FRANCA CLARA GIAMBELLUCA PSICODIAGNOSTICA

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FRANCA CLARA GIAMBELLUCA
PSICODIAGNOSTICA
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PSICODIAGNOSTICA
SOMMMARIO
Dalla definizione di diagnosi al percorso teorico e storico delle modalità valutative e
terapeutiche del disturbo psichiatrico.
Alcune puntualizzazioni tra diagnosi psichiatrica e diagnosi psicologica.
Una rapida presentazione dei due strumenti diagnostici di maggior rilievo: il DSM e
il test di Rorschach.
INDICE
Parte Prima
Sulla diagnosi
1 la definizione di diagnosi
2. Evoluzione storica della valutazione diagnostica e delle modalità di intervento
terapeutico
3. L’avvento di Freud. Si profila una netta separazione tra valutazione diagnostica
psicologica e valutazione diagnostica psichiatrica
4. Le ragioni di una forzata dicotomia tra psicologia e psichiatria
5.Una possibile maggiore collaborazione grazie alla ricerca
6. la complessa composizione della valutazione diagnostica
7. Le teorie di riferimento
8. A proposito di terapie, di guarigione, di normativa e di codice deontologico: le
teorie e la prassi
Parte Seconda
Strumenti di Indagine diagnostica: la classificazione psichiatrica del DSM ed il
test proiettivo di Rorschach
1. Il DSM
2. La regola di base del DSM
3. La valutazione multiassiale
4. Il test di Rorschach
5. La base teorica del test di Rorschach
6. I criteri interpretativi del Rorschach
7. Alcune considerazioni relative alla validità del Rorschach
8. Aree di applicazione del Rorschach
Parte Terza
Bibliografia
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PSICODIAGNOSTICA
Parte Prima
Sulla diagnosi
1. La definizione di diagnosi
Il termine diagnosi si riferisce a qualsiasi tipo di valutazione che abbia lo
scopo di acquisire la conoscenza delle condizioni psicologiche e mentali di un
soggetto genericamente problematico, per individuare se esiste un disturbo, di che
genere ed entità esso sia, e stabilire infine adeguati interventi che dovrebbero
modificare le condizioni iniziali.
La valutazione psicodiagnostica si collega quindi ad una ipotesi di disagio
psichiatrico di cui è opportuno individuare i caratteri, la gravità e l'estensione.
Il disagio consiste in uno stato di sofferenza, spesso accompagnato da
menomazioni di funzioni psichiche o mentali, che richiede dunque una valutazione
precisa.
Con la valutazione psicodiagnostica si dà la definizione appropriata del
disagio del soggetto secondo i criteri stabiliti dal DSM ( Diagnostic and Statistical
Manual of Mental Disorders ) che comprende tutta la classificazione internazione
ufficiale dei disturbi mentali, e si formula anche un profilo psicologico del soggetto
che ne implica una sua conoscenza approfondita.
Infine, si possono suggerire idonei interventi terapeutici.
La diagnosi attiva il primo momento di un processo riabilitativo che a partire
dalla valutazione iniziale dovrebbe procedere verso un cambiamento delle condizioni
di disagio del soggetto mediante un’adeguata terapia.
Ma al di là di tale definizione della valutazione diagnostica che è così
generica da renderla sicuramente accettabile, i suoi aspetti più specifici in termini di
metodo, obiettivi e contenuti, hanno spesso una diversità rilevante in quanto il
percorso conoscitivo che porta alla formulazione conclusiva è un'operazione di lunga
elaborazione che richiede molti passaggi, molti livelli di indagine e molta
competenza.
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2. Evoluzione storica della valutazione diagnostica e delle modalità di intervento
terapeutico
Le ragioni per cui la formulazione diagnostica di un disagio psichico si
presenta complessa dipendono da molti fattori che in qualche modo si possono fare
convergere nei due seguenti punti:
1. La complessità stessa della natura umana e delle sue esperienze
2. L’evoluzione storica del concetto di diagnosi
Rispetto al primo punto, le caratteristiche della natura umana e lo sviluppo
soggettivo da valutare non permettono facili semplificazioni.
Esse richiedono conoscenze teoriche e cliniche di vasto raggio per valutare
ogni aspetto psicologico, mentale e comportamentale di ogni singolo individuo ed
operazioni di sintesi che portino ad una corretta conclusione diagnostica ed a
collocare il disagio all’interno di un quadro valutativo ufficialmente riconosciuto.
Per quanto riguarda l'evoluzione storica del concetto di diagnosi, essa si
accompagna ad una serie di cambiamenti conoscitivi in ambito scientifico sociale e
culturale, ed é legata al concetto stesso di malattia mentale che col tempo ha subito
cambiamenti significativi.
In tempi lontani, le manifestazioni riferibili a disturbi psichiatrici non erano
neppure considerate una malattia mentale, forse più qualcosa di spregevole e di
inquietante che di patologico.
E quindi non esisteva neanche l'idea di una diagnosi clinica di tali fenomeni,
né di una terapia volta ad alleviarne la sofferenza.
Il primo ed unico intervento praticato a lungo è stato quello dell'isolamento.
Un isolamento concepito in differenti forme a seconda dell'epoca di
riferimento, ma sempre brutale e al solo scopo di salvaguardare gli altri, i cosiddetti
"sani" che in quanto tali erano detentori di diritti riconosciuti e di tutela.
In epoche recenti più vicine a noi, con la definizione di un mondo culturale
più evoluto, sono cominciati i primi tentativi per dare alle manifestazioni di disagio
psichico un significato scientifico ed allo stesso tempo trattamenti più umani ai
soggetti portatori di tale disagio.
Ma nel tentativo di dare un significato scientifico al fenomeno, ci si orienta
verso parametri valutativi che sono strettamente medici e che introducono alla
formulazione di una diagnosi organica.
Così il riconoscimento del disagio psichico come malattia lega ancora una
volta il paziente ad una condizione ugualmente disperata in quanto si tratta di una
malattia difficile da gestire e da curare di cui non si conosce l'eziologia.
Si pensa infatti che essa riguardi genericamente il cervello, senza però che se
ne possano individuare le aree e le specifiche funzioni interessate.
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Ad una diagnosi considerata di sicura matrice organica ma non definita, si
accompagnano anche terapie molto dubbie quali la lobotomia e l'elettrochoch che
sono regolarmente adottate in manicomi e cliniche private e che sono interventi di cui
non si è mai esattamente stabilita la reale efficacia. Malgrado l’ ideatore della
lobotomia, Egas Moniz, nel 1949 sia stato intanto insignito del premio Nobel.
A tali terapie sicuramente devastanti si aggiungono altre modalità di
trattamento ugualmente violente che hanno soltanto la funzione di contenere il
comportamento del soggetto ma che non hanno nulla di terapeutico e che avviliscono
il malato nella sua dignità di essere umano.
