Storia dell`impero di Russia sotto Pietro il Grande

associazione culturale Larici – http://www.larici.it
Voltaire
Storia dell’impero di Russia
sotto Pietro il Grande
Histoire de l’empire de Russie sous Pierre le Grand
1759-17751
1 Cura e note: © associazione culturale Larici, 2012. L’opera era divisa in due libri: il primo
(prefazione e prima parte) fu scritta nel 1759 e pubblicata dopo l’approvazione russa nel
1760; la seconda (seconda parte e appendici) è del 1763. L’intera opera uscì nel 1775 con
la correzione di alcuni refusi e di qualche modifica di cui si rende conto nelle note.
Nell’intero testo il titolo Storia dell’impero russo sotto Pietro il Grande è spesso abbreviato
in Storia di Pietro il Grande. L’incisione, anonima, rappresenta lo zar mentre sorveglia la
costruzione di Pietroburgo.
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Prefazione storico-critica2
I
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Quando, verso l’inizio del nostro secolo, lo zar Pietro gettava le
fondamenta di Pietroburgo o piuttosto del suo impero, nessuno ne
prevedeva il successo. Nessuno allora avrebbe immaginato che un sovrano
di Russia potesse possedere flotte vittoriose fino ai Dardanelli, sottomettere
la Crimea, cacciare i Turchi da quattro grandi province, dominare sul mar
Nero, fondare la corte più brillante d’Europa e fatto fiorire tutte le arti in
mezzo alle guerre; se qualcuno avesse detto tutto ciò sarebbe passato solo
per un visionario.
Ma ancor più visionario è lo scrittore che nel 1762 ha predetto, in non so
quale Contratto sociale o insociale, che l’impero di Russia sarebbe caduto.
Ecco le sue precise parole: «I Tatari, suoi sudditi o suoi vicini, diventeranno i
suoi padroni e i nostri: ciò mi sembra inevitabile»4.
2 L’edizione del 1775, qui tradotta, presenta alcune variazioni rispetto alla prima (1760)
nella distribuzione dei paragrafi. In origine, il secondo paragrafo faceva parte del primo, il
terzo del secondo e così via fino all’ottavo paragrafo che era costituito da alcune frasi delle
avvertenze messe all’inizio della seconda parte edita nel 1763.
3 La prima edizione del 1760 cominciava così:
«Chi avrebbe mai pensato, nel 1700, che una corte magnifica e civile si sarebbe stabilita
in fondo al golfo di Finlandia; che gli abitanti di Solikamsk, di Kazan’ e delle rive del Volga
e dello Jaik sarebbero stati i più disciplinati tra i nostri eserciti; che avrebbero riportato
delle vittorie in Germania dopo aver sconfitto Svedesi e Ottomani; che un impero di
duemila leghe, a noi pressoché sconosciuto fino ad allora, avrebbe dominato in
cinquant’anni; che la sua influenza si sarebbe estesa su tutte le nostre corti e che, nel
1759, il più zelante protettore delle lettere in Europa sarebbe stato un russo? Chi l’avesse
detto sarebbe passato per il più utopistico degli uomini. Pietro il Grande, avendo ideato e
preparato da solo tutta questa rivoluzione, che nessuno avrebbe mai potuto prevedere, è
forse di tutti i principi quello i cui fatti meritano di essere trasmessi ai posteri.
«La corte di Pietroburgo ha inviato allo storico incaricato di questo libro tutti i documenti
autentici. In questa storia si afferma che tali memorie sono depositate nella biblioteca
pubblica di Ginevra, città piuttosto frequentata e vicina alle terre dove lo storico risiede.
Tuttavia, siccome tutte le istruzioni e l’intero diario dal Pietro il Grande non gli sono stati
ancora trasmessi, egli ne ha trattenuto delle parti presso il suo archivio, che saranno
mostrate a tutti i curiosi con la stessa facilità che incontrerebbero con i guardiani della
biblioteca di Ginevra, ed esse saranno lì depositate quando il secondo volume sarà
completato».
4 Fu Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) a scriverlo ne Le Contrat social, libro II, cap. 8,
edito nel 1762. Vale la pena riportare il brano perché Voltaire lo confuta qui e nel
Dizionario filosofico (1764): «I Russi non saranno mai un popolo veramente civilizzato
perché lo sono stati troppo presto. Pietro aveva il genio imitativo, ma non aveva il vero
genio, quello che crea e fa tutto dal nulla. Alcune delle cose che realizzò erano buone, ma
la maggior parte erano intempestive. Ha visto che il suo popolo era barbaro, ma non si è
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È una strana mania quella di un monello che parla da maestro ai sovrani
e predica infallibilmente la prossima caduta degli imperi dal fondo della
botte dove sta e che crede appartenuta in altri tempi a Diogene. Gli
straordinari progressi dell’imperatrice Caterina II e della nazione russa sono
la prova che Pietro il Grande ha costruito su una base solida e duratura.
Tra tutti i legislatori egli è, dopo Maometto, quello il cui popolo si è
maggiormente distinto dopo di lui. I Romolo e i Teseo non gli si avvicinano
nemmeno. Una prova abbastanza significativa del fatto che la Russia deve
tutto a Pietro il Grande è quanto accaduto durante la cerimonia del
rendimento di grazie a Dio – celebrata secondo l’uso nella cattedrale di
Pietroburgo – per la vittoria del conte di Orlov che bruciò l’intera flotta
ottomana nel 1770.
Il predicatore, di nome Platon5 e degno del suo nome, a metà del discorso
passò dal pulpito dove parlava al sepolcro di Pietro il Grande e,
abbracciando la statua di questo fondatore, disse: «Sei tu che hai riportato
questa vittoria, sei tu che hai costruito fra noi la prima nave, ecc.». Questo
episodio che abbiamo riferito in altro luogo6 e che desterà l’ammirazione dei
posteri più lontani è, come la condotta degli ufficiali russi, un esempio
sublime.
Il conte Šuvalov7, ciambellano dell’imperatrice Elisabetta e forse l’uomo
più dotto dell’impero, nel 1759 comunicò allo storico di Pietro i documenti
autentici necessari e su questi ci si è esclusivamente basati.
II
Il pubblico dispone di qualche pretesa storia di Pietro il Grande: per lo più
esse sono state scritte in base alle gazzette. Quella pubblicata ad
Amsterdam in quattro volumi, sotto il nome del bojaro Nestesuranoy8, è uno
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accorto che non era ancora maturo per la civiltà; l’ha voluto civilizzare quando si doveva
solo agguerrirlo. Ha voluto farne senz’altro dei Tedeschi o degli Inglesi, mentre bisognava
cominciare col farne dei Russi. Ha impedito per sempre ai suoi sudditi di diventare ciò che
avrebbero potuto essere, persuadendoli che erano quello che non sono. È così che un
precettore francese forma il suo allievo perché brilli un attimo durante l’infanzia e diventi
in seguito una nullità. L’impero di Russia vorrà soggiogare l’Europa, ma sarà esso stesso
soggiogato. I Tartari, suoi sudditi o suoi vicini, diventeranno i suoi padroni e i nostri:
questa rivoluzione mi sembra inevitabile. Tutti i re dell’Europa lavorano di concerto per
accelerarla».
Platon II Levšin (1737-1812), metropolita di Mosca dal 1737, membro del Santo Sinodo a
Pietroburgo dal 1768 e vescovo di Tver’ dal 1770.
Nelle Questions sur l’Encyclopedie, alla voce “Eglise”, del 1771, Voltaire cita Platon ma
non descrive l’episodio.
Sull’originale Shouvalof. Il mecenate Ivan Ivanovič Šuvalov (1727-1797) fu un favorito
della zarina Elisabetta Petrovna. Fondò e diresse l’Università di Mosca e l’Accademia di
Belle Arti di Pietroburgo. Voltaire e Šuvalov si scambiarono numerose lettere dal 1757 al
1762 e poi negli anni 1767, 1768, 1769, 1771 et 1773.
Mémoires du règne de Pierre le Grand, Empereur de Russie, père de la Patrie, etc., par le
B. Iwan Nestesuranoy (1726), tradotte in italiano nel 1736. Nestesuranoy era lo
pseudonimo (ricavato dall’anagramma) di Jean Rousset de Missy (1686-1762), scrittore di
storia e di diritto, membro delle Accademie di Berlino e Pietroburgo.
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di questi falsi tipografici molto comuni. Tali sono anche le Memorie di
Spagna, sotto il nome di don Juan di Colmenar9, la Storia di Luigi XIV scritta
dal gesuita La Motte sulle presunte memorie di un ministro di Stato e
attribuita a La Martinière10; tali sono la storia dell’imperatore Carlo VI,
quella del principe Eugenio e tante altre.
È così che la nobile arte della stampa viene asservita al più spregevole
dei commerci. Un libraio olandese ordina un libro come un artigiano fa
fabbricare delle stoffe, e purtroppo si trovano scrittori forzati dalla necessità
a vendere la propria fatica a questi mercanti come degli operai salariati. Di
qui provengono tutti gli insipidi panegirici e i libelli diffamatori da cui il
pubblico è sommerso; è una delle peggiori vergogne del nostro secolo.
Mai la storia ebbe più bisogno di prove autentiche che al giorno d’oggi, in
cui si traffica così impudentemente con la menzogna. L’autore che offre al
pubblico la Storia dell’impero di Russia sotto Pietro il Grande è lo stesso che
trent’anni fa scrisse la Storia di Carlo XII sulla scorta delle memorie di vari
personaggi pubblici, che avevano vissuto a lungo accanto al sovrano 11. La
presente storia è una conferma e un supplemento della prima.
Ci si ritiene obbligati, per rispetto verso il pubblico e verso la verità, di
scoprire qui una testimonianza inoppugnabile, che mostrerà fino a che
punto si debba prestar fede alla Storia di Carlo XII.
Non molto tempo fa il re di Polonia e duca di Lorena si faceva rileggere
quest’opera a Commercy: egli rimase talmente colpito dall’esattezza di tanti
fatti di cui era stato testimone e così indignato per l’ardire con cui furono
contestati in certi libelli e giornali, che volle rafforzare col suggello della sua
testimonianza il credito che merita lo storico e, non potendo scrivere
personalmente, ordinò a uno dei suoi grandi ufficiali di redigere un atto
autentico12.
9 Juan Alvarez Colmenar, Les Delices de l’Espagne et du Portugal, 1707.
10 Antoine Augustin Bruzen de La Martinière, Histoire de la vie et du règne de Louis XIV, roi
de France et de Navarre, rédigée sur les mémoires de feu M. le comte de *** [La Hode],
1741. Dieci anni dopo Rousset de Mussy scrisse: «Il signor Beaumarchais dopo essere
uscito di casa mia […] si mise con il signor de la Martiniere e il signor de la Hode […].
Insieme […] hanno composto una Storia di Luigi XIV che apparve sotto il nome di La
Martiniere…». La Hode era lo pseudonimo che il gesuita Yves Joseph de La Motte (16801738) aveva cominciato a usare in Olanda intorno al 1732.
11 Voltaire pubblicò la Histoire de Charles XII (Storia di Carlo XII) nel 1731, sulla base di
documenti e testimonianze oculari raccolti in Inghilterra. Le guerre di Carlo XII (16821718), re di Svezia dal 1697, contro la Russia sono esposte nel seguito.
12 È stampato nella prefazione della Storia di Carlo XII. (Nota dell’Autore) – Anche nella
prima edizione della storia di Russia (1760) era riportata la lettera del conte di Tressan
(1705-1783): «Noi, luogotenente generale degli eserciti del re, gran quartiermastro di
Sua Maestà il re di Polonia… attestiamo che Sua Maestà il re di Polonia, dopo aver
ascoltato la lettura della Storia di Carlo XII scritta dal signor di Voltaire (ultima edizione di
Ginevra), dopo aver lodato lo stile… di questa storia e aver ammirato quei tratti… che
caratterizzano tutte le opere di quest’illustre autore, ci ha fatto l’onore di dirci che era
pronto a rilasciare un certificato al signor di Voltaire per attestare l’esattezza dei fatti
contenuti in questa storia. Il principe ha aggiunto che il signor di Voltaire non ha
tralasciato né trasposto nessun avvenimento, nessuna circostanza interessante; che tutto
è vero; che tutto in questa storia occupa il giusto posto; che ha parlato della Polonia e di
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Tale atto, inviato all’autore, fu per lui una sorpresa tanto più gradita in
quanto proveniente da un sovrano al corrente di tutti quegli avvenimenti
quanto lo stesso Carlo XII, e che del resto in Europa è conosciuto tanto per
il suo amore della verità che per la sua benevolenza.
Ci sono innumerevoli testimonianze altrettanto incontestabili sulla storia
de Il secolo di Luigi XIV13, opera non meno veritiera e importante, colma di
amore di patria, ma nella quale lo spirito patriottico nulla toglie alla verità e
non ha mai né esagerato il bene né camuffato il male; opera che fu
composta senza interesse, senza timore e senza speranza da un uomo che
ha una condizione che lo mette in grado di non adulare alcuno.
Ne Il secolo di Luigi XIV ci sono poche citazioni, perché gli avvenimenti
dei primi anni, conosciuti da tutti, non avevano bisogno che di essere messi
in risalto, e degli ultimi è stato testimone l’autore. Al contrario, nella Storia
dell’impero di Russia si citano sempre le fonti, e il primo di tali testimoni è
proprio Pietro il Grande.
III
Non si sono spesi inutili sforzi, in questa Storia di Pietro il Grande, per
ricercare l’origine della maggior parte dei popoli che compongono lo
sterminato impero di Russia, dalla Kamčatka fino al mar Baltico. È una
strana impresa voler provare con documenti autentici che un tempo gli Unni
emigrarono in Siberia dal nord della Cina, e che i Cinesi a loro volta sono
una colonia di Egizi. So che dei filosofi di gran merito 14 hanno creduto di
scorgere qualche rassomiglianza fra questi popoli, ma si è troppo abusato
delle loro ipotesi e si è preteso mutare in certezza le loro congetture15.
Ecco per esempio come si fa oggi a dimostrare che gli Egizi sono i
progenitori dei Cinesi. Un antico ha raccontato che l’egizio Sesostri si spinse
fino al Gange; se andò verso il Gange, poteva andare anche in Cina, che è
molto lontana dal Gange: dunque vi andò; ora la Cina era allora spopolata,
quindi è evidente che Sesostri la popolò. Gli Egizi nelle loro feste
accendevano delle candele; i Cinesi hanno delle lanterne, quindi non c’è
dubbio che i Cinesi siano una colonia dell’Egitto. Gli Egizi, inoltre, hanno un
tutti gli eventi che vi si sono svolti, ecc., come se ne fosse stato testimone oculare.
Attestiamo inoltre che il principe ci ha ordinato di scrivere seduta stante al signor di
Voltaire per comunicargli ciò che avevamo udito e assicurarlo della sua stima e della sua
amicizia… Commercy, 11 luglio 1759 – il conte di Tressan».
13 Opera di Voltaire scritta tra il 1735 e il 1739, poi rielaborata a Berlino nel 1750.
14 Il riferimento è a Jean-Jacques D’Ortous (o Dortous) de Mairan (1678-1771), fisico,
matematico ed amico di Voltaire. Fu membro delle Accademie delle scienze di Parigi (dal
1718), di Londra, Edimburgo, Uppsala e San Pietroburgo.
15 Per i Cinesi, si allude all’opera Mémoire dans lequel on prouve, que les chinois sont une
colonie égyptienne (1759) dell’orientalista Joseph de Guignes, come risulta dalla lettera
del 9 agosto 1760 indirizzata a de Mairan, in cui Voltaire scrisse: «Sono stato obbligato in
coscienza a ridere di lui, ma senza nominarlo, nella Prefazione alla storia di Pietro I. Si è
stampata questa storia l’anno scorso, quando ho ricevuto questa burla del signor Guignes.
Vi confesso che scoppiai a ridere…».
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grande fiume e anche i Cinesi ne hanno uno. Infine, è evidente che i primi
re della Cina hanno portato i nomi degli antichi re egizi: infatti nel nome
della famiglia Yu si possono ritrovare dei segni che, disposti in altro modo,
formano la parola Menes. Perciò è incontestabile che l’imperatore Yu prese il
nome da Menes re d’Egitto, e l’imperatore Ki è senza dubbio il re Atoës,
cambiando la lettera k in a e la i in toës16.
Ma se un saggio di Tobol’sk17 o di Pechino avesse letto qualcuno dei nostri
libri, potrebbe dimostrare in modo ben più convincente che noi discendiamo
dai Troiani. Ecco come potrebbe procedere, e come stupirebbe i suoi
connazionali con la profondità delle sue ricerche. I libri più antichi, egli
direbbe, e più considerati nel piccolo Paese d’Occidente chiamato Francia
sono i romanzi; essi erano scritti in una lingua pura, derivata dagli antichi
Romani che non mentirono mai: ora, in più di venti di questi libri autentici si
afferma che Francus, fondatore della monarchia dei Franchi, era figlio di
Ettore18; da allora il nome Ettore si è sempre conservato nella nazione; e
anzi nel nostro secolo, uno dei più grandi generali si chiamava Hector de
Villars19.
Le nazioni vicine hanno unanimemente riconosciuto questa verità, tanto
che uno dei più dotti italiani, l’Ariosto, ammette nell’Orlando furioso che i
cavalieri di Carlomagno si battevano per il possesso dell’elmo di Ettore.
Infine, una prova senza possibilità di replica consiste nel fatto che gli antichi
Franchi, per perpetuare la memoria dei loro padri troiani, costruirono una
nuova città di Troyes20 nella Champagne e questi novelli Troiani hanno
conservato sempre una tale avversione per i Greci, loro nemici, che ancor
oggi non si trovano quattro champenois21 disposti a imparare il greco.
Nemmeno si sono mai voluti accogliere i gesuiti, probabilmente perché si è
sentito dire che alcuni gesuiti, tempo addietro, spiegavano Omero ai giovani
letterati.
Sicuramente queste argomentazioni farebbero un grande effetto a
Pechino e a Tobol’sk; ma è anche vero che un altro studioso potrebbe
demolire tutto questo edificio dimostrando che i Parigini discendono dai
Greci, perché, direbbe, il primo presidente di un tribunale di Parigi si
chiamava Achille de Harlay22. Achille deriva certamente dall’Achille greco, e
Harlay deriva da Aristos cambiando istos in lai. Gli Champs-Elysées, che
16 Non risulta un faraone Atoës, forse si tratta di Athothis.
17 Storica capitale della Siberia occidentale.
18 Fu verso l’anno Mille che nacque la leggenda del principe troiano Francus (o Francion),
dapprima considerato figlio di Enea, poi figlio di Ettore e quindi nipote di Priamo, che
sfuggì i Greci e fondò la Francia. Intorno al 1500 si diffuse anche la versione opposta, cioè
che i Galli erano gli antenati dei Troiani.
19 Il nobile, accademico e ministro Claude Louis Hector de Villars (1653-1734) fu il quarto
generale (dal XVI secolo) nominato “maresciallo generale di Francia”.
20 L’ipotesi sarebbe ovviamente costruita sulla grafia: Troia in francese è Troie. La città di
Troyes (antica Augustobona) deve il nome al popolo dei Tricassi.
21 Abitanti della regione francese della Champagne.
22 Il magistrato Achille de Harlay (1536-1616) fu nominato Primo presidente del Parlamento
di Parigi nel 1582 dal re Enrico III di Francia.
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sono ancor oggi alle porte della città, e il monte Olympe, che ancora si può
vedere nei pressi di Mézières, sono monumenti contro i quali nulla può la
più pervicace incredulità. D’altronde a Parigi sopravvivono tutte le usanze di
Atene; si giudicano le tragedie e le commedie con leggerezza uguale a
quella degli Ateniesi; si incoronano i generali d’armata nei teatri come ad
Atene, e ultimamente il maresciallo di Sassonia ha ricevuto pubblicamente
dalle mani di un’attrice una corona che non gli sarebbe stata conferita in
una cattedrale23. I Parigini hanno delle Accademie derivate da quelle di
Atene, una chiesa, una liturgia, delle parrocchie, delle diocesi, tutte
invenzioni greche, tutte parole che vengono dal greco; le malattie dei
Parigini sono greche: apoplessia, tisi, polmonite, cachessia, dissenteria,
gelosia…
Bisogna confessare che questo sentimento bilancerebbe molto l’autorità
del sapiente personaggio che ha appena dimostrato, che noi siano una
colonia troiana. Queste due opinioni sarebbero ancora combattute da altri
profondi studiosi dell’antichità: gli uni mostrerebbero che siamo Egiziani,
visto che il culto di Iside attecchì nel villaggio di Issy sulla strada da Parigi a
Versailles. Gli altri proverebbero che siamo Arabi. Come dimostrano le
parole almanacco, alambicco, algebra, ammiraglio. Gli studiosi cinesi e
siberiani sarebbero molto imbarazzati a decidere tra le due, e finirebbero
per lasciarci così come stiamo.
Pare che ci si debba rassegnare a questa incertezza sulle origini di tutte le
nazioni. Avviene con i popoli come con i casati: molti baroni tedeschi si
fanno discendere in linea retta da Arminio e per Maometto fu composta una
genealogia secondo cui egli discendeva da Abramo e da Agar.
Allo stesso modo la casata degli antichi zar di Russia proveniva da Bela re
d’Ungheria, questo Bela da Attila, Attila da Turck, capostipite degli Unni, e
Turck era figlio di Jafet. Suo fratello Russ aveva fondato il trono di Russia;
un altro fratello di nome Camari si stabilì presso il Volga.
Tutti questi figli di Jafet erano, come si sa, nipoti di Noè, uomo
sconosciuto a tutta la terra tranne che a un piccolo popolo rimasto a sua
volta sconosciuto per lunghissimo tempo. I tre figli di questo Noè andarono
presto a stabilirsi a mille leghe l’uno dall’altro, nel timore di doversi prestare
aiuto, e fecero, probabilmente con le proprie sorelle, vari milioni di abitanti
in pochi anni.
Più di un austero personaggio ha seguito esattamente queste filiazioni
con la stessa sagacia con cui ha scoperto come i Giapponesi popolarono il
Perù. Per lungo tempo la storia è stata scritta con questi criteri, che non
23 Nell’edizione del 1760, Voltaire spiegava il passo: «Era nel 1745, dopo la battaglia di
Fontenoy, che il maresciallo [Maurizio] di Sassonia, assistendo dai palchi dell’Opéra a una
rappresentazione dell’Armida, si vide offrire una corona d’alloro da M.lle Metz, che aveva il
ruolo della Gloria».
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sono certo quelli del presidente di Thou24 e di Rapin de Thoyras25.
IV
Se bisogna essere assai cauti nei confronti degli storici che si rifanno alla
torre di Babele e al diluvio, non meno dovremo diffidare di quelli che
narrano per filo e per segno tutta la storia moderna, che entrano in tutti i
segreti dei ministri e che forniscono con disinvoltura la relazione esatta di
qualunque battaglia, mentre i generali avrebbero non poche difficoltà a
renderne conto.
Dall’inizio del secolo scorso abbiamo avuto in Europa circa duecento
grandi combattimenti, quasi tutti più cruenti delle battaglie di Arbela e
Farsalo26, ma poiché solo pochi di tali eventi hanno avuto grandi
conseguenze, essi sono perduti per la posterità. Se in tutto il mondo non ci
fosse che un libro, i ragazzi ne saprebbero a memoria ogni riga, se ne
conterebbe ogni sillaba; se non ci fosse stata che un’unica battaglia, si
saprebbe il nome di ogni soldato e la sua genealogia verrebbe trasmessa ai
posteri più lontani, ma nella lunga serie quasi ininterrotta di guerre
sanguinose che si fanno i principi cristiani, gli antichi interessi, che sono
tutti cambiati, sono soppiantati dai nuovi, e le battaglie di vent’anni fa
vengono dimenticate per quelle che si combattono ai giorni nostri; allo
stesso modo, a Parigi, le notizie di ieri sono eclissate da quelle di oggi che a
loro volta lo saranno da quelle di domani, e quasi tutti gli avvenimenti
precipitano gli uni con gli altri in un eterno oblio. È questa una riflessione
che non si fa mai abbastanza: essa serve a consolarci delle disgrazie che ci
succedono e dimostra la nullità delle cose umane. Per fissare l’attenzione
degli uomini, non restano che le rivoluzioni memorabili, che hanno cambiato
le leggi e i costumi dei grandi Stati, ed è come tale che merita di essere
conosciuta la storia di Pietro il Grande.
Se ci siamo troppo dilungati su alcuni particolari di battaglie e di
capitolazioni simili ad altre battaglie e ad altri assedi chiediamo venia al
lettore filosofo: non abbiamo altra scusa se non quella che tali piccoli fatti,
essendo legati ai grandi, procedono necessariamente al loro seguito.
Abbiamo confutato Nordberg27 nei luoghi che ci sono parsi più importanti,
24 Jacques Auguste de Thou (1553-1617) magistrato e storico, fu nominato nel 1595
Président à mortier, uno degli incarichi più importanti del sistema giudiziario francese
durante l’Ancien Régime. Nel 1598 scrisse, in latino, Historiae sui temporis, sulla storia
europea dal 1543 al 1607.
25 Paul Rapin de Thoyras (1661-1725) storico e calvinista francese migrato in Inghilterra,
scrisse una Histoire d’Angleterre spesso citata da Voltaire come esempio di imparzialità.
26 La battaglia di Arbela avvenne nel 331 a.C. tra l’esercito di Alessandro Magno (vincitore) e
quello di Dario III di Persia. La battaglia di Farsalo fu combattuta nel 48 a.C. tra l’esercito
di Gaio Giulio Cesare (vincitore) e quello di Gneo Pompeo Magno.
27 Jöran Andersson Nordberg (1677-1744), biografo danese e cappellano di Carlo XII di
Svezia dal 1707. Dopo la battaglia di Poltava (1709) fu imprigionato dai Russi e liberato
nel 1715. La sua opera storica più nota è la biografia, più volte citata da Voltaire,
intitolata Konung Carl XII: s historia (Storia di Carlo XII), pubblicata nel 1740 e tradotta
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e l’abbiamo lasciato sbagliare impunemente nelle piccole cose.
V
Abbiamo scritto la Storia di Pietro il Grande più corta e più densa di fatti
che è stato possibile. Certe narrazioni di piccole province, di cittadine, di
abbazie e perfino di monaci, sono in parecchi volumi in folio; le memorie di
un abate28 che si ritirò per qualche anno in Spagna, dove non fece quasi
nulla, occupano otto tomi: uno solo è bastato per la vita di Alessandro.
