Estratto - Carocci editore

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Premessa
I dieci capitoli di questo libro sono rielaborazioni o riscritture di testi da me
presentati in luoghi diversi negli ultimi anni, riguardanti temi come: quale
è, se esiste, la differenza tra filosofia e scienza? quali sono (se esistono) i metodi filosofici? quali sono gli strumenti e le forme della ricerca filosofica attuale? L’insieme dovrebbe costituire un ritratto abbastanza fedele di come
comunemente si esercita e si concepisce la filosofia, ma anche un saggio di
metafilosofia, ossia un esame dei problemi che riguardano oggi la pratica filosofica.
Poiché non ha molto senso proporre una sintesi metafilosofica senza cercare e sperare l’accordo di chi opera nello stesso ambito, anticiperò qui di seguito alcune tra le tesi principali sostenute nel libro. Sono le tesi che mi
sembrano più ovvie e prevedibili, quelle su cui la condivisione almeno preliminare del lettore più o meno esperto di filosofia dovrebbe essere piuttosto
facile 1:
1. La filosofia è una attività di elaborazione e soluzione di problemi.
2. I problemi filosofici sono caratterizzati dal fatto di essere fondamentali, ossia (in una prima approssimazione) riguardano presupposti, condizioni, ragioni, principi orientativi, valori.
3. Il giudizio su quale problema sia fondamentale dipende in parte dal modo
in cui il problema viene formulato e/o dal contesto storico-culturale in cui ci
si trova: la tradizione ne fornisce però un elenco, relativamente canonico.
4. I problemi fondamentali – filosofici – tendono a legarsi in unità problematiche più ampie, che costituiscono le discipline filosofiche.
5. L’elaborazione filosofica dei problemi può avere per effetto la loro soluzione, o la loro dissoluzione, o il chiarimento dei termini in gioco, o la presentazione di nuovi aspetti del problema in questione.
6. La filosofia è una attività teorica, e mira alla elaborazione, soluzione o dissoluzione di problemi in linea di massima formulando tesi, espresse o esprimibili in proposizioni, e articolate o articolabili in teorie.
7. Le tesi e teorie filosofiche possono essere di natura critica, ossia possono
consistere nella confutazione o revisione di tesi e teorie.
8. Esistono prospettive filosofiche per cui l’attività critica deve essere in qualche misura dominante, e per le quali dunque la filosofia eminentemente dis9
nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza
solve problemi e confuta tesi (se è il caso, si spinge anche a discutere le ragioni
stesse dell’indagine filosofica): ma questo, per le ragioni indicate al punto 7,
non contraddice quanto indicato al punto 6.
9. Esistono prospettive filosofiche secondo le quali le tesi formulate dalla filosofia sono irriducibili a “tesi” nel senso di singole proposizioni assertorie,
ma sono complesse configurazioni teoriche, la cui ricostruzione richiede un
lavoro interpretativo: anche questo può non essere in contrasto con quel che è
detto al punto 6.
10. La filosofia è oggi una disciplina (o una attività) relativamente specializzata, con settori di studio circoscritti, ed esistono notevoli differenze e occasionali difficoltà di comunicazione tra i diversi settori, e tra il livello propedeutico della materia e quello specialistico.
11. Esiste ancora però – almeno idealmente – la possibilità di individuare
qualche principio trasversale, tale da orientare la soluzione di un buon numero
di problemi, appartenenti a diverse discipline, e applicabile anche in contesti
non filosofici.
Il fatto che si tratti di tesi ovvie non le rende meno discutibili. In particolare la
6 può incontrare il dissenso di chi pensa alla filosofia come un atteggiamento,
una prassi o uno stile di vita, o di chi pensa che la filosofia non produca tesi,
ma crei concetti. Il libro presenta anche le ragioni di entrambe queste prospettive (la seconda è anzi in parte condivisa da chi scrive) e spiega perché in verità
non siano o possano non essere in contrasto con la tesi 6.
In generale, si tenderà a specificare che l’idea della filosofia come attività
teorica, che elabora problemi, tesi, teorie, concetti, non è in contrasto con l’idea della filosofia come pratica mediatrice (mirata al dialogo sociale), o come
lavoro sperimentale, basato su certe esperienze della realtà (empirica o concettuale, effettiva o possibile), o come conversazione gradevole su quelli che la
tradizione considerava principi primi o ultimi, e che oggi ci appaiono interessanti invenzioni. Come si cercherà di far vedere, queste diverse posizioni corrispondono a diversi modi di descrizione di uno stesso fenomeno (descrivono
cioè la filosofia rispetto allo scopo, oppure alla genesi, al tono, agli esiti e alle
applicazioni delle teorie).
Ma insistere sulla natura anche e inevitabilmente teorica del lavoro filosofico credo sia oggi necessario, per “massimizzare l’accordo”, come si dice, partendo dagli elementi comuni e condivisi, e in questo modo porre rimedio se
possibile a una serie di equivoci che hanno alimentato recenti controversie in
materia metafilosofica.
Altre tesi sostenute nel libro, forse un po’ meno ovvie, sono le seguenti:
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premessa
12. Tra i problemi di cui un filosofo può occuparsi vanno inclusi quelli riguardanti la definizione, i metodi, limiti e scopi della filosofia: la metafilosofia
è cioè una disciplina filosofica come qualsiasi altra.
13. In contesti di alta specializzazione del lavoro scientifico ci sono ovviamente rischi di ridondanza o di incomunicabilità tra settori; lo stesso accade in filosofia; in particolare, ciò impedisce di riconoscere l’eventuale lavoro di scoperta
ed enunciazione dei principi descritti al punto 11 (da cui alcune implicazioni
problematiche della situazione descritta al punto 10).
14. Per queste ragioni (10-13), la metafilosofia è un settore di indagine di un
certo interesse, in quanto può favorire un confronto tra i risultati dei diversi
ambiti filosofici, con scopi di semplificazione del campo disciplinare (eliminare
la ridondanza), euristici (favorire l’individuazione e il riconoscimento di principi trasversali), propedeutici (favorire l’acquisizione di quelle che sono o si
suppone che siano le basi standard della disciplina 2).
Questo non è tutto quel che viene sostenuto nel libro – non c’è alcun accenno
alle teorie che considero più importanti – ma come ho detto è un terreno di
base, che fornisce l’essenziale per gli scopi di questa Premessa. Le tesi dalla 12
alla 14 mirano tanto a specificare il quadro di competenza delle tesi dalla 1 alla
11, quanto a legittimare nel suo insieme l’indagine presentata nelle pagine che
seguono.
