizione è una delle poche di Geometria dello spazio che
vengono ancora presentate nella scuola italiana.
La Def. XI.6 corrisponde a quello che oggi si intende per sezione normale di un diedro. Il concetto
di angolo diedro non è però presente nella trattazione euclidea.
La Def. XI.8 riprende la Def. I.23 di rette parallele. Si osservi che alla luce del nuovo ambito, la
Def. I.23 permette di sapere cosa siano due rette parallele nello spazio, mediante la richiesta di
appartenere ad un stesso piano.
Nella Def. XI.4 si dà per certo che due piani si intersecano tra loro e che tale intersezione è una
retta, cosa che viene però provata solo nella Prop. XI.3.
Un terzo gruppo di Definizioni introduce uguaglianza e similitudine tra figure solide
«Definizione XI.9. Sono figure solide simili quelle che sono comprese da piani [facce] simili, uguali per
numero.
Definizione XI.10. Figure solide uguali e simili sono quelle che siano comprese da piani [facce] simili, uguali
per numero e per grandezza.»
Manca una definizione di cosa sia l’uguaglianza (nel senso di equivalenza) di due figure solide. La
definizione di similitudine permette di ricondurre la similitudine dei poligoni allo spazio. La
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definizione di similitudine richiede che le figure solide siano poliedri, con lo stesso numero di facce
piane e simili a due a due. Per le figure curvilinee trattate, coni e cilindri, Euclide introduce
definizioni apposite.
La Def. XI.10. introduce un concetto nuovo, figure uguali e simili, cioè quelle che hanno la stessa
forma (simili) e la stessa estensione (uguali); si tratta quindi di un’eguaglianza in senso stretto, ma
non è detto siano sovrapponibili perché ci sono anche figure simmetriche che hanno la stessa forma,
uguaglianza di estensione. Nella Geometria piana non sarebbe possibile una nozione di similitudine
ed uguaglianza non sarebbe distinta dall’identità stretta.
Questa Definizione è stata fonte di indagini da parte di
numerosi studiosi perché richiederebbe di provare risultati
(provati poi da Simson, Legendre e Cauchy) per
giustificarla.
Agostino Luigi Cauchy
(1789 – 1857)
Forse Euclide aveva in mente una classificazione degli
angoloidi, che per le figure che lui tratta sono tutti triedri
Robert Simson
(1687 – 1768)
che ereditano la ‘rigidità’ dei triangoli, per cui se due angoloidi triedri hanno le facce uguali sono
uguali. Se ci si limita a questo tipo di angoloidi, la trattazione introdotta dalla Def. XI.10 è sensata,
altrimenti ci sono da porre altre considerazioni.
A questo proposito Euclide parla di angoli solidi nella successiva
«Definizione XI.11. Angolo solido è l’inclinazione [reciproca] di più di due linee [rette], che si tocchino fra loro,
ma non siano sulla stessa superficie. O altrimenti: angolo solido è quello compreso da più di due angoli piani,
che non siano sullo stesso piano ed abbiano in comune un punto [vertice].»
Si è già commentata questa definizione in relazione alla Def. I.9. La presentazione duplice, una in
cui si parla di linee e l’altra in cui si parla di triangoli, ha fatto pensare che in questo passo si stia
citando una definizione più antica di Euclide, ripresentata da lui in termini più precisi.
Il successivo gruppo di definizioni introduce le varie figure solide e le loro particolarità.
«Definizione XI.12. Piramide è una figura solida compresa da piani che, partendo da un piano, concorrano in un
punto.
Definizione XII.13. Prisma è una figura solida compresa da piani, due dei quali, opposti, sono uguali, simili, e
paralleli, mentre i restanti sono parallelogrammi.
Definizione XII.14. Sfera è la figura che viene compresa quando restando immobile il diametro di un
semicerchio, si faccia ruotare il semicerchio intorno al diametro finché non ritorni nuovamente nella stessa
posizione da cui si cominciò a farlo muovere.
Definizione XI.15. Asse di una sfera è la retta immobile attorno a cui si fa ruotare il semicerchio.
Definizione XI.16. Centro di una sfera è quello stesso punto che è anche il centro del semicerchio.
Definizione XI.17. Diametro di una sfera è una retta la quale sia condotta per il centro, e che sia terminata da
ambedue le parti sulla superficie della sfera.
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Definizione XI.18. Cono è la figura che viene compresa quando in un triangolo rettangolo, resti immobile uno
dei lati comprendenti l’angolo retto, e si faccia ruotare il triangolo intorno ad esso finché non ritorni nuovamente
nella stessa posizione da cui si cominciò a farlo muovere. E se la retta che rimane immobile è uguale all’altra
comprendente l’angolo retto e che vien fatta ruotare, il cono sarà rettangolo, se invece è minore, il cono sarà
ottusangolo, e se è maggiore, sarà acutangolo.
Definizione XI.19. Asse di un cono è la retta immobile intorno alla quale si fa ruotare il triangolo.
Definizione XI.20. Base di un cono è il cerchio che viene descritto dalla retta che si faccia ruotare.
Definizione XI.21. Cilindro è la figura che viene compresa quando, in un rettangolo, resti immobile uno dei lati
comprendenti l’angolo retto, e si faccia ruotare il rettangolo finché non ritorni nuovamente nella stessa posizione
da cui si cominciò a farlo muovere.
Definizione XI.22. Asse di un cilindro è la retta immobile intorno alla quale si fa ruotare il rettangolo.
Definizione XI.23. Basi di un cilindro sono i cerchi che vengono descritti dai lati opposti [del rettangolo] nel loro
ruotare.
Definizione XI.24. Sono simili quei coni e quei cilindri di cui gli assi, ed i diametri delle basi, siano
proporzionali.
Definizione XI.25. Cubo è una figura solida compresa da sei quadrati uguali.
Definizione XI.26. Ottaedro è una figura solida compresa da otto triangoli uguali ed equilateri.
Definizione XI.27. Icosaedro è una figura solida compresa da venti triangoli uguali ed equilateri.
Definizione XI.28. Dodecaedro è una figura solida compresa da dodici pentagoni uguali, equilateri, ed
equiangoli.»
Le ultime quattro definizioni riguardano quattro dei cinque solidi platonici, manca il tetraedro, che
è però riconducibile alla piramide.
E’ importante la distinzione tra coni acutangoli, rettangoli e ottusangoli, perché in antichità per
ottenere le (sezioni) coniche, invece di far variare la posizione del piano rispetto ad un unico cono,
si considerano coni diversi con un piano perpendicolare ad una generatrice. In queste condizioni, se
il cono è ottusangolo si ottiene un ramo di iperbole, se rettangolo una parabola, se acutangolo
un’ellisse.
III.9.2. I contenuti del Libro XI.
III.9.2.1 Una suddivisione delle Proposizioni del Libro XI. Il Libro XII presenta 39 Proposizioni + 1
Lemma + 2 Corollari. Si possono suddividere i risultati presenti in tale libro, in modo abbastanza
grossolano come segue:
- Le Propp. XI.1. – XI.3. su incidenza retta – piano e piano – piano.
- Le Propp. XI.4. – XI.18. su parallelismo di rette e piani e perpendicolarità.
- Le Propp. XI.19. – XI.23, XI.26. e XI.35. sugli angoli solidi e la loro costruzione.
- Le Propp. XI.24, XI.25. e XI.27. – XI.34. e poi XI.36. e XI.37. sui parallelepipedi.
- La Prop. XI.38. sul cubo.
- La Prop. XI.39. sul prisma
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III.9.2.2. Le prime tre Proposizioni ed i Postulati impliciti. Nelle tre prime Proposizioni, di valore
introduttivo, Euclide introduce nuovi postulati.
C
«Proposizione XI.1. Non può darsi che una linea retta sia in parte su un piano dato ed
in parte su un altro piano elevato sul primo.
A
B
D
Dimostrazione. Infatti, se possibile, una parte AB della linea retta ABC sia sul piano
dato, ed un’altra BC su un piano elevato sul primo. Vi sarà allora, nel piano dato, una
retta che continui AB per diritto. Sia essa BD per cui AB è parte comune alle due rette
ABC, ABD: il che è impossibile poiché se con centro B e per raggio AB, descriviamo un cerchio, i suoi diametri
verrebbero in tal caso a tagliare archi della circonferenza del cerchio disuguali. »
Questa è una delle dimostrazioni più ‘deboli’ di Euclide. Infatti ottiene l’assurdo con un cerchio che
sarebbe posto contemporaneamente su due piani. Almeno avesse usato una sfera! Ma l’impossibilità
che un cerchio si trovi su più piani è, in altri termini, quello che vuole provare.
La dimostrazione presentata non ha alcun valore logico, serve solo a stabilire un postulato del
piano, vale a dire che se una retta ha due punti appartenenti ad un piano, la retta giace su questo
piano, introducendo così un nuovo predicato binario tra rette e piani che è ‘giacere’.
Analizzando meglio la dimostrazione si vede che Euclide usa il Post. 1, perché considera due punti
di un piano ed il segmento che li congiunge, il Post. 2, perché prolunga il segmento. Vuole provare
l’assurdo dei due prolungamenti su piani diversi, ma la sua proposta non è soddisfacente.