Sicché rispetto ai tempi precedenti, anche spostando l'asse verso l'indagine e la
sperimentazione medica, in questa nuova fase i pazienti continuano a non essere
considerati nella loro integrità di esseri umani. Tutt'al più sono oggetto di
osservazione e di ricerca per scopi scientifici.
3. L’avvento di Freud. Si profila una netta separazione tra valutazione
diagnostica psicologica e valutazione diagnostica psichiatrica
Anche Freud, all’inizio della sua professione, orienta i suoi studi alla ricerca
delle cause organiche del disturbo mentale.
Ma dal momento in cui egli comincia ad elaborare le nuove teorie incentrate
sulle dinamiche intrapsichiche, lo spirito delle sue ricerche subisce un cambiamento
radicale ed è in questo momento che la componente psicologica si introduce come
elemento prioritario di indagine per la valutazione diagnostica, l’individuazione
dell'eziologia del disturbo, la sua terapia.
Con la teoria psicoanalitica di Freud cambia totalmente il paradigma di
comprensione e di ricerca relativo alla natura umana e alle patologie psichiatriche.
Essa assume la vastità di un fenomeno culturale che si espande anche in ambiti più
estesi dando una impronta di rilievo alla letteratura, al cinema, a costumi e stili di
vita, molto al di là dello specifico psicologico e psichiatrico dove comunque segna
una svolta irreversibile.
Per molti decenni la teoria freudiana, i suoi derivati teorici più strettamente
psichiatrici e le sue influenze culturali e sociali, rimarranno incontrastati.
In ambito più strettamente psichiatrico il clima innovativo della teoria
freudiana è stato spesso erroneamente inteso come una alternativa alle teorie
organicistiche del passato.
Ma in realtà si tratta di altro. Si tratta soprattutto del recupero della
dimensione psicologica derivante dalla scoperta dell’inconscio e della grande
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componente pulsionale del vivere umano che esso racchiude, dell’individuazione
delle complesse dinamiche intrapsichiche e relazionali e dei differenti livelli di
consapevolezza del soggetto.
Come appare espressamente dai suoi scritti, Freud non si è mai posto come
sostenitore di una contrapposizione inconciliabile tra mente e natura, tra psiche e
fattori organici. Egli non ha negato la componente organica di ogni forma di
manifestazione umana, ma ha aggiunto ad essa tutti gli aspetti della dinamica
psicologica da lui scoperti.
Soltanto dopo di lui, invece, si è manifestata la tendenza di molti ad una
eccessiva semplificazione della valutazione diagnostica, schierandosi di volta in volta
dalla parte del tutto psichico o dalla parte del tutto organico.
Ed in conseguenza di tale erronea indicazione teorica si è venuta a
cristallizzare nel tempo quella dicotomia valutativa tra indirizzo organicistico ed
indirizzo psicologico che è tuttora presente.
4. Le ragioni di una forzata dicotomia tra psicologia e psichiatria
Col procedere dei due grandi filoni diagnostici, quello più antico organicistico
che diventa dominio della psichiatria e quello di origine più recente che assorbe ogni
forma di teoria legata alle teorie freudiane ed a tutti i filoni che da essa derivano, si
alternano periodi di netta contrapposizione a periodi di maggiore flessibilità ed
attenzione per le rispettive acquisizioni teoriche.
La concezione organicistica rimane molto seguita soprattutto in campo
psichiatrico in quanto la tradizione positivista della formazione medica porta più
facilmente a riconoscere come unico dato veramente significativo soltanto l'aspetto
medico della malattia mentale.
Ma non soltanto per questa ragione.
Se ancora prevale una mancata integrazione tra la psichiatria ufficiale ed i
successivi indirizzi legati soprattutto alle teorie di Freud e se le reciproche posizioni
spesso continuano a coesistere, le cause di tali condizioni meriterebbero una indagine
più completa.
A nostro avviso, i freni verso le innovazioni e verso un’ottica veramente
integrata tra l’indirizzo prevalentemente organicistico della psichiatria e quello
psicologico, derivano innanzitutto dal fatto che potere e privilegi orientano da
sempre qualsiasi scelta e che essi sono stati, e spesso continuano ad essere, di
grande rilievo nella professione medica.
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La professione psichiatrica tradizionale gode di un indiscutibile prestigio
sociale che conferisce automaticamente credibilità e vantaggi professionali.
E la storia ci insegna che quando si gode di potere e di prestigio sociale, di
fatto si è sempre contrari alle innovazioni che potrebbero minarli.
E’ quindi comprensibile la resistenza a condividere con altri orientamenti le
proprie basi teoriche e culturali quando tutto ciò si traduce in prestigio, vantaggi
sociali ed economici.
A tale aspetto legato al potere che è sempre particolarmente determinante
nell’atteggiamento mentale e nelle scelte, si va a saldare la reale posizione
d'avanguardia della medicina nella ricerca scientifica.
In quanto collegata ad altre scienze come la chimica, la fisica, o per ambiti
suoi specifici quali la neurologia, oggi la neuroscienza ed altri ancora, la medicina
offre da sempre un campo vastissimo a molte forme di ricerca ottenendo notevoli
risultati dai quali derivano il progresso dell’umanità, la maggior parte del nostro
benessere fisico e del nostro tenore di vita attuale.
In tal modo, al prestigio sociale si aggiunge un ulteriore meritato prestigio
dovuto alla ricerca che tuttora, con la tecnologia avanzata ed in continua evoluzione,
procede inarrestabile verso scoperte scientifiche rivoluzionarie.
Detto questo però, e dato il dovuto riconoscimento alla medicina per il suo alto
contributo al benessere dell’umanità, vanno qui inserite ancora due importanti
osservazioni che servono a completare il quadro del prestigio medico e della sua
difficoltà a condividere teorie che potrebbero ridimensionarlo in alcuni aspetti quali,
appunto, quello che riguarda l’area psichiatrica e nello specifico la riabilitazione di
pazienti psichiatrici.
La prima osservazione si riferisce al fatto che sarebbe ingenuo ignorare il
ruolo delle case farmaceutiche che per interessi economici orientano la ricerca verso
la produzione di psicofarmaci sempre più efficienti e mirati.
La cui funzione però è di contenimento ma non di terapia del disturbo
psichiatrico.
E così gli interessi economici e le funzioni altamente umanitarie legati alla
ricerca si vanno ad inglobare in un unico amalgama non sempre chiaramente
distinguibile ma che per tale ragione è opportuno e doveroso tenere presente.
La seconda osservazione in parte collegata alla prima, è che, a ben guardare,
l’oggetto della ricerca scientifica non è quasi mai la psichiatria con l’obiettivo di
affrontare la patologia psichiatrica partendo dall’individuo nella sua globalità.
Si tende addirittura ad escludere a priori la possibilità di una completa
riabilitazione per i disturbi psichiatrici.
Pressati dall’offerta di psicofarmaci sempre più mirati e che, non è mai troppo
ripeterlo, servono soltanto a contenere la patologia ma non a guarirla, ci si distoglie
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del tutto dai problemi relativi all’obiettivo principale che dovrebbe essere la
risoluzione della patologia mediante guarigione.