Può darsi che esistano ancora degli uomini-bambini, che preferiscono le
favole dei vari Osiride, Bacco, Ercole e Teseo, consacrate dall’antichità, alla
storia vera di un principe moderno, sia perché questi antichi nomi di Osiride
e di Ercole suonano meglio di quello di Pietro, sia perché giganti e leoni
atterrati piacciono a un’immaginazione debole più delle leggi e delle utili
imprese. Tuttavia bisogna ammettere che la sconfitta del gigante di
Epidauro, quella del ladro Sinnis e la lotta contro la scrofa di Crommione29
non valgono le imprese del vincitore di Carlo XII, del fondatore di
Pietroburgo e del legislatore di un temibile impero.
È vero che gli antichi ci hanno insegnato a pensare, ma sarebbe
veramente strano che si preferisse lo scita Anacarsi allo scita moderno che
ha civilizzato tanti popoli, col pretesto che il primo era antico30.
In questa storia si narra la vita pubblica dello zar, che è stata utile, non la
sua vita privata, sulla quale non ci sono che pochi aneddoti, peraltro
piuttosto noti31. I segreti del suo gabinetto, del suo letto e della sua tavola,
non possono e non debbono essere rivelati da uno straniero. Se qualcuno
avesse potuto rilasciare memorie simili, questi sarebbe stato un uomo come
il principe Menšikov32 o il generale Šeremetev33, che lo hanno visto a lungo
nell’intimità; essi non l’hanno fatto, e oggi tutto quello che si basasse
in francese nel 1747 e in tedesco nel 1752.
28 L’abate di Montgon. (Nota dell’Autore) – Charles-Alexandre de Montgon (1690-1770),
diplomatico e agente segreto di Filippo V di Spagna, pubblicò Mémoires de Monsieur
l’abbé de Montgon nel 1750-1753 in otto tomi in dieci volumi.
29 Sono antichi miti greci, tutti e tre uccisi da Teseo.
30 In questo punto nella prima edizione Voltaire scriveva: «Non si vede il motivo per cui il
legislatore della Russia debba cedere il passo a Licurgo e a Solone. Le leggi dell’uno, che
raccomandavano l’amore per i ragazzi ai borghesi di Atene, e che li difendevano dagli
schiavi; le leggi dell’altro, che ordinavano alle giovani di combattere a pugni tutte nude
nella piazza pubblica, sono preferibili alle leggi di colui che ha formato uomini e donne alla
fermezza, che ha creato la disciplina militare sulla terra e per mare e che ha aperto il suo
Paese al progredire di tutte le arti?». Lo scita Anacarsi era un filosofo greco del VI secolo
a.C., considerato uno dei Sette sapienti, che secondo Erodoto visse in Scizia, la regione
compresa tra il Danubio e il Don.
31 Voltaire si era impegnato con Šuvalov, nel 1757, a sorvolare sulla vita privata dello zar.
32 Principe Aleksandr Danilovič Menšikov (1672-1729), generale, collaboratore di Pietro e
uomo di governo anche sotto Caterina I. Dopo la morte della zarina, fu accusato di alto
tradimento e omicidio e confinato con la famiglia in Siberia.
33 Sull’originale Sheremetof. Boris Petrovič Šeremetev (1652-1719), uomo politico e
generale, fu ambasciatore sotto la reggente Sof’ja e in seguito diventò uno tra i più stretti
collaboratori di Pietro I, accompagnandolo in tutte le battaglie.
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soltanto su pubbliche dicerie non meriterebbe alcun credito. Le menti sagge
preferiscono vedere un grand’uomo lavorare venticinque anni per il bene di
un vasto impero, piuttosto che apprendere in maniera molto incerta ciò che
questo grand’uomo poteva avere in comune con il popolino del suo paese.
Svetonio riferisce quanto di più segreto avevano i primi imperatori di Roma,
ma aveva vissuto familiarmente con i dodici Cesari?34
VI
Quando non si tratta che di stile, di critica e di minuti interessi d’autore,
bisogna lasciar abbaiare i piccoli libellisti: si renderebbe quasi altrettanto
ridicolo chi perdesse il proprio tempo a rispondere loro o anche a leggerli;
quando invece di tratta di fatti importanti, a volte bisogna che la verità
s’abbassi a confondere perfino le menzogne degli uomini da poco: l’infamia
di questi ultimi non deve impedire alla verità di farsi luce, allo stesso modo
che la bassezza di un criminale della feccia del popolo non impedisce alla
giustizia di intervenire contro di lui; è questa la duplice ragione per cui
siamo stati costretti a ridurre al silenzio il colpevole ignorante che aveva
corrotto la Storia del Secolo di Luigi XIV con note tanto assurde quanto
calunniose, nelle quali oltraggiava brutalmente un ramo della casa di
Francia, tutta la famiglia regnante di Austria e cento illustri famiglie
d’Europa, le cui anticamere gli erano altrettanto sconosciute degli
avvenimenti che osava falsificare35.
La deplorevole facilità con cui si pubblicano imposture e calunnie è un
grave inconveniente inseparabile dalla nobile arte della stampa.
L’oratoriano36 Levassor e il gesuita La Motte, uno rifugiato in Inghilterra e
l’altro in Olanda, scrivevano entrambi di storia per guadagnarsi il pane; il
primo scelse come oggetto della sua satira il re di Francia Luigi XIII, il
secondo prese a bersaglio Luigi XIV37.
La loro condizione di monaci apostati non era la più adatta a conciliar loro
la fiducia pubblica; malgrado ciò è un vero piacere vedere con quale
convinzione si proclamano entrambi depositari della verità: essi insistono
senza posa sulla massima che bisogna avere il coraggio di dire tutto ciò che
è vero; avrebbero dovuto aggiungere che tanto per cominciare bisogna
34 Gaio Svetonio Tranquillo, storico romano del I-II secolo, scrisse De vita Caesarum (La vita
dei Cesari), in otto libri, in cui tratteggiò la biografia di dodici imperatori romani.
35 Voltaire si riferisce a Laurent Angliviel de La Beaumelle (1726-1773), che nel 1753 aveva
pubblicato un’edizione de Le Siècle de Louis XIV corredata da note che confutavano
alcune affermazioni di Voltaire. Gli fu attribuita anche un’anonima Lettre du czar Pierre à
Voltaire, sur son histoire de Russie (1761), in cui Pietro, dall’oltretomba, rivolgeva alcune
critiche a Voltaire senza risparmiare se stesso: «Ripetete mille volte che fui un
grand’uomo: non me lo sarei mai aspettato. Non credo che la gente la pensi come voi. Al
mio popolo ho dato solo quelle arti di cui avrei fatto bene a privarli se le avessero avute».
36 Sacerdote dell’Oratorio di Gesù e Maria Immacolata di Francia.
37 Michel Le Vassor (o Levassor; 1646-1718) scrisse l’opera Histoire du règne de Louis XIII
(Amsterdam, circa 1700). Yves Joseph de La Motte (1680-1738) scrisse Histoire de la vie
et du règne de Louis XIV (1740).
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esserne al corrente. La massima in bocca loro è la loro stessa condanna, ma
la massima in sé merita un esame attento, perché è diventata la
giustificazione di ogni satira.
Ogni verità pubblica, importante e utile deve essere detta, senza dubbio;
ma se c’è qualche aneddoto odioso su un principe, se nell’intimità della sua
casa ha ceduto, come tanti, a qualche debolezza umana nota forse soltanto
a uno o due confidenti, chi vi ha autorizzato a rivelare al pubblico ciò che
quei due confidenti non avrebbero dovuto rivelare ad alcuno? Ammettiamo
pure che abbiate penetrato questo mistero, perché strappare il velo di cui
ogni uomo ha il diritto di coprirsi nel segreto della propria casa? e per quale
ragione rendere pubblico lo scandalo? Per solleticare la curiosità degli
uomini, risponderete, per compiacere la loro malignità, per smerciare il libro
che altrimenti non verrebbe letto. Dunque non siete altro che uno scrittore
di satire, di libelli, un venditore di maldicenza, e non certo uno storico.
Se questa debolezza di un uomo pubblico, se questo vizio segreto che
cercate di far conoscere, ha influito sui pubblici affari, se ha fatto perdere
una battaglia, dissestato le finanze dello Stato, reso infelici i sudditi, voi
dovete parlarne: il vostro dovere è di scoprire quel piccolo ingranaggio
nascosto che ha prodotto grandi avvenimenti; tranne che in questo caso, voi
dovete tacere.
«Che nessuna verità sia tenuta nascosta»: questa è una massima che
ammette qualche eccezione. Ma eccone un’altra che non ne ammette
alcuna: «Dite ai posteri soltanto ciò che è degno dei posteri».
VII
Oltre la menzogna nei fatti, c’è anche il falso nei ritratti. Questa smania di
caricare un’opera storica di ritratti è cominciata in Francia con i romanzi. È
Clelia38 che ha fatto diventare di moda questa mania. Agli albori del buon
gusto39, Sarrasin scrisse la Storia della cospirazione di Wallenstein40, il quale
non aveva mai cospirato, e nel tracciare il ritratto di Wallenstein, che non
aveva mai visto, non manca di tradurre quasi tutto quello che Sallustio dice
di Catilina, che Sallustio aveva visto molte volte. Questo significa scrivere la
storia con bello spirito, e chi vuole ostentare troppo il proprio spirito, non
riesce che a mostrarlo, il che è ben povera cosa.
Era giusto che il cardinale di Retz 41 descrivesse i principali personaggi del
38 Clélie, histoire romaine, romanzo di Madeleine de Scudéry pubblicato in dieci volumi dal
1654 al 1660.
39 Ossia all’inizio del regno di Luigi XIV, il Re Sole.
40 Sull’originale è Valstein. Jean-François Sarrasin (o Sarasin, 1604-1655), poeta
appartenente alla schiera dei “preziosi”, fu segretario del principe di Condé e scrisse La
Conspiration de Wallenstein nel 1645.
41 Jean-François Paul de Gondi cardinale di Retz (1613-1679), storiografo e uomo politico.
Nominato cardinale nel 1652 si scontrò con il cardinale Giulio Mazzarino che spinse il re
Luigi XIV a farlo arrestare. Fuggito di prigione (1654) si rifugiò in Spagna e poi a Roma.
Dopo la morte di Mazzarino (1661) rientrò nei favori di Luigi XIV, ricevette l’abbazia di
Saint-Denis e fu incaricato di missioni diplomatiche. Del 1717 è un suo libro di memorie.
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suo tempo: li aveva frequentati tutti ed erano stati o suoi amici o suoi
nemici; inoltre non li ha certo dipinti con i colori scialbi con cui Maimbourg42,
nelle sue storie romanzate, tratteggia i principi dei tempi passati. Ma era
Retz un pittore fedele? la passione, l’amore della singolarità non gli hanno
guidato il pennello? Per esempio, doveva esprimersi così sulla regina, madre
di Luigi XIV: «Aveva quel tipo di spirito che le serviva per non apparire
sciocca agli occhi di chi non la conosceva; più arroganza che alterigia, più
alterigia che grandezza, più apparenza che sostanza, più interesse per il
denaro che liberalità, più liberalità che interesse, più interesse che
disinteresse, più attaccamento che passione, più durezza che fierezza, più
intenzione di pietà che pietà, più testardaggine che tenacia e più incapacità
che tutto ciò che si è detto sopra»?
Bisogna ammettere che l’oscurità delle espressioni, la folla di antitesi e di
comparativi e la caricatura di questo ritratto così indegno della storia non
sono fatti per piacere agli intelletti solidi. Coloro che sono amanti della
verità dubitano di quella del ritratto quando lo si paragona alla condotta
della regina, e i cuori virtuosi sono altrettanto disgustati dall’asprezza e
dall’ostilità usate dallo storico per parlare di una principessa che li ha
colmati di benefici, essi si indignano nel vedere un arcivescovo che, come
egli ammette, fa la guerra civile unicamente per il gusto di farla.
Se non ci si può fidare di ritratti come questi, tracciati da chi era in grado
di fornire una rappresentazione esatta, come si potrà credere sulla parola a
uno storico che pretende di conoscere a fondo un principe vissuto a seicento
leghe43 da lui? In questo caso lo si dipinge attraverso le sue azioni,
lasciando a chi l’ha frequentato a lungo di persona il compito di dire il resto.
Le arringhe sono un’altra specie di falso oratorio che gli storici si sono
permessi in altri tempi. Si facevano dire agli eroi le cose che questi
avrebbero potuto dire. Tale libertà era consentita soprattutto con un
personaggio di un tempo lontano, ma oggi questi artifici non sono più
tollerati: si esige molto di più, perché se si mettesse in bocca a un principe
un discorso che questi non ha pronunciato, si guarderebbe allo storico
soltanto come a un retore.
Una terza specie di falso, il più grossolano di tutti ma per lungo tempo il
più seducente, è il meraviglioso: esso trionfa in tutte le storie antiche senza
alcuna eccezione.
Si trova ancora qualche predizione nella Storia di Carlo XII di Nordberg,
ma non se ne incontrano in nessuno dei nostri storici sensati che hanno
scritto in questo secolo; segni, prodigi e apparizioni, sono lasciati alla
favola. La storia aveva bisogno di essere illuminata dalla filosofia.
42 Louis Maimbourg (1610-1686), gesuita e storico. Per aver difeso pubblicamente Luigi XIV
contro il papa Innocenzo X fu espulso dall’ordine. Fu uno scrittore prolifico di storia delle
religioni e di lui Voltaire scrisse ne Le Siècle de Louis XIV «Ci sono delle sue storie che si
leggono non senza piacere. Ciò che è singolare è che fu obbligato a lasciare i gesuiti per aver
scritto in favore del clero francese».
43 La lega francese è pari a circa 4 km.
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VIII44
C’è un punto importante a proposito della dignità della corona. Olearius,
che nel 1634 accompagnò alcuni inviati dello Holstein in Russia e in Persia45,
riferisce nel libro III della sua storia che lo zar Ivan Vasil’evič46 aveva
relegato in Siberia un ambasciatore dell’imperatore: è questo un fatto cui
nessun altro storico, che io sappia, ha mai accennato, ma non è verosimile
che l’imperatore tollerasse una violazione del diritto delle genti così insolita
e offensiva.
Lo stesso Olearius scrive in un altro passo: «Partimmo il 13 febbraio
1634, in compagnia di un certo ambasciatore di Francia, che si chiamava
Charles de Talleyrand, principe di Chalais, ecc. Luigi l’aveva inviato, assieme
a Jacques Roussel, con un’ambasceria in Turchia e in Moscovia. Ma il suo
collega gli rese pessimi servigi presso il patriarca, tanto che il granduca lo
relegò in Siberia».
Nel terzo libro egli scrive che questo ambasciatore, principe di Chalais, e
il citato Roussel, suo collega, che era un mercante, erano inviati di Enrico IV.
È assai probabile che Enrico IV, morto nel 1610, non mandasse ambascerie
in Moscovia nel 1634. Se Luigi XIII avesse mandato come ambasciatore un
uomo che portava un nome illustre come quello dei Talleyrand, non gli
avrebbe certo dato per collega un mercante; l’Europa sarebbe stata
informata di questa ambasceria e l’insolito oltraggio fatto al re di Francia
avrebbe destato uno scalpore ancor più grande47.
44 In origine, questo paragrafo era contenuto nella prefazione della seconda parte della
Storia dell’impero di Russia (1763) ed era preceduto dal passo: «L’impero di Russia è ai
nostri tempi così considerevole per l’Europa che Pietro, il suo vero fondatore, è diventato
ancor più interessante. È lui che ha dato al Nord un nuovo volto; e, dopo di lui, la sua
nazione è stata sul punto di cambiare le sorti della Germania e la sua influenza si è estesa
sulla Francia e sulla Spagna, malgrado l’immensa distanza dei Paesi. La creazione di
questo impero segna forse la più grande epoca per l’Europa, dopo la scoperta del nuovo
mondo». Altri cambiamenti riguardano la correzione di alcuni refusi o sviste di poco conto.
45 Adam Olearius è il nome latino di Adam Ölschläger (o Oehlschlaeger; 1600-1671), che fu
matematico e geografo alla corte di Federico III, duca di Holstein-Gottorp, e da lui inviato
come segretario degli ambasciatori Philip Crusius e Otto Bruggemann sia a Mosca, nel
1634, che a Ispahan, Persia, nel 1636-1637. Sui viaggi scrisse Descrizione del viaggio in
Moscovia e in Persia pubblicata nel 1647 e ampliata nel 1656. L’opera fu tradotta dal
tedesco in francese nel 1656 e più volte ristampata; dalla biografia di Voltaire si sa che
egli consultò l’edizione del 1727.
46 È Ivan IV il Terribile (1530-1584).
47 L’equivoco tra Enrico IV e Luigi XIII nasce dalle traduzioni in francese dell’opera di
Olearius che su questo punto erano discordanti. Il 3 marzo 1635, Luigi XIII mandò
effettivamente in Russia una richiesta di autorizzazione per Talleyrand, ma tale missiva fu
pubblicata solo nel 1782. Charles de Talleyrand, marchese d’Exideuil (?-1645), giunse in
Russia da Costantinopoli, verso il 1634, insieme a Jacques Roussel, un ugonotto francese
al servizio degli Svedesi, e all’inviato del patriarca Cirillo Lukaris, l’archimandrita
Philothéos, per presentare allo zar Michele III il progetto di porre sul trono di Polonia il
luterano re di Svezia Gustavo Adolfo, in vista di un’ampia coalizione anti-cattolica che
avrebbe unito l’Olanda, i principi protestanti, la Russia ortodossa e, possibilmente, la
Turchia contro gli Asburgo. La missione non ottenne alcun risultato e, denunciato da
Roussel, Talleyrand fu imprigionato a Galič e qualche anno dopo liberato.
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Avendo contestato questo fatto non credibile e vedendo che la favola di
Olearius aveva trovato un certo credito, mi sono sentito in dovere di
chiedere chiarimenti all’archivio degli Affari esteri di Francia48. Ecco l’origine
della svista di Olearius.
Vi fu effettivamente un membro della famiglia dei Talleyrand, uomo molto
amante dei viaggi, che si spinse fino in Turchia senza farne parola alla
famiglia e senza farsi dare alcuna lettera di presentazione. Egli si imbatté in
un mercante olandese, tale Roussel, rappresentante di una compagnia
commerciale e non senza rapporti col ministero di Francia. Il marchese di
Talleyrand si accompagnò a lui per andare a visitare la Persia; avendo
litigato lungo la strada con il compagno di viaggio, Roussel lo calunniò
presso il patriarca di Mosca. Lo si mandò effettivamente in Siberia, ma trovò
il modo di avvertire la famiglia e, dopo tre anni, il segretario di Stato
Desnoyers ottenne la sua libertà dalla corte di Mosca.
Ecco chiarito l’episodio, che non è degno di passare alla storia se non
nella misura in cui mette in guardia contro la prodigiosa quantità di aneddoti
di questo tipo riferiti dai viaggiatori.
Vi sono degli errori storici, ma vi sono anche dei falsi storici. L’episodio
riferito da Olearius non è che un errore; ma quando si dice che uno zar
dette ordine affinché fosse inchiodato il cappello sulla testa di un
ambasciatore, dice il falso49. Che ci si sbagli sul numero e la forza delle navi
di una flotta, che si attribuisca a una regione maggiore o minore estensione,
questi non sono che errori, sviste perdonabili. Coloro che ripetono le antiche
leggende, dentro le quali si sviluppa l’origine di tutte le nazioni, possono
essere accusati di una debolezza comune a tutti gli scrittori dell’antichità:
ciò non significa mentire, ma solo trascrivere dei racconti.
La disattenzione ci rende soggetti anche a svariati errori che non si
possono definire falsi. Se nella nuova geografia di Hubner50 si legge che i
confini dell’Europa si trovano nel punto il cui il fiume Ob si getta nel mar
Nero e che l’Europa ha trenta milioni di abitanti, si tratta di errori di
disattenzione che ogni lettore istruito è in grado di rettificare. Questa
geografia presenta spesso città grandi, fortificate e popolose, che ormai
sono soltanto borghi semideserti: di qui è facile accorgersi che il tempo ha
mutato tutto: l’autore ha consultato scrittori antichi e ciò che era vero ai
tempi loro, oggi non lo è più.
Inoltre, ci si può sbagliare facendo delle illazioni. Pietro il Grande abolì il
patriarcato; Hubner aggiunge che si proclamò egli stesso patriarca. Degli
aneddoti di presunta origine russa vanno ancora oltre e dicono che egli
officiò in veste di pontefice: così da un fatto autentico si traggono
conclusioni errate, cosa questa fin troppo comune51.
48 La lettera fu indirizzata a Étienne François de Choiseul (1719-1785), abile statista e
diplomatico francese, amico personale di Voltaire.
49 L’episodio è attribuito allo zar Ivan IV e compare in una lettera del 1761 a Šuvarov.
50 La Geografia Universale di Johann Hubner (1688-1731), geografo e storico tedesco, fu
tradotta in francese nel 1757.
51 Qui Voltaire corregge se stesso: negli Aneddoti sullo zar Pietro il Grande del 1748
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Quello che ho definito falso storico è ancora più diffuso: si tratta di quello
che l’adulazione, la maldicenza o l’amore smodato del meraviglioso
spingono a inventare. Lo storico che, per piacere a una potente famiglia,
loda un tiranno, è un vile; colui che vuole diffamare la memoria di un buon
principe è un mostro, e il romanziere che spaccia per verità le proprie
fantasie è disprezzabile. Chi un tempo faceva rispettare le favole da intere
nazioni, oggi non sarebbe letto dall’ultimo degli uomini.
Ci sono dei critici più menzogneri ancora, che alterano dei passi o non ne
afferrano il senso, che, ispirati dall’invidia, scrivono da ignoranti contro le
opere utili: essi sono i serpenti che rodono la lima, bisogna lasciarli fare.
PARTE PRIMA
Premessa
Nei primi anni del nostro secolo l’uomo comune non conosceva nel Nord
altri eroi all’infuori di Carlo XII. Il suo valore personale, molto più da soldato
che da re, la fama delle sue vittorie e persino delle sue sfortune, saltavano
agli occhi di coloro che notano facilmente i grandi eventi ma non si
accorgono delle imprese utili e di lungo respiro. A quell’epoca gli stranieri
dubitavano perfino che le iniziative dello zar Pietro I fossero destinate a
durare: esse hanno resistito e si sono perfezionate sotto le imperatrici Anna
ed Elisabetta52 e soprattutto sotto Caterina II, che ha portato tanto lontano
la gloria della Russia. Quest’impero è oggi annoverato fra gli Stati più
fiorenti e Pietro tra i massimi legislatori. Sebbene agli occhi dei saggi le sue
imprese non avessero bisogno di riuscita, i successi hanno consolidato per
sempre la sua gloria. Oggi si ritiene che Carlo XII avrebbe meritato di
essere il primo soldato di Pietro il Grande53. Il primo non ha lasciato che
rovine, il secondo fu un iniziatore in tutti i campi. Osai formulare press’a
poco tale giudizio trent’anni fa, quando scrissi la storia di Carlo54. Le
(traduzione in italiano in www.larici.it) riportò che Pietro aveva svolto le funzioni di
patriarca.
52 Nella prima edizione del 1760, Voltaire non cita l’imperatrice Anna.
53 Voltaire parafrasa Montesquieu che, in Esprit des lois (l. X, cap. 18), aveva scritto di Carlo
XII: «Egli non era affatto Alessandro [Magno], ma sarebbe stato il miglior soldato di
Alessandro».
54 All’inizio della Storia di Carlo XII, Voltaire scrisse: «Ci si sarebbe dunque ben guardati
dall’aggiungere questa storia particolare di Carlo XII re di Svezia alla moltitudine che
opprime il pubblico, se questo principe e il suo rivale Pietro Alekseevič, uomo molto più
grande di lui, non fossero stati, a giudizio di tutti, i personaggi più singolari degli ultimi
venti secoli».
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relazioni che mi vengono oggi inviate sulla Russia mi mettono in grado di far
conoscere quest’impero, nel quale le popolazioni sono di origine molto
antica e in cui le leggi, le usanze e le arti sono una creazione recente. La
storia di Carlo XII era interessante, quella di Pietro I è istruttiva.
Capitolo I
DESCRIZIONE DELLA RUSSIA
L’impero di Russia è il più vasto del nostro emisfero; si estende da
Occidente a Oriente per più di duemila leghe francesi, e da nord a sud, nel
punto di massima larghezza, misura più di ottocento leghe. Confina con la
Polonia e col mar Glaciale, arriva alla Svezia e alla Cina. La sua lunghezza,
tra l’isola di Dagö55, situata a ovest della Livonia56, e gli estremi confini
orientali comprende quasi 170 gradi, di conseguenza quando è mezzogiorno
a occidente dell’impero, è quasi mezzanotte a oriente. La larghezza da nord
a sud è di 3.600 verste, cioè 850 delle nostre leghe comuni57.
Nel secolo scorso conoscevamo così male i confini del Paese che nel
1689, allorché sapemmo che i Russi e i Cinesi erano in guerra, e che
l’imperatore K’hang-hsi, da una parte, gli zar Ivan e Pietro dall’altra, per
comporre la controversia, mandavano un’ambasceria a trecento leghe da
Pechino, al confine tra i due imperi, dapprima prendemmo l’avvenimento
per una favola58.
Il territorio oggi compreso sotto il nome di Russia o di Russie è più esteso
di tutto il resto dell’Europa, più di quanto non sia mai stato l’impero romano
o quello di Dario conquistato da Alessandro: infatti abbraccia più di un
milione e centomila delle nostre leghe quadrate. L’impero romano e quello
di Alessandro ne contavano solo 550.000 a testa e nessun regno europeo
raggiunge la dodicesima parte di quello romano. Per rendere la Russia
popolosa, fiorente e ricca di città come i nostri Paesi meridionali,
occorreranno ancora vari secoli e vari imperatori come lo zar Pietro il
Grande.
Un ambasciatore inglese, che nel 1733 risiedeva a Pietroburgo e che era
stato a Madrid, disse nella sua relazione manoscritta che in Spagna, il Paese
meno popoloso d’Europa, si contano quaranta persone per miglio quadrato59
e che in Russia ce ne sono soltanto cinque; vedremo nel secondo capitolo se
55 Hiiumaa (in svedese e tedesco: Dagö) è la seconda isola più grande dell’Estonia.
56 Regione storica baltica estesa tra la Lettonia a sud e l’Estonia a nord, suddivisa tra i due
Paesi nel 1920.