I primi quattro paragrafi dell’Introduzione precisano ulteriormente il perché ritengo che la domanda metafilosofica abbia oggi un’urgenza particolare;
nei parr. 5, 6 e 7 viene presentata l’idea di fondo che ispira il libro. Questa si
articola nella presa d’atto di due problemi contestuali:
– un effettivo dissesto del discorso metateorico (correlativo a un certo declino della tradizione filosofica detta continentale);
– un presunto dissesto della teoria in generale (un pregiudizio che è stato
ampiamente condiviso, e che si può riportare all’uso iperbolico di alcuni risultati limitativi dell’Ottocento e del Novecento, per esempio: l’incompletezza della ragione teoretica, o l’incompatibilità formale di coerenza e completezza).
Rispetto a entrambi, il libro si propone di presentare le principali soluzioni attualmente disponibili, facendo uso di “principi” del genere di quelli descritti al punto 11.
Una riconsiderazione sintetica di tutto il materiale viene offerta nelle
Conclusioni.
Ringraziamenti. Mi hanno aiutato a capire che cosa era sbagliato o non chiaro
in diverse versioni di questi saggi (e anche nel mio modo di vedere la filosofia): Carlo Cellucci, Maria Lorenza Chiesara, Roberta De Monticelli, Elena
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nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza
Ficara, Luciano Floridi, Simona Morini, Achille Varzi. Ringrazio Lucia Aiello, Ferruccio Andolfi, Giancarlo Bosetti, Giuseppe Dall’Ongaro, Luciano
Floridi, Giuseppe Lanzavecchia e l’editore Scheiwiller, Giovanni Mari per
avermi permesso di riprodurre testi in parte o in diverse versioni già pubblicati
in volumi, numeri di riviste o siti da loro curati.
Fonti. L’Occidente diviso riproduce in parte un saggio uscito in Filosofia e identità nazionale – Philosophy, Nationalism and Identity, a cura di L. Aiello e D.
Miller, numero monografico di “il Cannocchiale” n. 1-2, 2004 (“Stranieri in
patria e cittadini del mondo. Filosofia e mentalità nazionali”); Mediatori terapeutici, esperti scientifici, intellettuali pubblici è un ampliamento di un intervento tenuto al convegno “Filosofia perché (e per chi)” presso il cidi di Torino, nel marzo del 2001; La filosofia e la guerra delle culture è uscito nel volume
a cura di G. Lanzavecchia e U. Colombo, Scienza e tecnologia: al di là dello
specchio, Scheiwiller, Milano 2004; Metodi e tecniche filosofiche è uscito su La
società degli individui, numero monografico su “Stili della filosofia”, 21,
2004/3; L’utilità e il danno della logica in filosofia è il testo ampliato e rimaneggiato di una lezione tenuta all’Università di Parma, nel marzo del 2004; Fenomenologia: tradizione e metodo è una versione aggiornata e modificata di una
conferenza tenuta a Trento, nel febbraio 2003, per il Centro per la Storia della
Mitteleuropa; Fortune e sfortune dell’ermeneutica riproduce in parte il saggio
Gadamer in Italia, pubblicato sull’Almanacco dell’Altana, 2002; Che cosa è la
filosofia analitica? Corrisponde con qualche variazione a un testo scritto nel
2002 per i quaderni dello swif, leggibile all’indirizzo web: http://www.swif.it/
biblioteca/public/lr/dagostini-1.0.pdf (“Immaginazione e argomentazione.
Risposta alla domanda: che cosa è la filosofia analitica?”).
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Introduzione
Intitolare un libro sulla filosofia contemporanea con le parole di Sandro Penna («come è bello stare / nel chiuso di una stanza / con la testa in vacanza / sopra un azzurro mare») può sembrare stravagante. Come molti sanno un’ampia
parte della filosofia recente (specie europea) ha insistito molto sul primato del
dialogo, della mediazione culturale e dell’impegno pubblico. Credo però che
questo riguardi la responsabilità dei filosofi, e come fanno uso del loro lavoro.
L’implicita provocazione contenuta nel titolo di questo libro vuole invece richiamare l’attenzione del lettore sull’effettività del lavoro filosofico, sul come di
fatto si svolge l’attività di un filosofo, sia esso un teorico della scienza o dell’arte, del linguaggio o della politica.
“Fare” filosofia significa leggere (un certo tipo di) libri e articoli, scrivere
libri e articoli e recensioni, andare a convegni, insegnare, tenere conferenze,
confrontarsi con medici, giuristi, biologi, politici; significa anche, volendo,
fornire chiarimenti e consigli al prossimo (philosophical counseling). Ma ciò
che distingue un filosofo dai molti intellettuali che fanno o possono fare tutto
questo è ancora, io credo, una speciale consuetudine con immagini, figurazioni, concetti, idee, principi: in una parola con quelle che più o meno impropriamente vengono definite entità “astratte”. I filosofi, come ritenevano anche
gli antichi, sono i più concreti e pratici tra gli uomini: ma ciò avviene perché
addirittura trattano anche l’astratto come se fosse concreto, e fanno della teoria una prassi.
Naturalmente, questo avvicina i filosofi ai matematici, e non credo sbagli
chi ritiene che la filosofia sia una specie di matematica allargata, ossia: un’impresa teorica che lavora con oggetti puri o parzialmente tali, ma è interessata
alle loro origini e alle loro applicazioni impure, cioè ai loro rapporti con la
realtà naturale, culturale e storica, con le forme di vita e con i moventi dell’azione 1. Richiamare l’attenzione su questo aspetto credo sia importante, e possa fornire qualche chiarimento circa la situazione attuale della filosofia, il suo
ruolo pubblico e scientifico, le sue risorse.
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1. La situazione contemporanea
A quanto si dice, la filosofia oggi gode di una nuova fortuna culturale. In ambito scientifico sono ricomparsi discorsi e problematiche che una volta si sarebbero definiti irrilevanti perché troppo generici, o perché viziati da “essenzialismo”: per esempio le domande ormai proverbiali sull’essere degli esseri
umani, l’inizio e la fine delle loro vite, la natura della coscienza. Sempre più
spesso gli operatori scientifici si trovano a dover valutare l’ipotesi che sia necessario predisporre altri paradigmi, altri punti di riferimento teorico-programmatici, o che altri paradigmi siano già attivi, ma non abbiano ancora una
voce riconoscibile. Quasi ovunque si avverte la necessità di una riduzione di
ridondanza, si chiede una semplificazione dei vocabolari scientifico-teorici,
dunque si presenta (almeno in linea ipotetica) l’esigenza di qualche macroteoria, o qualche discorso valutativo trasversale, che sia in grado di limitare il disordine dell’attuale sistema dei saperi.