Con esplicite formule precostituite che si ripetono per ogni caso clinico, si dà
sempre più per scontato ormai che non è possibile raggiungere la risoluzione dei
disturbi psichiatrici, ma soltanto il controllo dei sintomi più debilitanti tramite un
attento dosaggio di psicofarmaci.
5. Una possibile maggiore collaborazione grazie alla ricerca
Se si vogliono per il momento sospendere le considerazioni precedenti che
comunque fanno da sfondo al difficile incontro tra psicologia e psichiatria e che
possono servire a comprendere le tante ragioni del loro persistere, e ci concentriamo
invece sulla situazione scientifica attuale, possiamo renderci conto che oggi essa è
particolarmente favorevole ad un incontro che potrebbe partire dalla ricerca.
In riferimento alla ricerca infatti, le scoperte legate alle neuroscienze
molecolari spiegano già molti aspetti del funzionamento del sistema nervoso in
termini di principi fisico-chimici. E da una maggiore conoscenza dei processi
cognitivi più elementari come la percezione e i molti livelli delle funzioni
mnemoniche, si procede comunque rapidamente verso scoperte che fanno
intravedere la possibilità di giungere infine alla comprensione dei meccanismi
responsabili di circuiti mentali più complessi.
Malgrado però le ricerche legate al cervello ed al sistema nervoso siano molto
avanzate ed in rapida evoluzione, è evidente che esse non possono ancora rispondere
ai tanti quesiti che riguardano il funzionamento della mente umana.
Se infatti il raggiungimento di traguardi così avanzati nella ricerca neurologica
apre la via a nuove prospettive di indagine, allo stesso tempo si evidenziano anche
limiti tangibili alla comprensione dei meccanismi più complessi delle funzioni
mentali e del rapporto tra mente e cervello.
Ma proprio la consapevolezza delle evidenti difficoltà ad andare avanti nella
conoscenza, dovrebbe portare entrambi le parti a retrocedere dalle loro posizioni più
radicali, con un reciproco vantaggio scientifico di grande portata
Un possibile incontro scientifico tra le neuroscienze che procedono verso la
definizione delle basi organiche di processi mentali e la psicologia che già privilegia
un'indagine volta alla conoscenza delle funzioni mentali superiori, può portare a
nuove forme integrate del conoscere. E nel rendere giustizia del percorso di entrambi
gli indirizzi, garantire piena affidabilità alle loro impostazioni teoriche.
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Con una maggiore lungimiranza, le posizioni oggi così distanti, nei fatti,
degli indirizzi psicologico e psichiatrico, potrebbero diventare veramente
complementari nell’interesse comune dell’evoluzione scientifica.
6. La complessa composizione della valutazione diagnostica
Per giungere alla sua formulazione definitiva, la valutazione diagnostica
procede per tappe successive attraverso un percorso che richiede molti livelli di
indagine.
Ciascun livello di indagine ha obiettivi conoscitivi che si riferiscono a
particolari aree e funzioni che, nella loro totalità, portano infine alla valutazione
completa delle condizioni mentali del soggetto.
Tale valutazione complessiva non comprende quindi solamente la
sintomatologia ed i comportamenti, ma anche ogni componente mentale e
psicologica, ogni elemento che possa fare intravedere dei collegamenti significativi in
qualche modo riconducibili alla conoscenza del soggetto, alla comprensione di tutte
le sue dinamiche psichiche, ed all’individuazione di zone conflittuali e di anomalie.
Così prospettata, la valutazione diagnostica richiede al clinico un’operazione
mentale che si risolve essenzialmente in due distinti momenti che insieme ne
garantiscono la completezza.
1. Il primo ambito di valutazione riguarda la definizione delle difficoltà
psichiche del soggetto secondo i criteri stabiliti dal DSM.
Con il DSM si utilizzano parametri condivisi a livello internazionale che
sono facilmente individuabili in quanto si limitano a considerare gli aspetti descrittivi
e sintomatici del disturbo ed anche a stabilire la distinzione da altri tipi di disturbi.
Di tale momento valutativo si evidenzia quindi l’aspetto di cornice generale
che circoscrive e differenzia il disturbo mediante l'individuazione dei dati sintomatici
esteriori e comportamentali che lo caratterizzano.
2. Con il secondo ambito di valutazione che completa la diagnosi, si ha il
passaggio dalla conoscenza del sintomo alla conoscenza della persona che è
portatrice del sintomo e della patologia.
Si riconosce che c’è un nesso tra individuo e la patologia e procedendo nella
valutazione esso va individuato in modo che il disturbo di cui il soggetto è portatore
sia considerato nella sua specificità che é contestuale al soggetto.
In questa seconda fase si supera la descrizione sintomatica che soddisfa i criteri
del DSM e si procede verso l' individuazione di tutta una serie di elementi e di
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dinamiche che caratterizzano quindi il soggetto, la struttura della sua personalità, i
suoi aspetti evoluti e quelli problematici.
Il tutto in una visione olistica che ha l’intento di trovare nessi e correlazioni
specifici.
E quindi si fanno ipotesi per stabilire l'eziologia del disturbo, la terapia più
idonea, per giungere infine alle previsioni prognostiche, al contesto più o meno
patogeno in cui esso si alimenta.
L’obiettivo è la conoscenza approfondita del soggetto con le sue
problematiche psicologiche, la loro eziologia e le risorse utilizzabili per la terapia.
Nel suo insieme, il percorso diagnostico si articola essenzialmente in un
alternarsi di integrazioni e differenziazioni che si completano a vicenda.
L'integrazione perché si riconosce nella patologia il risultato sovradeterminato
di molti fattori di differente peso a seconda dei casi.
Essi richiedono un'indagine accurata a tutto campo dove ogni elemento è
confrontato ed integrato con altri per potere quindi acquistare un senso valutativo
sicuro.
L'integrazione riguarda anche un pluralismo teorico che corrisponde alla
varietà delle ipotesi eziologiche e terapeutiche da prendere in considerazione.
Pluralità di riferimenti teorici non soltanto per il fatto che ogni teoria privilegia
differenti ipotesi eziologiche o evolutive del disturbo. Ma perché ogni teoria che si
possa prendere in considerazione, alla fine riguarda spesso vari aspetti del disagio
psichico, che è vario non solamente per i differenti sintomi che lo caratterizzano, ma
anche per la differente personalità e per la differente storia individuale di chi ne è
portatore.
Differenziazione invece nel senso che nel momento in cui si stabilisce la
specificità del disagio, si escludono tutte le altre ipotesi diagnostiche.
Differenziazione anche in funzione dell'unicità del soggetto, tenendo conto
che man mano che dalla semplici descrizione del sintomo e del comportamento si
passa ad un'indagine che mira alla conoscenza approfondita, emerge sempre più
chiaramente la sua specifica individualità.
L'unicità del soggetto si può riscontrare in aspetti che vanno da matrici che
sono maggiormente legate a componenti organiche, a quelle che sono maggiormente
improntate a componenti ambientali.