Il ruolo della congiunzione nell’enunciato della Proposizione merita di essere analizzato. Ogni retta
è pensabile come intersezione di due piani, anche grazie alla Prop. XI.3, quindi una retta è su un
piano ed anche «su un altro piano elevato sul primo», quindi negando alla lettera quanto affermato dalla
Prop. XI.1.
Nell’enunciato il ruolo importante è quello di «parte», contrapposto a ‘tutto’, si vuole evitare che una
parte della retta stia su un piano ed un’altra parte stia su un altro piano e non contemporaneamente.
Ora in logica questa situazione non viene identificata con un connettivo di congiunzione, preposto
ad affermare la contemporanea soddisfazione delle richieste. Per descrivere la situazione indicata
dal testo bisogna fare ricorso alla Logica dei predicati, ad esempio con l’affermazione
∀π,π’(¬∃r(∃A,B,C∈r(A,B∈π ∧ B,C∈π’ ∧ A∉π’ ∧ C∉π))),
che utilizza la congiunzione e in cui il simbolo di appartenenza non ha un significato insiemistico,
ma geometrico. Sarebbero possibili altre scritture identificando, ad esempio, le parti di una retta con
un sottinsieme, ma questo utilizzerebbe pesantemente interpretazione insiemistica degli enti
geometrici, che tradirebbe la visione euclidea.
«Proposizione XI.2. Se due rette si tagliano fra loro, sono in uno stesso piano, così come ogni triangolo è in uno
stesso piano.
Dimostrazione. Infatti, due rette AB, CD si taglino fra loro nel punto E; dice che AB, CD sono in uno stesso
piano, così come ogni triangolo è in uno stesso piano.
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Si prendano difatti su EC, EB i punti F, G a piacere, si traccino le congiungenti CB,
FG, e si conducano FH, GK; dico in primo luogo che il triangolo ECB è [contenuto]
A
D
E
F
C
G
H
K
in uno stesso piano. Se infatti una parte del triangolo ECB, ossia FHC o GBK, fosse
su un piano e la parte rimanente su un altro, anche una parte delle rette EC, EB
sarebbe su un piano, e l’altra che rimane su un altro. E se nel triangolo ECB la parte
B
FCBG fosse su un piano, mentre il resto fosse su un altro, pure una parte di tutt’e
due le rette EC, EB sarebbe su un piano, mentre il resto sarebbe su un altro: il che fu dimostrato assurdo (Prop.
XI.1). Il triangolo ECB è quindi in uno stesso piano. Ma sul piano in cui è il triangolo ECB si trova pure ciascuna
delle due rette EC, EB, e su quello in cui si trova ciascuna delle due EC, EB sono anche AB, CD (Prop. XI.1).
Dunque, le rette AB, CD sono in uno stesso piano, così come ogni triangolo è in uno stesso piano.»
Anche questa è una dimostrazione ‘debole’ anche se ha una parvenza di maggiore solidità. Essa si
avvale della Prop. XI.1, che d’ora in poi considereremo come il primo postulato del piano: se una
retta ha due punti distinti su un piano giace interamente sul piano.
La dimostrazione della Prop. XI.2 vorrebbe provare prima che un triangolo giace su un piano e poi
che due rette che si intersechino giacciono su uno stesso piano. Quindi il punto centrale è relativo al
triangolo, anche se il triangolo è costruito a partire de due rette intersecatisi.
Enriques a proposito di questa dimostrazione ha detto: «Il ragionamento, se non venga meglio spiegato,
appare così debole, che si stenta a credere che possa appartenere ad Euclide.»
Si è quindi in presenza di una ‘spiegazione’ e non di una dimostrazione, illustrazione del contenuto
intuitivo della richiesta che dati tre punti non allineati esiste un unico piano cui appartengono,
oppure, sempre riferendosi ad una triangolo, dati una retta (cioè due punti) ed un punto che non le
appartenga, esiste un unico piano su cui giace la retta ed a cui il punto appartiene. E’ però possibile
considerare una diversa formulazione, equivalente alle due dette: se due rette distinte hanno un
punto in comune, esiste un unico piano su cui giacciono entrambe.
«Proposizione XI.3. Se due piani si tagliano fra loro, la loro intersezione comune è una retta.
Dimostrazione. Infatti, i due piani AB, BC si taglino tra loro, e sia la loro intersezione comune la linea DB; dico
che la linea DB è una retta.
Se difatti non lo fosse, si tracci nel piano AB da D a B la congiungente DEB, nel piano BC
B
F
D
C
si tracci la retta DFB. Le due rette DEB, DFB avranno perciò i medesimi estremi e
comprenderanno evidentemente uno spazio: il che è assurdo. Quindi le linee DEB, DFB
E
A
non sono rette. Similmente potremo dimostrare che non vi sarà nessun’altra retta tracciata
a congiungere D a B, eccetto DB, che sia sezione comune dei piani.»
In questa dimostrazione, ancora una volta non accettabile, si usa un postulato della retta, di cui
finora non si era fatto uso: che dati due punti distinti esiste una sola retta cui appartengono. Avendo
assunto questo e gli altri postulati del piano illustrati nel commento alle Prop. XI.1 e XI.2, si può
dimostrare che se due piani distinti hanno un punto in comune, allora hanno in comune una (sola)
retta. Sembra che il primo ad essersi accorto di questa carenza di Euclide sia stato Von Staudt.
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Però in qualche manoscritto tardo si trova la proposta di una Nozione
comune che afferma «Due rette non possono comprendere uno spazio» che si
potrebbe interpretare come l’unicità della retta per due punti distinti.
III.9.2.3. Il volume del parallelepipedo. In questo capitolo Euclide è alle
prese con la determinazione dei volumi e l’uguaglianza di estensione.
Come già avvenuto per le figure piane, chi volesse individuare nel suo
Karl Georg C. Von Staudt
(1798 – 1867)
testo una formula per il calcolo di un’area o di un volume, resterebbe ampiamente deluso. A questi
problemi pratici Euclide accenna in modo indiretto, lasciando a considerazioni pratiche che rifugge,
il compito di individuare tali aspetti.
Per i parallelepipedi, che sono generalizzazione dei parallelogrammi Euclide afferma:
«Proposizione XI.31. Solidi parallelelepipedi che stiano su basi uguali, ed abbiano altezze uguali, sono uguali fra
loro.»
Questo testo richiama da vicino la Prop. I.36, con l’aggiunta della nozione di altezza, data nella Def.
VI.4. In tal caso si può apprezzare la generalità offerta dalla nozione di ‘base’ e altezza che lasciano
sostanzialmente invariato il testo, sostituendo solo parallelogrammo con parallelepipedo.
La determinazione del volume passa per la
«Proposizione XI.32. Solidi parallelepipedi che abbiano altezze uguali stanno fra loro come le basi.»
Quindi una volta determinata l’area di base, ottenibile, anche questa per via indiretta dalla Prop.
VI.1 (cfr. III.6.2.2.) resta individuato il volume per il rapporto con le altezze della Prop. XI.32.
Manca la determinazione del volume della piramide e di altre figure come cono, cilindro e sfera. Di
queste (parzialmente) si occupa il successivo Libro XII, ma il problema non è semplice, anzi
richiederà procedimenti che si avvalgono dell’infinito.
III.10 Il Libro XII.
Il Libro XII ha un’importanza fondamentale. In esso Euclide mostra ed applica il Metodo di
esaustione, denominazione data secoli dopo, principio utilizzato da Eudosso per imbrigliare
l’infinito. Di fatto l’infinito era ben presente anche nei libri precedenti, ma mai se n’era sentita
l’esigenza così forte come nelle Proposizioni di questo Libro.
E’ assai caratteristico il fatto che le prime due Proposizioni del Libro XII siano proprietà della
Geometria piana, le rimanenti di Geometria dello spazio, anzi la prima Proposizione sembrerebbe
sbalzata dal Libro VI qui senza motivo. Trova però la sua ragione d’essere nel confronto non
esplicito, con la successiva Proposizione.
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Il Libro comprende 18 Proposizioni + 1 Lemma + 3 Corollari.
- Le Propp. XII.1 e XII.2 sono di Geometria piana.
- Le Propp. XII.3 – XII.9 + un Lemma e 2 Corollari trattano della piramide.
- Le Propp. XII.10 – XII.15 trattano di coni e cilindri
- Le Propp. XII.16 – XII.18 + un Corollario trattano di sfere, e la Prop. XII.16 è di Geometria
piana e di fatto un lemma alle due successive.
Il metodo di esaustione viene applicato nelle Propp. XII.2, XII.5 e XII.10, XII.12.
III.10.1. Le Proposizioni XII.1 e XII.2. Come detto in precedenza si tratta di due Proposizioni di
Geometria piana.
«Proposizione XII.1. Poligoni simili iscritti in cerchi simili stanno fra loro come i quadrati dei diametri [dei
cerchi stessi].