D’altra parte, la pragmatizzazione del discorso politico, avviata con la crisi
delle grandi idealità che avevano ispirato il pensiero moderno, e ratificata dalla
fine del bipolarismo mondiale, ha mostrato di recente grandi limiti: le democrazie occidentali, alle prese con gli effetti della globalizzazione, o con le anomalie dei sistemi dell’informazione, si trovano a doversi nutrire di pensiero
etico-critico e non più di soli interessi pratici contestuali. È perciò ampiamente avvertita l’esigenza di riprendere certi interrogativi fondamentali di teoria
politica, o di rilanciare qualche forma di connected politics, ossia una teoria politica connessa a qualche teoria generale della realtà o della teoria. La crescente
importanza degli organismi sovranazionali e le vicende controverse del loro affermarsi impongono la formulazione di principi che sappiano essere nello
stesso tempo sovracontestuali e attenti alle differenze locali, dialogici e autorevoli, ed è difficile negare che questo lavoro dovrebbe essere svolto particolarmente bene da individui provvisti di quella peculiare combinazione di tecnica
argomentativa e sensibilità culturale che è il requisito proprio di una formazione filosofica (nei casi migliori).
La diffusione delle cosiddette “filosofie pratiche” o delle “etiche applicate” è stata solo uno dei primi indizi di questa inversione di tendenza, alle cui
origini forse può anche collocarsi lo sviluppo del sistema internet-media. In
effetti il sistema dell’informazione ha creato o potenziato tipi di intelligenze
del tutto nuove, che non si riducono alla sola familiarità con la cultura scientifica, né alla sola affinità con quella umanistica: questo tipo di intelligenza, comunque la si voglia chiamare, è nella sua versione migliore (o dovrebbe essere) una espressione alta della nostra civiltà, e non è difficile riscontrarne le
tracce nei testi della tradizione che chiamiamo filosofica (se si vuole, si tratta
di ciò che nel linguaggio del managing si chiama helicopter mind: una partico14
introduzione
lare capacità di spostarsi velocemente e senza sforzo dall’astratto al concreto e
viceversa).
Tutto ciò significa probabilmente che il ruolo della filosofia nelle società
occidentali è cambiato o sta cambiando o deve cambiare. C’è però qualche
dubbio che davvero la filosofia (o quel settore dei saperi che ancora si autodefinisce così), sia pronta a rispondere a queste richieste. In parte, il dubbio si
collega al fatto che nel mondo della cultura, della politica, della scienza, sopravvivono un vago imbarazzo o una certa diffidenza nei confronti della pratica filosofica: un atteggiamento culturale che (per la nostra epoca) si è soliti datare con il secondo Ottocento, e con la nascita delle cosiddette “scienze specializzate”. In parte, e all’opposto, la situazione è resa complicata dai successi
della Popularphilosophie, una filosofia divulgata e addolcita, molto amica dei
media, il cui operato per lo più diffonde della materia una immagine antiquata e non del tutto fedele alla realtà.
Ma forse le incertezze più serie sull’uso effettivo della filosofia all’interno
dei dibattiti attuali si devono alle molte controversie metafilosofiche che hanno caratterizzato e ancora in parte caratterizzano il campo della filosofia contemporanea. Non si è d’accordo su che cosa bisognerebbe fare in filosofia, e di
quali metodi la filosofia possa servirsi, e se e quanto debba servirsi di metodi
prefissati.
2. Controversie
Molti pensano che la filosofia debba essere una parte della scienza; altri la concepiscono come un genere letterario. Alcuni ritengono che non si sia veramente filosofi se non in quanto si percepisce uno stipendio insegnando filosofia, o facendo ricerca in filosofia; altri obiettano che invece i veri filosofi non
sono i professori né gli studiosi di filosofia, ma gli “intellettuali pubblici”, ossia coloro che in circostanze critiche intervengono pubblicamente, sui giornali, per manifestare la loro opinione. Alcuni accusano gli intellettuali pubblici
di essere in realtà dei giornalisti; altri accusano i filosofi accademici di essere
dei lacchè della scienza. Per un certo periodo queste controversie si sono sviluppate all’interno della divergenza tra filosofia analitica e filosofie continentali: una vecchia questione, che si collega a importanti fattori storici, culturali,
filosofici (la divergenza tra Europa e America, l’antipatia storico-culturale tra
inglesi e tedeschi, inglesi e francesi), ma che naturalmente non esaurisce la varietà delle posizioni possibili.
Alcuni – non molti ma tenaci – si dicono estranei a queste dispute ricordando che la filosofia è una strana pratica sciamanica, a disagio con la scienza ma anche con il mondo dei giornali. Molti di costoro pensano che la filo15
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sofia sia nemica del calcolo e dell’intelletto, e che pertanto il filosofo debba
essere un tipo particolare di intellettuale antintellettuale: un intelligente avversario dell’intelligenza, e se mai anche della ragione (vista come evoluzione
dell’intelletto). Altri – psicoanalisti, romanzieri, psicologi, studiosi di letteratura, storia, biologia, sociologia – ritengono che il loro lavoro esaurisca
perfettamente la richiesta di filosofia propria dell’epoca, e che non ci sia bisogno d’altro.
Molti sono fedeli al pathos platonico, e pensano che la filosofia sia e possa
ancora essere una «fiamma» che divampa all’improvviso nell’anima, dopo un
lungo studio preparatorio (Lettere, vii). E altri invece preferiscono il pathos di
Nietzsche o di Wittgenstein, per i quali la filosofia è una forma di malattia o
di disagio mentale, cronico o acuto, occasionale o costitutivo («Come l’umanità ha dovuto prendere sul serio le cerebrali sofferenze di questi malati tessitori di ragnatele!», Crepuscolo degli idoli). Curiosamente, queste influenti opinioni non hanno affatto impedito che invece, e tutto all’opposto, si iniziasse a
vedere nella filosofia una “guida” per l’anima e per la vita, tale da sostituire il
prozac e analoghi rimedi artificiali.
Altri ancora hanno preso una decisione che giudicano razionale e realistica, e ritengono che il filosofo sia un particolare tipo di scienziato cognitivo,
che si distingue per la tendenza a lavorare in modo astratto, senza riferirsi a
dati empirici, e/o per l’occasionale richiamo a una grande tradizione di testi,
autori, correnti, e/o per una certa attenzione al rigore delle pratiche argomentative e uno specifico interesse per sottili distinzioni terminologiche e concettuali. Infine, molti (anche nelle stesse schiere istituzionali dei filosofi) manifestano una certa spazientita insofferenza nei confronti della pratica e del nome
stesso di “filosofia”, nome vago e generico e pertanto ormai slegato dalle effettività della ricerca specialistica.