57 Una versta corrisponde a 1066,8 metri.
58 K’hang-hsi (o Kangxi; 1654-1722) fu il terzo imperatore della dinastia Qing dal 1661.
Cinesi e Russi si scontrarono lungo il fiume Amur per tutto il decennio del 1650. Alla
vittoria dei Cinesi ribatterono i Russi nel 1680, finché il trattato di Nerčinsk (1689) stabilì
che il fiume Amur era cinese e lungo alcuni suoi affluenti fu segnato il confine.
59 Un miglio quadrato corrisponde a circa 259 ettari.
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su tale minimo aveva ragione. Nella Dîme, a torto attribuita al maresciallo di
Vauban60, è detto che in Francia la media è di circa duecento abitanti per
miglio quadrato. Queste valutazioni non sono mai esatte, ma solo utili per
mostrare le enormi differenze di popolazione tra un Paese e l’altro.
Vorrei a questo punto rilevare che tra Pietroburgo e Pechino, sulla strada
che le carovane potrebbero prendere attraverso la Tartaria indipendente61,
passando per le pianure dei Calmucchi62 e per il grande deserto del Gobi, si
trova sì e no una grande montagna; e si noti che tra Archangel’sk e
Pietroburgo e tra Pietroburgo e i confini della Francia settentrionale,
passando per Danzica, Amburgo e Amsterdam, non si incontra una sola
collina di altezza rispettabile. Questa osservazione potrebbe far dubitare
della verità di quel sistema secondo cui le montagne si sarebbero formate
solo col movimento delle onde del mare, supponendo che tutte le attuali
terre siano state mari per lunghissimo tempo. Come è mai possibile che le
onde, le quali, secondo quest’ipotesi, avrebbero formato le Alpi, i Pirenei e il
Tauro63, non abbiano formato qualche altura anche tra la Normandia e la
Cina, lungo un’estensione tortuosa di tremila leghe? Considerata sotto
questo aspetto, la geografia potrebbe illuminare la fisica o almeno farle
sorgere dei dubbi.
Un tempo chiamavano la Russia col nome di Moscovia perché la città di
Mosca, capitale dell’impero, era la residenza dei granduchi di Russia; oggi è
prevalso l’antico nome di Russia.
Non è mio compito qui indagare perché i territori da Smolensk fino a
Mosca e oltre siano stati chiamati Russia bianca, perché Hubner li chiami
Russia nera, e per quale ragione la regione di Kiev debba essere la Russia
rossa.
È anche possibile che lo scita Madyes64, il quale fece una scorreria in Asia
all’incirca sette secoli prima della nostra era, abbia portato le sue armi in
60 La Dîme Royale (La Decima reale), trattato di economia pubblicato nel 1707, fu proprio
scritto dal maresciallo di Vauban (Sébastien Le Prestre de Vauban; 1633-1707).
61 A fine Settecento, l’Asia settentrionale (ossia senza Turchia, Arabia, Persia, India e Cina)
era divisa in Tartaria russa, a nord, Tartaria Cinese, a est, e Tartaria indipendente che, a
Occidente, aveva come confine il fiume Dnepr. Secondo l’uso dell’epoca Tatari è sempre
scritto Tartares (Tartari) facendo derivare il nome dal latino tartarus, “barbaro” che
richiamava gli spaventosi Tartari della mitologia greca, e non da quello effettivo della tribù
(Tatarlar), di conseguenza al loro territorio è stato dato il nome di “Tartaria”.
62 I Calmucchi abitavano la regione tra il mar d’Azov e il mar Caspio.
63 Catena montuosa della Turchia.
64 Sull’originale: Madiès. Erodoto racconta, nel I libro delle sue Storie, che nel 648 a.C. gli
Sciti guidati dal re Madyes e perseguitati dai Massageti sulle coste del Caspio, superarono
il Volga e il Don e invasero la Media dove rimasero ventotto anni, poi furono costretti a
rifugiarsi in Lidia e, dopo il 601, si stabilirono tra il Don e il Danubio, vivendo in pace con
Greci e Tauri. Nel Dictionnaire philosophique (1764), Voltaire scrive alla voce “Histoire”:
«Cet art [la scrittura] ne dut pas être moins inconnu au Scythe Oguskan, nommé Madiès
par les Persans et par les Grecs, qui conquit une partie de l’Europe e de l’Asie si
longtemps avant le règne de Cyrus». Oguz khan è una figura dai contorni leggendari che i
Turchi considerano il loro padre e il conquistatore di tutto il mondo allora conosciuto. Nella
letteratura del Sette-Ottocento non è infrequente trovare assimilati Madyes e Oguz khan.
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quelle contrade come fecero in seguito Gengis65 e Tamerlano66 e come
probabilmente era avvenuto molto prima di Madyes. Non tutta l’antichità
merita le nostre ricerche: quella dei Cinesi, degli Indiani, dei Persiani e degli
Egiziani è attestata da monumenti illustri e interessanti. Tali monumenti ne
presuppongono altri ancora più antichi; infatti devono passare molti secoli
prima di poter anche solo inventare l’arte di tramandare il pensiero per
mezzo di segni durevoli, e prima ancora occorrono molti secoli perché si
costituisca un linguaggio regolare. Ma noi, nella nostra Europa oggi così
civile, non possediamo siffatti monumenti; l’arte della scrittura fu per lungo
tempo ignorata in tutto il Nord. Il patriarca Costantino che in Russia scrisse
la storia della regione di Kiev67, ammette che in quel Paese la scrittura non
era ancora in uso nel V secolo.
Lascio ad altri il compito di esaminare se gli Unni, gli Slavi e i Tatari
condussero in passato famiglie nomadi e famelici verso le sorgenti del
Boristene68.
Io mi propongo di mostrare quello che lo zar Pietro ha creato, piuttosto
che tentare di penetrare invano l’antico caos. Bisogna ricordarsi sempre che
nessuna famiglia sulla Terra conosce il proprio capostipite, e di conseguenza
nessun popolo può sapere la sua prima origine.
Per designare gli abitanti di quel vasto impero, mi servo del termine di
Russi. Quello di Roxolani69 che si dava loro un tempo sarebbe più
altisonante, ma bisogna conformarsi all’uso della lingua in cui si scrive. Da
qualche tempo le gazzette e altre relazioni adottano quello di Russiani, ma
dato che quel parola ricorda troppo da vicino quella di Prussiani, resto
fedele a quella di Russi che è stata data loro da quasi tutti i nostri scrittori;
mi pare giusto che il popolo più grande della terra debba essere conosciuto
con un termine che lo distingua senza possibilità di equivoco dalle altre
nazioni70.
Innanzitutto occorre che il lettore si faccia sulla carta geografica un’idea
precisa di questo impero attualmente diviso in sedici grandi governatorati,
che saranno un giorno suddivisi, quando le regioni settentrionali e orientali
65 Gengis khan (o Genghiz khan), titolo onorifico di Tamugi’n (o Temucin; 1155?-1227),
fondatore dell’impero mongolo, i cui confini andavano dall’oceano Pacifico al mar Caspio.
66 Tamerlano è in nome dato in Occidente a Timur Lang, ossia Timur lo zoppo, (1336-1405),
che costruì un impero comprendente Persia, Iraq, Anatolia, Armenia, Georgia, parte della
Siria e dell’India. Morì progettando la conquista della Cina.
67 È un errore di Voltaire: la Cronaca degli anni passati – la più antica cronaca russa che
racconta la fondazione di Kiev e della Rus’ (traduzione in www.larici.it) – è per
convenzione attribuita a Nestore, monaco del monastero delle Grotte di Kiev, che raccolse
e ordinò i materiali. Fu poi fatta riscrivere nel 1116 dal principe Vladimir II Monomaco nel
1116. Col nome di Costantino furono due patriarchi di Costantinopoli (dal quale dipendeva
la Russia): Costantino III (dal 1059 al 1063) e Costantino IV (dal 1154-1156).
68 Da Borysthenes, nome greco del fiume Dnepr.
69 Anticamente i Roxolani erano una tribù sarmata che abitava tra i fiumi Danubio e Dnepr.
70 Voltaire scrisse a Šuvalov: «La parola Russo è qualcosa di più fermo, di più nobile, di più
originale di Russiano, aggiungete che Russiano assomiglia troppo a un termine molto
sgradevole nella nostra lingua, che è ruffiano, e la maggior parte delle nostre dame
pronuncia la doppia ss come ff, è un equivoco indecente che bisogna evitare».
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avranno un maggior numero di abitanti.
Ecco questi sedici governatorati, alcuni dei quali comprendono immense
province.
LIVONIA
La provincia che più si avvicina al nostro clima è la Livonia una delle più
fertili del Nord. Nel XII secolo era pagana. Alcuni mercanti di Brema e di
Lubecca vi commerciavano e alcuni religiosi crociati detti portaspada, che in
seguito dovevano fondersi con l’Ordine Teutonico71, la conquistarono nel
secolo XIII, all’epoca in cui il furore delle crociate armava i cristiani contro
chiunque non praticasse la loro religione. Verso il 1514 Alberto, Margravio di
Brandeburgo e Gran Maestro di quell’Ordine di conquistatori, si proclamò re
della Livonia e della Prussia brandeburghese72. Da quel momento Russi e
Polacchi si contesero quella provincia. Ben presto vi misero piede gli
Svedesi; a lungo il Paese fu devastato da tutte queste potenze. Gustavo
Adolfo re di Svezia lo conquistò73. Nel 1660 fu ceduto alla Svezia con la
celebre pace di Oliva74 e finalmente lo zar Pietro lo tolse agli Svedesi, come
si vedrà nel corso della presente storia75.
La Curlandia76, che è contigua alla Livonia, è tuttora vassalla della Polonia
ma dipende strettamente dalla Russia. Sono questi i confini occidentali
dell’impero con l’Europa cristiana.
GOVERNATORATI DI REVAL, PIETROBURGO E VYBORG
Più a nord si trovano i governatorati di Reval77 e dell’Estonia. Reval fu
costruita dai Danesi nel XIII secolo. Gli Svedesi furono padroni dell’Estonia
dal 1651, anno in cui il Paese si mise sotto la protezione della Svezia;
anch’esso è una conquista di Pietro.
Al limite dell’Estonia si trova il golfo di Finlandia. A oriente di questo
mare, alla foce della Neva e del lago Ladoga, si trova la città di Pietroburgo,
la città più nuova e più bella dell’impero, costruita dallo zar Pietro malgrado
tutti gli ostacoli che congiuravano contro la sua fondazione.
Essa sorge sul golfo di Kronštadt78, su nove bracci di fiume che dividono i
vari quartieri; al centro della città, su un’isola formata dal ramo principale
della Neva, sorge un castello; sette canali alimentati dai fiumi bagnano le
71 Il 12 maggio 1237.
72 Non nel 1514 ma nel 1525.
73 Nel 1629. La Livonia non fu conquistata in battaglia ma con un trattato di pace con il re
polacco Sigismondo III Vasa.
74 Le paci di Oliva e, nello stesso anno, di Copenaghen conclusero la prima Guerra del Nord
(1655-1660) e sancirono l’egemonia svedese sul Baltico.
75 Nel capitolo XIX della Parte prima.
76 Regione storica compresa nell’attuale Lettonia, che confinava a ovest con la Livonia.
77 Odierna Tallinn.
78 Kronštadt è una città-fortezza e un porto sull’isola di Kotlin, nel golfo di Finlandia, costruiti
nel 1704 per difendere San Pietroburgo.
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mura di una residenza reale, quelle dell’ammiragliato, quelle del cantiere
delle galere e quelle di numerose manifatture. Trentacinque grandi chiese
costituiscono altrettanti ornamenti per la città; cinque di esse sono
destinate agli stranieri, sia cattolici romani, sia luterani, sia riformati: sono
cinque templi innalzati alla tolleranza e altrettanti esempi per le altre
nazioni. Vi sono cinque residenze reali; quella vecchia, detta palazzo
d’estate, che sorge sulla Neva, è fiancheggiata lungo il fiume da una
grandiosa balaustrata di marmi pregiati. Il nuovo palazzo d’estate, vicino
alla porta trionfale, è uno dei più begli esempi di architettura che esistano in
Europa; gli edifici dell’ammiragliato, del corpo dei cadetti, dei collegi
imperiali, dell’accademia delle scienze, della borsa, del deposito delle merci
e di quello delle galere sono altrettanti mirabili monumenti. La sede della
polizia, quella della farmacia pubblica, in cui tutti i vasi sono di porcellana, il
magazzino di corte, la fonderia, l’arsenale, i ponti, i mercati, le piazze e le
caserme per le guardie a piedi e a cavallo contribuiscono sia all’abbellimento
della città che alla sua sicurezza. Essa conta attualmente 400.000 anime.
Nei dintorni della città sono disseminate alcune ville che per la loro
magnificenza stupiscono i viaggiatori: ce n’è una in cui gli zampilli delle
fontane sono molto più alti di quelli di Versailles. Nel 1702 non c’era nulla:
soltanto una palude impraticabile. Pietroburgo è considerata la capitale
dell’Ingria, piccola provincia79 conquistata da Pietro I.
Vyborg, conquistata da lui, e la parte della Finlandia perduta e ceduta
dalla Svezia nel 1742 formano un altro governatorato.
ARCHANGEL’SK
Più in alto, risalendo verso nord, si trova la provincia di Archangel’sk,
regione del tutto sconosciuta alle nazioni meridionali dell’Europa. Essa
prende il nome da San Michele arcangelo, sotto la cui protezione fu posta
molto tempo dopo la conversione dei Russi al cristianesimo, che essi
abbracciarono solo all’inizio del secolo XI. Solo verso la metà del secolo XVI
le altre nazioni conobbero l’esistenza di questo Paese. Nel 1553 gli Inglesi
cercavano un passaggio per le Indie orientali tra il mare del Nord e quelli
orientali. Chancellor, capitano di una delle navi allestite per questa
spedizione, scoprì il porto di Archangel’sk nel mar Bianco80. In quel deserto
non c’era che un convento e una chiesetta dedicata all’arcangelo San
Michele. Partendo da questo porto e risalendo la Dvina, gli Inglesi giunsero
nell’interno e finalmente a Mosca. Essi monopolizzarono senza difficoltà il
commercio della Russia che, dalla città di Novgorod, dove si svolgeva per
via di terra, fu deviato verso quel porto di mare. È vero che esso è
79 L’Ingria si estendeva dalla Livonia al lago Ladoga.
80 Nel 1553, Richard Chancellor, capitano del vascello “Edward Bonaventure” ed esploratore
inglese, era diretto in Cina, ma, persosi, capitò nel mar Bianco e scoprì il fiume Dvina e
due anni dopo iniziò ufficialmente il traffico commerciale tra gli Inglesi (dal 1560 anche
Olandesi e Scozzesi) e i Moscoviti dello zar Ivan IV il Terribile, risalendo il fiume. La città
di Archangel’sk (talvolta tradotta con Arcangelo) fu fondata nel 1584.
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inaccessibile per sette mesi all’anno, ma nonostante ciò si dimostrò molto
più utile delle fiere della grande Novgorod, la cui decadenza s’era iniziata
con le guerre contro la Svezia. Gli Inglesi ottennero il privilegio di
commerciarvi senza pagare alcun dazio; forse tutte le nazioni dovrebbero
commerciare tra loro in questo modo. Ben presto essi divisero con gli
Olandesi il commercio di Archangel’sk che rimase sconosciuto al resto del
mondo.
Molto tempo prima, i Genovesi e i Veneziani avevano impiantato un
commercio con i Russi attraverso la foce del Tanais81, dove avevano fondato
una città chiamata Tana82; ma in seguito alla desolazione seminata da
Tamerlano in quella parte del mondo, questo ramo del commercio italiano
era andato distrutto; quello di Archangel’sk sopravvisse con gran vantaggio
degli Inglesi e degli Olandesi fino al momento in cui Pietro il Grande dette
alla sua nazione uno sbocco sul Baltico.
LAPPONIA RUSSA. GOVERNATORATO DI ARCHANGEL’SK
A occidente di Archangel’sk, compresa nello stesso governatorato, si
trova la Lapponia russa, che costituisce la terza parte di questa regione; le
altre due appartengono alla Svezia e alla Danimarca. È un Paese vastissimo
che occupa all’incirca 8° di longitudine e che si estende in latitudine dal
circolo polare al capo Nord. I popoli che lo abitano erano vagamente
conosciuti dagli antichi come Trogloditi e Pigmei settentrionali, nomi che
effettivamente si addicevano a uomini alti per lo più tre braccia83 e che
abitavano nelle caverne. Sono rimasti come allora, di colorito olivastro,
mentre le altre popolazioni settentrionali sono di pelle bianca, e quasi tutti
di piccola statura, mentre i loro vicini e i popoli dell’Islanda al disotto del
circolo polare sono di statura alta. Sembrano fatti apposta per il loro Paese
montuoso: tarchiati, agili, robusti, duri di pelle per meglio resistere al
freddo, hanno cosce e gambe agili e piedi piccoli per correre più leggeri in
mezzo alle rocce di cui è ricoperta la loro terra. Nutrono per la patria un
amore appassionato e sono gli unici a poterla amare, poiché non si
adatterebbero a vivere altrove. Si è voluto sostenere sulla testimonianza di
Olaus84 che questo popolo fosse originario della Finlandia, e che si fosse poi
ritirato in Lapponia dove la sua statura sarebbe degenerata. Ma perché non
81 Nome greco del fiume Don.
82 Anche la città si chiamava in greco Tanais, ma nelle traduzioni si suole diversificare i
nomi. Tana fu costruita nel VII secolo a.C.
83 Il pigmeo era infatti un’unità di misura equivalente alla distanza tra il gomito e le punta
delle dita, ossia circa 46 cm., cosicché con Pigmeo si indica una persona alta meno di 1,50
m. I Lapponi hanno una statura poco superiore (ma inferiore a 1,60 m).
84 Olaus Magnus, nome latino di Olav Manson (in italiano Olao Magno; 1490-1557), geografo
e arcivescovo svedese. Nel 1555 scrisse la Historia de gentibus septentrionalibus (Storia
dei popoli settentrionali) in ventidue volumi, in cui oltre a dare tutte le informazioni
geografiche e naturalistiche raccontava usi, costumi e credenze di Svedesi e Lapponi.
L’opera fu tradotta nelle principali lingue europee e costituì a lungo il principale testo di
riferimento sui popoli scandinavi.
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scegliere un territorio meno settentrionale, dove la vita fosse più facile?
Perché i lineamenti del volto, l’aspetto, il colorito, tutto è completamente
diverso dai presunti progenitori? Sarebbe altrettanto lecito dire che l’erba
che cresce in Lapponia derivi da quella di Danimarca, e che i pesci che
vivono soltanto nei loro laghi derivino dai pesci della Svezia. Tutto lascia
supporre che i Lapponi siano indigeni esattamente come i loro animali che
sono un prodotto della loro terra, e che la natura li abbia fatti gli uni per gli
altri.
Coloro che abitano al confine con la Finlandia hanno adottato alcuni modi
di dire dei loro vicini, come accade presso tutti i popoli. Tuttavia se due
popoli danno agli oggetti d’uso e alle cose che vedono ogni giorno nomi
completamente diversi, questo è un valido motivo per supporre con quasi
assoluta certezza che un popolo non è colonia dell’altro. I Finlandesi
chiamano l’orso karhu, i Lapponi muriet85; il sole in finlandese si chiama
aurinko86, in lappone beiwe87: non c’è nessuna rassomiglianza. Gli abitanti
della Finlandia e della Lapponia svedese adoravano in altri tempi un idolo
chiamato Jumala; e sin dai tempi di Gustavo Adolfo, a cui devono il nome di
luterani, chiamano Gesù Cristo figlio di Jumala88. Attualmente i Lapponi
moscoviti sono membri della Chiesa greca, ma quelli che vivono allo stato
nomade presso le montagne settentrionali del capo Nord si limitano ad
adorare un Dio sotto vari aspetti grossolani, antica usanza comune a tutti i
popoli nomadi.
Questa specie umana è poco numerosa e ha pochissime idee: è una
fortuna che non ne abbiano di più, perché in tal caso avrebbero nuove
esigenze che non potrebbero soddisfare. Vivono felici e senza malattie, non
bevendo che acqua in un clima freddissimo, e arrivano a un’età molto
avanzata. Viene loro attribuita l’usanza di pregare gli stranieri affinché
vogliano concedere alle loro mogli e alle loro figlie l’onore di avvicinarle;
quest’usanza deriva probabilmente dalla consapevolezza della superiorità
che riconoscono agli stranieri e dal desiderio che servano a correggere i
difetti della razza. Quest’usanza era diffusa anche presso il virtuoso popolo
di Lacedemone89. Lo sposo chiedeva a un giovane di bell’aspetto che gli
85 Sull’originale karu e muriet. La parola “muriet” non si è trovata: in lingua svedese l’orso è
‪björn‪, in norvegese è bjørn, in sami è bierdna, in russo è medved’. Resta comunque valido
il ragionamento di Voltaire.
86 Sull’originale auringa.
87 Sull’originale beve. Beiwe (o Beivve) è il nome della dea Sole e della fertilità ed è la
madre delle renne.
88 Sull’originale Iumalac. Nelle antiche lingue nordiche, il termine jumala significava “dio” e
indicava un essere superiore non ben definito, poi fu chiamato Jumala il “dio del cielo” che
dava la pioggia e il sole e infine il nome fu dato al Dio supremo che nel Medioevo, quando
si diffuse il cristianesimo, indicò Dio Padre. Il passaggio al luteranesimo degli Svedesi
avvenne nel 1526-1527, quando Gustavo I (1496-1560), re di Svezia dal 1523, ruppe con
la Chiesa cattolica latina. Gustavo II Adolfo fu re di Svezia dal 1611 al 1632 ed è forse
citato perché combatté contro Sigismondo III Vasa re polacco cattolico.
89 Altro nome della città greca di Sparta, mitologicamente fondata dal dio Lacedemone, figlio
di Zeus e re della Laconia.
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desse dei bei bambini da poter adottare. La gelosia e le leggi impediscono
agli altri uomini di concedere le proprie mogli, ma i Lapponi erano quasi
privi di leggi e probabilmente non erano gelosi.
MOSCA
Risalendo la Dvina da nord a sud si arriva, nell’interno, a Mosca, capitale
dell’impero. Prima degli ingrandimenti territoriali in direzione della Cina e
della Persia, questa città fu lungamente al centro della nazione russa.
Situata a 55° e mezzo di latitudine, in una zona meno fredda e più fertile
rispetto a quella di Pietroburgo, Mosca sorge al centro di una vasta e bella
pianura, sulla Moscova90 e su altri due fiumicelli che sboccano con essa
nell’Oka e vanno poi ad ingrossare il Volga. Nel XIII secolo questa città non
era che un agglomerato di capanne, abitate da infelici oppressi dalla razza di
Gengis khan.
Il Cremlino, che fu la residenza dei granduchi, è stato costruito solo nel
XIV secolo91, tanto recenti sono le città in questa parte del mondo. Questo
Cremlino, come molte chiese gotiche, fu costruito da architetti italiani in
quello stile gotico che era diffuso allora in tutta l’Europa. Due chiese sono
del celebre Aristotele da Bologna che fiorì nel XV secolo92, ma le case
private erano semplici catapecchie di legno.
Il primo scrittore che ci fece conoscere Mosca è Olearius 93, che nel 1633
accompagnò il duca di Holstein in un’ambasceria tanto vana nello sfarzo
quanto inutile nello scopo. È naturale che un abitante dello Holstein restasse
colpito dell’immensità di Mosca, dalle sue cinque cinte di mura, dal vasto
quartiere degli zar e da una certa magnificenza asiatica che regnava a corte
in quei tempi. In Germania a quell’epoca non c’era nulla di simile; nessuna
città le si avvicinava sia pur lontanamente per vastità e popolazione.
Invece il conte di Carlisle, presso lo zar Alessio, nella sua relazione
lamenta di non aver trovato a Mosca nessuna comodità, né alberghi lungo il
cammino, né assistenza di nessun genere94. Il primo giudicava come un
90 Sull’originale è Moska con nota dell’Autore: «In russo Moskwa». Infatti, in russo, Mosca e
Moscova hanno lo stesso nome: Moskvá. Voltaire aveva chiesto il permesso a Šuvalov di
usare la grafia francese per i nomi mettendo in nota la loro pronuncia in russo.
91 Sull’originale è Kremelin con nota dell’Autore: «In russo Kreml». Il primo nucleo del
Cremlino (kreml’ significa fortezza) risale al XII secolo. All’inizio del XIV secolo fu ampliato
e circondato da palizzate di tronchi di quercia che nel 1367 furono sostituite da mura con
torri di pietra bianca e al suo interno cominciarono a sorgere edifici e chiese.
92 Aristotele Fioravanti (1415-1486?) progettò solo la chiesa della Dormizione. Altri edifici
furono realizzati dagli italiani Marco Ruffo e Pietro Antonio Solari.
93 Cfr. nota 45.
94 Charles Howard, conte di Carlisle (1629-1685), maresciallo e, dal 1663, ambasciatore in
Russia, Svezia e Danimarca per conto del re Carlo II di Inghilterra. Il suo segretario, Guy
Miege (1644-1718), scrisse con la supervisione di Carlisle la relazione del viaggio
compiuto in quegli anni (A relation of three embassies from His Sacred Majestie Charles
II, to the great Duke of Muscovie, the King of Sweden, and the King of Denmark:
performed by the Right Hoble. the Earle of Carlisle in the years 1663 & 1664, Londra,
1669), in cui il popolo russo è descritto come ignorante, rozzo, con una religione poco
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tedesco del nord, il secondo come un inglese, e tutti e due per confronto.
L’inglese si scandalizzò vedendo che quasi tutti i bojardi avevano come
giaciglio delle assi o delle panche su cui si gettava una pelle o una coperta;
così usavano anticamente tutti i popoli. Le case, quasi tutte di legno, non
avevano mobili; quasi nessuna mensa aveva una tovaglia; le strade non
erano lastricate, quasi nulla che fosse bello o comodo; pochissimi erano gli
artigiani, e quei pochi lavoravano rozzamente e facevano solo gli oggetti
indispensabili. Questa gente avrebbe rassomigliato agli Spartani se solo
fosse stata sobria.
Nei giorni di cerimonia però la corte sembrava quella di un re di Persia. Il
conte di Carlisle dice che sulle vesti dello zar e dei cortigiani non si
vedevano che oro e pietre preziose. Queste vesti non erano state fabbricate
nel Paese, tuttavia era evidente che si poteva rendere il popolo industrioso
perché molto tempo prima, sotto il regno dello zar Boris Godunov, a Mosca
era stata fusa la più grossa campana che ci sia in Europa95, e nella chiesa
patriarcale si potevano ammirare degli ornamenti d’argento eseguiti con
grande accuratezza. Questi lavori eseguiti sotto la guida dei Tedeschi e degli
Italiani erano sforzi passeggeri, mentre ciò che rende prospera una nazione
è l’impegno quotidiano e la moltitudine delle arti esercitate di continuo. A
quell’epoca la Polonia e gli altri Paesi vicini alla Russia non erano più
progrediti. Nel nord della Germania le arti manuali non erano più
perfezionate, e nemmeno le belle arti vi furono più diffuse, almeno fino alla
metà del XVII secolo.