Dimostrazione. Siano i cerchi ABC, FGH, ed ABCDE, FGHKL siano poligoni simili in essi iscritti, mentre BM,
GN siano i diametri dei cerchi stessi; dico che il poligono ABCDE sta al poligono FGHKL come il quadrato di
BM sta al quadrato di GN.
A
Infatti, si traccino le congiungenti BE, AM, GL, FN. Ora poiché il
F
B
poligono ABCDE è simile al poligono FGHKL, si ha pure che l’angolo
G
E
M
C
D
L
H
N
K
BAE è uguale all’angolo GFL, e che AB:AE = GF:FL (Def. VI.1). Si ha
così che BAE, GFL sono due triangoli aventi rispettivamente uguali un
angolo, cioè BAE uguale a GFL, e proporzionali i lati che comprendono
gli angoli uguali, per cui il triangolo ABE ha i suoi tre angoli
rispettivamente uguali a quelli del triangolo FGL (Prop. VI.6). Quindi l’angolo AEB è uguale all’angolo FLG.
Ma l’angolo AEB è uguale all’angolo AMB – insistono difatti sullo stesso arco di circonferenza (Prop. III. 27) –,
e l’angolo FLG è uguale a quello FNG; sono perciò uguali anche gli angoli AMB, FNG. Ma pure l’angolo retto
BAM è uguale all’angolo retto GFN (Prop. III.31), per cui anche l’angolo che così rimane in un triangolo è
uguale all’angolo rimanente dell’altro. Il triangolo ABM è quindi equiangolo rispetto al triangolo FGN. Perciò, si
ha la proporzione BM:GN = BA:GF (Prop. VI.4). Ma il rapporto tra il quadrato di BM e il quadrato di GN è
duplicato rispetto al rapporto tra BM e GN, mentre il rapporto tra il poligono ABCDE e il poligono FGHKL è
duplicato rispetto a quello tra BA e GF (Prop.VI.20); quindi anche, il quadrato di BM sta la quadrato di GN come
il poligono ABCDE sta al poligono FGHKL.»
Si tratta di una Proposizione abbastanza semplice che utilizza solo Proposizioni dei Libri III, le
Propp. III.27 e III.31 (per entrambe cfr. III.6.3.6) e del Libro VI, cioè le Propp. VI.4 (cf. III.4), VI.6
(cfr. III.6.2) e VI.20. (cfr. III.6.3.5.). Ma si ha anche l’uso, non segnalato nel testo, della Prop. I.32.
(cfr. III.1.3.).
Come si vede gran parte dell’asserto della Prop. XII.1 era già disponibile subito dopo la Prop.
VI.20, basta dimostrare che il rapporto dei diametri dei cerchi circoscritti è uguale al rapporto di lati
omologhi.
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C’è però una considerazione abbastanza sottile: in questo Libro Euclide usa una nomenclatura
diversa da quella introdotta nel Libro VI. Infatti qui si utilizzano poligoni (e nella successiva
Proposizione cerchi) proporzionali ai quadrati dei lati, nel Libro VI parla di poligoni simili che
stanno tra loro in ragione duplicata dei lati nella Prop. VI.19 (cfr. III.6.3.4.) e nella Prop. VI.20.
La differenza è solo nella nomenclatura, come se Euclide si fosse accorto che la strada seguita nel
Libro VI fosse inutilmente ‘pesante’, anche se poi qua e là ricompare.
La seguente Prop. XII.2 è una di quelle che hanno le dimostrazioni più lunghe e complesse degli
Elementi (e sicuramente una di quelle che più hanno attratto l’attenzione degli studiosi).
«Proposizione XII.2. I cerchi stanno fra loro come i quadrati dei diametri.
Dimostrazione. Siano i cerchi ABCD, EFGH, e BD, FH siano i loro diametri: dico che il cerchio ABCD sta al
cerchio EFGH come il quadrato di BD sta al quadrato di FH.
Infatti, se il cerchio ABCD non stesse al cerchio EFGH come il quadrato di BD sta a quello di FH, starebbe in tal
caso il quadrato di BD a quello di FD come il cerchio ABCD ad un’area S che fosse minore o maggiore del
cerchio EFGH: cioè
q(BD):q(FH) = cerchio ABCD : S.
Si supponga dapprima che S sia minore del cerchio EFGH. Si
D
H
E
A
iscriva ora nel cerchio EFGH il quadrato EFGH (Prop. IV.6):
il quadrato iscritto è così maggiore della metà del cerchio
EFGH, dal momento che, se per i punti E, F, G, H
C
F
B
G
conduciamo
rette
tangenti
al
N
cerchio, il quadrato EFGH è la
E
H
metà del quadrato circoscritto al
cerchio, mentre il cerchio è minore del quadrato circoscritto, cosicché il quadrato
iscritto EFGH è maggiore della metà del cerchio EFGH. Si dividano per metà gli
archi EF, FG, GH, HE nei punti K, L, M, N, e si traccino le congiungenti EK, KF, FL,
K
M
G
F
L
LG, GM, MH, HN, NE; di conseguenza pure ciascuno dei triangoli EKF, FLG, GMH,
HNE è maggiore della metà del segmento di cerchio che lo racchiude, dal momento che se per i punti K, L, M, N
conduciamo rette tangenti al cerchio e completiamo i parallelogrammi posti sulle corde EF, FG, GH, HE, si avrà
che ciascuno dei triangoli EKF, FLG, GMH, HNE è la metà del parallelogrammo che lo racchiude, mentre il
segmento di cerchio da cui è racchiuso è invece minore del parallelogrammo; cosicché ognuno dei triangoli
EKF, FLG, GMH, HNE è maggiore della metà del segmento di cerchio che lo racchiude. Se veniamo allora a
R
dividere per metà gli archi corrispondenti, e continuiamo a fare questo sempre di seguito,
D
A
Q
O
C
B
P
finiremo col determinare come residui certi segmenti del cerchio EFGH la cui somma sarà
minore dell’eccedenza di cui il cerchio EFGH supera l’area S. Fu infatti dimostrato nel primo
teorema del libro decimo che se assumiamo due grandezze diseguali, si sottrae dalla maggiore
una grandezza che sia maggiore della sua metà, dalla parte che così rimane si sottrae un’altra
grandezza maggiore della sua metà, e se si procede sempre così di seguito, finirà col restare una grandezza che
sarà minore della minore delle due grandezze date (Prop. X.1). Finisca dunque col risultare rimanente [una
grandezza di tal genere], e supponiamo che sia appunto la somma dei segmenti del cerchio EFGH posti su EK,
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KF, FL, LG, GM, MH, HN, NE ad essere minore dell’eccedenza di cui il cerchio EFGH supera l’area S. Quindi il
poligono iscritto EKFLGMHN è maggiore dell’area S. Si iscriva ora nel cerchio ABCD il poligono AOBPCQDR
simile al poligono EKFLGMHN; il quadrato del diametro BD sta perciò al quadrato del diametro FH come il
poligono AOBPCQDR sta al poligono EKFLGMHN (Prop. XII.1). Ma si ha pure
q(BD):q(FH) = cerchio ABCD : S;
quindi anche come
cerchio ABCD : S = AOBPCQDR:EKFLGMHN,
per cui permutando (Prop. V.16, cfr. III.6.3.5.):
cerchio ABCD : AOBPCQDR = S:EKFLGMHN.
Ma il cerchio ABCD è maggiore del poligono AOBPCQDR in esso iscritto; quindi, in tal caso, pure l’area S
sarebbe maggiore del poligono EKFLGMHN. Ma essa è anche minore [come si è sopra veduto]: il che è
impossibile. Dunque il quadrato BD non può stare al quadrato di FH come il cerchio ABCD sta ad un’area S che
sia minore del cerchio EFGH. Similmente potremo dimostrare come nemmeno possa darsi che il cerchio EFGH
stai ad un’area minore del cerchio ABCD come il quadrato di FH sta al quadrato di BD.
Dico adesso che non può darsi che sia:
q(BD):q(FH) = cerchio ABCD : S
supponendo S maggiore del cerchio EFGH.
Invertendo nella proporzione sopra scritta (Cor. alla Prop. V.7. cfr. III.5.3.1.), si ha
q(FH):q(BD) = S : cerchio ABCD
Ma l’area S sta al cerchio ABCD come il cerchio EFGH sta ad un’area che sia minore del cerchio ABCD (cfr.
Corollario seguente); quindi anche, in tal caso, il quadrato di FH starebbe al quadrato di BD come il cerchio
EFGH starebbe ad un’area minore del cerchio ABCD: il che fu dimostrato essere impossibile. Non può quindi
darsi che il quadrato di BD stia al quadrato di FH come il cerchio ABCD starebbe ad un’area che fosse maggiore
del cerchio EFGH. Ma fu dimostrato che ciò non può essere nemmeno con un’area che sia minore del cerchio in
questione, per cui il quadrato di BD sta al quadrato di FH come il cerchio ABCD sta al cerchio EFGH.»
Per completezza d’informazione, si riporta il testo di un risultato citato che non è stato ancora
presentato.
«Proposizione IV.6. Iscrivere un quadrato in un cerchio dato.»