Evidentemente, le ragioni delle immagini di filosofia inquietanti, sublimi
o patetiche (fiamma o malattia), che percorrono la storia dell’Occidente,
quanto le ragioni delle discussioni sul ruolo del filosofo (giornalista o professore, intellettuale o ricercatore, maestro di vita, sciamano o scienziato), quanto, ancora, le ragioni degli avversari della filosofia (in nome della scienza, o
della poesia, o del libero pensiero, o di Dio, o del senso comune), e infine, le
stesse divergenze tra chi vede nella filosofia un disagio dell’intelletto e chi la
vede come un ristoro per lo spirito, dovrebbero risiedere nella (supposta) indeterminatezza di questa disciplina, o forma di sapere, o genere di scrittura o
attività umana.
Ma è davvero così indeterminata, la filosofia? È vero che esistono “molte
filosofie”, molti diversi modi di praticare e concepire la filosofia? Uno degli
scopi di questo libro è cercare di far vedere che non è del tutto così.
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introduzione
3. Una lingua filosofica comune?
La straordinaria quantità di manuali, companions, lessici, introduzioni alla filosofia e ai suoi settori (sub)disciplinari prodotta in questi ultimi anni anche
nel mondo editoriale angloamericano fa pensare che il bisogno di chiarirsi le
idee in ambito metafilosofico non sia soltanto avvertito nella nostra tradizione, afflitta per un certo tempo dalla minaccia o dall’ipotesi o dalla speranza
della fine della filosofia. Negli Stati Uniti sopravvive ancora la distinzione tra
filosofi per studiosi di cinema e letteratura comparata e filosofi per filosofi, che
è un retaggio o una ripercussione della divergenza fra tradizione filosofica analitica e tradizione continentale: ma le contaminazioni sono frequenti. Autori
sostanzialmente estranei al canone analitico classico, come Kant, Husserl o
Hegel, oggi entrano sistematicamente nel dibattito interno alla filosofia analitica senza suscitare perplessità 2. In Europa d’altra parte si sta diffondendo un
po’ ovunque uno stile di lavoro che è identificato da alcuni come “filosofia
analitica”, ma che – per la relativa equivocità di questa espressione, e per una
serie di fattori culturali ed extrafilosofici – tarda a esprimersi al meglio delle
sue possibilità. Molti temono – con qualche ragione – che l’“imperialismo
culturale angloamericano” si affermi anche in ambito filosofico, e che la diffusione della filosofia analitica annienti le residue buone qualità della tradizione
filosofica europea.
Ma se bisogna mantenersi alla vecchia distinzione tra filosofia analitica e
filosofia continentale, e se è vero che nella filosofia analitica oggi si trattano
autori non (canonicamente) analitici, mentre il reciproco accade nella filosofia continentale, allora è probabile che qualcosa non vada sia da una parte sia
dall’altra. O meglio: che non si sia del tutto soddisfatti dei risultati ottenuti,
da una parte e dall’altra. Si pensa a volte che nell’occuparsi simultaneamente
di filosofia analitica e continentale (cfr. anche le lezioni 2 e 5 e le Conclusioni)
si intenda assumere qualche lodevole atteggiamento di imparzialità ecumenica, ma non è così: nella maggior parte dei casi chi si occupa di entrambe lo fa
perché gli sembra che in entrambe manchi qualcosa 3.
Tutto ciò incoraggia a pensare che una sintesi metafilosofica possa essere
specificamente utile nel momento attuale. Il problema è se una simile sintesi
sia davvero realizzabile. C’è il sospetto che le difficoltà siano insormontabili,
per diverse ragioni. Per esempio, perché l’ottica metafilosofica è instabile, e
tende presto a tradursi in scelta teorica particolare; oppure perché si suppone
che una visione complessiva dei fatti della teoria implichi un sovraimpegno cognitivo, decisamente al di là delle forze limitate di un solo individuo; oppure
per un difetto di autoreferenzialità: impossibile avere una visione completa
della battaglia, mentre si combatte; impossibile descrivere la situazione in cui
ci si trova...
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nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza
Credo però (e cercherò di spiegarlo meglio più avanti) che si tratti di difficoltà non insormontabili, e in definitiva legate a un’immagine scoraggiata e
apocalittica dei fatti teorici. In realtà, qualsiasi descrizione di un fenomeno
(specie di descrizioni di entità storico-sociali, o idealtipiche, come una scienza
o un’attività umana) è sottoposta a limitazioni di questo genere: esse però non
decidono l’impossibilità dell’indagine, se mai ne stabiliscono i confini e le modalità. In altre parole, non ci sono difficoltà di principio nell’esame di un problema metateorico, che travalichino quelle tipiche dell’esame di qualsiasi altro
problema. Se esamino l’uso del termine “filosofia” e le pratiche conseguenti,
mi trovo di fronte a difficoltà formali simili a quelle proprie del termine “verità”. Certo “filosofia” ha anche correlati storico-istituzionali, ma questo decide
soltanto la direzione della ricerca, certe cautele necessarie nella ricostruzione,
l’opportunità dell’uso di certe fonti piuttosto che di altre.
Più in generale, molti risultati limitativi della generazione che ci precede
erano anche se non soprattutto basati sui limiti della memoria personale e della raccolta e classificazione di dati: limiti che grazie alla “informatizzazione”
delle conoscenze si possono considerare almeno in parte superati, soprattutto
perché è diventato chiaro che non era propriamente quello il problema. Quel
che dunque si avverte come disagio del campo metafilosofico sembra essere
piuttosto il residuo di una serie di problematiche di natura istituzionale, culturale, “enciclopedica”, che forse non hanno (più) molto a che fare con la filosofia, ma riguardano un certo ritardo della cultura a comprendere qualche
svolta paradigmatica che forse è già avvenuta 4. È ancora avvertibile d’altra
parte uno squilibrio tra le strutture tradizionali della ricerca, che ricalcano una
enciclopedia dei saperi di origine ottocentesca (cfr. qui la lezione 4), e i contenuti che vengono elaborati in tali strutture, i quali rinviano a principi e condizioni di lavoro del tutto diversi.
4. Fine del parassitismo
È vero che molti sono d’accordo, circa il fatto che la (meta)filosofia oggi goda
di nuove risorse: ma c’è l’eventualità che lo siano non tanto perché vedono all’opera opportunità ancora inesplorate, e meritevoli di considerazione e definizione, quanto perché ritengono che il loro modo di fare filosofia sia l’unico
giusto. Questo vale certamente per quel tipo di dogmatismo che è stato caratteristico di una parte della filosofia analitica, e che ancora qui e là sopravvive:
si considera scontato e universalmente valido il modo di concepire e praticare
la filosofia proprio degli eredi di Frege, o di Russell, o di Moore, o di Carnap,
e si considera ovvia e pertanto inutile, o soltanto propedeutica e divulgativa, la
risposta alla domanda circa la natura e il futuro della filosofia.