Sebbene Mosca fosse allora ben lontana dall’eguagliare, per magnificenza
e per arte, le nostre grandi città europee, tuttavia la sua circonferenza di
ventimila passi, la parte chiamata quartiere cinese dove si potevano
ammirare le curiosità della Cina, il vasto quartiere del Cremlino con il
palazzo degli zar, qualche cupola dorata e alcune torri alte e strane,
finalmente il numero degli abitanti che ammontava a quasi mezzo milione,
tutto faceva di Mosca una delle città più considerevoli dell’universo.
Teodoro o Fëdor, fratello maggiore di Pietro il Grande96, diede a Mosca la
prima sistemazione. Fece costruire parecchie grandi abitazioni di pietra
anche se prive di qualunque architettura regolare. Incoraggiava i notabili
della corte a costruire, anticipando il denaro e fornendo i materiali. A lui
sono dovute le prime scuderie di bei cavalli e alcuni utili abbellimenti. Pietro,
che pensò a tutto, mentre costruiva Pietroburgo non dimenticò Mosca: la
attraente e succubi della monarchia.
95 Nel 1600 Boris Godunov (1551?-1605) – zar dal 1598, ma di fatto dalla morte di Ivan il
Terribile per l’incapacità del figlio di questi Fëdor – fece elevare il campanile detto di Ivan
il Grande fino all’altezza di 81 metri (era di 60 m), rivestire la cupola d’oro e mettere le
campane, di cui la storia non tramanda un’eccezionale grossezza. Invece, in un cortile del
Cremlino si vede ancora oggi una grande campana (300 kg) che, secondo la leggenda,
suonò per la morte del figlio di Ivan IV, lo zarevič Dmitrij (1591), e per questo Boris
Godunov la “esiliò” in Siberia privandola del batacchio.
96 Fëdor III Alekseevič Romanov (1661-1682) era fratellastro di Pietro I, figlio di primo letto
dello zar Alessio I, e salì al trono nel 1676. Fu il primo zar a cominciare un avvicinamento
allo stile di vita occidentale.
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fece lastricare, la ornò e la abbellì di edifici e manifatture. Finalmente un
ciambellano97 dell’imperatrice Elisabetta, figlia di Pietro, ha fondato alcuni
anni orsono un’università: è la stessa persona che mi ha fornito tutte le
notizie sulla scorta delle quali sto scrivendo. Egli sarebbe molto più adatto di
me a scrivere questa storia, anche nella mia lingua; tutto ciò che mi ha
scritto fa fede che, se ha lasciato a me la cura di quest’opera, lo ha fatto
unicamente per modestia.
SMOLENSK
A occidente del ducato di Mosca è situato quello di Smolensk, che
costituisce una parte dell’antica Sarmazia europea. I ducati della Moscovia e
di Smolensk costituivano la Russia bianca propriamente detta. Smolensk,
già appartenuta ai granduchi di Russia, fu conquistata all’inizio del XV secolo
dal granduca di Lituania e ripresa cento anni dopo dagli antichi padroni.
Il re di Polonia Sigismondo III se ne impadronì nel 1611; lo zar Alessio,
padre di Pietro, la riconquistò nel 1654 e da allora fece sempre parte
dell’impero di Russia. Nell’elogio dello zar Pietro pronunciato a Parigi presso
l’Accademia delle scienze98 è detto che prima di lui i Russi non avevano fatto
alcuna conquista a occidente e a mezzogiorno: è chiaro che si tratta di un
errore.
GOVERNATORATO DI NOVGOROD E DI KIEV O UCRAINA
La provincia di Novgorod è situata tra Pietroburgo e Smolensk. Si dice
che proprio in questa regione gli antichi Slavi o Slavoni posero i loro primi
insediamenti. Ma da dove provenivano questi Slavi la cui lingua si è diffusa
nel nord dell’Europa? Sla significa capo, e schiavo vuol dire appartenente al
capo. Tutto ciò che sappiamo di questi antichi Slavi è che furono dei
conquistatori. Essi costruirono Novgorod la Grande, situata su un fiume
navigabile sin dalla sorgente, che godette a lungo di un fiorente commercio
e fu una potente alleata delle città anseatiche. Nel 1467 lo zar Ivan
Vasil’evič la conquistò e la spogliò di tutte le ricchezze99 che contribuirono
alla magnificenza della città di Mosca, fino a quel momento quasi
sconosciuta.
A mezzogiorno della provincia di Smolensk si trova la provincia di Kiev,
ossia la piccola Russia, Russia Rossa o Ucraina, attraversata dal Dnepr che i
Greci chiamavano Boristene. La differenza tra i due nomi, uno difficile da
pronunciare e l’altro melodioso, mostra, assieme a mille altre prove, la
97 Šuvalov. (Nota dell’Autore) – Cfr. nota 7.
98 L’elogio di Pietro fu pronunciato da Fontenelle il 14 novembre 1725, durante una seduta
dell’Accademia delle Scienze (traduzione in www.larici.it).
99 Sull’originale è Ivan Basiloviz con la nota di Voltaire: «In russo Iwan Wassiliewitsch». Ivan
III Vasil’evič (1440-1505), Gran principe di Mosca dal 1462, conquistò Novgorod nel 1471
dopo un serie di battaglie. Il 1467 è l’anno della peste che spopolò le città e i territori di
Riga, Pskov, Novgorod, Tver’ e Mosca.
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rozzezza di tutte le antiche popolazioni nordiche e l’armonia della lingua
greca. La capitale Kiev, anticamente Kisovia100, fu costruita dagli imperatori
di Costantinopoli che ne fecero una colonia. Vi si possono ancora vedere
delle iscrizioni greche vecchie di milleduecento anni: in questo Paese, dove
gli uomini vissero tanti secoli senza innalzare mura, è la sola città che
conservi vestigia dell’antichità. È qui che nell’XI secolo i granduchi di Russia
fissarono la loro residenza, prima che i Tatari sottomettessero la Russia101.
Gli Ucraini, che prendono il nome di Cosacchi, sono una mescolanza di
antichi Roxolani, di Sarmati e di Tatari uniti insieme. Questa regione faceva
parte dell’antica Scizia. Roma e Costantinopoli, che hanno dominato su
tante nazioni, non si possono neppur lontanamente paragonare all’Ucraina
per la fertilità. Qui la natura fa del suo meglio per beneficare gli uomini, ma
gli uomini non hanno assecondato la natura: vivono dei frutti che produce
una terra tanto fertile quanto incolta, e ancor più di rapina, amano senza
limiti un bene più prezioso di tutti gli altri, la libertà, eppure sono stati
soggetti di volta in volta alla Polonia e alla Turchia. Finalmente, nel 1654, si
sono dati in mano alla Russia, ma senza sottomettersi del tutto, e Pietro li
ha sottomessi.
Le altre nazioni si dividono in città e borgate. L’Ucraina è suddivisa in
dieci reggimenti, alla testa dei quali stava un capo eletto a maggioranza,
chiamato etmano o hetman102. Questo capitano della nazione non esercitava
il potere supremo. Oggi i sovrani di Russia mandano un nobile della corte
perché funga da etmano; questi è un vero e proprio governatore di
provincia, simile ai nostri governatori nelle regioni di quegli Stati in cui
sopravvive ancora qualche privilegio.
Dapprima in questo Paese non c’erano che pagani e maomettani; quando
furono sottomessi dalla Polonia, ricevettero il battesimo cristiano della
Chiesa romana e da quando sono soggetti alla Russia, seguono la
confessione cristiana della Chiesa greca.
Ne fanno parte i Cosacchi Zaporogi103 che sono all’incirca quello che erano
per noi i filibustieri, cioè intrepidi briganti. Essi si distinguevano da tutti gli
altri popoli perché non ammettevano mai donne nella loro tribù, come si
vuole che le amazzoni non tollerassero uomini fra loro. Le donne necessarie
100 Questo nome compare per la prima volta in Voltaire e fu in seguito riportato in altri testi
storici, ma la denominazione Kisovia (Kizovija) non esiste. Gli studiosi russi e ucraini
propendono per un errore di trascrizione del nome datole in latino (Kiovia), nel XVI-XVII
secolo, derivato dal nome in polacco del Palatinato (Województwo kijowskie).
101 Il Gran Principato di Kiev esistette dall’862 al 1246, ma nell’ultimo secolo si frazionò in
staterelli solo nominalmente soggetti a Kiev. Nel 1169, il principe di Vladimir-Suzdal’,
Andrej Bogoljubskij, conquistò e distrusse la città, ma non si installò sul trono kievano
(che stava già perdendo prestigio) preferendo restare al potere a Vladimir e ponendo a
Kiev suo fratello minore Gleb. Nel 1237 i Tatari attaccarono il territorio russo incendiando
quattordici città, fra cui Mosca (fondata nel 1147), Vladimir e Rjazan’, e nel 1240
distrussero Kiev.
102 Sull’originale hetman o itman.
103 Oppure Cosacchi di Zaporož’e, che vivevano lungo il basso corso del Don (Tanais) e il
Dnepr (Boristene).
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alla riproduzione vivevano in altre isole del fiume; non c’era il matrimonio,
non esisteva la famiglia; essi ingaggiavano i figli maschi nella milizia, e
lasciavano le figlie alle madri. Spesso il fratello aveva figli dalla sorella, il
padre dalla figlia. Tra loro non c’erano altre leggi che le usanze create dal
bisogno, tuttavia ebbero qualche prete di rito greco. Da qualche tempo è
stata costruita sul Boristene la fortezza di Santa Elisabetta per tenerli a
bada. Essi prestano servizio nell’esercito come truppe irregolari e guai a chi
capita nelle loro mani.
GOVERNATORATI DI BELGOROD, VORONEŽ E NIŽNIJ-NOVGOROD
Risalendo a nord-est della provincia di Kiev, tra il Boristene e il Tanais,
s’incontra il governatorato di Belgorod, che è grande come quello di Kiev. È
una delle province più fertili della Russia, quella stessa che ha fornito alla
Polonia una prodigiosa quantità di quel bestiame di grossa taglia noto sotto
il nome di buoi ucraini. Queste due province sono protette dalle incursioni
dei piccoli Tatari per mezzo di linee difensive che si estendono dal Boristene
al Tanais, guarnite di fortini e postazioni.
Risalite ancora a nord, attraversate il Tanais ed entrerete nel
governatorato di Voronež, che si estende fino alle sponde della Palude
Meotide104. Presso la capitale che noi chiamiamo Voronež105, alla foce del
fiume omonimo che si getta nel Tanais, Pietro il Grande fece costruire la
prima flotta, impresa cui nessuno fino a quel momento aveva mai pensato
in tutto quel vasto Stato. Poi trovate il governatorato di Nižnij-Novgorod,
bagnato dal Volga, che produce cereali.
ASTRACHAN’
Da questa provincia entrate, a sud, nel regno di Astrachan’. Questo Paese
comincia a 43° e mezzo di latitudine, allietato dal più dolce dei climi, e
finisce verso i 50°, abbracciando all’incirca tanti gradi in longitudine che in
latitudine. Delimitato da un lato dal mar Caspio, dall’altro dai monti della
Circassia, si protende ancora al di là del mar Caspio, lungo il Caucaso. È
bagnato dal grande fiume Volga, dallo Jaik106 e da parecchi altri fiumi tra i
quali è possibile, stando a quanto afferma l’ingegnere inglese Perry 107,
104 Antico nome del mar d’Azov.
105 Sull’originale è Véronise con nota di Voltaire: «In russo si scrive e si pronuncia
Voronesteh».
106 È il fiume Ural, conosciuto con il nome di Jaik fino al 1775.
107 John Perry (1670-1733) fu un capitano della marina inglese fino al 1692, quando fu
incarcerato per aver perso una nave contro i corsari francesi. Graziato, nel 1698 accettò
l’offerta dell’ambasciatore russo in Olanda e andò in Russia dove mise a frutto le sue
competenze di ingegneria idraulica: progettò un canale tra il Volga e il Don per collegare i
mari Caspio e Nero (lavoro interrotto dalla guerra tra Russia e Svezia) e due dighe sul
fiume Voronež per il transito delle navi da guerra. Per motivi economici tornò in
Inghilterra nel 1712 e quattro anni dopo pubblicò The State of Russia, under the Present
Czar (Lo Stato della Russia, sotto il presente zar), tradotto in francese nel 1717.
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tracciare dei canali che, servendo da letto alle inondazioni, avrebbero la
stessa funzione dei canali del Nilo e accrescerebbero la fertilità della terra.
Ma a destra e a sinistra del Volga e dello Jaik, questo bel Paese era
infestato, più che abitato, dai Tatari, che non hanno mai coltivato nulla e che
hanno sempre vissuto sulla terra come stranieri.
L’ingegner Perry, assunto da Pietro il Grande in queste regioni, vi trovò
vasti deserti coperti di pascoli, di cereali, di mandorli e di ciliegi. Pecore
selvatiche ottime da mangiare pascolavano in quelle solitudini. Bisognava
cominciare col domare e civilizzare gli uomini di quei Paesi per assecondare
la natura che è stata vinta nella regione di Pietroburgo.
Questo reame di Astrachan’ è una parte dell’antico Capshak108
conquistato da Gengis khan e poi da Tamerlano: i domini di questi Tatari si
estesero fino a Mosca. Nel secolo XVI lo zar Ivan IV, nipote di Ivan Vasil’evič
e massimo dei conquistatori russi, liberò il suo Paese dal giogo tataro e nel
1554 aggiunse alle altre sue conquiste il regno di Astrachan’.
Astrachan’ è il limite tra l’Asia e l’Europa e può commerciare con l’una e
con l’altra trasportando sul Volga le mercanzie portate attraverso il mar
Caspio. Questo è un altro dei grandi progetti di Pietro il Grande, che è stato
in parte eseguito. Un intero sobborgo di Astrachan’ è abitato da Indiani.
ORENBURG
A sud-est del regno di Astrachan’, si trova un piccolo paese di recente
formazione, chiamato Orenburg: la città omonima è stata costruita nel
1734109 sulle rive del fiume Jaik. Questo paese è tutto accidentato a causa
dei contrafforti del Caucaso. Fortini costruiti a distanze regolari difendono i
valichi dei monti e i guadi dei fiumi che ne discendono. È in questa regione,
prima disabitata, che oggi i Persiani vengono a depositare e a nascondere
alla rapacità dei briganti i beni scampati alle guerre civili. La città di
Orenburg è diventata il rifugio dei Persiani e delle loro ricchezze, e si è
arricchita delle loro disgrazie; gli Indiani e gli abitanti della Grande
Bukaria110 vengono a svolgervi i loro traffici; essa sta diventando il
magazzino dell’Asia.
GOVERNATORATI DI KAZAN’ E DELLA GRANDE PERMIA
Al di là del Volga e dello Jaik, verso settentrione, si trova il reame di
Kazan’ che, come Astrachan’, toccò in sorte a uno dei figli di Gengis khan e
in seguito a un figlio di Tamerlano; successivamente fu conquistato
108 È probabilmente un errore di traduzione dei materiali ricevuti da Voltaire. Nell’VIII-X
secolo la regione di Astrachan’ apparteneva al Khanato dei Chazary, o Chazaria, ma poi
diventò un khanato autonomo chiamato, in tataro, di “Xacitarxan”. Quando, nel XVI secolo
fu conquistato da Ivan il Terribile, il nome fu russificato in “Chadži-Tarchan” da cui, per
variazioni fonetiche, deriva Astrachan’.
109 Orenburg fu costruita come fortezza avamposto durante la colonizzazione della Siberia.
110 O Bukhara, corrispondente a una regione dell’odierno Uzbekistan.
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anch’esso da Ivan Vasil’evič. È ancor oggi abitato da molti Tatari
maomettani. Questa grande contrada si estende fino alla Siberia; è voce
comune che un tempo sia stata ricca e fiorente, e ancor oggi conserva
qualche traccia di opulenza. Una provincia di questo reame, chiamata la
Gran Permia e successivamente Solikam111, era il luogo ove confluivano le
mercanzie della Persia e le pellicce della Tartaria. In Permia, si sono
ritrovate molte monete del conio dei primi califfi e qualche idolo d’oro dei
Tatari112; ma queste vestigia di antiche ricchezze sono state rinvenute in
mezzo a territori poveri e deserti; non c’era più traccia alcuna di
commercio: se rivolgimenti di questo genere sono accaduti nei Paesi più
fertili, tanto più spesso e facilmente si verificheranno in un Paese inospitale.
Strahlenberg113, il celebre prigioniero svedese che mise così bene a frutto
la sua disgrazia ed esaminò con tanta attenzione questo Paese tanto vasto,
è stato il primo a far apparire verosimile un fatto cui non si era mai voluto
prestar fede, concernente l’antico commercio in queste regioni. Plinio e
Pomponio Mela riferiscono che, al tempo di Augusto, un re dei Suevi fece
omaggio a Metello Celere di alcuni indiani gettati dal maltempo sulle coste
vicine all’Elba. Come era mai possibile che abitanti dell’India navigassero sui
mari della Germania? A tutti i moderni quest’avventura sembrò frutto di
fantasia, soprattutto da quando il commercio del nostro emisfero è stato
rivoluzionato dalla scoperta del Capo di Buona Speranza; ma nei tempi
passati un indiano che trafficasse nei Paesi settentrionali dell’Occidente non
era uno spettacolo più insolito di quanto non fosse un romano che andasse
in India passando per l’Arabia. Gli indiani andavano in Persia, s’imbarcavano
sul mar d’Ircania114, risalivano il Rha, ossia il Volga, arrivavano attraverso la
Kama fino alla gran Permia e di lì potevano imbarcarsi sul mar del Nord o
sul Baltico. Uomini intraprendenti ce ne sono stati in tutti i tempi. Gli
abitanti di Tiro fecero viaggi ancor più sorprendenti.
Se, dopo aver scorso tutte queste provincie, soffermate lo sguardo
sull’Oriente, i confini dell’Europa e dell’Asia si confondono ancora. Per
questa vasta parte del mondo sarebbe occorso un nuovo nome. Gli antichi
divisero l’universo allora conosciuto in Europa, Asia e Africa, ma non ne
111 La Grande Permia e il rajon Solikamskij (cioè provincia di Solikamsk, che era la città
capoluogo) sono dal 2005 nel Territorio di Perm’ (Permskij kraj).
112 Memorie di Strahlenberg, confermate dalle mie relazioni russe. (Nota dell’Autore) – Cfr.
nota successiva.
113 Il vero cognome di Philip Johan von Strahlenberg (che Voltaire scrive Strahlemberg o
Stralemberg) era Tabbert (1676-1747) e fu un capitano militare svedese ma di origine
tedesca. Imprigionato dai Russi nella battaglia di Poltava (1709), fu mandato in Siberia, a
Tobol’sk, dove si dedicò agli studi linguistici, antropologici e geografici della zona. Pietro il
Grande lo liberò nel 1721 e gli offrì la direzione del Catasto, ma egli preferì tornare a
Stoccolma, dove nel 1730 pubblicò in tedesco il libro Das Nord – und Östliche Theil von
Europa und Asia, in so weit solches das gantze Russische Reich mit Sibirien und der
grossen Tatarey in sich begriffet, in cui allegò nuove mappe della Russia. L’opera fu
tradotta in inglese nel 1738 (con titolo Russia, Siberia, and Great Tartary) e subito dopo
in francese e spagnolo.
114 L’Ircania era la regione dell’antica Persia a sud del mar Caspio (odierno Mazandaran) e i
Greci chiamavano mare d’Ircania, o mare ircano, il mar Caspio.
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avevano visto nemmeno la decima parte, e ciò fa sì che, passata la Palude
Meotide, non si sa dove l’Europa finisca e cominci l’Asia. Tutti i territori al di
là del monte Tauro erano designati col nome vago di Scizia e in seguito
come Tartaria o Tataria. Forse sarebbe giusto chiamare artiche o nordiche
tutte le terre che si estendono dal mar Baltico ai confini della Cina, come si
dà il nome di terre australi a quella parte di mondo non meno vasta che è
situata sotto il polo antartico e fa da contrappeso al globo.
GOVERNATORATI DI SIBERIA, DEI SAMOIEDI E DEGLI OSTIACHI
Verso oriente, al di là delle frontiere di Archangel’sk, Kazan’115 e
Astrachan’, si estende la Siberia con le terre contigue fino al mar del
Giappone; per mezzo del Caucaso tocca la parte meridionale della Russia; di
lì alla Kamčatka misura all’incirca milleduecento leghe francesi, e dalla
Tartaria settentrionale, che le serve da confine, fino al mar Glaciale, ne
misura circa quattrocento, il che rappresenta il punto di minima larghezza
dell’impero. Questa regione produce le migliori pellicce, cosa che valse a
farla scoprire nel 1563. Non fu sotto lo zar Fëdor Ivanovič, ma sotto Ivan
Vasil’evič, che un privato dei dintorni di Archangel’sk di nome Anika, agiato
sia per la sua condizione sociale che per il paese, notò degli uomini di
aspetto straordinario, abbigliati in una foggia fino a quel momento mai vista
nel cantone, che si esprimevano in una lingua incomprensibile; essi
discendevano ogni anno un fiume che si getta nella Dvina 116 e venivano a
portare al mercato delle martore e delle volpi nere che barattavano con
chiodi e frammenti di vetro come i primi selvaggi d’America davano il loro
oro agli Spagnoli. Anika li fece seguire dai propri figli e da alcuni servi fin
nelle loro terre. Si trattava di Samoiedi, un popolo che sembra affine ai
Lapponi ma che non è della stessa razza. Come i Lapponi, non conoscono
l’uso del pane, come loro ricorrono all’aiuto di rangiferinae o renne che
attaccano alle slitte. Vivono in caverne o in capanne in mezzo alla neve117,
ma per il resto la natura ha messo tra questa specie di uomini e i Lapponi
delle differenze molto marcate. Mi si assicura che la loro mascella superiore
è più sporgente a livello del naso e che le orecchie sono più rialzate. Sia gli
uomini che le donne hanno peli soltanto sulla testa; il capezzolo è nero
come l’ebano. I Lapponi maschi e femmine non presentano nessuna di
queste caratteristiche. Per mezzo di relazioni inviatemi da queste contrade
così poco conosciute, sono stato avvertito che nella bella Storia naturale del
115 Sull’originale è Résan che farebbe pensare a Rjazan’, ma non è così. All’epoca di Voltaire
le due città di Rjazan’ e Kazan’ erano spesso confuse, com’è evidente, per esempio, in
Jacques Jubé, La religion, les mœurs, et les usages des moscovites, libro scritto intorno al
1730, certamente noto a Voltaire ma ritrovato recentemente. Voltaire infatti traccia un
ipotetico confine che dal mar Bianco arriva alle sorgenti del fiume Volga e lo segue fino
alla foce.
116 Relazioni inviatemi da Pietroburgo. (Nota dell’Autore)
117 Relazioni inviatemi da Pietroburgo. (Nota dell’Autore)
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giardino del re118 è sfuggito un errore là dove, parlando delle molte
stranezze che presenta la natura umana, si è confusa la specie dei Lapponi
con quella dei Samoiedi. Le razze umane sono molto più numerose di
quanto non si creda. Quella dei Samoiedi e quella degli Ottentotti119
sembrano gli opposti del nostro continente, e se ci si sofferma sulle
mammelle nere delle donne dei Samoiedi e sul grembiule che la natura ha
dato alle Ottentotte, che scende, dicono, fino a metà delle cosce, ci si farà
un’idea della varietà della nostra specie animale, varietà ignorata nelle città,
dove tutto è sconosciuto tranne quello che ci circonda.
La morale dei Samoiedi presenta singolarità altrettanto grandi che il loro
fisico: essi non rendono alcun culto all’Essere supremo; in un sol punto si
avvicinano al manicheismo120 o meglio all’antica religione dei Magi121, e cioè
nel fatto che riconoscono un principio buono e uno cattivo. Il clima
inclemente sotto cui abitano sembra giustificare in qualche modo questa
credenza cosl antica presso tanti popoli e così naturale agli ignoranti e agli
sfortunati.
Furto e assassinio sono sconosciuti tra loro; essendo le passioni quasi
inesistenti, non esiste neppure l’ingiustizia. La loro lingua non dispone di
termini per indicare il vizio e la virtù. La loro estrema semplicità non ha
ancora permesso di elaborare nozioni astratte: la loro condotta è guidata
unicamente dal sentimento, e questa potrebbe essere una prova
incontestabile che l’uomo, quando non è accecato da funeste passioni, ama
istintivamente la giustizia.
Si riuscì a convincere alcuni di questi selvaggi a lasciarsi condurre a
Mosca: qui tutto li riempì di ammirazione. Nell’imperatore videro il loro dio e
acconsentirono a fargli ogni anno l’offerta di due martore zibelline per
abitante. Ben presto furono fondate alcune colonie al di là dell’Ob e
dell’Irtyš122; furono costruite persino delle fortezze. Nel 1595 un cosacco fu
inviato in quella regione e con pochi soldati e scarsa artiglieria la conquistò
a nome degli zar, come Cortes aveva sottomesso il Messico123; tuttavia egli
non conquistò che dei deserti.
Risalendo l’Ob, fu trovata una piccola abitazione alla confluenza del fiume
118 Georges-Louis Leclerc, più conosciuto come conte di Buffon (1707-1788), naturalista
francese, pubblicò dal 1749 l’Histoire naturelle, générale et particulière, che l’occupò tutta
la vita (36 volumi, di cui 8 postumi) e per la quale ottenne molti riconoscimenti. Le Jardin
du roi (Giardino del re, oggi Jardin des Plantes) di Parigi era il luogo dove Buffon lavorò
come intendente per cinquant’anni, facendolo diventare una delle più importanti istituzioni
scientifiche del mondo.
119 I Samoiedi non sono una etnia ma un gruppo linguistico, mentre Lapponi (Sami) e
Ottentotti (Khoikhoi), abitanti dell’Africa australe, sono gruppi etnici.
120 Religione dualista (Luce e Tenebre) fondata da Mani, vissuto in Persia dal 215 al 277.
121 I Magi appartenevano a una tribù del popolo dei Medi (odierno Kurdistan) diventata casta
sacerdotale dedita al mantenimento della fiamma accesa davanti al dio del fuoco, in
conformità alla dottrina di Zarathustra (o, nella forma greca, Zoroastro; VII-VI sec. a.C.).