Il testo fa poi riferimento ad un Corollario seguente. Di fatto questa citazione sarebbe
concettualmente scorretta, secondo l’impostazione sinora seguita da Euclide, ma così non è nella
sostanza, perché invece di un Corollario si tratta di un Lemma (nomenclatura che compare nel testo
di Frajese e Maccioni) che integra la dimostrazione.
«Lemma. Dico ora che se l’area S è maggiore del cerchio EFGH, l’area S sta al cerchio ABCD come il cerchio
EFGH sta ad un’area che sia minore del cerchio ABCD.
Infatti si venga ad avere che l’area S stia al cerchio ABCD come il cerchio EFGH sta ad un’area T. Dico che T è
minore del cerchio ABCD. Poiché l’area S sta difatti al cerchio ABCD come il cerchio EFGH sta all’area T, si ha
permutando (Prop. V.16. cfr. III.5.3.1.), che l’area S sta al cerchio EFGH come il cerchio ABCD sta all’area T
(Prop. V.14. cfr. III.5.3.2.). Cosicché l’area S sta al cerchio ABCD come il cerchio EFGH sta ad un’area minore
del cerchio ABCD.»
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Capitolo III – Analisi del contenuto dei Libri degli Elementi.
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III.10.1. Le Proposizioni XII.1 e XII.2. (continuazione). Secondo Heiberg, il Lemma non è dovuto a
Euclide, ma ci sono motivi di ritenerlo frutto di interpolazioni precedenti a Teone.
Nella Prop. XII.2 viene prepotentemente alla ribalta l’infinito. Qualche avvisaglia è già sparsa in
altre parti, ad esempio la Prop. IX.20 ed anche nella Prop. X.1, in forma più implicita, come mette
in luce il commento ad essa, Proposizione per altro citata nella dimostrazione. Ed infatti il testo
dice: «e se si procede sempre così di seguito», senza avere la possibilità a priori di quante volte si debba
iterare la costruzione.
Saccheri stabilisce bene come siano collegate tra loro le Propp. XII.1 e XII.2:
«Euclide ha già dimostrato (prop. 1) che due poligoni simili, inscritti in due cerchi, stanno fra loro come i
quadrati dei diametri; proposizione da cui, come corollario, avrebbe potuto ricavare la 2 considerando i cerchi
come poligoni infinitilateri.»
Questo pensiero rivela come sia mutato l’ambiente matematico da Euclide a Saccheri, assai più
vicino, quest’ultimo, al calcolo infinitesimale, tematica di per sé aliena al pensiero greco.
Ma ciò che Euclide utilizza nella dimostrazione è il procedimento di esaustione, comunemente
attribuito a Eudosso, per poter parlare dell’infinito in termini apparentemente finiti.
E’ questa la prima (ed una delle poche volte) che il metodo di esaustione viene utilizzato, e non si
può escludere che Euclide non arricchisca la proposta originale di Eudosso di qualche aspetto e
rielaborazione personale.
Come nella teoria delle proporzioni, anche il metodo di esaustione reca l’impronta di un rigore che
in cui si può forse vedere l’approccio di Eudosso, come la tradizione greca ribadisce. In ambedue i
casi si deve di trattare l’infinito al finito, nel Libro V con la Definizione V.5, ora provando che
l’estensione di figure piane non poligonali è riconducibile a quel tipo di figure mediante processi di
approssimazione per difetto ed eccesso, e applicandolo poi al caso di figure solide che non siano
prismi o parallelepipedi, come nella Prop. XII.5 per le piramidi e nella Prop. XII.10 per i coni. In
questo modo viene evitato il ricorso diretto all’infinito, come quello indicato da Saccheri nella
citazione precedente, ma non quello indiretto, perché nonostante i possibili travestimenti, l’infinito
non può essere eliminato.
Nella Def. V.5 gli equimultipli vanno scelti in tutti i modi possibili (facendoli variare secondo le
coppie ordinate di numeri naturali), nel metodo di esaustione si cerca di non citare l’infinito
mediante una dimostrazione per assurdo e costringendolo entro di schemi prestabiliti rigidamente.
In questo modo, secondo il gusto dell’epoca classica, i ragionamenti vengono ritenuti accettabili e
lo standard di rigore condiviso. Così il metodo di esaustione assurge ad un metodo di dimostrazione
ritenuto rigoroso.
In linea generale il metodo che emerge dagli Elementi e che è indicato col nome di esaustione, viene
utilizzato per dimostrare un’eguaglianza di due grandezze omogenee A e B.
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Si suppone, per assurdo, che A ≠ B, ed essendo grandezze confrontabili, che sia A < B oppure B < A.
Da questo punto la dimostrazione procede per casi che si concluderanno entrambi con assurdi,
provando in tal modo che A
BeB
A. Di qui a concludere che sia A = B bisogna utilizzare un po’
di Logica e la tricotomia (o linearità) dell’ordine tra grandezze.
Per ottenere l’assurdo bisogna avere a disposizione una successione monotona di grandezze T1,
T2,…,Tn, prolungabile ad arbitrio, in modo potenziale, grandezze omogenee con A e B, tutte minori
di A e B. Il fatto che sia noto come passare (in modo effettivo) da Tn a Tn+1 e la potenzialità del
processo fa ritenere accettabili queste richieste. Si possono vedere le grandezze della successione
come approssimazioni sempre migliorabili di A e di B, comunque fissato un intervallo di tolleranza.
Costruito ciò, si può giungere a provare che non può essere, ad esempio, A < B. Se infatti le due
grandezze fossero diverse, allora la grandezza B – A sarebbe non nulla e la si può utilizzare come
‘tolleranza’. Supposto che i termini della successione approssimino A e B per difetto, si può trovare
un numero naturale s tale che B – Ts < B – A e ciò comporterebbe A < Ts < B, mentre per ipotesi Ts è
minore di A.
Analogamente non può essere B < A, quindi A = B.
L’infinito compare, indirettamente, nel fatto che la successione delle grandezze T è prolungabile a
piacere ed apparentemente si tratta di un’infinito potenziale, anche se, in termini moderni si può
parlare di limite di una successione: «considerando i cerchi come poligoni infinitilateri», secondo le parole
di Saccheri.
Si può confrontare questo procedimento con la Def. V.5, per mettere in luce l’unitarietà di
ispirazione di Eudosso. In ambedue i casi dovendo identificare un unico elemento, si ricorre alla
condizione di unicità che è frutto della continuità che è nella forma di Dedekind per le proporzioni e
in quella di Cantor per l’esaustione.
Per mostrare come venga applicato il metodo di esaustione nella dimostrazione della Prop. XII.2, si
osservi che si vuole provare che C:C’ = Q:Q’, avendo indicato con C i cerchi e con Q i quadrati dei
rispettivi diametri, o equivalentemente che Q:Q’ = C:C’. Si incomincia col considerare le tre
grandezze Q, Q’, C e si ammette che dopo queste grandezze ne esita una quarta proporzionale,
omogenea con la terza (si spera). Basta provare che S = C’ col metodo di esaustione.
Per questo scopo si mostra che non può essere né S < C’, né C’ < S. Si prova che non può essere S <
C’ e lo si prova iniziando da un quadrato inscritto nel cerchio C’, P’1, figura che approssima per
difetto C’, e si procede raddoppiando il numero dei lati, ottenendo sempre approssimazioni per
difetto di C’. Il testo si ferma all’ottagono, ma suggerisce si possa procedere oltre, affermando:
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«Se veniamo allora a dividere per metà gli archi corrispondenti, e continuiamo a fare questo sempre di seguito,
finiremo col determinare come residui certi segmenti del cerchio EFGH la cui somma sarà minore
dell’eccedenza di cui il cerchio EFGH supera l’area S.».
In queste considerazioni si mostra la procedura per continuare la successione ed inoltre il confronto
tra segmento circolare e triangolo in esso inscritto, che sommato ai rimanenti aggiunti al poligono
regolare P’n mi permette di costruire P’n+1 che ‘approssima’ ancora meglio il cerchio. Così è data la
successione di approssimazioni per difetto di C’, ma anche la ‘tolleranza’ richiesta. Si trova pertanto
un poligono regolare P’s con un numero sufficiente di lati tale che S < P’s.
La costruzione dei poligoni regolari iscritti si può ripetere per il cerchio C e, per la Prop. XII.1, si ha
per ogni naturale positivo n, Pn:P’n = Q:Q’, ed essendo Q:Q’ = C:S per la proprietà transitiva
dell’uguaglianza di rapporti, Prop. V.11, si ha Pn:P’n = C:S, da cui permutando, Pn:C = P’n:S. Dato
che, qualunque sia n, Pn è minore di C, per l’eguaglianza di rapporti si ha pure che P’n è minore di
S, quindi la successione dei poligoni iscritti P’ è data da approssimazioni per difetto di C’, per
costruzione e pure di approssimazioni per difetto di S.
Ma per il particolare numero naturale positivo s si ha Ps:C = P’s:S e Ps è minore di C, mentre P’s è
maggiore di S il che è assurdo perché un rapporto è minore di 1 e l’altro maggiore.