Ne sono esempi la stessa percezione della realtà che in genere si considera
obiettiva, ma che ha anche componenti soggettive in quanto è condizionata da filtri
proiettivi. Oppure le componenti organiche più soggettive come quelle legate alla
differente reattività delle cellule nervose, e così anche il contesto culturale ed
ambientale del soggetto.
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Avendo definito il disagio anche nei suoi caratteri sintomatici più soggettivi,
diventa agevole stabilire il trattamento più idoneo al caso e potere fare delle
previsioni prognostiche attendibili.
Previsioni prognostiche che non devono necessariamente preannunciare la
cronicità del disturbo.
7. Le teorie di riferimento
Affinché nella valutazione diagnostica si possa passare dal livello
dell'osservazione e della descrizione delle problematiche profonde del soggetto, al
livello della comprensione dei sintomi manifesti, occorrono molte informazioni da
acquisire con strumenti teorici e tecniche di indagine.
Le teorie di riferimento richiedono una formazione approfondita e completa.
Nella molteplicità dei modelli teorici da utilizzare per la definizione
diagnostica, è particolarmente impegnativo rispettare tutti i passaggi gerarchici e
valutativi senza lasciarsi condizionare da semplificazioni.
E’ necessario sapersi orientare tra i vari indirizzi teorici e conoscerne le
caratteristiche essenziali cui riferirsi.
Riguardo ai riferimenti teorici, non esiste, però, l’equivalente di una struttura
organizzativa d'insieme assimilabile a quella del DSM che organizza i sintomi con
ordine e coerenza collegando tutte le informazioni diagnostiche.
Un aspetto positivo di tale carenza si può riscontrare nel fatto che in tal modo
si dà uguale spazio ai differenti indirizzi teorici. E meno costretto in schemi
precostituiti, il clinico è più libero ed anche più responsabile nella sua valutazione.
Le teorie alle quali ci si riferisce per la valutazione diagnostica determinano la
scelta e l'organizzazione dei dati di cui si dispone.
A seconda delle tesi che esse rappresentano infatti, si dà una maggiore enfasi
ad alcune ipotesi teoriche piuttosto che ad altre.
Per tale ragione, una buona informazione teorica generale può maggiormente
aiutare nelle scelte più opportune.
Le principali teorie di riferimento ad indirizzo psicologico derivano in
prevalenza dalle teorie di Freud o da altri scienziati molto vicini a lui che hanno
privilegiato ottiche diverse, ma sempre in un confronto reciproco.
Parliamo di Jung, W. Reich, Ferenczi, Adler ed altri teorici della stessa statura.
Dopo di loro, con le successive generazioni, abbiamo Piaget, Bion, Rorschach,
Klein, Mahler, Hartmann, Jacobson, Rogers, Winnicott, ed altri ancora fino a Kohut
e Kernberg dei giorni nostri.
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A parte alcuni teorici come ad esempio Otto Kernberg che hanno il pregio di
organizzare tutto il sistema teorico complessivo prima di enunciare le loro
conclusioni soggettive, alcuni di questi teorici hanno creato dei modelli con loro
tipologie specifiche, mentre altri hanno approfondito tematiche in una maggiore
continuità teorica con i loro maestri.
Ogni teoria si occupa spesso di aree che sono complementari alle altre.
E tutte le teorie nel loro insieme integrano aspetti differenti che soddisfano in
tal modo la possibilità di analizzare le tante componenti che convergono nel carattere
di sovradeterminazione della patologia.
Di volta in volta sono presi cosi in considerazione fattori biologici, psicologici,
sociali, ambientali e relazionali, ogni ambito ipoteticamente legato all'eziologia del
disturbo.
Ai fini della valutazione diagnostica, tutti gli indirizzi teorici sono in sintesi
riconducibili ai seguenti quattro modelli:
- modello bio-medico
- modello psicoanalitico
- modello cognitivistico-umanistico-esistenziale
- modello sistemico-relazionale-sociopsicologico
In particolari condizioni storiche ognuno di questi modelli ha spesso goduto di
un maggiore o minore attenzione.
Ciò non è avvenuto soltanto per ragioni legate alla loro la validità teorica che
potrebbe escludere la validità degli altri modelli. Ma spesso situazioni culturali
contingenti determinano in alcune epoche la prevalenza di alcuni indirizzi su altri,
oppure anche per il loro carattere innovativo si evidenziano aree precedentemente
trascurate.
A lungo termine comunque, tutti questi indirizzi hanno avuto un indiscusso
riconoscimento di validità teorica e quindi tutti meritano la dovuta attenzione.
Essi sono tutti ipoteticamente utilizzabili soprattutto per l’individuazione
dell’eziologia del disturbo su cui intervenire.
La conoscenza articolata di ogni indirizzo può fornire indicazioni utili a
seconda dei sintomi ed a seconda delle caratteristiche psicologiche o patologiche che
ci si trova a valutare e che includono anche la personalità del soggetto ed i suoi
vissuti esistenziali accuratamente raccolti nell'anamnesi.
In tutto ciò assume una particolare importanza l'atteggiamento mentale del
clinico che deve essere aperto ad ogni ipotesi, senza condizionamenti pregiudiziali.
Una formazione teorica completa dà la mobilità necessaria ad operare
valutazioni concettuali che sono utili ad individuare ogni dato significativo, allo
scopo di comprendere il soggetto in tutta la sua complessa unicità.
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Infine, per la valutazione diagnostica appare oggi una forzatura superflua
l’eccessiva polarizzazione di indirizzi che contrappongono biologico e sintomatico a
psicodinamico, sistemico- relazionale, o umanistico – esistenziale.
8. A proposito di terapie, di guarigione, di normativa, di codice deontologico:
le teorie e la prassi
Per concludere, proponiamo delle considerazioni attinenti agli argomenti
trattati e che si riferiscono ad alcune differenze tra la psicologia e la psichiatria.
Tali differenze sono evidenziate dalla clinica e spesso rispondono ad una
normativa vigente che sarebbe interessante approfondire per chiarirne meglio il
senso.
Con la teoria psicologica si considera necessaria la conoscenza approfondita
del soggetto portatore del disturbo psichiatrico, nel senso di conoscere le sue
problematiche e la loro eziologia, ed anche le sue risorse di adattamento.
Ciò è collegato all’obiettivo di una riabilitazione del soggetto, in quanto si
ritiene che essa debba passare attraverso la sua conoscenza, come una necessità
inalienabile per la scelta delle terapie che mirano alla riabilitazione.
Gli psicologi che esercitano la psicoterapia, dopo la laurea hanno frequentato
una scuola di specializzazione quadriennale riconosciuta dallo stato.
A secondo dei casi, la terapia psicologica si avvale anche di psicofarmaci che
però possono essere prescritte soltanto dallo psichiatra.
La teoria psicologica ha un progetto terapeutico che mira alla remissione del
disturbo.
