Durante la seconda metà del diciannovesimo secolo ci si rese conto che la teoria fisica era in seria difficoltà. La dinamica newtoniana era ben stabilita: si riconobbe che questa teoria è valida in ogni sistema di riferimento inerziale e che tutti i sistemi di questo tipo si equivalgono. Anche la teoria dell’elettromagnetismo di Maxwell era ben stabilita e si era compreso che la luce è un fenomeno ondula torio descritto correttamente dalle equazioni di Maxwell. Tuttavia, una parte integrante della teoria della propagazione delle onde elettromagnetiche era fondata sul concetto di etere A causa della concezione meccanicistica dell’elettromagnetismo allora in voga, si riteneva essenziale l’esistenza di un etere che costituisse un meno in cui le onde potessero propagarsi. A differenza delle equazioni di Newton, che si sapevano valide in tutti i sistemi di riferimento, le equazioni di Maxwell sembravano aver bisogno di un sistema di riferimento privilegiato. Continuando a imporre soluzioni meccaniche ai problemi dell’elettromagnetismo, i fisici si cacciavano sempre più in un vicolo cieco. Era necessario avanzare molte ipotesi ad hoc per spiegare un numero crescente di fatti sperimentali. Alla fine, in realtà, furono trovate tutte le equazioni pertinenti che oggi consideriamo corrette; ma questi risultati non erano affatto soddisfacenti: erano mescolati a un’infinità di ipotesi ed erano legali indissolubilmente all’esistenza dell’etere. La teoria dell’etere entrò definitivamente in difficoltà quando tre distinti esperimenti portarono alle seguenti conclusioni: (a) l’etere è trascinato con sé dalla Terra e quindi gli esperimenti in laboratorio sono eseguiti sempre in un sistema di riferimento in quiete rispetto all’etere (Questa era la conclusione basata sul famoso esperimento eseguito da Michelson e Morley negli anni 1890-l900); (b) la Terra si muove liberamente attraverso l’etere che resta in quiete rispetto alle stelle «fisse»; (c) un mezzo materiale in moto (per esempio l’acqua), attraverso il quale la luce può propagarsi, trascina con sé l’etere, ma con una velocità uguale soltanto a metà della velocità del mezzo. Di fronte a queste contraddizioni, la teoria dell’etere finì per morire. Nel 1905, un’idea nuova e cruciale fu avanzata da Albert Einstein (1879-1955). Einstein spazzò via la teoria dell’etere e insieme a essa tutte le ipotesi ad hoc, sostituendole con due soli postulati. Sulla base di questi postulati egli riuscì a costruire un’elegante teoria che è un modello di precisione logica. La teoria della relatività di Einstein stabilì il legame fra la meccanica e l’elettromagnetismo: unificò le due grandi teorie della fisica classica. La soluzione di Einstein al problema richiedeva che si abbandonasse l’opinione precedente secondo cui lo spazio e il tempo erano concetti distinti e senza cor relazione. Nella concezione di Einstein noi non esistiamo in uno spazio tridimensionale sul quale sovrapponiamo il concetto di tempo; invece, secondo la sua ipotesi, le coordinate spaziali e temporali esistono insieme su una base di parità in un mondo quadridimensionale di spazio-tempo. I concetti della relatività sembrano alquanto strani e forzati. Ma gli effetti relativistici sono importanti solo quando s’incontrano velocità prossime alla velocità della luce, e la nostra intuizione è basata sulla nostra esperienza quotidiana, in cui non s’incontrano quasi mai situazioni che coinvolgono velocità così alte. Se crescessimo in un mondo in cui fosse facile incontrare velocità molto più alte, i concetti relativistici sarebbero naturali e facili da accettare. Ciò nonostante, dobbiamo rispettare il principio che se i fatti sperimentali sono in contrasto con le nostre nozioni preconcette, non possiamo cambiare i fatti, ma solo le nostre idee. Dopo tutto, sullo stesso tipo di «senso comune» si basava una volta, l’opinione che la Terra fosse piatta. La trasformazione di Galileo e il suo insuccesso Il principio della relatività galileiana (o newtoniana) afferma che le leggi della meccanica sono le stesse in ogni sistema