Se si suppone C’ < S, basta ora considerare la grandezza quarta proporzionale dopo Q’, Q, C’ e sia
essa R, sicché: Q’:Q = C’:R, ma dalla proporzione precedente si ottiene Q’:Q = S:C, per cui S:C =
C’:R e permutando S:C’ = C:R. poiché si è supposto che C’ < S, si ha che anche R < C e si può
ripetere la dimostrazione precedente provando che non può essere R < C e quindi neppure C’ < S. Si
conclude S = C’ e sostituendo in una proporzione precedente, si ha l’asserto Q:Q’ = C:C’.
C’è da osservare che se Euclide avesse utilizzato una volta di più la tecnica del ‘permutando’, dalla
proporzione C:C’ = Q:Q’, avrebbe ottenuto la ‘sorpresa’ C:Q = C’:Q’, vale a dire l’invarianza del
rapporto tra cerchio e quadrato del diametro, conseguenza di un risultato che sembra fosse noto ben
prima di Euclide, forse addirittura a Talete: la similitudine di tutti i cerchi. Tale rapporto costante
avrebbe richiesto l’intervento di un numero, π, non solo irrazionale, ma addirittura trascendente,
come fu mostrato poi nel XIX secolo.
La Bibbia ci informa che la costanza di tale rapporto fosse nota già attorno al X secolo a.C., per
questo può sembrare strano che Euclide non se ne sia occupato nel suo testo, ma questa omissione
non è l’unica, come mostra la mancanza negli Elementi di argomenti relativi ai problemi classici,
già noti e ‘risolti’ dai geometri greci precedenti Euclide.
Il metodo di esaustione non è un procedimento euristico, vale a dire non permette di trovare il
risultato, ma serve solo a provare una conoscenza acquisita per altra via. E’ un metodo rigoroso che
entra di diritto tra i procedimenti dimostrativi.
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Si noti inoltre che ancora una volta si ammette che date tre grandezze, di cui almeno le prime due
omogenee, esista la grandezza quarta proporzionale, omogenea alla terza.
Se si lavorasse con i segmenti si potrebbe invocare risultati propriamente geometrici, ad esempio la
Prop. I.43. Questa ammissione di esistenza, che richiede un’assunzione di continuità è uno dei pochi
casi in cui la richiesta di esistenza non è il frutto di una costruzione con riga e compasso, ma si basa
su un livello intuitivo non esplicitato. Infatti i gli strumenti geometrici citati non sono in grado di
trovare la grandezza quarta proporzionale dopo due quadrati ed un cerchio.
III.10.2. Le piramidi. Un altro ‘personaggio’ del Libro XII è la piramide, che viene studiata in modo
approfondito, a partire dalla
«Proposizione XII.3. Ogni piramide avente base triangolare si divide in due
piramidi, uguali e simili fra loro e simili a tutta quanta la piramide iniziale, e
D
aventi basi triangolari, ed in due prismi uguali; e la somma dei due prismi è
maggiore della metà di tutta quanta la piramide.»
L
H
La dimostrazione è piuttosto complessa ed è ottenuta dividendo a
K
metà gli spigoli della piramide (che è un tetraedro) si ottengono, in
C
tale modo, tre piramidi simili alla piramide di partenza (AEGH,
EBFK, HKLD) con basi congruenti e altezze uguali, un prisma a
F
G
A
B
E
base triangolare (GFCLHK) ed una piramide con base un parallelogramma (GFKHE). Si osserva
poi che il solido ottenuto mettendo assieme una delle piramidi simili e la piramide a base di
parallelogramma, è un prisma a base triangolare: BKFGEH. Si prova inoltre, sfruttando una
Proposizione precedente, che i prismi GFCLHK è uguale (= equivalente) a BKFGEH e che vale la
disuguaglianza detta.
Il fatto che la scomposizione della piramide porti a due piramidi simili è il punto di partenza per un
processo iterativo.
Uno dei prismi, CGFKLH ha per base un triangolo la cui area è
dell’altezza della piramide, il volume di tale prisma è quindi
1
1
del triangolo ABC e altezza
4
2
1
di quello di un prisma avente la
8
stessa base e la stessa altezza della piramide. Dato che di prismi ce ne sono due equivalenti, si
ottiene che i due prismi in totale hanno volume
1
del prisma di ugual base ed uguale altezza della
4
piramide. Restano due piramidi aventi base pari ad
1
della base della piramide di partenza ed
4
altezza metà. In ciascuna di esse si trovano due prismi che complessivamente hanno volume
- 166 -
1
del
4
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prisma che ha la stessa base e la stessa altezza della piramide, ad esempio AEGH, e quindi i quattro
prismi ricavabili dalle due piramidi hanno volume complessivo pari a
piramide AEGH che è
1
del prisma connesso alla
2
1
del prisma associato alla piramide ABCD, pertanto i quattro prismi ricavati
8
dalle due piramidi simili forniscono un volume pari a
1
del prisma di ugual base ed uguale altezza
16
della piramide ABCD. Si constata così che si passa dal primo ‘stadio’, al secondo moltiplicando per
1
1
. L’iterazione di infinite volte porta ad una progressione geometrica di ragione
e di primo
4
4
termine
1
1
. Ammettendone la somma si ha
4 n∈
4
1
4
n
=
1 4 1
1 1
⋅
= ⋅ = del prisma detto.
4 1− 1 4 3 3
4
Questo procedimento oggi accettabile, non lo era al tempo di Euclide, per la ripugnanza a trattare in
questa maniera l’infinito.
Segue la
«Proposizione XII.4. Date due piramidi che abbiano uguale altezza e basi triangolari, e si divide ciascuna di esse
in due piramidi uguali fra loro e simili a tutta quanta l’iniziale ed in due prismi uguali, si avrà che la base di una
delle due piramidi iniziali sta alla base dell’altra piramide come la somma dei prismi della prima piramide sta a
quella dei prismi, in ugual numero dell’altra piramide.»
Si arriva così al secondo risultato provato mediante il metodo di esaustione:
«Proposizione XII.5. Piramidi che abbiano altezze uguali e basi triangolari stanno fra loro come le basi.
Dimostrazione. Siano date piramidi di uguale altezza, in cui siano basi i triangoli ABC, DEF e vertici i punti G,
H; dico che la base ABC sta alla base DEF come la piramide ABCG sta alla piramide DEFH.
Infatti, se si potesse avere che la base ABC non stesse alla base DEF come la piramide ABCG sta alla piramide
DEFH, si avrebbe che la base ABC starebbe in tal caso alla base DEF come la piramide ABCG ad un solido che
fosse minore della piramide DEFH, o a uno che fosse maggiore [di essa]. Dapprima, la piramide ABCG stia al
solido W, minore di DEFH, cioè si abbia: ABC:DEF = ABCG:W (con W < DEFH). Si divida la piramide DEFH
in due piramidi uguali fra loro, e simili alla piramide tutta quanta, ed in due prismi uguali; la somma dei due
prismi è allora maggiore della metà di tutta quanta la piramide (Prop. XIII.3). Di nuovo si dividano similmente le
piramidi che la (prima) divisione ha determinato, e si continui a far ciò fino a che della piramide DEFH restino
piramidi la cui somma sia minore dell’eccedenza per cui la piramide DEFH supera il solido W (prop. X.1). Tali
piramidi restanti siano, a titolo di esempio, QDRS, STUH; quindi DQRS + STUH < DEFH – W, quindi la somma
dei prismi della piramide DEFH, che così restano cioè DEFH – (DQRS + STUH), è maggiore del solido W. Si
divida anche la piramide ABCG allo stesso modo della piramide DEFH, ed un ugual numero di volte; si ha
perciò che la base ABC sta alla base DEF come la somma dei prismi della piramide ABCG sta alla somma dei
prismi della piramide DEFH (Prop. XII.4). Ma si ha pure che la base ABC sta alla base DEF come la piramide
ABCG sta la solido W; quindi anche, la piramide ABCG sta al solido W come la somma dei prismi della piramide
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ABCG sta alla somma dei prismi della piramide DEFH, per cui permutando (Prop. V.16.), la piramide ABCG sta
alla somma dei prismi in essa contenuti come il solido W sta a quella dei prismi della piramide DEFH. Ma la
piramide ABCG è maggiore della somma dei prismi in essa contenuti; quindi, pure il solido W sarebbe maggiore
della somma dei prismi della piramide DEFH (Prop. V.14.). Ma esso è anche minore di tale somma [come si è
sopra veduto]; il che è impossibile. Dunque non può darsi che la base ABC stia alla base DEF come la piramide
ABCG sta al solido che sia minore della piramide DEFH. Similmente si potrà dimostrare come non possa darsi
neppure che la base DEF stia alla base ABC come la piramide DEFH sta a un solido che sia minore della
piramide ABCG.
Dico adesso che non può nemmeno darsi che la base ABC stia alla base DEF come la piramide ABCG sta ad un
solido che sia maggiore della piramide DEFH.
Infatti, se possibile, [la piramide ABCG] stia al solido W, maggiore di DEFH, cioè si abbia ABC:DEF =
ABCG:W (con W > DEFH), quindi si avrebbe, invertendo, che DEF:ABC = W:ABCG (Corol. alla Prop. V.7.).