Relativamente alla verifica degli interventi psicologici ed al numero di
remissioni espresso in percentuali, non risultano statistiche particolarmente
attendibili come invece avviene per tutte le altre forme di malattia.
A sua volta la teoria psichiatrica ritiene, in forma prioritaria, di intervenire sul
disturbo psichiatrico soprattutto con l’uso della terapia farmacologica.
Per somministrare la terapia farmacologica non occorre conoscere le
caratteristiche psicologiche del soggetto, ma soltanto i suoi sintomi manifesti ed i
comportamenti.
Quindi tale terapia agisce sui sintomi e sul comportamento del soggetto
lasciando invariate le sue problematiche e le sue disfunzioni mentali.
E’ diffusa la convinzione che i disturbi psichiatrici non si possono curare ma
soltanto contenere, e tale forma di terapia è conseguente ad essa e ne avalla la
convinzione.
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A volte l’intervento farmacologico è accompagnato da una psicoterapia.
In tal caso si tratta quindi di un intervento che aggiunge al farmaco la terapia
psicologica.
Lo stesso psichiatra che somministra il farmaco, in quanto psichiatra, ha il
titolo di terapeuta anche se non ha frequentato una scuola di specializzazione di
psicoterapia e può effettuare direttamente anche la psicoterapia.
Se lo psichiatra che somministra i farmaci ritiene di dovere separare i due
interventi terapeutici, quello psicologico e quello farmaceutico, come del resto è
espressamente indicato per alcuni indirizzi terapeutici (ad esempio la società di
psicoanalisi), allora la psicoterapia non è effettuata dallo psichiatra che prescrive i
farmaci, ma da un altro psicoterapeuta.
Molto spesso però lo psichiatra effettua anche la psicoterapia perché ne ha il
titolo legale. Ma anche avendone il titolo legale, se non ha seguito una formazione da
psicoterapeuta, non effettua la psicoterapia ma dei colloqui di sostegno o di
intrattenimento.
Si presume che a volte egli non sappia neppure di fare tutt’altra cosa da una
psicoterapia le cui caratteristiche può conoscere solo approssimativamente, dal
momento che non ha effettuato una formazione professionale in tal senso.
A sua volta il paziente non può facilmente distinguere un colloquio di sostegno
da una psicoterapia organicamente programmata.
A lungo termine, però, egli non può che registrare risultati precari, con un
aumento di confusione ed una comprensibile sfiducia nell’intervento
psicoterapeutico. I colloqui dello psichiatra infatti non derivano da una preparazione
specifica, sono colloqui basati sul buon senso e spesso su improvvisazioni
determinate dall’atteggiamento del paziente che, ignaro delle dinamiche in corso,
incoraggia in tutti i modi ad avere un sostegno psicologico.
Sicuramente in tutto ciò non c’è la consapevolezza di discreditare la terapia
psicologica con semplificazioni ed improvvisazioni, ma nei fatti è così.
Contro una specializzazione che richiede parecchi anni di preparazione per
avere la qualifica di psicoterapeuta, c’è una consuetudine terapeutica da parte di
molti psichiatri cui non si richiede la formazione specifica, in quanto tale qualifica è
inclusa in quella di psichiatra.
Con tali approssimazioni nella regolamentazione e nell’uso dell’intervento
terapeutico, diventa un buon alibi utilizzare come elemento privilegiato di intervento
il farmaco, e semplificare il tutto alludendo all’inutilità conclamata di interventi che
non possono comunque risolvere il disturbo.
Infatti sembra che sia già stabilito a priori che non è prevista la guarigione.
Se si parla di tutte le altre modalità di intervento terapeutico che si possono
accompagnare o non accompagnare alla terapia farmacologica, i risultati sono molto
più variegati, soprattutto nel senso che non si esclude l’idea di una riabilitazione.
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I risultati non sono mai scontati: possono essere risolutivi, oppure parzialmente
o totalmente soddisfacenti e positivi.
Comunque, è difficile iniziare una terapia che mira a sciogliere problematiche
psicologiche, relazionali e mentali se si asseconda la convinzione che “ la
guarigione non è prevista”. Anche perché il peso di una tale affermazione
difficilmente è accompagnata da vere argomentazioni scientifiche.
Anzi, nell’affermare l’impossibilità della guarigione si considerano
implicitamente inadeguate a ciò anche le terapie psicologiche, cosa che, nell’analisi
della realtà clinica, non sembra del tutto verosimile.
Una considerazione fondamentale da rilevare consiste nel fatto che in questo
alternarsi di teorie e di pregiudizi che considerano possibile o impossibile la
remissione di un disturbo psichiatrico, non ci sono dati scientifici a favore dell’una o
dell’altra ipotesi.
Infatti non ci sono ricerche in proposito e quindi neppure risposte sicure.
Rimane comunque il fatto che i messaggi sono contraddittori e dove la
psicologia sembra volere garantire ad ogni costo la guarigione, la psichiatria la
considera improbabile.
Forse un confronto più costruttivo, articolato e meno rigido da ambo le parti
ed una normativa più attenta, sarebbero doverosi per i pazienti e sarebbero un buon
incentivo a nuove teorie e ricerche.
Parte Seconda
Strumenti di Indagine diagnostica: la classificazione psichiatrica del
DSM ed il test proiettivo di Rorschach
Il DSM
1. Che cosa è il DSM
Il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), è un manuale
realizzato da American Psychiatric Association (APA) con il preciso obiettivo di
inserire i disturbi mentali nella classificazione internazionale delle malattie.
Il primo DSM risale al 1952. Attraverso successivi aggiornamenti e modifiche
anche sostanziali, si è ora giunti all'ultima edizione del 2000 con il DSM IV-TR.
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In tutti i DSM (I, II, III, III-R, IV, IV-TR) che si sono succeduti dal 1952 ad
oggi, le modifiche effettuate si basano su aggiornamenti teorici raccolti attraverso la
revisione della letteratura, il riesame dei dati, e studi sul campo incentrati su
problemi specifici.
La realizzazione del DSM che innanzitutto stabilisce una classificazione
ufficiale delle patologie psichiatriche, è stata ideata anche per dare una soluzione a
vecchi problemi da sempre irrisolti come, ad esempio, uniformare i criteri
diagnostici per l’individuazione del disturbo psichiatrico e mettere ordine nella
grande quantità di un materiale clinico non organizzato.
Essa ha anche l’obiettivo di creare una base di riferimento comune ed un
linguaggio condiviso.
Ed anche, col proporre dei criteri espliciti ed un linguaggio condiviso, cercare
di arginare una certa arbitrarietà confusiva nella valutazione che sicuramente è da
imputare alla mancanza di riferimenti sicuri, ma che può arrivare ad essere
considerata una legittima autonomia di giudizio.
Per raggiungere gli obiettivi che gli ideatori del DSM si proponevano, è stata
istituita un’organizzazione scientifica di vasta portata che è stabile e sempre attiva.
Si tratta di un apparato che coinvolge centinaia di esperti chiamati a risolvere
col loro contributo le tante problematiche che man mano sono messe in campo dalla
disciplina psichiatrica.