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introduzione
D’altra parte, sembra altrettanto poco problematica l’immagine di filosofia che si tramanda nelle schiere dei filosofi non analitici: per alcuni di loro
il modo di praticare la filosofia proprio di tutti gli autori in qualche misura
fiduciosi nella possibilità di una “teoria” filosofica degna di questo nome, è
destinato a ricerche minuziose, utili forse solo in certi contesti di filosofia applicata alla scienza, mentre la “vera” filosofia, impegnata a misurarsi con la
vita e con le esigenze della società, avrebbe una vocazione pubblica e politica,
e non potrebbe perdere tempo nella costruzione astratta (astrusa e in fondo
prevedibile) di architetture teoriche. È chiaro che anche in questa prospettiva la domanda sulla natura della filosofia risulta insensata, poiché si suppone
che non ci sia un’identità ricostruibile della materia, né ci siano metodi o
propedeutiche in filosofia, che non siano l’incoraggiamento a coltivare la libertà del pensiero, e il suo libero confrontarsi di volta in volta con le evenienze del mondo.
I saggi di questo libro nascono invece dalla persuasione che si debba eccepire a entrambi i punti di vista, che cioè la domanda su metodi, natura e scopi
della filosofia debba e possa essere posta in una prospettiva non divulgativa, e
non soltanto propedeutica ma anche propriamente teorica.
La divulgazione filosofica normalmente è cattiva divulgazione (come nel
caso di Russell, infedele espositore delle tesi di autori a lui non congeniali), o è
cattiva filosofia. In entrambi i casi, rischia di essere (anche con le migliori intenzioni) un’operazione disonesta. La scienza può essere divulgata, perché
gode di canoni specifici (insiemi di criteri e principi condivisi), ma non lo
stesso si può dire della filosofia, almeno se si prendono sul serio le dispute metafilosofiche elencate nel par. 2. Chi pretende allora di divulgare la filosofia
sta prendendo in giro qualcuno, spacciando per canonico ciò che non lo è, oppure ignora almeno una metà di ciò di cui sta parlando.
Questo non vuol dire affatto che la filosofia sia una scienza o un’attività
extracanonica, piuttosto vuol dire che al momento attuale il canone è spezzato, o meglio ne esistono diversi (due? tre?), e dare conto onestamente della
pratica filosofica significa tenere conto di queste differenze, mentre fare filosofia significa anche (non esclusivamente!) operare una serie di mediazioni canoniche, ossia portare contributi per aggiustamenti o ricomposizioni locali del
canone.
Una delle ipotesi che ispirano questo libro è che nella situazione contemporanea esistano orientamenti canonici, tendenti a procedere parallelamente,
o all’occasione in conflitto, ma esista anche un nuovo rapporto con il canone,
che sta affiorando (o si spera che affiori). Un canone è fatto di autori e testi di
riferimento, e di una serie di massime pratico-metodologiche, che si traducono in criteri di valutazione. Nel momento attuale gli autori e i testi di riferimento sembrano essere meno rilevanti, e invece sta acquistando un certo pri19
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mato l’aspetto pratico-funzionale del canone. Questo credo dipenda precisamente dalle nuove condizioni culturali della filosofia, che ho descritto nel
par. 1.
I conflitti metafilosofici che hanno accompagnato il Novecento erano anche l’esito di una difficile situazione della filosofia. La disciplina non godeva di
molta fortuna, era costretta a muoversi in modo parassitario, legandosi alla
scienza, o alla religione, o all’arte, o alla politica. Era dunque comprensibile
che si enfatizzassero le differenze e le incommensurabilità. Per esempio, con
una certa perspicacia Richard Rorty notava nel 1981 che i conflitti più aspri tra
filosofi analitici e filosofi continentali riguardavano la decisione di stipendiare
i professori di logica. Una sottile questione metodologica, metateorica, metafisica (quanta e quale logica usare in filosofia?) si collegava direttamente a un
problema di fondi dipartimentali. È probabile inoltre che la stessa teoria della
«crisi della ragione», che ha fatto molto parlare di sé nella seconda metà del secolo scorso (recuperando uno stile di discorso tardo-ottocentesco), in realtà
esprimesse lo sforzo di onestà di professori di filosofia costretti a insegnare una
materia che si sospettava irrilevante, e che ponevano rimedio a ciò insegnandone il declino, o l’autocritica.
Ora non voglio dire che la situazione attuale sia tanto diversa, e che la filosofia possa godere di finanziamenti straordinari, e di un territorio della ragione facilmente ricomponibile. A quanto mi risulta non è così. Certo è però che
almeno sulla carta l’epoca di ciò che chiamerei il parassitismo culturale della filosofia sembra conclusa, e forse ci si può muovere (e di fatto ci si muove già)
diversamente.
5. Disfunzioni del dibattito metateorico: metateorie distruttive
«Il logos è comune a tutti ma gli uomini si comportano come se ciascuno avesse una ragione privata», è un celebre frammento di Eraclito, e citarlo di solito
è indizio del volersi incamminare sulla via di un pericoloso ottimismo hegeliano. Ma non è necessariamente così. Anzitutto credo sia importante notare che
questa benevola intuizione ha il merito di collocare le divergenze intellettuali
più rilevanti (e specie quelle filosofiche, cioè razionali) a un livello metateorico. In altre parole si suggerisce che nei fatti della teoria il livello riflessivo o
metateorico vada sempre considerato con cura, essendo spesso la causa di divergenze apparenti.
Questo mi sembra in special modo il caso della filosofia attuale. Capita
spesso, leggendo testi contemporanei, di vedere autori che trattano gli stessi
argomenti, che hanno idee molto simili, e che a volte utilizzano anche stru20
introduzione
menti affini, e tuttavia si ignorano, o anzi dicono gli uni degli altri tutto il
peggio possibile. Come si spiega questo fatto?
Una prima ovvia risposta consiste nel dire che probabilmente ognuno
ignora le posizioni dell’altro, e dunque vede nemici e antagonisti dove non ci
sono. Non si può sapere tutto, non si possono studiare approfonditamente poniamo l’ermeneutica, e anche la filosofia analitica del linguaggio, e anche la fenomenologia, dunque si finisce per rimanere legati a una sola prospettiva 5.
Ma una seconda ipotesi, che tenderei a sviluppare, è che questo genere di
errori e fraintendimenti si spieghi in base a un certo declino del discorso metateorico, correlativo a un supposto declino della teoria.
La situazione attuale del dibattito metateorico si può in effetti sintetizzare
nel modo che segue. Negli ultimi decenni del Novecento è emersa un’ipotesi
metateorica globale, la sintesi postmodernista, i cui contenuti specifici erano
l’impossibilità di produrre metateorie globali. Questa ipotesi, a causa della sua
natura autocontraddittoria, non era in alcun modo confutabile e discutibile,
tanto è vero che uno dei suoi punti di forza era precisamente l’insensatezza del
dibattito pubblico, “moderno”, e la sua sostituzione con nuove forme di discussione. Come fare dunque a dire se il postmoderno era o no una buona
ipotesi descrittiva, visto che non si proponeva nei termini in cui normalmente
sono valutabili le ipotesi descrittive?