Ma il solido W sta alla piramide ABCG come la piramide DEFH sta ad un solido minore della piramide ABCG,
come fu prima dimostrato (Corol. alla Prop. XII.2.); quindi anche la base DEF sta in tal caso alla base ABC come
la piramide DEFH sta ad un solido minore della piramide ABCG: il che fu dimostrato assurdo. Perciò non può
darsi che la base ABC stia alla base DEF come la piramide ABCG sta ad un solido maggiore della piramide
DEFH. Ma fu dimostrato che [la piramide ABCG] non può avere tale rapporto neppure con un solido minore
[della piramide DEFH]. Dunque, la base ABC sta alla base DEF come la piramide ABCG sta alla piramide
DEFH.»
Questa seconda applicazione del metodo di esaustione permette di confermare le caratteristiche del
metodo: per lo specifico problema bisogna trovare una costruzione che permetta di ripetere il
procedimento. Nel caso in oggetto è la costruzione dei prismi equivalenti all’interno della piramide,
la cui somma è maggiore della metà della piramide, come nel caso della Prop. XII.2, il poligono
inscritto, in modo che la differenza con la piramide, le due piramidi uguali e simili, la somma dei
segmenti circolari nella Prop. XII.2, sia minore della differenza tra DEFH e W.
Lo schema seguito è dunque lo stesso, provando prima il caso che la seconda piramide sia maggiore
di W, poi che lo stesso si può fare se W è minore della prima, poi riconducendosi a questo nel caso
che la seconda piramide sia minore di W. Di fatto la vera dimostrazione geometrica è solo il primo
passo, ottenendosi gli altri due mediante proprietà delle proporzioni.
Nella dimostrazione viene indicato il Corollario alla Prop. XII.2, (come nella dimostrazione della
Prop. XII.2) ma dopo la Prop. XII.2 il testo riporta un Lemma. Il riferimento è comunque al
risultato espresso dal Lemma.
Può sembrare strano che Euclide non si sia avvalso di un’altra strada, apparentemente più semplice:
siccome si è già provato, con la Prop. XI.32 (cfr. III.9.2.3.) che parallelepipedi di uguale altezza
stanno fra loro come le basi, e sfruttando il fatto che ‘dividendo’ per due un parallelepipedo si
ottiene un prisma a base triangolare, basterebbe considerare il fatto che una piramide a base
triangolare è un terzo di un prisma a base triangolare per avere la richiesta proporzione. Ma questo è
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invece l’obiettivo di Euclide (o era quello di Eudosso), e per non applicare considerazioni in cui
entrasse pericolosamente l’infinito, si è preferito seguire un’altra strada.
L’importanza delle piramidi a base triangolare può sembrare eccessiva. Ora è ben noto che data una
piramide a base poligonale, è possibile scomporre la base in triangoli e a tale scomposizione della
base corrisponde una scomposizione della piramide in più piramidi a base triangolare, quindi il caso
dei tetraedri non è così particolare come può apparire all’inizio.
Si può pertanto preoccuparsi delle sole piramidi a base triangolare, provando
«Proposizione XII.7. Ogni prisma che abbia base triangolare si divide in tre piramidi uguali fra loro ed aventi
basi triangolari.
Dimostrazione. Sia dato un prisma, in cui sia base il triangolo ABC: mentre opposto a
questa è il triangolo DEF; dico che il prisma ABCDEF si divide in tre piramidi uguali
F
fra loro aventi basi triangolari.
E
D
Infatti si traccino le congiungenti BD, EC, CD. Poiché ABED è un parallelogrammo e
BD è la sua diagonale, il triangolo ABD è uguale al triangolo EBD (Prop. I.34.); perciò
anche la piramide, di cui è base il triangolo ABD e vertice il punto C, è uguale alla
piramide di cui è base il triangolo DEB e vertice il punto C (Prop. XII.5.). Ma la
C
piramide, di cui è base il triangolo DEB e vertice il punto C è la stessa piramide di cui
A
B
è base il triangolo EBC e vertice il punto D, è compresa difatti dalle stesse facce. Pure
la piramide, di cui è base il triangolo ABD e vertice il punto C, è uguale quindi alla piramide di cui è base il
triangolo EBC e vertice il punto D. Di nuovo, poiché FCBE è un parallelogrammo, e CE è la sua diagonale, il
triangolo CEF è uguale al triangolo CBE (I.34). Perciò anche la piramide, di cui è base il triangolo BCE e vertice
il punto D, è uguale alla piramide di cui è base il triangolo ECF e vertice il punto D. Ma fu dimostrato che la
piramide, di cui è base il triangolo BCE e vertice il punto D, è uguale alla piramide di cui è base il triangolo ABD
e vertice il punto C; quindi pure la piramide di cui è base il triangolo CEF e vertice il punto D, è uguale alla
piramide di cui è base il triangolo ABD e vertice il punto C; dunque il prisma ABCDEF è stato diviso in tre
piramidi uguali fra loro ed aventi basi triangolari.
E poiché la piramide, di cui è base il triangolo ABD e vertice il punto C, è la stessa piramide di cui è base il
triangolo CAB e vertice il punto D – sono difatti comprese dalle stesse facce -, ma fu d’altra parte dimostrato che
la piramide, di cui è base il triangolo ABD e vertice il punto C, è la terza parte del prisma di cui è base il
triangolo ABC ed opposto ad esso il triangolo DEF, si ha pure la piramide, di cui è base il triangolo ABC e
vertice il punto D, è la terza parte del prisma che ha la stessa base, cioè il triangolo ABC, e come faccia opposta
ad esso il triangolo DEF.
Corollario.
E’ da ciò evidente che ogni piramide è la terza parte di un prisma che abbia la stessa base della piramide ed
altezza uguale.»
Come si è già detto altrove, Archimede attribuisce la scoperta del fatto che una piramide sia la terza
parte di un prisma a Democrito, ma che Eudosso l’avrebbe dimostrata in modo rigoroso, facendo
uso del metodo di esaustione.
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Il metodo di esaustione nella dimostrazione della Prop. XII.7, compare inglobato nella Prop. XII.5,
usata per affermare che piramidi di uguale (= equivalente) base ed uguale altezza sono uguali (=
equivalenti), ma in realtà nella Prop. XII.5 non si trova esplicitamente lo stesso enunciato, si ha solo
che due piramidi a base triangolare con la stessa altezza hanno lo stesso rapporto che le loro
rispettive basi. Sarà solo il caso particolare del rapporto delle basi uguale a 1, a portare
all’equivalenza di due piramidi con basi equivalenti ed altezza congruenti, richiesta dalla
dimostrazione.
Un’interpretazione della citazione di Archimede ha fatto pensare che Democrito sia pervenuto al
risultato mediante processi infiniti di natura infinitesimale, e questo in base anche ad una citazione
di Plutarco relativo al volume del cono.
Enriques, ad esempio, suggerisce che Democrito non sia giunto alla determinazione del volume
della piramide mediante la scomposizione di un prisma in tre parti, ma attraverso la scomposizione
di una piramide in due parallelepipedi equivalenti e due piramidi, recepita nella Prop. XII.3,
reiterandola infinite volte e giungendo così al risultato calcolando:
«la somma di una progressione geometrica, la cui nozione può riattaccarsi agli argomenti di Zenone di Elea»,
come si è detto nel commento alla Prop. XII.3.
La dimostrazione della Prop. XII.7 presentata da Euclide negli Elementi si può dire una
dimostrazione visiva. Dal disegno si vede infatti direttamente che due delle tre piramidi hanno la
stessa base e la stessa altezza ed una di esse viene vista in due modi diversi come piramide, ciò è
possibile perché si tratta di piramidi a base triangolare, e questo garantisce che la terza sia
equivalente a ciascuna delle altre due.
Una volta noto il rapporto tra piramide e prisma con base ed altezza uguali a quelli della piramide,
ne discendono altre proprietà. Ad esempio si ricava da questo fatto che il rapporto tra prisma a base
poligonale e piramide con la stessa base e la stessa altezza è sempre
1
, dato che il poligono di base
3
si può scomporre in triangoli e la piramide e il prisma in solidi a base triangolare.
III.10.3. Cilindro e cono. Il metodo di esaustione viene utilizzato una terza volta per dimostrare un
risultato analogo alla Prop. XII.5, relativo ai rapporti tra cono e cilindro.
«Prop. XII.10. Ogni cono è la terza parte del cilindro che abbia la sua stessa base ed uguale altezza.
Dimostrazione. Infatti, abbia un cono la stessa base di un cilindro, cioè il cerchio ABCD, ed altezza uguale; dico
che il cono è la terza parte del cilindro, vale a dire che il cilindro è il triplo del cono.