122 Sull’originale Obi e Irtis con nota dell’Autore: «In russo Irtisch».
123 Hernán Cortés (1485-1547) effettuò nel 1519-1520 la conquista del Messico, di cui l’anno
prima Juan de Grijalva aveva esplorato la penisola dello Yucatán.
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Irtyš col Tobol, e in quel luogo fu costruita Tobol’sk124, capitale della Siberia,
che oggi è un’importante città. Chi crederebbe che questa contrada è stata
per lungo tempo la sede di quegli stessi Unni che sotto Attila hanno
devastato tutto fino a Roma, e che gli Unni provenivano dal nord della Cina?
I Tatari Uzbeki succedettero agli Unni, e i Russi agli Uzbeki. Ci si è contesi
queste contrade selvagge come ci si è sterminati per le più fertili. Un tempo
la Siberia era più popolosa di quanto non sia oggi, soprattutto nella parte
meridionale; lo si deduce dalle tombe e dalle rovine.
Tutta questa parte di mondo, più o meno dal sessantesimo grado fino alle
montagne ricoperte di ghiacci eterni che circondano i mari settentrionali,
non rassomiglia in nulla alle regioni della zona temperata: sulla terraferma
non vi sono le stesse piante e gli stessi animali, né gli stessi pesci nei laghi
e nei fiumi.
Lungo il fiume Ob, sotto la zona dei Samoiedi, è situata quella degli
Ostiachi. Essi non hanno nulla in comune con i Samoiedi tranne il fatto di
essere, come questi e come tutti gli uomini primitivi, dediti alla caccia, alla
pesca e alla pastorizia; gli uni, non essendo riuniti in gruppi, non hanno
religione; gli altri, che formano delle orde, hanno una sorta di culto; essi
venerano l’oggetto più necessario. Si dice che adorino una pelle di montone
perché nulla per loro è più indispensabile, di quell’animale; come gli antichi
Egizi, che erano agricoltori, avevano scelto un bue, per adorare
nell’emblema dell’animale la divinità che lo ha fatto nascere per l’uomo.
Secondo certi autori gli Ostiachi adorano una pelle d’orso, visto che è più
calda di quella di montone: può anche darsi che non adorino né l’una né
l’altra.
Gli Ostiachi hanno anche altri idoli, l’origine e il culto dei quali non
meritano più attenzione degli stessi adoratori. Verso il 1712 alcuni di loro
sono stati convertiti al cristianesimo; questa gente è cristiana al modo dei
nostri più rozzi contadini, senza rendersi conto di ciò che è. Secondo vari
autori questo popolo è originario della Grande Permia; ma la Grande Permia
è quasi disabitata: perché mai i suoi abitanti avrebbero dovuto stabilirsi in
un luogo così lontano e così ingrato? Questi punti oscuri non valgono una
ricerca. I popoli che non hanno coltivato le arti devono esser condannati a
restare sconosciuti.
È soprattutto nel territorio degli Ostiachi e in quella dei Buriati e degli
Jakuti loro vicini125 che si trova nella terra quell’avorio la cui origine è
sempre rimasta un mistero: secondo alcuni si tratta di avorio fossile,
secondo altri delle zanne di una specie estinta d’elefante126. Qual è quel
Paese in cui non si trovano prodotti della natura che stupiscono e mettono
in imbarazzo la filosofia?
124 Sull’originale Tobol con nota dell’Autore: «In russo Tobolskoy». La presenza di una
capanna era un evidente segno di posizione favorevole per stanziarsi.
125 I Buriati erano (sono) stanziati tra il lago Bajkal e la Mongolia, mentre gli Jakuti li
confinano a nord e si affacciano sul Mare Glaciale Artico.
126 Oggi si sa che sono zanne di mammut, ma anche i denti di tricheco sono di una sostanza
molto simile all’avorio ed è impiegato per gli stessi usi.
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Molte montagne di queste regioni sono ricche di quell’amianto o lino
incombustibile da cui si ricava sia un tipo di tela, sia una specie di carta.
A sud degli Ostiachi si trovano i Buriati, altro popolo non ancora
convertito al cristianesimo. A est ci sono varie orde non del tutto
sottomesse. Nessuno di questi popoli ha la benché minima idea del
calendario. Essi contano per nevi, e non secondo il percorso apparente del
sole: dato che ogni inverno nevica a lungo e regolarmente, essi dicono ho
tante nevi come noi diciamo ho tanti anni.
Debbo qui riferire quello che racconta l’ufficiale svedese Strahlenberg
che, preso prigioniero a Poltava, passò quindici anni in Siberia percorrendola
in lungo e in largo. Egli dice che esistono ancora i resti di un antico popolo
che ha la pelle screziata e maculata, e afferma di aver visto degli uomini di
questa razza. Questo fatto mi è stato confermato da alcuni Russi nativi di
Tobol’sk. Pare che la varietà delle specie umane sia molto diminuita; si
trovano poche di queste strane razze, probabilmente sterminate dalle altre.
Per esempio esistono pochissimi di quei Mori bianchi o albini uno dei quali fu
presentato all’Accademia delle scienze di Parigi dove lo vidi anch’io127. Lo
stesso accade con molti animali la cui specie è rarissima.
Quanto ai Borandiani di cui si parla spesso nella dotta Storia del giardino
del re di Francia, le relazioni di cui dispongo dicono che questo popolo è
completamente sconosciuto128.
Tutta la parte meridionale della regione è popolata da numerose orde di
Tatari. Da questa Tartaria gli antichi Turchi si sparpagliarono per andare a
sottomettere tutti i Paesi di cui sono oggi in possesso. I Calmucchi e i
Mongoli sono quegli stessi Sciti che, sotto la guida di Madyes, si
impadronirono dell’Asia settentrionale e sconfissero Cyaxares, re dei Medi129.
Sono loro che sotto Gengis khan e i suoi figli si spinsero poi fino in
Germania e che, sotto Tamerlano, fondarono l’impero del Mogol. Questi
popoli offrono un esempio dei cambiamenti che si sono verificati in tutte le
nazioni. Alcune delle loro orde, ben lungi dall’essere temibili, sono diventate
vassalle della Russia.
Tale è un gruppo di Calmucchi che risiede tra la Siberia e il mar Caspio. È
qui che fu ritrovata nel 1720 un’abitazione sotterranea di pietra, delle urne,
delle lampade, degli orecchini, la statua equestre di un principe orientale
che portava un diadema sulla testa, due donne in trono e un rotolo di
manoscritti che Pietro il Grande fece pervenire all’Accademia delle iscrizioni
di Parigi e che fu identificato come lingua tibetana; tutte singolari
127 Un albino fu presentato nel 1744 all’Accademia delle scienze di Parigi e Voltaire scrisse la
Rélation concernant un maure blanc.
128 Alessandro David, ne L’arte de conoscere gli uomini: il piccolo Lavater e Dottor Gall, edito
a Milano nel 1865, scrisse alle pp. 29-30: «i Borandiani sono anche più piccoli che i
Lapponi; hanno l’iride dell’occhio del medesimo colore, ma il bianco d’un giallo più
rossigno; la loro pelle è più olivastra e hanno le gambe grosse, mentre quelle dei Lapponi
sono esili».
129 Cyaxares (o Hvakhshathra o italianizzato, Ciassarre), detto il Grande, regnò nel VI-VII
secolo a.C. e portò la Media a essere uno degli Stati più vasti dell’Asia.
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testimonianze del fatto che le arti regnarono in questo Paese oggi barbaro,
e altrettante prove a sostegno di quello che Pietro il Grande ha affermato
più di una volta; e cioè che le arti hanno fatto il giro del mondo.
KAMČATKA
L’ultima provincia è la Kamčatka, la regione più orientale del
continente.130 Il settentrione di questa provincia fornisce anch’essa pellicce
pregiate; gli abitanti se ne ricoprivano durante l’inverno, e l’estate andavano
nudi. Si ebbe la sorpresa di trovare nella parte meridionale degli uomini
dalle lunghe barbe, mentre a settentrione, dalla regione dei Samoiedi fino
alla foce del fiume Amour o Amur131, gli uomini non sono più barbuti di
quanto lo siano gli Americani. È così che nell’impero di Russia si trovano più
razze diverse, più singolarità e maggior varietà di costumi che in qualunque
altro Paese della terra.
Apprendo da recenti informazioni che questo popolo selvaggio ha
anch’esso i suoi teologi, i quali fanno discendere gli abitanti della penisola
da una specie di essere superiore che chiamano Kutkh132. Le stesse fonti mi
dicono che non gli è tributato alcun culto, che non è né amato né temuto.
Così avrebbero una mitologia mentre non hanno una religione. La cosa
potrebbe essere vera, ma non è verosimile: il timore è un attributo naturale
dell’uomo. Si vuole che nella loro assurdità essi distinguano cose permesse
da cose proibite: è permesso appagare tutte le proprie passioni, è proibito
affilare un coltello o un’ascia durante un viaggio e salvare un uomo che
annega. Se per loro salvare la vita del prossimo è effettivamente un
peccato, in questo differiscono da tutti gli uomini, che accorrono
istintivamente in aiuto dei propri simili quando l’interesse o la passione non
corrompono questa tendenza naturale. Sembra impossibile riuscire a fare un
delitto di un’azione così comune e necessaria che non è nemmeno una virtù,
a meno che non si ricorra ad una filosofia altrettanto falsa e superstiziosa, la
quale predichi che non ci si deve opporre alla provvidenza e che un uomo
destinato dal cielo a finire annegato non deve essere soccorso da un essere
umano; ma i barbari sono ben lontani dall’avere una filosofia, sia pure falsa.
Malgrado ciò, corre voce che essi celebrino una gran festa, che nella loro
lingua chiamano con una parola che significa purificazione; ma di che
debbono purificarsi, se per loro tutto è lecito? e perché purificarsi se non
hanno per il loro dio Kutkh né timore né amore? Le loro idee, come quelle di
130 Nell’edizione del 1760 in questo punto si leggeva la frase: «Gli abitanti erano
assolutamente senza religione quando li si è scoperti.» Fu tolta per le informazioni
sopraggiunte e inserite nei sette paragrafi seguenti, pubblicati a partire dall’edizione del
1768.
131 Amur non significa “Amore” come sembra insinuare Voltaire, ma “grande fiume”,
dall’eveno Tamur.
132 Sull’originale Kouthou. Kutkh o, in russo, Kutch (o in altri dialetti Kutq, Kúykly, Kúrkil ecc.)
è una divinità dall’aspetto di corvo, venerata nella Siberia orientale, particolarmente in
Kamčatka e tra i Coriachi. Secondo le culture, Kutkh è il dio creatore o il suo aiutante o,
ancora, uno spirito guardiano dai modi lascivi.
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tutti gli altri popoli presentano indubbiamente delle contraddizioni: le loro
sono dovute a mancanza di intelligenza, le nostre a un eccesso di
intelligenza; noi abbiamo molte più contraddizioni di loro perché abbiamo
riflettuto di più.
Come hanno una specie di dio, così hanno anche dei demoni, e per finire
si trovano tra loro degli stregoni, come ce ne sono sempre stati anche nelle
nazioni più civili. Nella Kamčatka sono le vecchie a fare da streghe, come
avveniva anche tra noi prima che la sana scienza naturale ci illuminasse.
Dappertutto dunque il fatto di avere idee assurde fondate sulla curiosità e
sulla debolezza è appannaggio dello spirito umano. In Kamčatka hanno
anche dei profeti che interpretano i sogni, e non è molto che noi abbiamo
smesso di averne.
Da quando la corte di Russia ha assoggettato questi popoli costruendo
cinque fortezze nel loro territorio, è stata predicata tra loro la religione
greca. Un gentiluomo russo assai colto mi ha detto che una delle obiezioni
fondamentali fu la seguente: quel culto non si poteva celebrare per loro
perché ai nostri misteri sono necessari il pane e il vino, mentre nel loro
Paese non si può avere né pane né vino.
Questo popolo del resto non merita molte osservazioni: ne farò soltanto
una, e cioè che se si considerano i tre quarti dell’America, tutta la parte
meridionale dell’Africa, il nord della Lapponia fino ai mari del Giappone, si
può constatare che la metà del genere umano non è più avanzata del
popolo della Kamčatka.
Dapprima, nel 1701, un ufficiale cosacco andò via terra dalla Siberia alla
Kamčatka per ordine di Pietro il quale dopo la sfortunata giornata di Narva133
estendeva ancora le sue cure a tutto il continente da un estremo all’altro.
Poi nel 1725, poco prima che la morte lo sorprendesse nel mezzo dei suoi
grandiosi progetti, egli inviò il capitano Bering, danese, con l’ordine esplicito
di arrivare dal mar di Kamčatka alle Americhe se l’impresa era possibile. Al
primo tentativo Bering non riuscì. L’imperatrice Anna lo inviò di nuovo nel
1733134. Il capitano di vascello Spengenberg associato a questo viaggio,
133 I Russi furono sconfitti dagli Svedesi nella battaglia di Narva (nella Livonia oggi estone) il
30 novembre 1700.
134 Il fiume Kamčatka e il bellicoso popolo dei Coriachi che abitava sulle sue rive furono
scoperti nel 1639 dall’esploratore Ivan Jur’evič Moskvitin, il primo russo a raggiungere
l’Oceano Pacifico (via terra). In seguito furono avviate altre spedizioni, via terra e via
mare, tra cui quella del 1695 intrapresa dal cosacco Luka Morozko che esplorò il fiume
Tigil e tornò dal suo capitano cosacco Vladimir Vasil’evič Atlasov con alcune scritte
misteriose, probabilmente giapponesi. Nel 1697-1699 Atlasov esplorò quasi tutta la
penisola della Kamčatka e costruì dei forti, poi fu ucciso dai suoi marinai ammutinati nel
1711. Nel 1720 la Kamčatka e le isole Curili furono mappate da Ivan Michajlovič Evreinov.
L’esploratore danese Vitus Jonassen Bering (1681-1741) compì due spedizioni in
Kamčatka: la prima ordinata da Pietro il Grande poco prima di morire, fu effettuata nel
1728 e Bering scoprì lo stretto che porta il suo nome. La seconda fu nel 1740, per ordine
della zarina Anna Ivanovna (dopo che Vasilij Merlin aveva assoggettato i Coriachi) e
Bering fondò la città di Petropavlosk-Kamčatskij. La prima descrizione dettagliata della
Kamčatka fu pubblicata nel 1755 dal naturalista e geografo Stepan Petrovič
Krašeninnikov.
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salpò per primo dalla Kamčatka ma non riuscì a mettersi in mare prima del
1739, tanto tempo era occorso per arrivare al porto di partenza, per
costruirvi le navi, per attrezzarle e rifornirle del necessario. Spengenberg
penetrò fino al Giappone settentrionale per un passaggio formato da una
lunga fila di isole, e tornò indietro senza aver scoperto altre vie all’infuori di
quella.
Nel 1741 Bering percorse quei mari accompagnato dall’astronomo Delisle
de La Croyère135, di quella famiglia Delisle che ha fornito tanti valenti
geografi; un altro capitano partiva per suo conto in esplorazione.
Quest’ultimo e Bering toccarono le coste dell’America a nord della California.
Dunque il passaggio tanto cercato attraverso i mari settentrionali era stato
finalmente scoperto, ma su quelle coste deserte non fu possibile trovare
alcuna assistenza. L’acqua dolce venne a mancare, una parte
dell’equipaggio perì di scorbuto136; le coste settentrionali della California
furono esplorate per cento miglia: furono avvistati dei canotti di cuoio su cui
erano degli uomini simili ai canadesi. Tutto fu infruttuoso. Bering morì su
un’isola cui dette il proprio nome. L’altro capitano, trovandosi più vicino alla
California, fece scendere a terra dieci uomini dell’equipaggio: essi non
fecero più ritorno. Il capitano, dopo averli aspettati invano, fu costretto a
tornare nella Kamčatka; Delisle spirò nello scendere a terra. A simili disastri
sono destinati quasi tutti i primi tentativi sui mari settentrionali. Ancora non
si sa quale utilità si trarrà da queste scoperte così difficili e pericolose.
Abbiamo indicato tutto ciò che è compreso, in generale, nei domini della
Russia dalla Finlandia al mar del Giappone. Tutte le grandi parti dell’impero
sono state annesse in tempi diversi, come è avvenuto in tutti gli altri regni
di questo mondo. Gli Sciti, gli Unni, i Massageti, gli Slavi, i Cimbri, i Goti, i
Sarmati sono oggi sudditi degli zar; i Russi propriamente detti sono gli
antichi Roxolani o Slavi.
Se riflettiamo bene, anche gli altri Stati di solito sono compositi. La
Francia è un’accozzaglia di Goti, di Danesi detti Normanni, di Germani delle
regioni settentrionali chiamati Borgognoni, di Franchi, di Alemanni, di alcuni
Romani mescolati agli antichi Celti. A Roma e in Italia sono numerose le
famiglie che discendono da popolazioni settentrionali, mentre non se ne
conosce nessuna che discenda dagli antichi Romani. Il sommo pontefice è
spesso un rampollo di un Lombardo, un Goto, un Teutone o un Cimbro. Gli
Spagnoli sono una razza composta di Arabi, Cartaginesi, Ebrei, Tiri, Visigoti
e Vandali, fusi con gli abitanti del Paese. Quando le nazioni si sono così
mescolate, deve passare molto tempo prima che si civilizzino, o anche solo
che formino una lingua: alcuni giungono più presto a darsi un ordinamento
civile, altri più tardi. Le leggi e le arti si stabiliscono con tanta difficoltà, le
135 L’astronomo francese Louis Delisle de la Croyère (o De l’Isle, 1690-1741), figlio e fratello
di storici e cartografi, partecipò alla seconda spedizione di Bering in Kamčatka, poi si
imbarcò sulla nave “San Paolo” diretta in Alaska con l’esploratore Aleksej Il’ič Čirikov, ma
morì durante il viaggio.
136 La morte per scorbuto è attribuita a tutti questi esploratori, da Bering a Delisle, ma nel
1991 sono stati esaminati i resti di Bering e non sono stati rinvenuti segni di scorbuto.
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rivoluzioni distruggono così spesso l’edificio cominciato, che se di qualcosa
ci dobbiamo stupire, è del fatto che la maggioranza delle nazioni non viva
alla maniera dei Tatari.
Capitolo II
CONTINUA LA DESCRIZIONE DELLA RUSSIA. POPOLAZIONE, FINANZE, ESERCITI,
USANZE, RELIGIONE. CONDIZIONI DELLA RUSSIA PRIMA DI PIETRO IL GRANDE
Più un Paese è civilizzato, più è popoloso. Così la Cina e l’India sono i più
popolosi fra gli imperi, perché, dopo tutte le rivoluzioni che hanno
trasformato la faccia della Terra, i Cinesi e gli Indiani formarono le nazioni di
più antica civiltà che si conoscano. Il loro governo conta più di quattromila
anni di età, il che presuppone, come si è detto, prove e tentativi fatti nei
secoli precedenti. I Russi sono arrivati tardi, ma avendo introdotto nel
proprio Paese le arti già perfezionate, è accaduto che abbiano fatto più
progressi in cinquant’anni che qualunque altra nazione, per proprio conto, in
cinquecento. Il Paese non è popolato in proporzione alla sua grandezza, anzi
ne è ben lontano, ma così com’è conta altrettanti sudditi che qualunque
altro Stato cristiano.
Sulla scorta dei registri della capitazione137 e del censimento dei mercanti,
artigiani e contadini di sesso maschile, posso assicurare che la Russia conta
oggi almeno ventiquattro milioni di abitanti. Di questi ventiquattro milioni di
uomini, la maggior parte sono schiavi, come in Polonia, in varie provincie
della Germania e, un tempo, in quasi tutta l’Europa. In Russia e in Polonia la
ricchezza di un gentiluomo o di un ecclesiastico non viene calcolata sulla
base del reddito in denaro, ma dal numero degli schiavi.
Ecco i risultati di un censimento degli individui di sesso maschile soggetti
alla capitazione svolto nel 1747.
Mercanti
Operai
Contadini compresi tra i mercanti e gli operai
Contadini chiamati odonoski che contribuiscono al
mantenimento delle truppe
Altri che non vi contribuiscono
Operai di vari mestieri, di genitori ignoti
Altri non inclusi nelle classi dei mestieri
Contadini direttamente dipendenti dalla corona, circa
Lavoratori nelle miniere della corona, sia cristiani che
pagani e maomettani
Altri contadini della corona che lavorano nelle miniere e
nelle fabbriche dei privati
Neoconvertiti alla religione greca
Tatari e Ostiachi pagani
137 Imposta.
37
1
198.000
16.500
1.950
430.220
26.080
1.000
4.700
555.000
64.000
24.200
57.000
241.000
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Morsi, Tatari, Morduati e altri tanto Greci che Pagani
impiegati per i lavori dell’ammiragliato
Tatari contribuenti, chiamati Tepteri e Bobilitz138, ecc.
Servi di vari mercanti e altri privilegiati i quali, pur non
possedendo terre, possono tenere schiavi presso di sé
Contadini delle terre destinate al mantenimento della corte
Contadini delle terre appartenenti personalmente a Sua
Maestà, indipendentemente dal diritto della corona
Contadini delle terre confiscate alla corona
Servi dei gentiluomini
Servi appartenenti all’assemblea del clero e che
provvedono al suo mantenimento
Servi dei vescovi
Servi dei conventi, molto ridotti da Pietro il Grande
Servi di cattedrali e chiese parrocchiali
Contadini impiegati nei lavori dell’ammiragliato o altre
opere pubbliche, all’incirca
Operai delle miniere e delle fabbriche private
Contadini delle terre concesse ai principali artigiani
Operai delle miniere della corona
Bastardi allevati dai preti
Settari detti raskol’niki139
Totale
7.800
28.900
9.100
418.000
60.500
13.600
3.550.000
37.500
116.400
721500
23.700
4.000
16.000
14500
3.000
40
2.200
6.646.390
Ecco dunque in cifra tonda 6.640.000 uomini che pagano la capitazione.
In questo censimento sono contati vecchi e fanciulli, ma non le donne e le
bambine e nemmeno i bambini nati tra l’elaborazione di un catasto e l’inizio
del successivo. Triplicate solo il numero degli individui tassabili, includendovi
le donne e le ragazze, e troverete all’incirca venti milioni di anime.
A questa cifra bisogna aggiungere la classe militare che ammonta a
350.000 uomini. Né la nobiltà di tutto l’impero, né il clero, che conta
200.000 membri, sono soggetti a questa capitazione; ne sono anche esenti
tutti gli stranieri dell’impero, qualunque sia la loro professione e il Paese
d’origine. Gli abitanti delle provincie conquistate, ossia la Livonia, l’Estonia,
l’Ingria, la Carelia, parte della Finlandia, l’Ucraina, i Cosacchi del Tanais, i
Calmucchi e altri Tatari, i Samoiedi, i Lapponi, gli Ostiachi e tutti i popoli
idolatri della Siberia, Paese più vasto della Cina, non sono compresi nel
censimento.
In base a questo calcolo è impossibile che la popolazione complessiva
della Russia non ammontasse almeno a ventiquattro milioni di abitanti nel
1759, quando mi furono mandati da Pietroburgo questi appunti tratti dagli
archivi dell’impero. Secondo tale calcolo vi sono otto abitanti per miglio
quadrato. L’ambasciatore inglese di cui ho già parlato140 ne conta soltanto
138 Morsi, Morduati, Tepteri ecc. sono nomi di tribù.
139 Raskol’niki (da raskol, scissione) era il nome dato a coloro che non vollero seguire le
riforme dei libri liturgici e dei costumi ecclesiastici volute nel 1654-1656 dal patriarca
Nikon (al secolo Nikita Minin; 1605-1681; patriarca dal 1652 al 1658) e sostenute dallo
zar Alessio, il quale dette avvio alla loro persecuzione. In Occidente sono chiamati “Vecchi
Credenti” (starovery).
140 Carlisle, cfr. nota 94.
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cinque, ma senza dubbio non disponeva di relazioni fedeli come quelle che
si è voluto fornirmi.
Fatte le debite proporzioni, il territorio della Russia è dunque esattamente
cinque volte meno popolato della Spagna, ma il numero degli abitanti è
all’incirca quattro volte superiore; esso ha press’a poco la stessa
popolazione della Francia e della Prussia, ma, tenuto conto delle sue grandi
dimensioni, il numero degli abitanti è trenta volte inferiore.
A proposito di questo censimento bisogna fare un’osservazione
importante, e cioè che di 6.640.000 contribuenti, circa 900.000 risultano
appartenenti al clero russo, senza contare il clero dei Paesi conquistati e
quello dell’Ucraina e della Siberia.
Così, su sette contribuenti, uno apparteneva al clero, ma pur avendo
questo settimo, esso è ben lontano dall’usufruire della settima parte degli
introiti dello Stato, come avviene in tanti altri regni dove ha in mano almeno
un settimo di tutte le ricchezze; infatti i contadini del clero pagano la
capitazione al sovrano, e non bisogna trascurare le altre entrate della
corona di Russia, di cui il clero non percepisce nulla.
Questo calcolo si discosta molto da quelli di tutti gli altri scrittori che
hanno parlato della Russia: i ministri stranieri che hanno inviato dei rapporti
ai loro sovrani sono caduti in errore. Bisogna consultare gli archivi
dell’impero.
È verosimile che la Russia sia stata molto più popolosa di quanto non sia
attualmente nei tempi in cui il vaiolo, venuto dal fondo dell’Arabia, e l’altro,
venuto dall’America141, non avevano ancora devastato questi Paesi in cui
hanno poi messo radici. Questi due flagelli che hanno spopolato il mondo
più della guerra, sono dovuti l’uno a Maometto, l’altro a Cristoforo Colombo.
La peste, originaria dell’Africa, raramente giungeva alle contrade
settentrionali. E poiché, per finire, le popolazioni nordiche, dai Sarmati ai
Tatari che vivono al di là della grande muraglia, dilagarono per il mondo con
le loro scorrerie, questo antico vivaio di uomini dev’essere diminuito in
modo rilevante.