di riferimento inerziale. Le equazioni della dinamica di Newton soddisfano questo principio: se l’equazione F = ma è valida in un sistema inerziale K, allora è valida anche in un sistema K’ che si muove con velocità costante rispetto a K. La ragione per cui i due sistemi sono equivalenti è il fatto che l’accelerazione è la rapidità di variazione della velocità; questa rapidità di variazione non è influenzata dal moto relativo di K e di K’, e quindi a è la stessa in entrambi i sistemi. Volendo esprimere la posizione di un oggetto in uno di questi sistemi di riferimento per mezzo delle coordinate nell’altro sistema di riferimento, si usa la cosiddetta equazione di trasformazione di Galileo. Si consideri un oggetto P K K’ v O O’ P x vt x’ situato a una distanza x dall’origine O deL sistema K. Per un osservatore situato in K’ la posizione di P varia nel tempo secondo l’equazione x’ = x — vt (trasformazione galileiana) (Le grandezze accentate si riferiscono sempre al sistema K’.) Nella dinamica newtoniana, il tempo è considerato una grandezza assoluta; cioè, il tempo è descritto da un unico valore, che è lo stesso in tutti i sistemi di riferimento inerziali, qualunque sia il loro stato di moto; cioè, è sempre t = t’. Sebbene il principio della relatività newtoniana, che include l’equazione di trasformazione di Galileo e il concetto di tempo assoluto, sia adeguato per de scrivere tutti i processi meccanici ordinari, cessa di essere valido quando viene applicato al dominio dell’elettrodinamica e alla meccanica che coinvolge velocità prossime a quella della luce. La risoluzione di questo dilemma (e di altri) ha condotto allo, sviluppo della teoria della relatività. La velocità della luce è costante Supponiamo che un’automobile si muova lungo l’asse x del sistema di riferimento K con velocità di 30 km/h (figura).Se K’ si muove rispetto a K con v =20 km/h, per un osservatore K’ l’automobile sembra viaggiare con velocità V’, dove V’= V - u ossia V’ = 10 km/h. Se l’automobile invertisse il senso di marcia in K, la nuova velocità, misurata dall’osservatore K’, sarebbe - 50 km/h. Supponiamo ora di sostituire l’automobile con un impulso luminoso che viaggia con velocità e nel sistema K (fig. 11.6.). L’osservatore K’ può determinare la velocità di questo impulso luminoso nel suo sistema, misurando il tempo di transito t’ fra una coppia di rivelatori di luce, A’ e B’, separati da una distanza l’ nota con precisione; cioè, c’ = l’/t’. Quale risultato otterrà l’osservatore K’? Troverà c’ = c – v ? Tenendo presente che in pratica tutta la nostra esperienza quotidiana è governata dai principi di Newton, la risposta a questa domanda è alquanto sorprendente: in K’, la velocità dell’impulso luminoso è semplicemente c, cioè lo stesso valore misurato in K. In modo analogo, se un impulso fosse emesso da una sorgente nel sistema in moto K’, l’osservatore K potrebbe determinare anch’egli la velocità nel suo sistema misurando il tempo di transito fra i rivelatori A e B. Anche l’osservatore K trova che la velocità nel suo sistema è c. I risultati di questi esperimenti possono essere espressi semplicemente così: la velocità della luce è indipendente da ogni moto relativo fra la sorgente luminosa e l’osservatore. Esperimenti moderni hanno dimostrato che la velocità della luce (nel vuoto) è c=(2,997925±0,0000l0) x l010 cm/sec. In questa dispensa, useremo in genere il valore approssimato c = 3 x 1010 cm/sec. Poiché è difficilissimo ottenere in laboratorio velocità superiori a 105 cm/sec, non è pratico verificare la costanza della velocità della luce sulla Terra, con esperimenti del tipo appena descritto. Però, si possono eseguire osservazioni astronomiche le quali indicano chiaramente che la velocità della luce è costante e indipendente dal moto della sorgente o dell’osservatore. La figura rappresenta un sistema binario di stelle, una coppia di stelle che rotano l’una intorno all’altra. Tali sistemi non sono affatto rari — forse metà delle stelle della nostra Galassia esistono in sistemi binari. Le velocità orbitali delle stelle