Se difatti il cilindro non fosse il triplo del cono, in tal caso si avrebbe che il cilindro sarebbe maggiore o minore
del triplo del cono. Dapprima, sia maggiore, e nel cerchio ABCD si iscriva il quadrato ABCD (Prop. IV.4.); il
quadrato ABCD è così maggiore della metà del cerchio ABCD (cfr. dimostrazione della Prop. XII.2.). Si
costruisca ora sul quadrato ABCD un prisma d’altezza uguale al cilindro. Il prisma così costruito è maggiore in
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tal modo della metà del cilindro, dato che se circoscriviamo un quadrato al cerchio ABCD (Prop. IV.7.), il
quadrato iscritto nel cerchio ABCD è la metà di quello circoscritto, ed i solidi che su essi vengano costruiti sono
prismi parallelepipedi di uguale altezza. Ma i solidi parallelepipedi che abbiano altezze uguali stanno fra loro
come le basi (Prop. XI.32.): si ha anche, perciò, che il prisma costruito sul quadrato ABCD è la metà del prisma
costruito sul quadrato circoscritto al cerchio ABCD; ora il cilindro [che consideriamo] è minore del prisma che
sia costruito sul quadrato circoscritto al cerchio ABCD, per cui il prisma, costruito sul quadrato ABCD con
altezza uguale a quella del cilindro, è maggiore della metà del cilindro. Si dividano gli archi di circonferenza AB,
BC, CD, DA per metà nei punti E, F, G, H, e si traccino le congiungenti AE, EB, BF, FC, CG, GD, DH, HA; pure
ciascuno dei triangoli AEB, BFC, CGD, DHA è quindi maggiore della metà del segmento del cerchio ABCD che
lo racchiude, come dimostrammo sopra (Prop. XII.2.). Su ognuno dei triangoli AEB, BFC, CGD, DHA si
costruiscano prismi di altezza uguale a quella del cilindro: quindi anche ciascuno dei prismi così costruiti è
maggiore della metà del segmento di cilindro da cui è racchiuso, dato che se per i punti E, F, G, H conduciamo
rette parallele ad AB, BC, CD, DA, completiamo i parallelogrammi aventi per basi AB, BC, CD, DA, e su essi
costruiamo solidi parallelepipedi di altezza uguale a quella del cilindro, i prismi disposti sui triangoli AEB, BFC,
CGD, DHA, sono la metà di ciascuno dei solidi [precedentemente] costruiti; ora la somma dei segmenti del
cilindro è minore di quella dei solidi parallelepipedi che abbiamo costruito, cosicché anche la somma dei prismi
disposti sui triangoli AEB, BFC, CGD, DHA, è maggiore della metà della somma dei segmenti di cilindro che li
racchiudono. Se dividiamo così per metà gli archi di circonferenza rimasti indivisi, tracciamo le relative corde,
su ciascuno dei triangoli [ottenuti] costruiamo prismi di altezza uguale a quella del cilindro, e continuiamo a far
questo sempre di seguito, finiremo con l’avere come residuo certi segmenti di cilindro, la cui somma sarà minore
dell’eccedenza di cui il cilindro supera il triplo del cono (Prop. X.1). Risulti ciò fatto tracciando le corde AE, EB,
BF, FC, CG, GD, DH, HA; quindi il prisma , di cui la base è il poligono AEBFCGDH e che ha altezza uguale a
quella del cilindro, [differirà dal cilindro meno del triplo del cono, e quindi] sarà maggiore del triplo del cono.
Ma il prisma, di cui è base il poligono AEBFCGDH e che ha altezza uguale a quella del cilindro, è il triplo della
piramide di cui è base il poligono AEBFCGDH e che ha per vertice lo stesso vertice del cono (Corol. alla Prop.
XII.7); perciò anche la piramide, di cui è base il poligono AEBFCGDH e che ha per vertice lo stesso vertice del
cono, sarebbe in tal caso maggiore del cono, che ha come base il cerchio ABCD. Ma è pure minore – difatti è
compresa da esso: il che è impossibile. Dunque, il cilindro non può essere maggiore del triplo del cono.
Dico adesso che non può neppure darsi che il cilindro sia minore del triplo del cono.
Infatti, se fosse possibile, sia il cilindro minore del triplo del cono: si ha quindi, inversamente che il cono sarebbe
maggiore della terza parte del cilindro. Si iscriva allora nel cerchio ABCD il
quadrato ABCD (Prop. IV.6); il quadrato ABCD è allora maggiore della metà del
H
A
cerchio ABCD (cfr. dimostrazione della Prop. XII.2.). E sul quadrato ABCD si
D
costruisca una piramide che abbia lo stesso vertice del cono; la piramide così
costruita è quindi maggiore della metà del cono, dato che, come sopra
E
G
dimostrammo, se circoscriviamo al cerchio un quadrato (Prop. IV.7.), il quadrato
ABCD sarà metà del quadrato circoscritto al cerchio, e se costruiremo sui
C
B
F
quadrati dei solidi parallelepipedi di altezza uguale a quella del cono, i quali
solidi sono pure chiamati prismi, il solido costruito sul quadrato ABCD sarà la
metà di quello costruito sul quadrato circoscritto al cerchio: essi stanno difatti tra loro come le basi (Prop.
XI.32.). Cosicché anche le loro terze parti avranno tale relazione, per cui pure la piramide, di cui è base il
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quadrato ABCD, sarà la metà della piramide costruita sul quadrato circoscritto al cerchio medesimo (Corol. alla
Prop. XII.7.). Ma la piramide costruita sul quadrato circoscritto al cerchio è maggiore del cono – difatti lo
comprende. Quindi la piramide, di cui è base il quadrato ABCD e che ha per vertice lo stesso vertice del cono, è
maggiore della metà del cono. Si dividano gli archi di circonferenza AB, BC, CD, DA per metà nei punti E, F, G,
H, e si traccino le congiungenti AE, EB, BF, FC, CG, CD, DH, HA: perciò anche ciascuno dei triangoli AEB,
BFC, CGD, DHA è maggiore della metà del segmento del cerchio ABCD da cui è racchiuso (Dimostrazione della
Prop. XII.2.). E su ciascuno dei triangoli AEB, BFC, CGD, DHA si costruiscano piramidi aventi lo stesso vertice
del cono: quindi pure ognuna delle piramidi così costruite è maggiore della metà del segmento di cono che la
racchiude. Se dividiamo allora per metà gli archi di circonferenza rimasti indivisi, tracciamo le relative corde, su
ciascuno dei triangoli ottenuti costruiamo una piramide che abbia lo stesso vertice del cono, e continuiamo a far
questo sempre di seguito, finiremo con l’aver come residui certi segmenti del cono, la cui somma sarà minore
dell’eccedenza di cui il cono supera la terza parte del cilindro (Prop. X.1.). Risulti ciò fatto tracciando le corde
AE, EB, BF, FC, CG, GD, DH, HA; quindi la piramide di cui è base il poligono AEBFCGDH e che ha per vertice
lo stesso vertice del cono, e che resta [tolti i segmenti], è maggiore della terza parte del cilindro. Ma la piramide,
di cui è base il poligono AEBFCGDH e che ha per vertice lo stesso del cono, è la terza parte del prisma di cui è
base il poligono AEBFCGDH ed altezza la stessa del cilindro, sicché il prisma, di cui è base il poligono
AEBFCGDH e che ha per altezza la stessa del cilindro, sarebbe in tal caso maggiore del cilindro di cui è base il
cerchio ABCD. Ma è pure minore di esso – difatti è da esso compreso: il che è impossibile. Quindi non può darsi
che il cilindro sia minore del triplo del cono. Ma fu dimostrato che non è neppure maggiore del triplo del cono: il
cilindro è perciò tre volte il cono, cosicché il cono è la terza parte del cilindro. »
La dimostrazione è complessa, dato che a volte sembra di rileggere lo stesso pezzo visto in
precedenza. La figura presente sul testo di certo aiuta ben poco, presentando una ‘istantanea’ della
base del cono (cilindro).
Si utilizza un nuovo concetto non definito: il segmento di cilindro, il solido ottenuto da un segmento
circolare, tagliando il cilindro con un piano (mai nominato) parallelo alle generatrici della superficie
cilindrica (mai nominata). Lo stesso per il segmento di cono. Si dà per scontato che quello che
succede per la base si trasferisca a tutto il solido, imponendo implicitamente una uniformità di
sezioni.
Poi c’è una novità dimostrativa; per ben quattro volte vengono utilizzati risultati provati nella
dimostrazione della Prop. XII.2, a riprova che la materia oggetto di studio non è ancora ben
maturata. E’ questo infatti una caratteristica tipica di svolgimento di una ricerca: si prova un
risultato e poi ci si accorge che forse oltre all’enunciato è importante quanto provato nella
dimostrazione e in quel caso si estrapola dalla dimostrazione i lemmi o risultati che si utilizzeranno,
dando loro un nome e visibilità.
Interessante anche il fatto che qui Euclide si accorga dell’inutilità di distinguere tra parallelepipedi e
prismi, dice infatti
«[…] se costruiremo sui quadrati dei solidi parallelepipedi di altezza uguale a quella del cono, i quali solidi sono
pure chiamati prismi […] »
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ricordandosi, in qualche modo che aveva proposto nella
«Definizione XI.13. Prisma è una figura solida compresa da piani, due dei quali, opposti, sono uguali, simili, e
paralleli, mentre i restanti sono parallelogrammi.»
mentre i parallelepipedi non sono definiti: essi appaiono nella Prop. XI.25 senza essere stati
precedentemente definiti. Lo stesso era successo per i parallelogrammi, introdotti senza definizione
esplicita nella Prop. I.34, anzi con la Def. I.22. di romboide, mai utilizzato negli Elementi.