In questo vastissimo Paese si contano all’incirca 7.400 monaci e 5.600
religiose, e ciò nonostante l’impegno con cui Pietro il Grande tentò di
ridurne il numero. Era questa una preoccupazione in tutto degna di un
legislatore in un Paese dove ciò che manca più di tutto il resto sono gli
uomini. Queste 13.000 persone rinchiuse nei monasteri e perdute per lo
Stato, disponevano, come il lettore avrà potuto osservare, di 720.000142
servi per coltivare le loro terre; evidentemente è troppo. A quest’abuso, così
comune e così funesto per tanti Stati, solo l’imperatrice Caterina II ha posto
rimedio. È lei che ha osato rivendicare i diritti della natura e della religione
togliendo al clero e ai monaci ricchezze odiose: li ha sottomessi al tesoro
pubblico e li ha costretti a essere utili mettendoli nell’impossibilità di essere
141 La sifilide, a lungo creduta portata in Europa dai marinai di Cristoforo Colombo.
142 Nella prima edizione risultavano, per un errore di stampa, 70.000 servi. Come risulta dalla
tabella, il numero esatto era 721.500 che Voltaire arrotonda per semplicità.
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pericolosi143.
Da un resoconto finanziario dell’impero del 1725 mi risulta che, contando
i tributi dei Tatari, tutte le imposte e i dazi in denaro, il totale ammontava a
tredici milioni di rubli, il che rappresenta sessantacinque milioni in moneta
francese, senza contare i tributi in natura. Questa modesta somma era
allora sufficiente per mantenere 339.500 uomini, sia per terra che per mare.
In seguito sia le entrate che le truppe sono aumentate144.
In Russia le usanze, la foggia del vestire e i costumi, si erano sempre
avvicinati più a quelli dell’Asia che a quelli dell’Europa cristiana, così l’antica
usanza di riscuotere dal popolo tributi in derrate, quella di sposare gli
ambasciatori durante il viaggio e il soggiorno e quella di non presentarsi né
in chiesa né davanti al trono con una spada, abitudine orientale
diametralmente opposta alla nostra barbara e ridicola usanza di andare a
parlare a Dio, ai re, agli amici e alle donne con una lunga arma offensiva
che pende giù lungo le gambe. Nei giorni di cerimonia l’abito lungo
sembrava più nobile dell’abito corto delle nazioni occidentali dell’Europa.
Una tunica foderata di pelliccia, accompagnata nei giorni solenni da una
lunga zimarra arricchita di pietre preziose, e quella specie di alti turbanti,
che aumentano la statura, erano più imponenti delle parrucche e del
giustacuore e più adatti al clima rigido; ma questo abbigliamento comune
anticamente a tutti i popoli sembra meno adatto alla guerra e meno comodo
per il lavoro. Quasi tutte le altre usanze erano rozze, ma non bisogna
immaginare che i costumi fossero così barbari come li descrivono tanti
scrittori. Albrecht Krantz145 parla di un ambasciatore italiano al quale uno
zar fece inchiodare il cappello sulla testa perché costui non si scopriva nel
rivolgergli la parola. Altri attribuivano l’episodio a un tataro, e per finire si è
raccontata la stessa cosa di un ambasciatore francese.
Secondo Olearius, lo zar Michele Fëdorovič relegò in Siberia un marchese
di Exideuil ambasciatore del re di Francia Enrico IV, ma è accertato che quel
monarca non inviò mai un ambasciatore a Mosca146. Allo stesso modo i
viaggiatori parlano del Paese di Borandia che non esiste, hanno trafficato
con gli abitanti della Nuova Zembla che a malapena è abitata147, hanno
143 Nel 1764 Caterina II firmò il decreto di confisca delle proprietà fondiarie di chiese e
monasteri, che diede allo Stato un notevole gettito di terre, ma causò la chiusura di molti
monasteri e l’ovvio malcontento del clero.
144 Nelle edizioni ottocentesche si annota spesso che nel 1829 il reddito era di 400 milioni e i
soldati erano più di un milione.
145 Albrecht Krantz (1448-1517) fu uno storico tedesco e teologo protestante che scrisse
opere, pubblicate postume, ritenute eccezionalmente imparziali e precise: Wandalia del
1518, Saxonia (1520), Chronica regnorum aquilonarium, Daniæ Sueciæ Norvagiæ (1546),
Metropolis (1548).
146 Cfr. Prefazione. (Nota dell’Autore) – Nella prima edizione, Voltaire aveva inserito nel testo:
«E non c’è mai stato in Francia un marchese di Exideuil». La frase fu tolta perché Voltaire
scoperse che il titolo apparteneva dal 1587 alla famiglia Talleyrand e il marchese
d’Exideuil era Charles de Talleyrand (cfr. paragrafo VIII della Prefazione).
147 La Borandia era un territorio settentrionale di proprietà danese; la Nuova Zemlja (in
Voltaire: Nuova Zembla) è un arcipelago situato oltre il Circolo Polare Artico, tra il mare di
Barents e il mare di Kara.
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avuto lunghe conversazioni con alcuni Samoiedi, come se avessero potuto
capirli. Se le enormi compilazioni di viaggi fossero sfrondate di tutto ciò che
non è vero né utile, sia le opere che il pubblico ne guadagnerebbero.
Un punto di rassomiglianza tra il governo russo e quello turco è dato dalla
milizia degli strel’cy148, che, come quella dei giannizzeri, giunse talvolta a
disporre del trono e spesso turbò lo Stato più di quanto non lo appoggiasse.
Questi strel’cy erano in numero di 40.000. Quelli dislocati in provincia
vivevano di brigantaggio, quelli di Mosca vivevano come borghesi dediti ai
traffici, non prestavano alcun servizio e ostentavano un’estrema insolenza.
Per ristabilire l’ordine in Russia bisognava piegarli: nulla era necessario, né
più pericoloso.
Nel secolo XVII, il reddito dello Stato era inferiore a cinque milioni di rubli
(pari a circa venticinque milioni francesi). Quando Pietro giunse al trono,
questa cifra era sufficiente per mantenersi nell’antica mediocrità, ma non
era neppure un terzo di quanto sarebbe occorso per migliorare e imporsi
alla considerazione dell’Europa. Tuttavia molte imposte erano pagate in
natura secondo l’usanza turca, usanza molto meno gravosa per il popolo che
quella di pagare i tributi in denaro.
TITOLO DI ZAR
Quanto al titolo di zar, è probabile che derivi dagli tzar o tchar del regno
di Kazan’. Nel secolo XVI il sovrano di Russia Giovanni, ovvero Ivan
Vasil’evič, dopo aver conquistato quel regno che era stato sottomesso da un
suo antenato ma successivamente perduto, ne assunse il titolo, che rimase
poi ai suoi successori. Prima di Ivan Vasil’evič i sovrani russi portavano il
titolo di veliki knez149 (gran principe, gran signore, gran capo) che i popoli
cristiani traducono con quello di granduca. Lo zar Michele Fëdorovič assunse
per l’ambasciata dello Holstein i titoli di gran signore e gran knez,
conservatore di tutte le Russie, principe di Vladimir, Mosca, Novgorod, ecc.,
zar di Kazan’, zar di Astrachan’, zar della Siberia. Questa denominazione di
tzar era dunque il titolo dei principi orientali; quindi era più verosimile che
derivasse dagli scià di Persia anziché dai cesari di Roma 150, di cui
probabilmente gli zar siberiani non avevano mai sentito parlare sulle rive
dell’Ob.
Qualunque titolo non conta nulla se chi lo porta non è grande di per sé. Il
nome di imperatore, che significava semplicemente generale dell’esercito,
divenne il nome dei capi di Roma repubblicana: oggi è conferito ai sovrani di
Russia più giustamente che a qualunque altro potentato, se si considera
l’estensione e la potenza dei loro domini.
148 Sull’originale strélitz, tradotto talvolta in italiano con strelizi. Gli strel’cy erano unità
militari, dotate di armi da fuoco, fondate da Ivan il Terribile verso il 1550 come guardia
del corpo e abolite da Pietro il Grande nel 1698, in quanto spesso ribelli.
149 In russo, velikij significa “grande” e knez, o knjaz, principe o signore.
150 Šuvalov fece notare a Voltaire che era più corretto scrivere, al posto di cesari di Roma,
imperatori di Costantinopoli, ma l’opinione non fu accettata.
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RELIGIONE
Sin dal secolo XI la religione di Stato fu sempre quella che, in
contrapposizione a quella latina, viene chiamata greca151; i pagani e i
maomettani erano più numerosi dei cristiani. La Siberia, fino alla Cina, era
dedita all’idolatria e in più di una provincia si ignorava qualsiasi forma di
religione. L’ingegner Perry e il barone di Strahlenberg, che hanno
soggiornato così a lungo in Russia, dicono di aver trovato più buona fede e
onestà tra i pagani che altrove. Non che fosse il paganesimo a renderli più
virtuosi, tuttavia, conducendo vita pastorale lontano dalla società degli altri
uomini, vivendo come ai tempi che si chiamano la prima età del mondo, non
andando soggetti a grandi passioni, erano necessariamente migliori.
In Russia, come in tutti gli altri Paesi del Nord, il cristianesimo si diffuse
solo molto tardi. Si vuole che ve l’abbia introdotto, sul finire del secolo X,
una principessa chiamata Ol’ga152. Allo stesso modo Clotilde, nipote di un
principe ariano, lo fece introdurre tra i Franchi; la moglie d’un certo Micislao,
duca di Polonia, presso i Polacchi e la sorella dell’imperatore Enrico II presso
gli Ungheresi. È destino delle donne di essere sensibili agli argomenti dei
ministri della religione e di convincere gli altri uomini.
Si narra inoltre che questa principessa Ol’ga si fece battezzare a
Costantinopoli: le fu imposto il nome di Elena e, non appena fu cristiana,
l’imperatore Giovanni Zimisce non mancò d’innamorarsene. A quanto pare
era vedova. Ella non volle saperne dell’imperatore. Nei primi tempi
l’esempio della principessa Olha o Ol’ga non fece molti proseliti: il figlio di lei
che regnò a lungo153, non la pensava affatto come sua madre. Invece suo
nipote Vladimir154, che era figlio di una concubina e aveva assassinato il
proprio fratello per salire al trono, aspirava all’alleanza dell’imperatore di
Costantinopoli Basilio e l’ottenne a una sola condizione: che si sarebbe fatto
battezzare. È a questo punto, nel 987155, che la religione greca cominciò a
mettere realmente radici in Russia. Un patriarca di Costantinopoli che si
chiamava Chrysoberges156 mandò un vescovo a battezzare Vladimir, per
aggiungere al suo patriarcato quella parte del mondo157.
151 La data ufficiale della cristianizzazione della Rus’ è il 988, quindi nel X secolo come
Voltaire dice in seguito.
152 Sull’originale Olha. Ol’ga (in russo) o Helga (in norreno) era una principessa varjaga,
moglie di Igor’ di Kiev e, quindi, nuora di Rurik, il conquistatore di Novgorod. La vita e la
conversione di Ol’ga (879-969) sono narrate nella Cronaca di Nestore (cfr. nota 67). È
venerata santa sia dai cattolici che dagli ortodossi.
153 Si chiamava Sowastoslaw. (Nota dell’Autore) – Il nome era Svjatoslav, figlio di Igor’ e di
Ol’ga, che regnò dal 963 al 972.
154 Voltaire usa Volodimer, cioè Volodimir che è Vladimir in ucraino. Anche la vita e la
conversione di Vladimir sono narrate nella Cronaca di Nestore (cfr. nota 67).
155 Nel 988.
156 Nicola II Chrysoberges (in italiano: Crisoberge), patriarca di Costantinopoli dal 984 al
996.
157 Da un manoscritto privato titolato Du Gouvernement ecclésiastique de Russie (Il governo
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Vladimir portò dunque a compimento l’opera cominciata dalla nonna. Il
primo metropolita o patriarca di Russia fu un greco. Fu allora che i Russi
introdussero nella loro lingua un alfabeto ricavato in parte da quello greco;
sarebbe stato un progresso se la base della loro lingua, che è quella slava,
non fosse rimasta immutata, ad eccezione di alcuni termini concernenti la
liturgia e la gerarchia158. Finalmente uno di questi patriarchi greci, di nome
Geremia, che aveva un processo col divan159 ed era venuto a Mosca a
domandare aiuto, rinunciò alle sue pretese sulla Chiesa russa e nel 1588
consacrò patriarca l’arcivescovo di Novgorod, chiamato Giobbe160.
Da quel momento la Chiesa russa fu indipendente come l’impero.
Effettivamente era pericoloso, ridicolo e vergognoso che la Chiesa russa
dipendesse da quella greca, schiava dei Turchi. Da quel momento in poi il
patriarca fu consacrato dai vescovi russi e non dal patriarca di
Costantinopoli. Nella Chiesa greca egli era, per grado gerarchico, dopo
quello di Gerusalemme, ma fu in realtà il solo patriarca libero e potente, di
conseguenza il solo effettivo. Quelli di Gerusalemme, di Costantinopoli, di
Antiochia e di Alessandria, non sono che i capi mercenari e avviliti di una
Chiesa schiava dei Turchi. Persino quelli di Antiochia e di Gerusalemme non
sono più guardati come patriarchi e non godono maggior credito di quello
che godono in Turchia i rabbini delle sinagoghe.
Pietro il Grande discendeva direttamente da un uomo che fu patriarca di
tutte le Russie. Ben presto questi primitivi prelati vollero condividere
l’autorità degli zar. Non bastava che una volta l’anno lo zar sfilasse a capo
scoperto davanti al patriarca, conducendo il cavallo per la briglia 161. Simili
ecclesiastico della Russia). (Nota dell’Autore)
158 Nella prima edizione, in luogo di quest’ultima frase, c’era: «Il patriarca Photius [Fozio],
tanto celebre per la sua immensa cultura, per le sue dispute con la Chiesa romana e per
le sue disgrazie, per aggiungere al suo patriarcato questa parte del mondo». Da una fonte
russa Voltaire apprese che Fozio era contemporaneo di Ol’ga di Kiev, poi si accorse – e lo
riferì a Šuvalov nella lettera dell’11 giugno 1761 – che non Fozio ma Polieucte battezzò
Ol’ga e corresse l’errore nell’edizione del 1768. Fozio, patriarca di Costantinopoli nei
periodi 858-867 e 877-886, aveva mandato un vescovo tra i Russi nell’867, sicuro di
convertirli come già era accaduto con i Bulgari (863), e ne informò i vescovi d’Oriente con
una lettera enciclica, ma il suo tentativo fallì. Fu però a quel tempo (e non sotto Vladimir)
che i santi Cirillo e Metodio elaborarono l’alfabeto glagolitico (o antico slavo ecclesiastico,
o cirillico).
159 Nel libro è sempre inteso come governo ottomano.
160 Giobbe, o in russo Iob, diventò metropolita di Mosca nel 1586 e fu eletto patriarca di
Mosca e di tutte le Russie nel 1589, rimanendo in carica fino al 1605 quando fu rimosso.
Nel racconto, Voltaire commette due errori: metropolita e patriarca non sono sinonimi (il
metropolita corrisponde all’arcivescovo, il patriarca al papa) e Geremia non andò a Mosca
per chiedere aiuto. Geremia II Tranos (1530?-1595) fu eletto patriarca di Costantinopoli
nel 1572 e venne deposto dai Turchi nel 1579 perché avevano stabilito una durata
all’ufficio, ma Geremia fu continuamente rieletto fino alla morte. Il viaggio a Mosca nel
1589 non fu per chiedere aiuto allo zar Boris Godunov, ma per aiutarlo a creare il
patriarcato di Mosca cui Geremia era favorevole. In Russia il patriarcato fu abolito da
Pietro il Grande e restaurato nel 1917 (ma restò vacante dal 1925 al 1943).
161 Il bisnonno paterno di Pietro era il patriarca russo Filarete Romanov (padre del primo zar
Romanov, Michele I), ma i supervisori russi contestarono – inutilmente – a Voltaire questa
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manifestazioni esteriori di rispetto servono solo a inasprire la sete di potere.
Questa smania di potenza provocò come sempre gravi disordini.
Il patriarca Nikon che i monaci tengono in conto di santo e che era in
carica al tempo di Alessio, padre di Pietro il Grande, volle elevare la cattedra
al disopra del trono: non soltanto egli usurpava il diritto di sedere in senato
al fianco dello zar, ma affermava che non si potesse dichiarar guerra né
concludere la pace senza la sua approvazione. L’autorità di cui godeva,
sostenuta dalle ricchezze e dall’intrigo, dal clero e dal popolo, teneva il
sovrano in una specie di subordinazione. Egli ebbe l’ardire di scomunicare
alcuni senatori che si erano opposti ai suoi eccessi, e finalmente Alessio, che
non si sentiva abbastanza forte da deporlo con la sua sola autorità, convocò
un sinodo di vescovi. Accusato di aver accettato denaro dai Polacchi, fu
deposto e relegato in un chiostro per il resto dei suoi giorni; i prelati
elessero un altro patriarca162.
Sin dagli inizi del cristianesimo ci furono in Russia alcune sette, come ce
ne sono anche negli altri Stati; spesso infatti le sette sono un prodotto
dell’ignoranza come della presunta sapienza. Ma la Russia è l’unico grande
Stato cristiano in cui la religione non abbia mai provocato guerre civili,
sebbene abbia prodotto alcuni disordini.
La più antica è la setta dei Raskol’niki, che oggi conta circa duemila
aderenti di sesso maschile, e che è menzionata nel censimento. Si diffuse
sin dal secolo XII, a opera di alcuni zelanti che avevano una vaga
conoscenza del Nuovo Testamento; costoro avevano e hanno ancor oggi la
pretesa di tutti i settari, quella cioè di seguirlo alla lettera, accusando tutti
gli altri cristiani di tiepidezza, non ammettendo che un prete il quale abbia
bevuto dell’acquavite possa conferire il battesimo, affermando con Gesù
Cristo che tra i fedeli non vi sono né primi né ultimi e soprattutto che un
fedele può uccidersi per amore del Salvatore. Secondo loro è un peccato
gravissimo dire tre volte alleluia, bisogna dirlo soltanto due e impartire la
benedizione sempre e solo con tre dita. Per il resto, nessuna comunità è più
austera e regolata nei costumi: vivono come i quaccheri, ma a differenza di
questi ultimi non ammettono gli altri cristiani alle loro riunioni. Proprio per
questo gli altri li hanno accusati di tutte le atrocità di cui i pagani
frase perché era sì vera ma faceva pensare che Pietro fosse diventato zar grazie a quella
parentela. La citata cerimonia fu scritta da Voltaire anche negli Aneddoti sullo zar Pietro il
Grande (cfr. nota 51): era la cosiddetta “processione dell’asino” (in russo, Choždenie na
osljati) che si svolse a Mosca, nella Domenica delle Palme, per rievocare l’entrata di Gesù
in Gerusalemme, dal 1558 al 1693, quando fu abolita da Pietro il Grande. In quel giorno,
lo zar faceva, in segno di umiltà e rispetto verso la Chiesa ortodossa, da palafreniere al
patriarca, tenendo per le briglie l’asino (più spesso un cavallo) su cui questi cavalcava.
162 Il patriarca Nikon (cfr. nota 139) non si accontentò di riformare i testi e gli apparati della
Chiesa russa, causando il formarsi della setta dei Raskol’niki, di cui Voltaire accenna in
seguito solo il lato esteriore del dissenso, ma si circondò di tale potere da far credere che
volesse creare un patriarcato nazionale, in cui il potere politico e quello religioso si
sarebbero fusi, oscurando di fatto quello zarista. Alessio interruppe le relazioni con Nikon
e questi rinunciò spontaneamente al titolo di patriarca (1658). Solo nel 1667 si riuscì a
nominare il nuovo patriarca: Iosaf II.
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accusavano i primi galilei, che questi a loro volta attribuivano agli gnostici e
che i cattolici attribuivano ai protestanti. Furono spesso accusati di sgozzare
un bambino, di berne il sangue e di congiungersi, nelle loro cerimonie
segrete, senza distinzione di parentela, di età e neppure di sesso. Talvolta
sono stati perseguitati: allora si sono barricati nelle loro borgate appiccando
il fuoco alle case e gettandosi poi nelle fiamme. Pietro ha preso con loro
l’unico atteggiamento che potesse ricondurli al dovere, quello di lasciarli
vivere in pace.
Del resto, in un impero tanto grande ci sono solo ventiquattro sedi
episcopali, e al tempo di Pietro non se ne contavano che ventidue: questo
numero così ridotto è probabilmente uno dei fattori che conservarono la
pace nella Chiesa russa. Questa Chiesa era d’altronde così arretrata che fu
Fëdor, fratello di Pietro il Grande, a introdurvi il canto piano163.
Fëdor, e soprattutto Pietro, ammisero indifferentemente nell’esercito e nel
consiglio fedeli di rito greco, latino, luterano e calvinista, lasciando a
ciascuno la libertà di servire Dio secondo la propria coscienza purché lo
Stato fosse servito a dovere. In questo impero di duemila leghe di
lunghezza, non c’era una sola chiesa latina. Soltanto dopo che Pietro ebbe
installato ad Astrachan’ delle nuove manifatture, ci furono circa sessanta
famiglie cattoliche dirette dai cappuccini, ma quando i gesuiti vollero
introdursi nel suo Stato, egli li cacciò con un editto dell’aprile 1718.
Tollerava i cappuccini, che considerava monaci innocui, ma vedeva nei
gesuiti dei pericolosi politicanti. Questi gesuiti si erano stabiliti in Russia nel
1685: furono espulsi quattro anni dopo; tornarono ancora e furono di nuovo
cacciati164.
La Chiesa greca mena vanto perché vede estendersi il suo dominio su un
impero di duemila leghe, mentre quella romana in Europa non ricopre
nemmeno la metà di questo territorio. In ogni tempo i fedeli di rito greco
hanno tenuto soprattutto a riaffermare la propria parità con quelli di rito
latino e hanno sempre diffidato dello zelo della Chiesa di Roma che a loro
sembrava ambizione, perché in effetti la Chiesa romana, rigorosamente
confinata nel nostro emisfero, si proclama universale165 e ha voluto
adeguarsi a questo grande titolo.
In Russia non ci sono mai stati quartieri ebrei come ce ne sono in tante
città d’Europa, da Costantinopoli a Roma. Del loro commercio i Russi si sono
sempre occupati personalmente o tramite le popolazioni residenti nel loro
territorio. Di tutte le Chiese greche, la loro è l’unica che non veda le
sinagoghe sorgere a fianco dei suoi templi.
163 Simile all’antico canto greco-bizantino, senza musica strumentale.
164 In Russia furono presenti anche i domenicani. I monaci cattolici erano malvisti perché
dediti all’evangelizzazione, insistente e capillare (pratica pressoché sconosciuta agli
ortodossi che non contemplano i missionari). I gesuiti furono poi accettati da Caterina II
ma solo per l’istruzione ai giovani.
165 Come si sa, cattolico viene dal greco katholikos, che significa “universale”.
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SEGUITO DELLA DESCRIZIONE DELLE CONDIZIONI DELLA RUSSIA
PRIMA DI PIETRO IL GRANDE
La Russia, che deve unicamente a Pietro il Grande la sua grande influenza
negli affari europei, non ne aveva affatto da quando aveva abbracciato il
cristianesimo. Prima la si vedeva svolgere sul mar Nero la funzione svolta
dai Normanni sulle nostre coste oceaniche: armare, ai tempi di Eraclio166,
40.000 piccole imbarcazioni, presentarsi all’assedio di Costantinopoli e
imporre un tributo ai cesari greci. Ma il gran knez Vladimir, assorbito dalla
preoccupazione di introdurre il cristianesimo nel Paese e sfinito dalle lotte
intestine di palazzo, indebolì ulteriormente il regno dividendolo tra i suoi
figli. Quasi tutti caddero preda dei Tatari che asservirono la Russia per
duecento anni. Ivan Vasil’evič167 la liberò e l’ingrandì; ma dopo di lui le
guerre civili la portarono alla rovina.
Prima di Pietro il Grande, la Russia era ben lontana dall’essere altrettanto
potente, ricca di terre coltivate, sudditi ed entrate che ai giorni nostri. Non
aveva possedimenti in Finlandia, né in Livonia, e la Livonia vale da sola
assai più di quanto non abbia valso per molto tempo tutta la Siberia. I
Cosacchi non erano ancora sottomessi, la popolazione di Astrachan’
obbediva di malavoglia, il poco commercio che si faceva non era
vantaggioso. Il mar Bianco, il Baltico, il Ponto Eusino 168, il mar d’Azov e il
mar Caspio erano perfettamente inutili a una nazione che non aveva
nemmeno una nave e nella cui lingua mancava persino la parola che
significa flotta. Se si fosse trattato solo di essere superiori ai Tatari e ai
popoli del Nord fino alla Cina, la Russia godeva già di questo privilegio, ma
quello che occorreva era mettersi al passo con le nazioni civilizzate e porsi
in condizione di superarne un giorno più d’una. Una simile impresa pareva
inattuabile, dato che non si disponeva di una sola nave sui mari, che sulla
terraferma la disciplina militare era assolutamente sconosciuta, che le
manifatture più semplici erano a malapena incoraggiate e l’agricoltura
stessa, che è la base di tutto, era trascurata. Essa esige dal governo cure e
incoraggiamenti; questo ha fatto sì che gli Inglesi trovassero nel grano un
tesoro più prezioso delle loro lane.
Lo scarso sviluppo delle arti necessarie dimostra che non si aveva la più
lontana idea delle belle arti, le quali diventano a loro volta necessarie
quando si ha tutto il resto. Sarebbe stato possibile mandare qualche
abitante del Paese a imparare all’estero, ma la differenza di lingua, di
costumi e di religione costituiva un ostacolo, e persino una legge dello Stato
e della religione, tanto venerabile quanto perniciosa, vietava ai Russi di
recarsi all’estero, e sembrava condannarli a una perpetua ignoranza. Essi
possedevano lo Stato più vasto del mondo, ma tutto era ancora da fare.
Finalmente nacque Pietro e la Russia fu fatta.
Fortunatamente, fra tutti i grandi legislatori del mondo, Pietro è il solo di
166 Eraclio I di Bisanzio, imperatore bizantino dal 610 al 641.
167 Ivan III detto il Grande (cfr. nota 99).
168 Antico nome del mar Nero.
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cui si conosca bene la storia. A quella dei vari Romolo e Teseo, che fecero
molto meno di lui, a quella dei fondatori di tutti gli altri Stati dotati di leggi,
si intrecciano favole assurde. Noi abbiamo qui il vantaggio di scrivere delle
verità che passerebbero per favole se non esistessero le prove.
Capitolo III
ANTENATI DI PIETRO IL GRANDE
La famiglia di Pietro sedeva sul trono dall’anno 1613169. Precedentemente
la Russia aveva dovuto subire delle rivoluzioni che avevano ritardato
ulteriormente le riforme e le arti. Questa è la sorte di tutte le società
umane. Nessun regno ebbe a sopportare mai disordini più crudeli. Nel 1597
il tiranno Boris Godunov fece assassinare l’erede legittimo Dmitrij, che noi
chiamiamo Demetrio, e usurpò l’impero170. Un giovane monaco prese il
nome di Demetrio, si fece passare per il principe scampato agli assassini e
valendosi dell’appoggio dei Polacchi e del potente partito che si forma
sempre contro i tiranni, cacciò l’usurpatore, e usurpò a sua volta la corona.