binarie sono molto grandi, e spesso superano 3 x 106 cm/sec. Supponiamo che nella figura entrambe le stelle del sistema binario abbiano uguali dimensioni e uguale luminosità e che osserviamo il sistema in una V direzione giacente nel piano dell’orbita. V Perciò, quando le stelle sono nelle posizioni indicate, una si avvicina con velocità V mentre l’altra si allontana con la stessa velocità. Se la velocità della luce dipendesse dal moto della sorgente, la luce che proviene dalla stella che si avvicina (A) viaggerebbe v = c +V v = c − V verso noi con velocità c + V, mentre la luce che proviene dalla stella che si all’osservatore allontana (B) avrebbe velocità c - V. La misurazione più semplice che si può eseguire è la registrazione, in funzione del tempo, dell’intensità (cioè, della quantità) di luce ricevuta dal sistema complessivo. Se la velocità della luce è indipendente dal moto della sorgente, allora la cosiddetta curva di luce che si misura sarà quella rappresentata nella figura sopra. L’intensità sarà costante, tranne che per brevi intervalli di tempo quando una stella passa dietro l’altra (eclissi) e l’intensità si riduce a metà del suo valore normale. Invece, se la velocità della sorgente dev’essere sommata alla velocità della luce (o sottratta da essa), allora, quando la luce avrà raggiunto la Terra, parte della luce «veloce» avrà oltrepassato parte della luce «lenta» e le intensità si sommeranno. Cioè, la luce arriverà a noi con periodi di intensità superiore a quella media, seguiti da periodi di intensità inferiore a quella media. La curva di luce risultante avrà la forma rappresentata nella figura sotto. Vi sarà una variazione sinusoidale dell’intensità della luce, alla quale sarà sovrapposto l’effetto del l’eclissi. Ebbene, non è mai stata osservata una curva di luce della forma sinusoidale, tutte le curve di luce ottenute da sistemi binari di stelle hanno la forma plurirettangolare Un’elegante dimostrazione del fatto che la velocità della luce è costante e indipendente dalla velocità della sorgente è stata ottenuta misurando la velocità della luce emessa nel decadimento di un fascio di pioni neutri con una velocità di 0,99975 c. L’esperimento ha dimostrato che la velocità della luce è c, con una precisione di una parte su l04 (si veda la figura) Sebbene siano stati eseguiti molti differenti tipi di esperimenti, nessuno di essi ha mai fornito un risultato in contrasto con l’asserzione che la velocità della luce è la stessa per tutti gli osservatori. Un pione neutro ( π ) viaggia con velocità v = 0,99975 c, misurata dall’osservatore nel laboratorio. Quando il pione decade, emette radiazione gamma (uguale a luce di alta frequenza) la cui velocità, misurata dall’osservatore in laboratorio, è c. Questo esperi mento è la più severa prova di laboratorio finora eseguita del postulato che la velocità della luce è sempre e, qualunque sia il moto relativo della 0 sorgente luminosa e dell’osservatore. La regola di addizione delle velocità Come può l’asserzione che la velocità della luce è indipendente dal moto della sorgente essere compatibile con il fatto che tutte le velocità meccaniche ordinarie si sommano algebricamente? Einstein dimostrò che la semplice formula per la somma delle velocità meccaniche non è corretta e dev’essere modificata. Se si devono sommare due velocità o e 02, la somma è V= v1 + v2 v ⋅v 1+ 1 2 2 c Nel caso in cui v1 e v2 siano piccole rispetto alla velocità della luce (come accade in tutte le situazioni meccaniche), il termine velocità somma è V= v1 ⋅ v2 c2 è molto minore di uno e può essere trascurato. Quindi, la v1 + v2 = v1 + v2 , 1+ 0 identica al risultato che si otterrebbe applicando il ragionamento newtoniano. Se una delle velocità è la velocità della luce, V= v1 = c, allora c + v2 c + v2 c + v2 = = =c c ⋅ v2 v2 c + v2 1+ 2 1+ c c c Questo risultato assicura che la velocità della luce è la stessa per tutti gli osservatori, perché, qualunque velocità v2 venga sommata a c, la regola per la somma fornisce sempre c. In particolare, se è v1 = c e v2 = c, si avrà ancora V= c.