È importante riportarsi alla natura metateorica del postmodernismo, perché così si evitano le interminabili e inutili discussioni che hanno afflitto e tuttora affliggono le considerazioni sul tema in America e altrove, dove è stato
scambiato per antirealismo, costruzionismo, relativismo ecc. 6. Se davvero fosse solo questo, sarebbe non difficile sottoporlo a critica, e in fondo non sarebbe così colpevole (molte posizioni filosofiche, tutt’altro che postmoderniste,
sono costruzioniste o antirealiste). Invece, la natura dissolutiva e intellettualmente rischiosa del postmodernismo consisteva nel presentarsi come teoria
della fine delle teorie, e cioè adottare l’antica movenza con cui gli scettici si
sbarazzavano della conoscenza e della verità (cfr. la lezione 8). Ora gli scettici
però avevano un obiettivo preciso: il conseguimento di una buona vita, che significa essenzialmente la possibilità di vivere con tranquillità e in salute senza
perdersi nei distinguo infiniti della teoria. Invece il postmodernista di solito
ha il difetto di continuare nel lavoro teorico, ma così facendo è come se implicitamente ammettesse di essere l’unico autorizzato a produrre teorie degne di
questo nome.
In altri termini, chi nega la possibilità del teorizzare sta teorizzando, ma se
la sua teoria è una scala, di cui si disfa dopo averla utilizzata, allora non c’è alcun problema: sta semplicemente spostandosi in un altro luogo. Se invece insiste a teorizzare, allora è come se dicesse: io sono l’unico ad avere il diritto di
utilizzare scale. È questo l’aspetto più clamorosamente fallace delle metateorie
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nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza
negative: sono autocontraddizioni palesi (come si può dire che è vero che la
verità non esiste, e in quale senso l’universale contestualità della verità non è
una verità extracontestuale?), che per di più impongono alle altre teorie interdizioni e divieti. Così capita il caso interessante e frequente del pluralista che
per ragioni di pluralismo appunto mette severamente a tacere ogni timido
dubbio sulla pluralità delle prospettive e dei punti di vista.
In generale l’argomento più forte contro le posizioni metateoriche negative è l’argomento a volte detto “elenctico”, di cui esistono molte versioni. Supponiamo che sia vero, per esempio, che la teoria fa danno alla pratica; a quale
pratica dovrebbe far danno la teoria che la teoria fa danno alla pratica? Oppure, poniamo che la verità sia storica: è anche storica questa verità, oppure no?
O anche, poniamo che il pensiero debba essere debole: sarà debole o forte
quel pensiero che pensa l’essere debole del pensiero? Poniamo che non esista
realtà al di fuori del linguaggio: il linguaggio allora starà dentro il linguaggio, e
se no, dove starà?
Questo argomento è sicuramente uno dei “principi” di cui ho fatto cenno
al punto 11 della Premessa. La sua applicazione è universale, nel senso che vale
tanto per confutare certe forme di nichilismo in ontologia, quanto per discutere posizioni scettiche ed “analetiche”, di negazione o di “sgonfiamento” della verità, in epistemologia, quanto anche per confutare i nichilismi e i relativismi o i contestualismi in etica. Di fatto è stato usato (specie da certi autori: in
particolare Hegel e Husserl) in tutti questi contesti.
Ciò significa che il postmodernismo, e con lui tutte le posizioni dissolutive, frammentiste, minimalistiche ecc. che hanno dominato la seconda
metà dello scorso secolo, sono irreparabilmente sconfitti, purché si garantisca un’applicazione intensiva del principio elenctico? Non è precisamente
così, e ciò credo dipenda dal declino del discorso metateorico di cui ho
detto.
6. Disfunzioni del dibattito metateorico: uomini di paglia
Oggi è difficile incontrare delle buone, ossia ben argomentate e perspicaci,
metateorie critiche. Sally Haslanger ha notato, e ampiamente documentato,
che l’aspra critica del relativismo o del costruzionismo portata avanti da autori
come Searle è una grande mobilitazione guerresca rivolta al nulla: molto semplicemente, i relativismi e costruzionismi come quelli contro cui si scaglia
Searle non esistono, nessuno li sostiene, e nessuno si è mai preso la pena di difenderli. Credo che questa sia una circostanza frequentissima, ma che riguarda
anche il fronte opposto. Per esempio, i relativisti spesso si scagliano contro
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introduzione
forme di dogmatismo cieco e assoluto che nessuno ha mai seriamente sostenuto.
In generale, il dibattito contemporaneo è spesso contaminato dalla presenza ubiqua di una fallacia classica, quella cosiddetta dello strawman, dell’“uomo di paglia” (cfr. anche le lezioni 5 e 8, e le Conclusioni): ci si inventa
degli uomini di paglia (per esempio il relativista assoluto, o il costruzionista
radicale, o all’opposto l’oggettivista assoluto e dogmatico), per poi facilmente
distruggerli. Spesso non si tratta neppure di un’operazione consapevole, ma di
un difetto di ciò che gli ermeneutici chiamano l’explicatio, ossia la ricostruzione delle teorie altrui, per un’urgenza di applicatio, ossia per la fretta nella messa in opera, critica o meno, di quelle stesse teorie.
In effetti le controversie in questioni metateoriche e metafilosofiche (per
esempio appunto la valutazione di prospettive come relativismo, costruzionismo o contestualismo) spesso si basano su fraintendimenti, più o meno costruiti ad hoc, e ciò significa che nessuno mai riesce ad aver torto o ragione,
nessuno comprende i limiti delle posizioni altrui, e meno che mai delle proprie, nessuno riesce ad avere le idee chiare. Con il risultato che si conferma
l’assunto (falso e pregiudiziale): non è possibile avere le idee chiare in tali dibattiti.
Se infatti i critici della realtà, della verità, della teoria, contraddicono palesemente se stessi, e per di più con il propagare il dogma dell’assenza di dogmi
fanno ciò contro cui predicano, i critici delle posizioni metateoriche negative
spesso sbagliano mira, e così finiscono per confermare su un piano performativo che i loro avversari avevano tutte le ragioni (perché è comunque solo
un’interpretazione sbagliata la radice dell’errore).
La tesi che vorrei difendere è in sostanza che bisognerebbe avere le idee
più chiare circa quel che si fa quando si sta facendo metateoria, e i rischi e gli
errori a cui si va incontro. Spiegherò meglio questo punto nelle Conclusioni.
Credo che sia qui necessario, invece, chiarirsi le idee circa le disfunzioni della
teoria che hanno giustificato le “teorie antiteoriche” della filosofia recente (incluso il postmodernismo).