Appena salito al potere, suscitò il malcontento e la sua impostura fu
smascherata: egli finì assassinato. Altri tre falsi Demetrio sorsero uno dopo
l’altro. Questa serie d’imposture presupponeva un Paese completamente in
preda all’anarchia. Meno l’uomo è civilizzato, più è facile trarlo in inganno.
Si può giudicare a che punto queste frodi aggravavano la confusione e il
disagio generale. I Polacchi, che avevano dato il segnale della rivolta
mettendo sul trono il primo falso Demetrio, furono sul punto di prendere il
potere in Russia. Gli Svedesi se ne divisero le spoglie dalla parte della
Finlandia e accamparono anch’essi delle pretese al trono; lo Stato era
minacciato di totale rovina.
Nel colmo di queste sventure, un’assemblea composta dei principali
bojardi chiamò al trono nel 1613 un giovanetto di quindici anni171: non
sembra davvero il sistema migliore per metter fine ai disordini. Questo
giovanetto era Michele Romanov172, nonno dello zar Pietro, figlio
dell’arcivescovo di Rostov, soprannominato Filarete, e di una religiosa; egli
discendeva in linea femminile dagli antichi zar.
Bisogna sapere che quest’arcivescovo era un potente signore che il
169 I Romanov salirono al trono con Michele I (1596-1645).
170 Che Boris Godunov (cfr. nota 95) abbia fatto assassinare Dmitrij Ivanovič (o Dmitrij di
Uglič; 1582-1591; canonizzato nel 1606) non è certo, ma le circostanze della sua morte
non sono state mai chiarite. Godunov ambiva certamente al trono, di cui esercitava già i
poteri essendo lo zar Fëdor mentalmente disabile. Dmitrij era figlio della quinta moglie di
Ivan IV e quindi non sarebbe stato riconosciuto dalla Chiesa russa (che ammetteva solo
tre mogli) come successore al trono nel caso il fratello maggiore fosse morto senza figli.
Fëdor morì, senza eredi, sette anni dopo (1598).
171 Michele I aveva quasi diciassette anni.
172 Sull’originale Romano, con nota di Voltaire: «I Russi scrivono Romanow. In francese non
esiste il W. Si può anche pronunciare Romanof.»
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tiranno Boris aveva costretto a farsi prete. Anche sua moglie Sheremeto173
fu costretta a prendere il velo, in ossequio a un’antica usanza dei tiranni
occidentali cristiani e latini; i cristiani greci usavano invece cavare gli occhi.
Il tiranno Demetrio concesse a Filarete l’arcivescovado di Rostov e lo inviò
come ambasciatore in Polonia174. L’ambasciatore fu trattenuto in prigionia
dai Polacchi che a quel tempo erano in guerra con i Russi; a tal punto il
diritto delle genti era ignorato da tutti i popoli. Fu durante la sua detenzione
che il giovane Romanov, figlio dell’arcivescovo, fu eletto zar. Suo padre fu
barattato con dei prigionieri polacchi e il giovane zar creò suo padre
patriarca; questo vecchio fu, sotto il nome del figlio, il sovrano effettivo.
Se un simile governo può sembrare strano agli stranieri, il matrimonio
dello zar Michele Romanov lo sembrerà ancor di più.
Ormai dal 1490, nessun sovrano russo aveva più scelto la sua sposa in
uno Stato straniero. Si direbbe che da quando sono venuti in possesso di
Kazan’ e di Astrachan’, essi abbiano adottato quasi in tutto le usanze
asiatiche, e principalmente quella di sposare soltanto le proprie suddite.
Ecco un particolare che richiama ancor più da vicino le antiche usanze
asiatiche: per dare una sposa allo zar si facevano venire a corte dalle varie
province le fanciulle più belle; la gran maestra di corte le ospitava presso di
sé. Lo zar le vedeva o sotto falso nome o senza alcun travestimento. Il
giorno delle nozze era fissato senza che fosse ancora stata resa nota la
scelta; il giorno stabilito, veniva presentato un abito da sposa a quella su
cui era caduta la scelta segreta; alle altre pretendenti si distribuivano altri
abiti ed esse se ne tornavano a casa. Ci sono quattro esempi di simili
matrimoni.
Fu in questo modo che Michele Romanov sposò Evdokija, figlia di un
povero gentiluomo chiamato Strešnev175. Questi coltivava personalmente il
proprio campo assieme ai servi quando alcuni ciambellani, incaricati dallo
zar di recargli del doni, gli annunciarono che sua figlia sedeva sul trono.
Ancora oggi in Russia il nome di questa principessa è ricordato con affetto.
Tutto ciò differisce molto dalle nostre usanze, ma non per questo è meno
rispettabile.
Occorre precisare che prima dell’elezione di Romanov una potente fazione
aveva eletto il principe Ladislao, figlio di Sigismondo re di Polonia176, e le
173 La moglie di Filarete si chiamava Ksenja Ivanovna Šestova, ma in passato si credeva che
il suo cognome fosse Šastunova.
174 Il primo falso Demetrio lo nominò arcivescovo nel 1605; il secondo falso Demetrio lo
mandò ambasciatore in Polonia.
175 Nel 1624 Michele sposò in prime nozze Marija Vladimirovna Dolgorukova e dopo la morte
di questa (1625) sposò nel 1627 Evdokija Luk’janovna Strešnëva (1608-1645) che gli
dette dieci figli, di cui solo quattro superarono la maggiore età. Il padre di Evdokija,
Luk’jan Stefanovič Strešnev (morto nel 1650) era un aristocratico di Meščovsk, città
lituana fino al 1503, i cui abitanti erano “autorizzati” a servirsi del loro patrimonio e per
ciò detti “poveri”.
176 Ladislao IV (1595-1648), figlio di Sigismondo III Vasa e di Anna d’Austria, re di Polonia
dal 1632. Quando aveva quindici anni, il padre lo fece eleggere zar di Russia (1610) dai
bojardi nel tentativo di conquistare la Russia e convertirla al cattolicesimo. Ladislao
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province contigue alla Svezia avevano offerto la corona a un fratello di
Gustavo Adolfo. Così la Russia era venuta a trovarsi nella stessa situazione
in cui si è vista così spesso la Polonia, Paese in cui il diritto di eleggere il
monarca è stato il pretesto di varie guerre civili. Ma i Russi non fecero come
i Polacchi, i quali stipulano un contratto con il re che hanno eletto. Sebbene
avessero già sperimentato la tirannide, si sottomisero a un giovane senza
nulla esigere da lui.
La Russia non era mai stata una monarchia elettiva, ma essendo venuta a
mancare la discendenza maschile degli antichi sovrani ed essendo
miseramente periti sei tra zar e pretendenti nei recenti disordini, si dovette
ricorrere, come si è visto, all’elezione di un monarca: questa elezione
provocò nuove guerre con la Polonia e la Svezia che si batterono per i propri
pretesi diritti al trono di Russia. Questi diritti di governare una nazione suo
malgrado non reggono mai molto tempo. I Polacchi da parte loro, dopo
essersi spinti fino a Mosca e dopo alcuni di quei saccheggi cui si riducevano
a quel tempo le spedizioni militari, conclusero una tregua di quattordici
anni. Grazie a questa tregua restò alla Polonia il possesso del ducato di
Smolensk, in cui nasce il Boristene. Anche gli Svedesi conclusero la pace;
mantennero il possesso dell’Ingria togliendo alla Russia ogni sbocco sul mar
Baltico, in modo che quell’impero restò più che mai privo di comunicazione
con il resto dell’Europa.
Dopo questa pace, Michele Romanov regnò indisturbato, e non introdusse
nel suo regno alcun cambiamento che perfezionasse o peggiorasse
l’amministrazione. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1645, suo figlio Alessio
Michajlovič, ossia figlio di Michele, che aveva sedici anni, regnò per diritto
ereditario. Si può notare che lo zar era consacrato dal patriarca secondo
alcuni riti di Costantinopoli, ma con la differenza che il patriarca di Russia
sedeva sullo stesso palco dello zar e affettava sempre una parità che
suonava offesa al potere supremo.
ALESSIO MICHAJLOVIČ, FIGLIO DI MICHELE
Alessio si sposò come suo padre e scelse, tra le fanciulle che gli furono
presentate, quella che gli parve più amabile. Nel 1647 sposò una delle due
figlie del bojardo Miloslavskij e successivamente, nel 1671, una Nariškin. Il
suo favorito Morozov sposò l’altra177. A questo Morozov non si potrebbe dare
titolo più appropriato che quello di visir; infatti nell’impero era un despota, e
la sua potenza fomentò varie rivolte tra gli strel’cy e il popolo, come accade
sovente a Costantinopoli.
rimase sul trono russo in balia dei bojardi finché questi non elessero Michele Romanov,
ma mantenne il titolo di Granduca di Moscovia fino al 1634.
177 Alessio I (1629-1676), figlio di Michele I, sposò in prime nozze Marija Il’inična
Miloslavskaja (1625-1669), che gli dette tredici figli, e in seconde nozze Natal’ja Kirillovna
Naryškina (1651-1694), da cui ebbe tre figli il cui maggiore era Pietro il Grande. Boris
Ivanovič Morozov (1590-1661) era stato il tutore di Alessio e ne divenne il più stretto
collaboratore, oltreché cognato quando sposò Anna, sorella di Natal’ja.
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Il regno di Alessio fu turbato da sanguinose rivolte, da guerre sia
intestine che esterne. Un capo dei Cosacchi del Tanais, chiamato Sten’ka
Rasin, volle farsi re d’Astrachan’. A lungo egli seminò il terrore finché, vinto
e catturato, subì l’estremo supplizio come tutti i suoi simili, per i quali non
c’è altro che il trono o la forca178. Si dice che circa 12.000 dei suoi seguaci
furono impiccati lungo la grande strada di Astrachan’. Questa parte del
mondo era quella in cui gli uomini meno che altrove raffrenati dalle leggi,
potevano esserlo unicamente dai supplizi, e questi atroci supplizi facevano
nascere la servitù e la segreta passione della vendetta.
Alessio mosse guerra alla Polonia; la guerra fu fortunata, e si concluse
con una pace che gli assicurò il possesso di Smolensk, di Kiev e
dell’Ucraina; ma fu sfortunato con gli Svedesi e dalla parte della Svezia i
confini dell’impero erano sempre molto sacrificati.
A quei tempi i Turchi erano più temibili: erano piombati sulla Polonia e
minacciavano le province dello zar prossime alla Tartaria di Crimea, l’antico
Chersoneso taurico. Nel 1761 si impadronirono dell’importante centro di
Kaminieck179 e di tutti i territori dell’Ucraina dipendenti dalla Polonia. I
Cosacchi dell’Ucraina, che non si erano mai piegati sotto un padrone, non
sapevano allora se appartenevano alla Turchia, alla Polonia o alla Russia. Il
sultano Maometto IV180, vincitore dei Polacchi cui aveva recentemente
imposto un tributo, chiese, con tutto l’orgoglio di un ottomano e di un
vincitore, che lo zar facesse evacuare tutti i suoi possedimenti in Ucraina e
ricevette un rifiuto dato con pari fierezza. A quell’epoca si era incapaci di
nascondere l’orgoglio sotto l’ossequio esteriore delle convenienze. Il sultano,
nella sua lettera, trattava il sovrano di tutte le Russie alla stregua di un
semplice ospodaro cristiano, e si attribuiva il titolo di gloriosissima maestà,
re di tutto l’universo. Lo zar rispose «che non era da par suo sottomettersi a
un cane di maomettano e che la sua scimitarra valeva la spada del Gran
signore».
Alessio formulò allora un piano che sembrava preannunciare l’influenza
che la Russia era destinata un giorno ad avere nell’Europa cristiana. Inviò
ambasciatori al papa e a quasi tutti i grandi sovrani europei, tranne la
Francia, alleata dei Turchi, per tentare di formare una lega contro la Porta
ottomana. A Roma i suoi ambasciatori non riuscirono ad altro che a non
baciare i piedi al papa e anche altrove riscossero solo inutili consensi perché
le discordie tra i principi cristiani e le contese che ne nacquero li mettevano
nell’impossibilità di unirsi contro il nemico della cristianità.
178 Sten’ka Razin (1630-1671) era un cosacco del Volga che nel 1661, per conto dei Cosacchi
del Don (o Tanais), andò in missione tra i Calmucchi. Nel 1668-1669 combatté la Persia,
poi si stabilì ad Astrachan’, continuando a sostenere l’uguaglianza di tutti e l’abolizione dei
privilegi. Nel 1670-1671, con un esercito popolare, conquistò alcune città lungo il Volga,
finché, tradito, fu consegnato alle autorità zariste e squartato pubblicamente.
179 Kam’janec’-Podil’s’kyj.
180 Maometto IV (o Mehmed IV; 1642-1693), giunto sul trono nel 1648, lasciò di fatto il
potere al visir Mohamed Köprülü e al figlio di questi Ahmed. Nel 1687 fu deposto
dall’esercito che pose sul trono suo fratello Solimano II.
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Gli Ottomani frattanto minacciavano di sottomettere la Polonia che
ricusava di pagare il tributo. Lo zar Alessio l’aiutò dalla parte della Crimea, e
il generale della corona Giovanni Sobieski181 lavò l’onta del suo Paese nel
sangue dei Turchi182 con la celebre battaglia di Chotin che gli aprì la strada
verso il trono. Alessio gli contese quel trono e propose di unire il suo vasto
Stato alla Polonia, come gli Jagelloni vi avevano annesso la Lituania;
tuttavia più la sua offerta era alta, meno venne accettata. Si dice che fosse
degnissimo del nuovo regno per il modo in cui governava il suo. Fu lui il
primo a far redigere un codice di leggi, sebbene imperfetto; introdusse
manifatture di tela e di seta che per la verità non durarono, ma a lui andò il
merito di averle create. Popolò le regioni deserte verso il Volga e la Kama
con famiglie lituane, polacche e tatare catturate nel corso delle sue guerre.
Prima di lui tutti i prigionieri diventavano schiavi di quelli cui toccavano in
sorte: Alessio ne fece degli agricoltori; egli ristabilì per quanto poté la
disciplina nel suo esercito, in breve era degno di essere il padre di Pietro il
Grande. Tuttavia non ebbe il tempo di portare a compimento nessuna delle
cose che aveva intrapreso: una morte prematura lo rapì all’età di
quarantasei anni, all’inizio del 1677183 secondo il nostro calendario che è in
anticipo di undici giorni rispetto a quello russo.
FËDOR ALEKSEVIČ
Dopo Alessio, tutto ripiombò nel caos. Egli lasciava dal primo matrimonio
due principi e sei principesse. Fëdor, il maggiore, salì al trono all’età di
quindici anni184; era un principe di costituzione debole e cagionevole ma
dotato di meriti che nulla avevano a vedere con la debolezza del corpo. Suo
padre Alessio lo aveva fatto riconoscere suo successore un anno prima. Allo
stesso modo fecero i re di Francia da Ugo Capeto a Luigi il Giovane e tanti
altri sovrani.
Il secondo figlio di Alessio era Ivan o Giovanni, ancor più maltrattato dalla
natura di quanto non fosse suo fratello Fëdor, quasi privo della vista e della
favella, come lui di salute malferma e spesso vittima di convulsioni. Delle sei
figlie nate da questo primo matrimonio, la sola celebre in Europa fu la
principessa Sof’ja185, che spiccava per le doti del suo spirito ma che
disgraziatamente è ancor più famosa per il male che tentò di fare a Pietro il
Grande.
Dalle seconde nozze con un’altra delle sue suddite, figlia del bojardo
Nariškin, Alessio ebbe Pietro e la principessa Natal’ja. Pietro, nato il 30
181 Giovanni Sobieski (o Jan Sobieski; 1624-1696), di nobile famiglia polacca, fu eletto re di
Polonia nel 1674, dopo la battaglia di Chotin che avvenne l’11 novembre 1673.
182 Nel 1674. (Nota dell’Autore)
183 Morì l’anno prima: il 29 gennaio (8 febbraio) 1676.
184 Nel 1677. (Nota dell’Autore) – Fëdor III (cfr. nota 96). Qui e nel seguito Voltaire parla di
figli viventi: Alessio ebbe cinque maschi e otto femmine con la prima moglie e un maschio
e due femmine con la seconda (cfr. nota 177).
185 Sof’ja Alekseevna (1657-1704) diventò reggente della Russia dal 1682 al 1689.
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maggio 1762 e secondo il nuovo computo il 10 giugno186, aveva appena
quattro anni e mezzo quando perse il padre. I figli di secondo letto non
erano ben visti e nessuno si aspettava che egli dovesse un giorno salire al
trono.
La tradizione della famiglia Romanov fu sempre quella di civilizzare lo
Stato: tale era anche il carattere di Fëdor. Abbiamo già fatto notare, a
proposito di Mosca, che egli incoraggiò i cittadini a costruire parecchie case
di pietra. Egli ingrandì la capitale: a lui si devono alcuni regolamenti di
ordine generale. Ma volendo riformare i bojardi, egli se li inimicò tutti. Del
resto non era né abbastanza attivo né abbastanza perseverante da osare
concepire un cambiamento generale. La guerra con i Turchi, o meglio contro
i Tatari di Crimea, che continuava sempre con alterna fortuna, non
consentiva a un principe di salute delicata di tentare quell’impresa
grandiosa. Fëdor, come i suoi predecessori sposò una delle sue suddite,
originaria delle frontiere della Polonia, e avendola perduta dopo un anno,
prese per seconda moglie nel 1682 Marfa Mateovna, figlia del segretario
Apraksin187. Dopo qualche mese si ammalò della malattia che doveva
condurlo alla tomba, e non lasciò figli. Come gli zar prendevano moglie
senza badare all’estrazione, così (almeno allora) potevano scegliersi un
successore senza tenere conto della primogenitura. Sembrava che il rango
di sposa del sovrano e quello di suo erede dovessero essere esclusivamente
premio del merito; in ciò l’usanza di quest’impero era infinitamente
superiore all’usanza degli Stati più civili.
Fëdor188 prima di spirare, vedendo che il fratello Ivan, troppo maltrattato
dalla natura, non era in grado di regnare, nominò erede di Russia il secondo
fratello Pietro, il quale non aveva che dieci anni ma già faceva nascere
grandi speranze.
Se l’usanza di innalzare semplici suddite al rango di zarina era favorevole
alle donne, ce n’era un’altra molto dura: raramente a quel tempo le figlie
degli zar si sposavano e la maggior parte passava i giorni in un monastero.
La principessa Sof’ja, terza figlia di primo letto dello zar Alessio,
principessa di spirito tanto superiore quanto pericoloso, vedendo che al
fratello Fëdor non restava molto tempo da vivere, non scelse il convento, e
trovandosi tra gli altri due fratelli impossibilitati a governare, uno per la sua
incapacità, l’altro per la giovane età, concepì il progetto di mettersi a capo
dell’impero: negli ultimi tempi della vita dello zar Fëdor volle rinnovare la
parte sostenuta in altri tempi da Pulcheria presso l’imperatore Teodosio, suo
186 Pietro nacque il 30 maggio secondo il calendario giuliano, o il 9 giugno secondo il
gregoriano.
187 Sull’originale Apraxin. Fëdor sposò in prime nozze, nel 1680, Agafija Semënovna
Grušeckaja che morì di parto pochi giorni dopo la morte del bambino (1681), e nello
stesso anno sposò Marfa Matveevna Apraksina, figlia di Fëdor Matveevič Apraksin (16611728) che in seguito aiutò Pietro il Grande a costruire la Marina militare e fu nominato
grande ammiraglio.
188 Aprile 1682. (Nota dell’Autore)
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fratello189.
Capitolo IV
IVAN E PIETRO. TERRIBILE SEDIZIONE DELLA MILIZIA DEGLI STREL’CY
Fëdor era appena spirato190 che la chiamata al trono di un principe di dieci
anni, l’esclusione del primogenito e gli intrighi della principessa Sof’ja
scatenarono nel corpo degli strel’cy una delle rivolte più sanguinose. Né i
giannizzeri né i pretoriani furono mai così spietati. Dapprima, due giorni
dopo le esequie dello zar Fëdor, corrono in armi al Cremlino che, come è
noto, è il palazzo degli zar a Mosca. Cominciano col lamentarsi di nove dei
loro colonnelli che non erano stati abbastanza precisi nel pagarli. Il ministro
è costretto a esonerare i colonnelli e a dare agli strel’cy il denaro che
chiedono. Ma i soldati non sono soddisfatti; esigono che siano consegnati
loro i nove ufficiali e li condannano a maggioranza al supplizio che è
chiamato delle verghe; questo supplizio viene inflitto come segue. Il
condannato è spogliato completamente, viene fatto sdraiare bocconi e due
carnefici lo colpiscono sulla schiena con delle verghe fino a che il giudice
non dica: «Basta». I colonnelli così trattati dai soldati furono costretti per
giunta a ringraziarli, secondo l’usanza orientale dei criminali, i quali, dopo
esser stati puniti, baciano la mano ai giudici; essi aggiunsero ai loro
ringraziamenti una somma in denaro, cosa che non si usava fare.
Mentre gli strel’cy cominciavano a farsi temere in questo modo, la
principessa Sof’ja, che li aizzava segretamente per condurli di delitto in
delitto, convocò in sua presenza un’assemblea cui partecipavano le
principesse di sangue, i generali d’armata, i bojardi, il patriarca, i vescovi e
persino i principali mercanti. Ella sostenne che quell’impero di cui
segretamente sperava di tenere le redini spettava al principe Ivan per diritto
di primogenitura e per i suoi meriti. Al termine dell’assemblea fa promettere
agli strel’cy un aumento di paga e dei doni. I suoi emissari cercano
soprattutto di aizzare la soldatesca contro la famiglia dei Nariškin e in
particolare contro i due Nariškin fratelli della giovane vedova dello zar e
madre di Pietro I. Qualcuno dà a intendere agli strel’cy che uno dei fratelli,
di nome Ivan, ha indossato la veste dello zar, si è posto sul trono e ha
tentato di strangolare il principe Ivan; aggiunge che un malcapitato medico
olandese chiamato Daniel Vangad ha avvelenato lo zar Fëdor. Infine Sof’ja
fa consegnare nelle loro mani una lista di quaranta nobili che vengono
definiti nemici loro e dello Stato e che essi devono massacrare. Non si vide
mai nulla di più simile alle proscrizioni di Silla e dei triumviri di Roma.
189 Teodosio II (401-450), incoronato nel 408 imperatore d’Oriente, fu messo da parte dalla
sorella maggiore Pulcheria che, dopo esser stata reggente, assunse nel 414 il titolo di
Augusta ed esercitò il potere.
190 Tratto interamente dalle relazioni inviatemi da Mosca e Pietroburgo. (Nota dell’Autore)
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Cristiano II le aveva rinnovate in Danimarca e in Svezia191. Questo dimostra
che simili atrocità sono di tutti i Paesi in epoche di disordine e di anarchia.
Dapprima sono gettati dalla finestra gli knez Dolgorukij e Malfeu192: gli
strel’cy li ricevono sulla punta delle picche, li spogliano e li trascinano sulla
piazza grande; subito dopo entrano nel palazzo, dove trovano uno zio dello
zar Pietro, Afanasij Nariškin, fratello della giovane zarina; questi viene
massacrato allo stesso modo. Forzano poi le porte di una chiesa vicina dove
si erano rifugiati tre proscritti, li trascinano via dall’altare, li spogliano e li
finiscono a pugnalate.
Erano tanto accecati dal furore che, vedendo passare un giovane signore
della famiglia Saltikov193 che amavano e che non si trovava sulla lista dei
proscritti, alcuni di loro, scambiando quel giovane per Ivan Nariškin che
stavano cercando, lo uccidono seduta stante. Un particolare rivelatore dei
costumi del tempo è il seguente: riconosciuto il proprio errore, essi
portarono il corpo del giovane Saltikov al padre perché gli desse sepoltura, e
quel padre sventurato, lungi dall’azzardare proteste, li ricompensò per
avergli riportato il corpo sanguinante del figlio. Sua moglie, le figlie e la
sposa del morto, in lacrime, gli rinfacciarono la sua debolezza. «Aspettiamo
il giorno della vendetta», rispose loro il vecchio.
Alcuni strel’cy udirono queste parole: infuriati rientrano nella camera,
trascinano il padre per i capelli e gli tagliano la gola sulla soglia di casa. Altri
strel’cy cercano dappertutto il medico olandese Vangad; si imbattono nel
figlio, gli chiedono dove sia suo padre; il giovane risponde tremando che
non lo sa e a questa risposta ha la gola tagliata. Trovano un altro medico
tedesco: «Sei un medico – gli dicono – e anche se non hai avvelenato il
nostro signore Fëdor, ne hai certo avvelenati altri: meriti la morte» e lo
uccidono.
Finalmente trovano l’olandese che cercavano: si era travestito da
mendicante. Egli viene trascinato davanti al palazzo: le principesse che
avevano caro quel poveretto e che riponevano fiducia in lui chiedono la sua
grazia agli strel’cy, assicurando che è un bravissimo medico e che ha curato
molto bene il loro fratello Fëdor. Gli strel’cy rispondono che non solo merita
la morte come medico, ma anche come stregone, e che hanno trovato in
casa sua un grosso rospo disseccato e una pelle di serpente. Aggiungono
poi che le principesse devono consegnare a tutti i costi il giovane Ivan
Nariškin che stanno cercando invano da due giorni, che certamente egli si
nasconde nel palazzo, che vi appiccheranno il fuoco se non verrà loro
consegnata la vittima. La sorella di Ivan Nariškin e le altre principesse,
spaventate, si recano al rifugio dove egli si nasconde. Il patriarca lo
191 Cristiano II di Danimarca (1481-1559), già re di Danimarca e Norvegia, nel 1520 fu eletto
re di Svezia e la sera stessa fece massacrare tutti gli oppositori.
192 Dolgorukij era il nome di una casata principesca cu apparteneva la madre di Sof’ja. Malfeu
[di cui Voltaire annota «O Matheoff: è il Mathieu (Matteo) nella nostra lingua»] è Artamon
Sergeevič Matveev (1625-1682) che era stato capo del governo sotto lo zar Alessio.
193 Sull’originale Soltikov. I Saltikov erano nobili russi discesi nel XV secolo da un ramo dei
Morozov.