Essendo tale organizzazione scientifica una istituzione stabile, si dà continuità
all’aggiornamento e si incentiva anche la ricerca che è implicita nel metodo.
E riconoscendo, di fatto, con le revisioni e gli aggiornamenti del DSM la
temporaneità di ogni definizione, si evita anche ogni sorta di dogmatismo teorico.
2. La regola di base del DSM
Una volta ideata la struttura formale che potesse rendere attuabile il progetto
del DSM, gli organizzatori si sono dati particolari regole da rispettare, allo scopo di
riuscire a formare una classificazione dei disturbi psichiatrici il più ampiamente
condivisibile a livello internazionale.
La maggiore condivisione implicava che si creassero delle forme di
aggregazione tra i tanti orientamenti teorici, clinici e di ricerca. Ed inoltre, che ciò
fosse possibile con un'omogeneità di linguaggio e di comunicazione, eliminando
comunque gli elementi di contrasto e di incongruenza inconciliabili.
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Da tali considerazioni che si fondano su una logica di chiara evidenza ed
anche per non ripetere le precedenti esperienze fallimentari, è derivata la conclusione
che l’obiettivo si potesse realizzare soltanto rispettando due presupposti di base
esplicitamente formulari e formalizzati.
Col primo presupposto si decideva di non dare un riconoscimento
preferenziale a nessun particolare riferimento teorico.
Quindi i criteri diagnostici per la definizione di ogni disturbo dovevano
prescindere da qualsiasi orientamento teorico, in un’ottica che è appunto “ ateorica”.
Col secondo presupposto si riconosceva il carattere plurifattoriale
dell’insorgenza della malattia mentale dove convergono molti elementi scatenanti di
pari rilievo. Essi vanno dal patrimonio genetico all’individuale plasticità
dell’encefalo, dalla qualità della comunicazione all’ambiente di appartenenza ed al
livello culturale, dai meccanismi psicodinamici alle modalità difensive, da esperienze
di vita soggettive agli stress.
Quindi si riconosce un lungo elenco di ipotesi genetiche la cui rilevanza e
portata va verificata di volta in volta per ogni specifico caso.
A fronte della vastità di teorie e di ipotesi genetiche relative al disturbo
psichiatrico impossibili da utilizzare per creare una base condivisibile, l’unica
soluzione possibile è stata quella di attenersi ai criteri valutativi espliciti che sono
quelli rappresentati dai sintomi manifesti scelti in base alla loro frequenza e di
escludere così qualsiasi altro criterio che non fosse condivisibile.
Si è posta quindi tale scelta come unica regola di base per la formulazione
della diagnosi psichiatrica.
Partendo da presupposti che escludono dai criteri di valutazione ogni ipotesi
teorica ed ogni ipotesi genetica, la definizione corretta del DSM è quindi che si tratta
di una classificazione nosografica in cui i criteri di individuazione di ogni disturbo si
basano su sintomi manifesti la cui specifica rilevanza è stabilita su dati statistici.
In un’ottica di completezza diagnostica, porre il sintomo manifesto quale
unico dato valutativo di base per la classificazione dei disturbi psichiatrici del DSM
può essere considerata una restrizione inaccettabile.
Ma se per uniformare la valutazione diagnostica si considera inevitabile la
scelta del sintomo manifesto come l'unico strumento possibile, piuttosto che un
elemento incongruo di genericità e di debolezza, esso diventa il punto di forza di
tutta la costruzione del DSM. Perché solo così si é infine si è riusciti nell’intento di
potere formulare definizioni diagnostiche condivise.
Con tale scelta finalmente si superano anche aspetti notoriamente
inconciliabili quali quelli relativi all'eziologia del disturbo o all'annosa disputa che
contrappone organico a psicologico e mentale.
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Escludere inoltre degli orientamenti teorici prestabiliti significa dare ad ogni
indirizzo teorico uguale rilievo senza privilegiarne alcuno e riconoscere anche
l’aspetto multifattoriale della patologia.
I criteri valutativi del DSM si devono comunque considerare soltanto il punto
di partenza per la formulazione della diagnosi.
Una volta individuato il disturbo psichiatrico secondo tali criteri, spetta infatti
al clinico procedere oltre per completarla, specificando ipotesi eziologiche e
condizioni psichiche e mentali associate, che sono necessarie ai fini di un intervento
terapeutico efficace.
3. La valutazione multiassiale
Molte indicazioni utili al completamento della diagnosi si possono desumere
anche dallo stesso DSM.
Pur restando infatti prioritaria la scelta di fare la valutazione diagnostica
soltanto su indicazioni sintomatiche secondo criteri prestabiliti, in ogni sezione del
DSM sono indicati altri strumenti valutativi che hanno lo scopo di portare verso una
valutazione diagnostica più completa.
Oltre alla definizione esplicita del disturbo mentale, alla descrizione della sua
caratteristica sintomatica principale e all’elenco dei criteri diagnostici per
individuarlo, nel DSM si ha anche l'elenco delle manifestazioni organiche, mentali e
psicologiche associate che possono caratterizzarlo, le indicazioni sul suo decorso,
sulla sua frequenza, gli strumenti di indagine ed anche esplicite indicazioni per le
diagnosi differenziali.
Si ha infine anche la valutazione multiassiale che è una caratteristica esclusiva
del DSM.
La valutazione multiassiale consiste nella distribuzione su cinque differenti assi
di tutte le informazioni cliniche relative ad un disturbo psichiatrico.
Tale distribuzione avviene ponendosi su differenti campi di osservazione che
evidenziano differenti caratteristiche del disturbo. Secondo gli ideatori del manuale,
la valutazione multiassiale è “una soluzione strategica estremamente utile perché
risolve molti problemi di valutazione e fornisce vasti campi di osservazione per
un'ottica articolata e completa“.
Con l’aggiunta della registrazione multiassiale che riconosce più campi di
osservazione e induce a tenere conto anche di ogni possibile ambito di valutazione,
il DSM contribuisce di fatto alla conoscenza completa del soggetto.
Ed anche se non corrispondono a criteri esplicitamente stabiliti, una vasta
gamma di indicazioni orientano verso valutazioni a tutto campo che danno spazio ad
informazioni cliniche utili alla diagnosi.
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Esse vanno dalle considerazioni che rilevano la componente organica a quelle
che suggeriscono problematiche conflittuali, di adattamento ambientale e sociale.
I campi di osservazione distribuiti sui cinque assi sono i seguenti:
-
disturbo clinico
disturbo di personalità e ritardo mentale
condizioni mediche generali
problemi psicosociali ed ambientali
valutazione globale del funzionamento
E così, da una valutazione iniziale che è limitata ai sintomi manifesti, si passa
di fatto ad una valutazione dove addirittura si possono anche considerare quegli
elementi che forse il proprio orientamento teorico tenderebbe ad escludere.