7. Regole prudenziali scambiate per divieti
Molte sono le ragioni del declino della teoresi nelle filosofie del Novecento
(specie quelle europee), e alcune sono etico-ideali (la teoria fa danno alla vita,
alla giustizia, alla libertà, crea totalitarismi e società chiuse), altre sono metafisiche (la teoria deve essere sempre sottomessa in ultimo alla pratica, e ad essa
vincolata, perché nelle cose ultime sarebbe la pratica a decidere), e altre ancora
sono precisamente da riportare a un presunto dominio distruttivo delle meta23
nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza
teorie sulle teorie (la teoria tende a parlare soltanto di se stessa e, perdendo
con ciò ogni rapporto con la realtà, finisce per autoeliminarsi, non vedendo
più le proprie stesse ragioni).
Si ritornerà ancora su questo tema, a più riprese, nel libro, e presenterò
una serie di risposte a queste difficoltà. Ma la mia ipotesi più generale è che la
maggior parte delle perplessità metateoriche attuali dipendano dalla tendenza,
molto diffusa nella filosofia recente, a interpretare una serie di risultati limitativi e regole prudenziali in termini di divieti e prescrizioni (e anche questo è un
principio, del genere descritto al punto 11).
Per esempio, il fatto che ogni pretesa assoluta di coerenza richieda incompletezza, e ogni pretesa assoluta di completezza implichi una certa dose di incoerenza (un risultato che si riporta di solito alla dialettica hegeliana o alla logica di Gödel), è stato assunto nei termini di: “è impossibile una descrizione
sufficientemente coerente ed esaustiva di qualsivoglia oggetto”; il fatto che il
concetto di verità (come altri concetti) presenti alcune difficoltà se si intende
catturarlo con il solo aiuto della logica classica (è indirettamente il celebre risultato di Tarski) ha portato a teorizzare l’ineffabilità o inesistenza o indefinibilità della verità; il fatto che le nostre descrizioni della realtà dipendano in
buona parte dal linguaggio in cui sono formulate (un risultato delle varie versioni linguistiche del kantismo) ha portato a pensare che una descrizione della
realtà equivalga a qualsiasi altra 7. Con ciò non soltanto si è frainteso il principio originario, ma si è anche mancato di tenere conto del consiglio che esso
conteneva. È un errore piuttosto comune anche in altri settori: a volte nelle religioni la regola prudenziale “è consigliabile limitare i piaceri della carne per
avere una buona esperienza religiosa” si traduce in “qualunque piacere carnale
è colpevole”, e dunque è per ragioni di colpa e non di opportunità spirituale
che si incoraggia l’ascetismo.
Queste vicende sono interessanti per il nostro discorso perché hanno in
qualche misura “contaminato” (o indebolito, o limitato) non la teoria, ma
l’immagine della teoria (di qui l’importanza del detto di Eraclito). In effetti le
drammatiche limitazioni suggerite a partire da riletture di Gödel o di Tarski,
di Hegel o di Kant, hanno riguardato fino a un certo punto la pratica effettiva
della filosofia (e del teorizzare in generale). Nell’insieme anzi sembra di poter
dire che nella cultura filosofica contemporanea c’è una certa dissonanza tra
quel che si fa e quel che si dice di poter fare, ovvero: la filosofia recente si misura
con un vasto repertorio di tesi metafilosofiche dimissionarie o disfattiste; ma
di fatto gode di una alacrità teorica ignota ad altre epoche. Si genera allora il
fenomeno per cui a un atteggiarsi antieroico, minimale e pragmatizzante (il
“quietismo” di Wittgenstein, l’insistenza ermeneutica sull’indeterminatezza
del comprendere...), fa da correlato una hybris notevole sul piano delle realizzazioni effettive.
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introduzione
Guardiamo per esempio il mainstream della ricerca filosofica in Italia.
Dopo un’epoca di relativa fortuna di posizioni filosofiche “deboli” in senso
lato, caratterizzate da qualche forma di relativismo, pluralismo, prospettivismo, pragmatismo, o da qualche primato dell’etico sul cognitivo, del know
how sul know what, oggi ci si è avventurati in direzioni diverse. Non è però
chiaro ancora in quale misura le difficoltà che giustificavano le posizioni (genericamente) deboliste di un tempo siano state effettivamente superate. Si registra allora il caso di un proliferare di microteorie filosofiche che si ritengono
perfettamente legittimate, ma il discorso sulla loro legittimazione resta ancora
oscuro, o si presenta con colpi di pistola, per dirla al modo di Hegel, ossia:
nella forma di una generica stanchezza culturale, di un pour en finir con Rorty
e il postmoderno; nella forma di una riaffermazione “muscolare” di concetti
generici di soggettività, realtà e verità; o infine, nella forma di un diligente incamminarsi dove si volta il vento. Si registra anche il caso curioso per cui
frammenti di metateoria neopragmatista e decostruzionista sopravvivono accanto a pratiche teoriche orientate in tutt’altra direzione; o inversamente teorie francamente decostruzioniste vengono difese a colpi di realismo pretrascendentale.
Tutto questo secondo me vuol dire semplicemente che il discorso metateorico è rimasto in qualche misura “indietro” rispetto all’effettività della ricerca e del lavoro in filosofia. Le discipline filosofiche sono diventate (o se si
preferisce continuano a essere, o sono tornate ad essere) fiduciose in se stesse,
mentre la filosofia generale, o meglio la metafilosofia, continua a mantenersi
fedele alle limitazioni di un tempo, e perciò si limita a corteggiare i media, a
fare polemica per vanità e senza serie ragioni, a seguire le mode culturali, oppure si accomoda in una falsa idea di divulgazione o in una sorta di finta e nevrotica semplicità. Ciò si deve anche al relativo declino di una tradizione che
ha fatto della metafilosofia uno dei suoi temi favoriti, la tradizione filosofica
detta “continentale”: un tema di cui parlerò nelle lezioni 2 e 8.
8. Lezioni di metafilosofia
Comunque si vogliano interpretare queste circostanze, se un tempo la ricerca
di una lingua filosofica comune poteva sembrare un ambizioso programma,
sospetto di dogmatismo, di questi tempi mi sembra onesto e sensato invece
cercare di raccogliere le idee su quel che si sta facendo, e su quanto e come
quel che si è fatto ha prodotto danni o aperto nuove vie.