A parte queste considerazioni, la dimostrazione adopera due volte esplicitamente il metodo di
esaustione. Nella prima parte prova che il cilindro è l’elemento di separazione tra i prismi iscritti
(che hanno base iscritta) o circoscritti (che hanno base circoscritta al cerchio di base) del cilindro e
uguale altezza, ma non completa quanto qui affermato, perché manca la nozione di elemento
separatore di una classe contigua di grandezze, che sarà introdotta alla fine del XIX secolo da
Cantor! Di fatto manca il numero π, come detto anche in precedenza.
Ed allora la dimostrazione si dipana in altro modo.
Si vuole provare che
Ci = 3Co
Avendo abbreviato le parole cilindro e cono. Come al solito la partenza del metodo di esaustione
richiede che non valga l’uguaglianza, ma sia Ci > 3Co, quindi esiste una grandezza D tale che
Ci – 3Co = D.
A questo punto si lavora sul cilindro considerando i prismi che hanno base inscritta nel cerchio di
base del cilindro, ottenendo Pri < Ci. Questo risultato, dato come ovvio, di fatto nasconde un
teorema non dimostrato e neppure citato, che prismi e cilindri aventi la stessa altezza sono
proporzionali alle rispettive basi. Si ovvia a questa mancanza pensando che il prisma è compreso
nel cilindro e applicando così la Noz. com. 8. Ma questo non basta perché si tratta di spingere
l’approssimazione, aumentando il numero dei lati, a trovare un certo prisma tale che
Ci – Pri < D.
E’ questa disuguaglianza che ci permette di affermare che il cilindro è il ‘limite’ dei prismi in esso
iscritti, il fatto che D sia il risultato della differenza Ci – 3Co non ha rilevanza, è un puro accidente.
La dimostrazione, fino a qui poteva essere fatta nello stesso modo, mettendo in evidenza che
comunque prefissata una grandezza arbitraria D, si può trovare un prisma iscritto che approssimi il
cilindro meglio del valore indicato da D.
Riprendendo ora il fatto che D = Ci – 3Co, si è così provato che
Ci – Pri < Ci – 3Co
Quindi
Pri > 3Co
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Ma si è dimostrato nella Prop. XII.7, che il prisma è il triplo di una piramide, per cui,
Pir > Co
D’altra parte la piramide è iscritta nel cono (anche questo sarebbe da dimostrare: il fatto che la base
della piramide sia un poligono iscritto nel cono e che il vertice del cono e della piramide
coincidano, può bastare graficamente o visivamente a concludere che la piramide è ‘compresa’ nel
cono, non a provarlo in modo ‘geometrico’. In conclusione si ha che la piramide iscritta è tale che
Pir < Co.
Ne segue che
Pri = 3Pir < 3Co,
in contrasto con la disuguaglianza provata in precedenza: Pri > 3Co.
Poi si passa alla dimostrazione che non può essere
Ci < 3Co.
Stavolta si procede a partire dal cono, per cui si assume
1
Ci < Co,
3
e sia ancora
D = Co -
1
Ci.
3
Si prendono in considerazione il cono e le piramidi iscritte in esso, a partire dalla piramide di base
quadrata inscritta nel cono. Si utilizza l’informazione che il quadrato è maggiore della metà del
cerchio di base del cono si ‘estrapola’ questa informazione, che come prima sottintende che coni e
piramidi della stessa altezza siano in proporzione con le loro basi, si conclude che la piramide
iscritta nel cono è maggiore della metà del cono. Il procedimento di costruire un poligono regolare
avente il doppio del numero dei lati porta a trovare una piramide tale che
Co - Pir > D = Co -
Ma si ha
Pir =
1
Pri,
3
per cui
1
1
Ci < Pri,
3
3
da cui
Ci < Pri.
Ed essendo il prisma incluso nel cilindro, è anche
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1
Ci.
3
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Pri < Ci,
quindi un assurdo.
Questa ripetizione delle costruzioni appesantisce la dimostrazione, ma a Euclide non è sembrato
opportuno fare come negli altri casi in cui ha usato il metodo di esaustione, riferimento ad
un’analogia.
L’altra Proposizione in cui si usa il metodo di esaustione è la
«Proposizione XII.12. Coni e cilindri simili stanno tra loro in rapporto triplicato rispetto a quello dei diametri
della basi.»
La tecnica dimostrativa è la stessa, riconducendo i coni alle piramidi e i cilindri ai prismi. Di fatto la
dimostrazione si conduce solo sui coni, utilizzando poi il fatto che il cilindro è il triplo (non
triplicato) di un cono con la stessa base e la stessa altezza.
III.11. Il Libro XIII.
Il Libro XIII conclude gli Elementi di Euclide, con quello che alcuni commentatori hanno indicato,
come un esplicito tributo a Platone ed alla sua teoria dei solidi sono connessi agli elementi, vale a
dire i cinque poliedri regolari.
Il Libro presenta 18 Proposizioni + 2 Lemmi e un Corollario.
Una possibile suddivisione dei risultati presentati è la seguente:
Le Propp. XIII.1. – XIII.6. sono relative la costruzione della sezione aurea di un segmento.
Le Propp. XIII.7, XIII.8, XIII.11 relative al pentagono regolare.
Le Propp. XIII.9, XIII.10 e XIII.12 relative (anche) ad altri poligoni regolari (esagono, decagono,
triangolo)
Le Propp. XIII.13. – XIII.18. + Lemmi e Corollario
sono relativi alla costruzione dei poliedri regolari ed
ai rapporti dei rispettivi spigoli.
G
L’ultima Proposizione
«Proposizione XIII.18. Trovare gli spigoli delle cinque
H
E
figure [poliedri regolari] e paragonarli tra loro.»
F
L’enunciato non lo dice, ma la dimostrazione si
M
preoccupa di trovare gli spigoli dei poliedri regolari
N
inscritti in una stessa sfera.
Per la costruzione si considera un semicerchio di
A
K
C
D L
B
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diametro AB e sia C il centro. Da C si manda la perpendicolare al diametro che incontra la
circonferenza in E, mentre D è tale che AD = 2DB, vale a dire DB è un terzo del diametro. Sia F il
punto della circonferenza tale che FD sia perpendicolare al diametro. Congiunti A con E e con F, B
con E e con F, si ha AE congruente a EB e è lo spigolo dell’ottaedro iscritto nella sfera (Prop.
XIII.14) e quindi se r è il raggio della sfera,
AE = r 2 è spigolo dell’ottaedro;
Inoltre per la Prop. XIII.15, AF è lo spigolo del tetraedro inscritto nella sfera ed essendo (primo
teorema di Euclide) AF2 = 2r ⋅
2r
, si ha
3
AF =
2r 3
è lo spigolo del tetraedro
3
r
Analogamente per la Prop. XIII.15, FB è lo spigolo del cubo, e FB2 = 2r ⋅ , da cui
3
FB =
r 6
è il raggio del cubo iscritto.
3
Condotta da A la perpendicolare al diametro sia G tale che AG sia congruente ad AB. Si congiunge
G con C, e sia H il punto di intersezione tra la semicirconferenza e AG. Sia K il piede della
perpendicolare al diametro condotta da H. Con L si indica il punto del diametro tale che KC = CL, e
M l’intersezione della semicirconferenza e della perpendicolare al diametro per L. Euclide mostra
che KL è il raggio del cerchio circoscritto sul quale è costruito l’icosaedro regolare iscritto nella
sfera.
Per la similitudine dei triangoli AGC e KHC si ha che HK = 2KC, quindi KL = HK. D’altra parte
HK2 + KC2 = CH2, pertanto r2 = 5KC2, da cui KC =
r 5
2r 5
e KL =
. Con il Corollario della
5
5
Prop. XIII.16, si prova che MB è lo spigolo dell’icosaedro. Si ha pertanto che MB2 =
2r ⋅ r −
r 5
5− 5
= 2r 2
; si ha così
5
5
MB = r
10 − 20
è lo spigolo dell’icosaedro
5
In base alla Prop. XIII.17 e il suo corollario, lo spigolo del dodecaedro è la parte aurea dello spigolo
del cubo, quindi si determina su FB un punto N tale che
BN =
r 6 5 −1
30 − 6
⋅
=r
è lo spigolo del dodecaedro.
3
2
6
Con questo termina il Libro XIII, l’ultimo riconosciuto autentico, degli Elementi.
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Non termina però la Geometria che prende altre strade, affronta problemi che sono stati esclusi dalla
trattazione euclidea, anche se già presenti in autori precedenti ad Euclide.
Forse con questo libro termina la Geometria classica, perché l’atteggiamento dei geometri
successivi è diverso dall’impostazione ‘ideologica’ scelta dal matematico di Alessandria.
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