In tal modo si è indotti a confrontarsi con modelli più vari e differenti tra loro
e ci si apre anche ad una conoscenza della personalità seguendo qualsiasi riscontro
teorico si voglia privilegiare.
Su queste basi si profila inoltre la possibilità di un confronto teorico.
Seguendo infatti i criteri diagnostici del DSM, si garantisce un'obiettività dei
dati altrimenti difficilmente controllabile. E si è sganciati dalla necessità di attenersi
ad una provata attendibilità in quanto essa è già garantita dall’evidenza dei sintomi
manifesti espressamente indicati, ci si può permettere una libertà interpretativa che
apre il campo ad un confronto su varie ipotesi, in un’ottica che è al servizio della
ricerca e dell’indagine dialettica.
Sostenuti dalle garanzie dovute ai criteri valutativi già espressamente indicati e
mantenendo intatto il riferimento di categorie condivise con terminologie ufficiali da
utilizzare come linguaggio comune, diventa sicuramente più facile inoltrarsi sul
terreno delle ipotesi sperimentali.
Il test di Rorschach
4. Che cosa é il test di Rorschach
Il test di Rorschach è un test proiettivo molto diffuso perché è considerato lo
strumento più idoneo alla formulazione di una diagnosi, dove è implicita anche
l’indagine sulle caratteristiche fondamentali di tutta la personalità del soggetto.
Esso è stato ideato dallo psicoanalista svizzero Hermann Rorschach che ne
esternò la tecnica e le modalità interpretative nel 1921 con la pubblicazione di
un’opera dal titolo: "Psicodiagnostica".
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E proprio allora per la prima volta é stato utilizzato questo termine,
“ psicodiagnostica”, che è poi divenuto di uso corrente nel linguaggio della
psichiatria e della psicologia.
La tecnica del Rorschach consiste nell’ interpretazione di alcune tavole
standardizzate che rappresentano macchie d'inchiostro simmetriche, tra cui alcune
colorate.
Esse formano immagini non sufficientemente strutturate ma che sono
abbastanza evocatorie da suggerire una vasta gamma di risposte possibili.
Tra tali risposte alcune possono rinviare più palesemente ai tanti elementi
costitutivi delle macchie, mentre per altre prevalgono soprattutto istanze che sono
rappresentative della personalità del soggetto.
Attraverso l’elaborazione della siglatura formale delle risposte e con
un'attenzione volta anche ai contenuti, si formula il profilo psicodiagnostico del
soggetto.
Si evidenzia così la struttura della sua personalità, si formula la diagnosi, si fa
una valutazione delle dinamiche intrapsichiche e si rilevano gli aspetti caratteriali o
patologici.
E' possibile anche rilevare problematiche particolari o caratteristiche
specifiche del soggetto, anche in termini di requisiti positivi.
5. La base teorica del test di Rorschach
Il presupposto teorico su cui si fonda il Rorschach come test proiettivo dipende
dalla possibilità di utilizzare la percezione nella sua accezione più completa. Non
solo come fedele rappresentazione della realtà esterna ma anche come
rappresentazione evocatoria di vissuti soggettivi.
In base alle indicazioni teoriche, la funzione percettiva non può essere
considerata la registrazione passiva di una esperienza sensoriale, ma un processo
inconscio attivo il cui risultato è dovuta alla convergenza di numerosi fattori.
Tra tali fattori hanno certamente un ruolo fondamentale sia l'esperienza
personale accumulata del soggetto che elementi genetici.
Percepiamo in dipendenza della nostra storia personale e culturale, a seconda
dei diversi livelli soggettivi di attenzione, concentrazione, motivazione, a seconda
delle nostre capacità di associazione, di analisi e di sintesi.
Percepiamo infine, a seconda della differente combinazione di tutti questi
elementi mediante i quali ogni nostra esperienza si fa conoscenza personale.
Nella percezione quindi, la reazione del sistema ricevente alle stimolazioni
sensoriali esterne è un processo condizionato anche da componenti mentali del
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soggetto che sono appunto anche bisogni fondamentali non soddisfatti, elementi
psicologici, la conoscenza acquisita e la specifica capacità soggettiva di selezionare,
di individuare, di riconoscere.
Oltre all’aspetto che riguarda la componente prevalentemente soggettiva, la
percezione ha inoltre anche delle modalità genetiche di funzionamento che invece
valgono allo stesso modo per tutti gli individui.
Tali sono ad esempio le proprietà relative all’estensione del campo visivo e ai
suoi confini, un determinato rapporto che regola la relazione tra gli elementi percepiti
anche in termini di prospettiva e di dissolvenza, il potere percepire globalmente ed in
aree più dettagliate, oppure il percepire secondo regole che portano ad uniformarsi
nella scelta di alcuni contenuti o di particolari colori.
Ed è rilevante anche la qualità formale della percezione che deve corrispondere
ad una realtà obiettivamente esistente.
Alcune di tali modalità percettive universali sono state oggetto di ricerca nella
psicologia della Gestalt che ne stabilisce i criteri di base ed indica le medie
statisticamente valide di alcune funzioni.
Così, rispetto ad esse, si può conoscere se il soggetto rientra nella media o se
ne allontana, e di quanto.
Questo aspetto meno soggettivo della percezione che è regolato dalla
psicologia della Gestalt riguarda modalità che appartengono più al versante delle
funzioni genetico–organiche. Come tali sono più automatiche e meno controllabili,
sono in larga misura indipendenti dalle caratteristiche psicologiche del soggetto e
dalla sua volontà, ma comunque anch’esse con requisiti personali rilevabili.
Inoltre, dato l’ immediato automatismo della risposta reattiva, tali caratteri
non sono in alcun modo manipolabili per orientare verso particolari risultati.
Mettendo insieme la componente prevalentemente proiettiva e la componente
prevalentemente genetica, nella percezione è condensata molta parte del soggetto
nella sua unicità biologica e storica, come espressione ontogenetica di molte sue
funzioni e come elaborazione personale profonda di tutte le esperienze vissute.
Entrambe tali caratteristiche della percezione, quelle specifiche individuali che
portano alla proiezione di propri vissuti e quelle di funzionamento più generale ed
automatico non manipolabile ma che ha comunque anche caratteri soggettivi, sono
attivate dal test di Rorschach che in tal modo ci permette di acquisire informazioni
sul soggetto in tutti i suoi aspetti.
Possiamo accede agli aspetti più profondi e personali e ad aspetti che indicano
caratteristiche legate al livello cognitivo ed a funzioni neurologiche più generali.
Per di più, tutti i requisiti psicologici, mentali e genetici così individuabili
mediante il Rorschach, sono maggiormente potenziati dalle macchie delle Tavole in
quanto sono costituite da materiale grezzo non strutturato.
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Sicché il processo percettivo, che quindi avviene sotto stress a causa della loro
indeterminatezza, diventa più vistosamente caratterizzante in tutte le sue valenze.
6. I criteri interpretativi del Rorschach
Il test di Rorschach ha suscitato consensi in quanto strumento di conoscenza
particolarmente sottile e profondo nelle indagini psicologiche e per la sua ampia
opportunità di applicazione.