Le “lezioni” che seguono dunque vorrebbero assolvere a tre compiti
principali (sostanzialmente quelli indicati nel punto 14 della Premessa): anzitutto mirano a presentare una sistemazione quanto è più possibile chiara del
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nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza
terreno metafilosofico, che tenga conto della effettività dei processi in atto,
senza obbedire a specifiche scelte di campo (questo non per neutralità, ma
per trarre dalla pratica effettiva della filosofia tutte le risorse utili); in secondo luogo, intendono provare a “massimizzare l’accordo”, e offrire qualche
ipotesi per una convergenza metodologica e sistematica; in terzo luogo, vorrebbero presentare alcuni strumenti introduttivi alla pratica filosofica come
oggi si sta esercitando.
Le prime cinque lezioni riguardano classiche questioni metafilosofiche. La
prima presenta una definizione esterna di filosofia (ossia formulata in base all’osservazione di quello che effettivamente hanno fatto e tuttora fanno i filosofi), quindi ne offre una caratterizzazione interna alla prospettiva di chi scrive.
La seconda è un breve ripercorrimento della questione “filosofia analitica contro filosofia continentale”, anche alla luce dei nuovi rapporti tra mondo angloamericano ed Europa (in quale senso è ancora registrabile la classica contrapposizione tra filosofia angloamericana ed europea che ha dominato la parte centrale dello scorso secolo? In quale senso tale contrapposizione è un riflesso di divergenze culturali più ampie, che hanno diverse espressioni?). La terza
esamina il lavoro filosofico nel suo concreto esercizio, discutendo la tripartizione dei possibili compiti dei filosofi in “esperti scientifici, intellettuali pubblici, mediatori terapeutici” presentata da Habermas in un saggio del 1999, e
ponendo la questione della professionalità in filosofia (si può essere davvero
professionalmente garantiti in filosofia? che cosa ciò comporta? qual è la differenza – se ne esiste una – tra la specializzazione che si richiede in filosofia e
quella che si richiede in altre scienze e discipline?). La quarta lezione indaga la
collocazione e il ruolo della filosofia rispetto al difettoso paradigma delle “due
culture”, che ha attraversato tutto il Novecento, e ha ispirato negli anni novanta, negli Stati Uniti, le cosiddette culture wars. La quinta pone il problema
della possibilità di trasmettere orientamenti tecnico-pratici in filosofia, e con
ciò introduce il tema dei quattro testi successivi, che appunto offrono una immagine della filosofia contemporanea sotto il profilo pratico o metodologico.
Le lezioni 6-9 sono introduzioni ai metodi e agli strumenti principali del
lavoro filosofico: la logica, la fenomenologia, l’ermeneutica, i diversi metodi
analitici. Curiosamente infatti, nonostante la straordinaria fortuna di molte
teorie e posizioni antimetodologiche, è proprio sul piano dei metodi o delle
tecniche filosofiche che il Novecento ha dato i suoi frutti migliori. Le applicazioni filosofiche della logica (come teoria e tecnica dell’inferenza valida e dell’argomentazione corretta), l’ermeneutica del testo filosofico, l’analisi concettuale e l’analitica fenomenologica dell’esperienza, la filosofia critica, le tecniche dell’epistemologia modale sono risorse oggettive della filosofia contemporanea. In parte si tratta di tecniche e metodi già ampiamente usati nella sto26
introduzione
ria del pensiero, ma in epoca recente hanno trovato una consapevolezza e una
chiarezza di forme e di intenti che era ignota ad altre epoche.
Infine, l’ultima lezione vorrebbe iniziare a chiarire l’uso di questi orientamenti di metodo, e a questo scopo presenta una serie di considerazioni sulla
natura del “pensiero oggettivo”, che costituisce il campo di esercizio e il principale strumento della pratica filosofica, e chiarisce il comportamento e la natura dei concetti definibili come “filosofici”, che nella tradizione si chiamavano “generi sommi”, o “trascendentali” o “concetti della riflessione”, e la cui
elaborazione prelude alla formazione di “principi”, ossia (mi riferisco sempre
al punto 11 della Premessa) orientamenti di base comuni a diverse scienze e discipline. Quest’ultima lezione dovrebbe giustificare l’idea, avanzata a più riprese anche se indirettamente nel corso del libro, della necessità di tornare a
certe caratteristiche specifiche del lavoro filosofico che di recente sono passate
in secondo piano, soprattutto nella tradizione europea.
Tradizionalmente, in filosofia sono in gioco diverse facoltà umane: un
certo “amore intellettuale”, o un fondamentale interesse per la conoscenza e
per le sorti del mondo e dell’umanità; una capacità di penetrare enigmi o descrivere e interpretare la realtà; una disposizione a pensare criticamente; non
ultimo: uno “stile di vita”, un particolare modo di concepire i rapporti con se
stessi e con gli altri. Ma tutto questo forse corrisponde a una macrodescrizione
del lavoro filosofico: di fatto, a un livello di descrizione preliminare e minimale, sembra di poter dire che in filosofia siano anche se non soprattutto in gioco
certe specifiche capacità umane di immaginazione ontologica, logica ed etica.
Spesso fare filosofia significa pensare come le cose potrebbero essere, o come
dovrebbero essere, o come si potrebbe e dovrebbe guardare, descrivere e pensare la realtà. Significa “sedersi in poltrona” (come alcuni dicono) ed escogitare soluzioni per i problemi, o elaborare ostinatamente questioni giudicate irrisolvibili. Come ho suggerito, dal punto di vista del suo esercizio pratico, la filosofia può descriversi (e di fatto alcuni la descrivono così) come una specie di
matematica allargata, una impresa che si serve di concetti, cioè strutture linguistico-formali, ma interessata anche ai loro rapporti con la realtà, con l’agire
pratico, con le culture e le forme di vita. E la consuetudine con ciò che è definito “astratto” è anzitutto consuetudine con il possibile e con il non attuale.
Molto spesso, è il possibile (i mondi migliori che dovrebbero esistere e non
esistono ancora) che rivela l’importanza anche pratica dell’astratto (la capacità
del pensare progettuale e congetturale, che elabora oggetti esistenti ma non
“attualmente” reali).
Naturalmente, questo non è tutto – molto si deve all’incontro e al dialogo,
alle contingenze storico-culturali, all’impatto del pensiero con la realtà e con
certe esperienze della realtà. Inoltre, l’immaginazione filosofica risponde anche se non per lo più a una specifica responsabilità della filosofia di fronte alle
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richieste pubbliche. Ma ciò non muta la premessa: occuparsi di filosofia significa essere a tal punto solleciti circa le cose del mondo, da concepire (in modo
critico o affermativo) come appartenente al mondo anche quel che sembra
non appartenervi. Ciò corrisponde, credo, a un’esperienza comune, in fondo
condivisa anche da coloro che concepiscono la filosofia come attività erudita,
basata sulla lettura e interpretazione dei testi filosofici, o come stile di vita, o
dai sostenitori del pensiero “concreto”, il pensiero che non disdegna la prassi,
e anzi vuole gettarsi nella corrente della storia.
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