Ma ha pure suscitato molti dibattiti ed alcune controversie che hanno
portato al formarsi di scuole con indirizzi di diverso orientamento.
Le ragioni delle divergenze sono varie, ma non intaccano l’essenza del
Rorschach. Esse riguardano soprattutto la tecnica di alcune siglature ed il loro
ampliamento rispetto a quelle utilizzate da Hermann Rorschach, ed inoltre
l'interpretazione dei dati e la stessa validità scientifica del Test.
Relativamente all'interpretazione dei dati, nel dibattito emergono
essenzialmente due posizioni che estremizzano le due modalità che sono insite nella
pratica interpretativa del Rorschach.
Una prima posizione sostiene che nell'interpretazione ci si debba limitare
all'elaborazione statistica dell'aspetto formale. Aspetto formale che è espresso da una
minuziosa siglatura delle risposte dove si registra ogni elemento di rilievo di ogni
singola risposta.
L'altra posizione invece sostiene che l’interpretazione formale, con il ricorso
prevalente alla scienza statistica che è meccanica, non utilizza abbastanza la
componente proiettiva della percezione delle risposte e che essa va rilevata con
strumenti più squisitamente psicodinamici, mediante l’interpretazione
psicoanalitica.
Che sia quindi più opportuno scegliere l'elaborazione puramente
fenomenologica del contenuto delle risposte, con un'ottica che possa privilegiare
soprattutto la psicologia del profondo.
In un clima di integrazioni teoriche, oggi la tendenza è di superare gli estremi
delle due posizioni e di utilizzare entrambi gli indirizzi.
Con i dati formali si hanno intanto indicazioni che riguardano alcuni
importanti elementi del Test con un riscontro statistico riconosciuto.
Data l’interpretazione formale, si può poi estendere l'interpretazione ad ogni
possibile suggerimento legato ai contenuti, all'atmosfera complessiva del Test, al
carattere evocatorio di ogni singola tavola, ed infine alla coerenza interna di tutti i
dati.
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Al di là delle dispute che sono inevitabili con materiali complessi come quelli
del Rorschach e che in qualche modo trovano soluzioni che sono spesso relative a
particolari momenti teorici ed agli studiosi che se ne occupano, soprattutto per il test
di Rorschach è comunque fondamentale il principio per cui i risultati di un test
psicologico dipendono dalla formazione di chi lo valuta e dalle sue scelte teoriche che
ne guidano la ricerca di significati.
Non è possibile somministrare ed interpretare un test di Rorschach senza una
lunga, adeguata, e vasta formazione. E deve essere chiara ed esplicita la teoria di
riferimento che stabilisce la linea guida dell’interpretazione.
Applicando ai protocolli i concetti che riguardano i vari aspetti della
personalità dell’individuo e della psicopatologia ed aggiornandosi anche sulla loro
evoluzione teorica, si può così utilizzare il Rorschach in tutte le sue potenzialità che
ne fanno uno strumento di indagine veramente unico.
Ma è importante riconoscere che il suo utilizzo richiede strumenti interpretativi
che devono essere adeguati alla sua portata e quindi una formazione psicodiagnostica
completa e di vasto raggio.
7. Alcune considerazioni relative alla validità del Rorschach
Per quanto riguarda la validità del Rorschach, validità intesa come rispondenza
agli standard scientifici della ricerca tradizionale, è un problema posto da sempre da
parte di chi si occupa di validità scientifica.
Ma è un problema posto impropriamente dall’esterno in quanto si ricerca la
validità in base a criteri che non sono applicabili al Rorschach e che sono mutuati da
realtà differenti. Tali realtà infatti hanno criteri valutativi che sicuramente
corrispondono alle loro esigenze, ma che non sono automaticamente esportabili per
qualsiasi altra realtà.
Riguardo al Rorschach, i criteri classici di validità e di standardizzazione
utilizzati per la ricerca scientifica tradizionale, possono essere applicati soltanto ad
alcune aree del Test quali la siglatura, le modalità di somministrazione, il materiale
utilizzato ed altre condizioni espressamente stabilite.
Mentre invece, per caratteristiche intrinseche al Rorschach, ci sono molti altri
elementi dell’ interpretazione che non possono essere convalidati con criteri mutuati
da realtà differenti, anche se stiamo parlando del metodo scientifico tradizionale.
Dato che il Rorschach è un test proiettivo ed ha soprattutto il compito di
permettere la maggiore conoscenza possibile dell’ individuo, ciò comporta che
l’indagine si incentri su forme comportamentali, mentali e psicologiche che sono il
risultato di infinite interazioni ed integrazioni di grande complessità.
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Inoltre si tratta di condizioni mentali e psichiche sempre diverse in quanto
sono uniche, come è unico ogni singolo individuo sottoposto alla valutazione
psicodiagnostica.
Per tali ragioni ed in riferimento a tutte le aree interpretative del Rorschach, la
validità può essere accertata soltanto con modalità diverse da quelle mutuate dalla
ricerca scientifica.
Utilizzando criteri differenti e più idonei, non è da escludere che essi possano
avere uguale dignità ai fini della conoscenza, ma si dovrebbe cominciare ad
individuarli meglio e a dare maggiore riconoscimento a quelli già esistenti nella
prassi.
Dovrebbe essere intanto espressamente escluso di ricercare la validità con
criteri che non sono utilizzabili. Anzi, il volere applicare tali criteri distoglie dalla
ricerca di altri differenti ma più idonei. Ad esempio, é sicuramente indicativo di
validità del Test l’aspetto teorico relativo alla proiezione percettiva su cui esso si
basa e che giustifica
l’ indiscutibile attendibilità di ogni risposta.
Invece per quanto riguarda, ad esempio, la veridicità delle conclusioni
psicodiagnostiche, può essere considerato un controllo fondamentale la coerenza
interna di tutti i dati ed il loro reciproco riscontro.
E ciò è possibile in quanto nel Rorschach la definizione dei tratti psicologici
fondamentali non è mai stabilita in base ad un singolo dato, ma in base alla
convergenza di molti di essi.
8. Aree di applicazione del Rorschach
Il Test di Rorschach è utilizzato nei seguenti ambiti:
1. diagnosi psichiatrica, diagnosi psicologica e diagnosi differenziale
2. profilo di personalità completo per stabilire anche aspetti caratteriali, particolari
attitudini e per l'orientamento professionale
3. valutazione approfondita di problematiche, potenzialità e per ipotizzare
particolari rischi del periodo adolescenziale
4. in ambito giuridico per perizie legali in generale, ed in particolare per
l'affidamento di minori, per verificare l'attendibilità di particolari condizioni
caratteriali, perversioni, e requisiti di dubbia e difficile individuazione
5. valutazioni che riguardano l'infanzia soltanto in ambiti circoscritti e nei casi in cui
si presume che il suo utilizzo possa essere particolarmente utile per ottenere
specifiche indicazioni.
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Parte Terza
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