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confessa, gli amministra il viatico e l’estrema unzione, poi brandisce
un’immagine della Vergine che passava per miracolosa, prende per mano il
giovane e s’avanza verso gli strel’cy mostrando l’immagine della Vergine. Le
principesse in lacrime attorniano il giovane Nariškin, si prosternano davanti
ai soldati, li scongiurano in nome della Vergine di accordare la vita al loro
congiunto, ma i soldati lo strappano dalle mani delle principesse e lo
trascinano ai piedi della scalea assieme a Vangad. Poi formano tra loro una
specie di tribunale e mettono alla tortura Nariškin e il medico. Uno dei loro,
che sapeva scrivere, redige un verbale: i due malcapitati sono condannati a
essere fatti a pezzi. Si tratta di un supplizio usato in Cina e in Tartaria per i
parricidi: è chiamato il supplizio dei duemila pezzi. Dopo aver fatto subire
questo trattamento a Nariškin e a Vangad, ne espongono la testa, i piedi e
le mani sulle punte di ferro di una cancellata.
Mentre danno sfogo al loro furore sotto gli occhi delle principesse, altri
soldati massacravano chiunque fosse inviso a loro o sospetto a Sof’ja.
Al termine di questa atroce esecuzione furono proclamati sovrani i due
principi Ivan e Pietro194; al loro fianco fu messa la principessa Sof’ja in
qualità di reggente. La principessa allora approvò tutti i loro delitti e li
ricompensò, confiscò i beni dei proscritti e li dette agli assassini. Permise
perfino che innalzassero un monumento, sul quale furono incisi i nomi di
quelli che erano stati massacrati, come traditori della patria; da ultimo dette
loro delle lettere patenti con le quali li ringraziava del loro zelo e della loro
fedeltà.
Capitolo V
REGNO DELLA PRINCIPESSA SOF’JA
Singolare controversia religiosa. Cospirazione
Ecco per quali vie la principessa Sof’ja195 salì di fatto sul trono di Russia
pur senza essere proclamata zarina, ed ecco i primi esempi che ebbe sotto
gli occhi Pietro I. A Sof’ja furono tributati tutti gli onori di una sovrana; la
sua effigie sulle monete, la sua firma su tutti i documenti, il primo posto nel
consiglio e soprattutto il supremo potere. Ella era dotata di grande ingegno,
componeva persino versi nella sua lingua, sapeva scrivere e parlare bene;
un aspetto piacente metteva ancor più in risalto tante doti: solo l’ambizione
le offuscava.
Ella dette moglie al fratello Ivan secondo il costume di cui si sono visti
tanti esempi. Una giovane Saltikov, della famiglia di quello stesso Saltikov
che era stato assassinato dagli strel’cy, fu scelta nel cuore della Siberia dove
suo padre era comandante di una fortezza, per essere presentata allo zar
Ivan a Mosca. La sua bellezza trionfò sugli intrighi di tutte le rivali. Ivan la
194 Giugno 1682. (Nota dell’Autore)
195 Interamente tratto delle relazioni inviatemi da Pietroburgo. (Nota dell’Autore)
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sposò nel 1684196. A ogni matrimonio di zar sembra di leggere la storia di
Assuero o di Teodosio II.
Nel pieno dei festeggiamenti per il matrimonio, gli strel’cy provocarono
una nuova sollevazione, e il pretesto, chi lo avrebbe mai detto, era la
religione, il dogma. Se fossero stati soltanto dei soldati, non si sarebbero
trasformati in controversisti; ma erano borghesi di Mosca. Dal cuore delle
Indie fino alle estreme contrade dell’Europa, chiunque abbia o si arroghi il
diritto di parlare autorevolmente al popolo può fondare una setta, cosa alla
quale si è potuto assistere in ogni tempo, soprattutto da quando l’insana
passione del dogma è diventata l’arma degli audaci e il giogo degli imbecilli.
Già si era avuta in Russia qualche sedizione, al tempo in cui si disputava
se la benedizione dovesse darsi con tre dita o con due. A Mosca un certo
Avvakum, arciprete197, si era messo a spacciare dogmi sullo Spirito Santo,
(che, stando al Vangelo, deve illuminare tutti i fedeli), sull’uguaglianza dei
primi cristiani, su queste parole del Cristo: «non vi sarà né primo né
ultimo». Parecchi cittadini e strel’cy abbracciarono le idee di Avvakum: il
partito si rafforzò, un certo Raspop198 ne divenne il capo199. I membri della
setta finirono per entrare nella cattedrale dove il patriarca e il clero stavano
officiando: cacciarono a sassate lui e i suoi e si misero devotamente al loro
posto per ricevere lo Spirito Santo. Essi chiamavano il patriarca lupo rapace
nell’ovile, titolo di cui tutte le sette si sono gratificate a vicenda con la
massima liberalità. Qualcuno corse ad avvertire dei disordini la principessa
Sof’ja e i giovani zar; si fa dire agli altri strel’cy, sostenitori della giusta
causa, che gli zar e la Chiesa erano in pericolo. Il partito degli strel’cy e dei
borghesi che tenevano per il patriarca venne alle mani con la fazione degli
avvakumisti, ma la carneficina fu sospesa appena si parlò di convocare un
concilio. Detto fatto un concilio si riunì in una sala del palazzo; la
convocazione non presentava alcuna difficoltà: si fecero venire tutti i preti
che fu possibile trovare. Il patriarca e un vescovo sostennero la disputa
contro Raspop e al secondo sillogismo cominciarono a volare delle sassate.
Il concilio finì per mozzare il capo a Raspop e ad alcuni dei suoi fedeli
seguaci che furono giustiziati unicamente dietro ordine dei tre sovrani,
Sof’ja, Ivan e Pietro.
In quei tempi di disordini ci fu un knez, Chovanskij, il quale, avendo
contribuito a porre sul trono la principessa Sof’ja200, voleva, come
196 La sposa era Praskov’ja Fëdorovna Saltykova (1664-1723) ed ebbe cinque figlie da Ivan V.
197 Avvakum Petrovič (1620?-1682), protopope, o arcidiacono, entrò in conflitto con il
patriarca Nikon in seguito alle riforme liturgiche (cfr. nota 139), dando inizio allo scisma
(raskol’) dei “Vecchi Credenti”. Da allora cominciarono contro Avvakum le persecuzioni: fu
esiliato, degradato, scomunicato e infine arso vivo. Delle sue opere, importante è
l’autobiografia (La vita del protopope Avvakum scritta da lui medesimo, 1672-75).
198 Raspop non è un nome: indica un prete scomunicato. Si voleva indicare Pustosvjat
(bigotto), soprannome dato dai detrattori a Nikita Konstantinovič Dobrynin. Dopo la
Rivolta di Mosca (1682; cfr. nota 200) fu tradito dagli strel’cy e decapitato.
199 16 luglio 1682. (Nota dell’Autore)
200 Ivan Andreevič Chovanskij era un bojardo diventato capo degli strel’cy dopo l’uccisione di
Michail Dolgorukov e di fatto ministro della guerra. Nello stesso anno (1682) capeggiò la
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ricompensa dei suoi servigi, dividere con lei il potere. Non è difficile
immaginare che Sof’ja si rivelò un’ingrata. Allora scelse la via della
devozione e dei raspopisti perseguitati e sollevò nuovamente nel nome di
Dio una parte degli strel’cy e del popolo. La sua cospirazione fu più seria
dell’infatuazione di Raspop. Un ambizioso ipocrita va sempre più lontano di
un semplice fanatico. Chovanskij aspirava nientemeno che all’impero; e per
non aver più nulla da temere decise di massacrare sia i due zar, che Sof’ja,
le principesse, tutti quelli che avevano qualche rapporto con la famiglia dello
zar. Gli zar e le principesse furono costretti a rifugiarsi nel monastero della
Trinità, a dodici leghe da Mosca. Era a un tempo convento, palazzo e
fortezza, come Montecassino, Corbie, Fulda, Kempten201 e tanti altri
appartenenti ai cristiani di rito latino. Questo monastero della Trinità
appartiene ai monaci basiliani202; è circondato da larghi fossati e da spalti in
mattoni difesi da una nutrita artiglieria. Le campagne circostanti
appartenevano ai monaci per un raggio di quattro miglia. La famiglia reale
era al sicuro più grazie alla forza che alla santità del luogo. Di lì Sof’ja avviò
negoziati con il ribelle, lo ingannò, lo attirò a metà del cammino, e gli fece
tagliare la testa: lo stesso trattamento subirono un suo figlio e trentasette
strel’cy che lo accompagnavano203.
A tale notizia il corpo degli strel’cy si appresta a marciare in armi sul
convento della Trinità, minacciando un completo sterminio: la famiglia reale
si asserraglia, i bojardi armano i propri vassalli, tutti i gentiluomini
accorrono: era l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Il patriarca placò un
poco gli strel’cy; le truppe che da ogni parte confluivano su di loro li
spaventarono; alfine passarono dal furore al timore e dal timore alla più
cieca sottomissione, cambiamento abituale alle moltitudini. Si misero una
corda al collo 3.700 dei loro, seguiti dalle donne e dai bambini, e in questo
stato marciarono alla volta del convento della Trinità che tre giorni prima
volevano ridurre in cenere. Quei disgraziati si presentarono davanti al
monastero portando due a due un ceppo e una scure e si prosternarono a
terra in attesa del supplizio: furono perdonati. Se ne tornarono a Mosca
benedicendo i loro signori e pronti, senza rendersene conto, a ripetere gli
dimostrazione dei Vecchi Credenti (detta Rivolta di Mosca o Chovanščina), costringendo il
patriarca Ioachim ad accettare un dibattito pubblico. La sua arroganza suscitò
malcontento e corse voce che volesse assassinare la famiglia dello zar; per questo fu
condannato a morte insieme a suo figlio. Storici moderni ritengono che lui fosse innocente
e che Sof’ja si fosse inventata la cospirazione per liberarsene.
201 Montecassino, abbazia laziale fondata nel VI secolo da San Benedetto. Corbie, a 15 Km da
Amiens, fondata del VII secolo. Vi fu rinchiuso Desiderio. Fulda, nell’Assia, abbazia
benedettina dell’VIII secolo. Kempten, nella Baviera sud-occidentale, monastero
benedettino fondato in epoca carolingia.
202 Monaci che si ispirano alla regola dettata da san Basilio il Grande (IV secolo). Al tempo di
Voltaire erano detti “basiliani” tutti i monaci che seguivano il rito greco o bizantino. Il
citato monastero della Trinità, il preferito dagli zar, è quello fondato da san Sergij di
Radonež nel XIV secolo a circa 70 km da Mosca, che nel tempo diventò, oltre a uno dei
più importanti centri religiosi ortodossi, una vera e propria città fortificata che resistette
più volte agli assedi dei Polacchi nel XVI-XVII secolo.
203 1652. (Nota dell’Autore)
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stessi attentati alla prima occasione.
Dopo questi sussulti lo Stato ritrovò un’apparente tranquillità; Sof’ja
continuò a detenere la suprema autorità abbandonando Ivan alla propria
incapacità e tenendo Pietro sotto tutela. Per accrescere la sua potenza la
divise col principe Vasilij Golicyn204 che nominò generalissimo,
amministratore dello Stato e guardasigilli: uomo superiore da tutti i punti di
vista a ogni altro che si trovasse allora in quella corte turbolenta. Raffinato
nelle maniere, munifico, capace di concepire solo disegni grandiosi, più
istruito di ogni altro russo, perché aveva ricevuto un’educazione migliore,
egli conosceva persino il latino, quasi totalmente ignorato in Russia; era
dotato di una mente attiva e laboriosa, di doti superiori al suo secolo, e
sarebbe stato in grado di trasformare la Russia, se ne avesse avuto il tempo
e il potere come ne aveva l’intenzione. Questo è l’elogio che di lui fa La
Neuville, a quei tempi inviato di Polonia in Russia205, e gli elogi degli stranieri
sono i meno sospetti.
Questo ministro tenne a bada il corpo degli strel’cy distribuendo i più
turbolenti in vari reggimenti di stanza in Ucraina, a Kazan’ e in Siberia.
Sotto la sua amministrazione la Polonia, da tempo rivale della Russia,
rinunciò nel 1686 a ogni pretesa sulle grandi province di Smolensk e
dell’Ucraina. È lui il primo che nel 1687 fece inviare un’ambasceria in
Francia, Paese che da vent’anni era all’apice della gloria per le conquiste e le
nuove istituzioni di Luigi XIV, per la magnificenza e soprattutto per il
progresso delle arti senza le quali non vi può essere che grandezza, ma mai
autentica gloria. La Francia non aveva ancora mai avuto rapporti con la
Russia, che era sconosciuta, e l’Accademia delle iscrizioni celebrò quella
ambasceria con una medaglia come se fosse venuta dalle Indie; ma
malgrado la medaglia, l’ambasciatore Dolgorukij206 fallì il suo scopo: anzi
ebbe a subire gravi affronti a causa della condotta dei suoi domestici.
Sarebbe stato meglio passar sopra alle loro mancanze, ma la corte di Luigi
XIV non poteva prevedere allora che un giorno la Russia e la Francia
avrebbero contato tra i propri vantaggi quello di essere unite da una salda
alleanza.
A quel tempo lo Stato era tranquillo all’interno, sempre limitato verso la
Svezia ma esteso dalla parte della Polonia, sua nuova alleata, in perpetuo
204 Sull’originale Gallitzin o Galitzin. Vasilij Vasil’evič Golicyn (1643-1714), favorito di Sof’ja,
era uomo molto colto e simpatizzante della cultura polacca. In seguito al fallimento di due
spedizioni in Crimea (1687 e 1689) e all’ascesa al trono di Pietro fu esiliato nel Nord della
Russia.
205 Foy de la Neuville è lo pseudonimo di un ignoto francese che facendosi passare per un
diplomatico polacco compì un viaggio ufficiale in Russia nel 1689 e scrisse Relation
curieuse, et nouvelle de Moscovie. Contenant, l’état présent de cet Empire. Les
expéditions des Moscovites en Crimée, en 1689. Les causes des dernières Révolutions.
Leurs Mœurs, & leur Religion. Le Récit d’un Voyage de Spatarus, par terre à la Chine,
pubblicato nel 1698. Si suppone che egli fosse certamente conosciuto alla corte russa, ma
che il libro sia stato costruito raccogliendo materiale già edito e inventando molti episodi.
206 Jakov Fëdorovič Dolgorukij (1659-1720) fu uno stretto collaboratore di Pietro I, che lo
mandò come ambasciatore anche in Francia e a Roma.
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allarme verso la Tartaria di Crimea e in contrasto con la Cina per le
frontiere.
La cosa più intollerabile per l’impero, e che dimostrava come esso non
fosse ancora riuscito a darsi un’amministrazione forte e regolare, era il fatto
che il khan dei Tatari di Crimea pretendeva un tributo annuo di 60.000 rubli,
come la Turchia aveva fatto con la Polonia.
La Tartaria di Crimea è quello stesso Chersoneso taurico celebre
nell’antichità per il commercio dei Greci e ancor più per le loro leggende,
regione fertile e sempre barbara, detta Crimea dal nome dei primi khan i
quali, prima della conquista dei figli di Gengis, avevano il titolo di krim. È
per riscattarsi e vendicare l’onta di un simile tributo che il primo ministro
Golicyn si recò personalmente in Crimea a capo di un numeroso esercito207.
Questi eserciti erano molto diversi da quelli che mantiene attualmente il
governo: non esisteva disciplina e neppure un reggimento armato in piena
regola, non c’erano uniformi, nulla di regolare; è vero che le truppe erano
indurite dalle fatiche e dai disagi, ma c’era una profusione di bagagli quale
non si vede neppure nei nostri accampamenti, nei quali pure regna il lusso.
Questo numero prodigioso di carriaggi carichi di viveri e munizioni in un
Paese devastato e disabitato fu fatale all’impresa di Crimea. Ci si ritrovò in
lande vastissime e deserte lungo il fiume Samara, e senza magazzini.
Golicyn fece in quel deserto una cosa che, credo, non era mai stata fatta
altrove: impiegò 30.000 uomini per costruire sulla Samara una città che
servisse di deposito per la campagna successiva; fu cominciata quello
stesso anno e ultimata in tre mesi, l’anno seguente. Era tutta di legno, è
vero, con due edifici di mattoni e spalti di terra, ma era munita di artiglieria
e in grado di difendersi.
È la sola cosa degna di nota fatta nel corso di quella disastrosa
spedizione. Frattanto Sof’ja regnava, Ivan di zar non aveva che il nome;
Pietro, che aveva diciassette anni, aveva già il coraggio di esserlo. L’inviato
di Polonia La Neuville, che risiedeva allora a Mosca ed è testimone oculare
degli avvenimenti, afferma quanto segue: Sof’ja e Golicyn ottennero dal
nuovo capo degli strel’cy che si impegnasse a sacrificare loro il giovane zar;
almeno pare che seicento di questi strel’cy dovessero impadronirsi della sua
persona. Le relazioni segrete affidatemi dalla corte di Russia affermano che
era stata decisa la soppressione di Pietro I: il colpo stava per essere sferrato
e la Russia sarebbe stata privata per sempre della nuova vita che ricevette
in seguito. Ancora una volta lo zar fu costretto a cercare scampo nel
monastero della Trinità, rifugio abituale della corte minacciata dalla
soldatesca. Là egli convoca i bojardi del suo partito, raccoglie delle truppe,
incarica alcuni di parlare ai capi degli strel’cy, chiama presso di sé dei
tedeschi da tempo stabilitisi a Mosca e tutti fedeli a lui che già favoriva gli
stranieri208. Sof’ja e Ivan, rimasti a Mosca, scongiurarono gli strel’cy di
207 Nel 1687 e 1688. (Nota dell’Autore)
208 Voltaire non ne accenna, ma all’epoca correva voce che fosse stato Pietro I a eccitare la
rivolta per detronizzare la sorellastra, forse perché spiegava meglio la rapidità dell’azione.
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restare loro fedeli, ma la causa di Pietro che denuncia un attentato ordito
contro la sua persona e contro sua madre prevale su quella di una
principessa e di uno zar il cui solo aspetto bastava ad allontanare i cuori.
Tutti i complici furono puniti con quella severità alla quale il Paese era a quei
tempi altrettanto avvezzo che agli attentati. Alcuni furono decapitati dopo
aver patito il supplizio del knut209 o delle verghe. Così perì il capo degli
strel’cy; alcuni sospetti ebbero tagliata la lingua. Il principe Golicyn, che
aveva un parente vicino allo zar Pietro, ebbe salva la vita, ma spogliato di
tutti i suoi beni, che erano immensi, e fu relegato sulla strada di
Archangel’sk. La Neuville, testimone di tutta la catastrofe, racconta che la
sentenza fu pronunciata in questi termini: «Ti si ordina, da parte del
clementissimo zar, di recarti a Karga, città sotto il Polo, e di restarvi per il
resto dei tuoi giorni. L’estrema bontà di Sua Maestà ti accorda tre soldi al
giorno». Non c’è alcuna città sotto il polo. Karga è situata a 62° di
latitudine, soltanto 6° e mezzo a nord di Mosca. Chi avesse pronunciato
questa sentenza sarebbe stato un pessimo geografo: si presume che La
Neuville sia stato indotto in errore da un rapporto inesatto210.
Infine la principessa Sof’ja211 fu ricondotta nel suo monastero di Mosca
dopo aver regnato per un periodo abbastanza lungo: tale cambiamento era
un supplizio sufficiente.
Da questo momento regnò Pietro. Il fratello Ivan non ebbe altra parte nel
governo che quella di vedere il proprio nome sugli atti pubblici; visse da
semplice privato e morì nel 1696.
Capitolo VI
REGNO DI PIETRO I
Inizio della grande riforma
Pietro il Grande aveva corporatura alta, agile e ben fatta, volto nobile,
occhi vivaci, una costituzione robusta, atta a tutti gli esercizi e a tutte le
fatiche; il suo giudizio era retto, cosa che è alla base di ogni vero talento; a
questa rettitudine univa un’irrequietezza che lo portava a tutto
intraprendere e a tutto fare. La sua educazione era ben lungi dall’essere
degna del suo genio: l’interesse della principessa Sof’ja era stato più che
altro quello di lasciarlo nell’ignoranza e di abbandonarlo in preda a quegli
eccessi che la giovinezza, l’ozio, i costumi e il suo rango rendevano fin
209 Specie di frusta con strisce di cuoio ruvido e arrotolato terminanti con ganci o punte
metalliche.
210 Non vi fu errore: Vasilij Golycin fu esiliato prima in Siberia (dove si trova Karga) e poi ad
Archangel’sk. Egli ebbe salva la vita grazie alle suppliche del suo parente Boris Alekseevič
Golycin (1651-1714) che per quasi vent’anni era stato tutore di Pietro I e in seguito lo
accompagnò nelle campagne militari, diventò comandante e governatore di Kazan’ e di
Astrachan’ e poi fu deposto ed esiliato perché appoggiò gli strel’cy.
211 Nel 1689. (Nota dell’Autore)
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troppo leciti. Pure si era sposato recentemente212 e aveva preso in moglie,
come tutti gli altri zar, una sua suddita, figlia del colonnello Lopuchin 213, ma
data la sua giovane età e dato che per un lungo periodo non aveva avuto
altre prerogative del trono che quella di indulgere al piacere, i seri vincoli
matrimoniali non furono sufficienti a tenerlo a freno. I piaceri della tavola
cui si abbandonava in compagnia di alcuni stranieri attirati a Mosca dal
ministro Golicyn, non lasciavano sperare che sarebbe diventato un
riformatore. Pure, nonostante i cattivi esempi e finanche dei piaceri, si
dedicava all’arte militare e al governo: già si doveva riconoscere in lui il
germe di un grand’uomo.
Ancor meno ci si aspettava che un principe, il quale se doveva
attraversare un ruscello era preso da uno spavento istintivo che arrivava
fino al sudore freddo e alle convulsioni, sarebbe diventato un giorno il
migliore uomo di mare del settentrione. Cominciò col domare la natura
gettandosi in acqua malgrado l’orrore che aveva per quest’elemento; anzi
l’avversione giunse a trasformarsi in predilezione.
L’ignoranza nella quale era cresciuto lo faceva arrossire. Da solo e quasi
senza guida imparò il tedesco e l’olandese abbastanza da esprimersi e da
scrivere in modo intelligibile in queste due lingue. I Tedeschi e gli Olandesi
erano per lui i popoli più civili, dato che gli uni esercitavano già a Mosca
alcune delle arti che voleva far sorgere nell’impero e gli altri primeggiavano
nella marina che egli considerava la più necessaria delle arti.
Tali erano le sue disposizioni, malgrado le inclinazioni della giovinezza.
Tuttavia aveva ancora da temere varie fazioni, da frenare la turbolenza degli
strel’cy, da sostenere una guerra pressoché ininterrotta contro i Tatari di
Crimea. Nel 1689 questa guerra si era conclusa con una tregua che fu di
breve durata.
In questo intervallo Pietro si rafforzò nel progetto di introdurre le arti
nella sua patria.
Già suo padre Alessio aveva avuto la stessa intenzione, ma né la fortuna
né il tempo lo avevano favorito; egli trasmise al figlio questo suo genio ma
più perfezionato, più vigoroso, più tenace nelle avversità.
Alessio aveva fatto venire dall’Olanda, con grande spesa, il costruttore
Bothler214, capitano di una nave con carpentieri e marinari, i quali
costruirono sul Volga una grande fregata e uno yacht che discesero il corso
del fiume fino ad Astrachan’: avrebbero dovuto servire, assieme ad altre
navi da costruire in un secondo tempo, a trafficare vantaggiosamente con la
Persia attraverso il mar Caspio. Fu allora che divampò la rivolta di Sten’ka
Rasin. Il ribelle fece distruggere le due navi che sarebbe stato suo interesse
conservare e massacrò il capitano; il resto dell’equipaggio scampò in Persia
212 Nel giugno 1689. (Nota dell’Autore)
213 Sull’originale Lapuchin (come da pronuncia). Evdokija Fëdorovna Lopuchina (1669-1731)
era figlia di Fëdor Abramovič Lopuchin, che da procuratore alla corte dello zar Alessio I
diventò colonnello e capo degli strel’cy e, dopo il matrimonio della figlia (1689), fu elevato
al rango di bojardo. Il matrimonio tra Evdokija e Pietro finì ufficialmente nel 1698.
214 Relazioni di Mosca e Pietroburgo. (Nota dell’Autore)
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e di lì raggiunse i territori della Compagnia olandese delle Indie. Un mastro
carpentiere, buon costruttore, si fermò in Russia e rimase a lungo in
incognito.
Un giorno Pietro passeggiando a Izmailovo, una delle ville del nonno215,
scorse, tra altre rarità, una piccola scialuppa inglese rimasta nel più
completo abbandono: egli chiese al tedesco Timmerman, suo maestro di
matematica216, perché quella piccola imbarcazione fosse costruita in modo
diverso da quelle che aveva visto sulla Moscova. Timmerman rispose che
era concepita per andare a vela e a remi. Il giovane principe voleva provarla
seduta stante, ma prima bisognava ripararla e attrezzarla di nuovo; fu
rintracciato quello stesso costruttore Brandt che si era ritirato a Mosca 217;
egli riattò la scialuppa e la fece navigare sul fiume Jauza che bagna i
sobborghi della città.
Pietro fece trasportare la sua scialuppa su un grande lago nei pressi del
monastero della Trinità; fece costruire da Brandt due fregate e tre yacht di
cui fu lui stesso il pilota. Finalmente molto tempo dopo, nel 1694, si recò ad
Archangel’sk e, avendo fatto costruire in quel porto una piccola nave dallo
stesso Brandt, salpò sul mar Glaciale che nessun sovrano aveva visto prima
di lui. Era scortato da una nave da guerra olandese comandata dal capitano
Jolson e aveva al suo seguito tutte le imbarcazioni mercantili ancorate ad
Archangel’sk. Già cominciava a impratichirsi nella manovra e, malgrado la
premura che mettevano i cortigiani nell’imitare il loro signore, era il solo ad
impararla.
Formare delle truppe di terra fedeli e disciplinate non era meno difficile
che avere una flotta. I suoi primi tentativi di marina su un lago, prima del
viaggio di Archangel’sk, furono presi per semplici passatempi di gioventù di
un uomo di genio, e anche i primi tentativi di formare delle truppe parvero
solo un gioco. Si era durante la reggenza di Sof’ja e, se a qualcuno fosse
balenato il sospetto che quel gioco era una cosa seria, avrebbe potuto
essergli fatale.
Lo zar concesse la sua fiducia a uno straniero: si tratta del celebre Le
Fort218, di antica e nobile famiglia piemontese trapiantata da quasi due
215 A nord di Mosca, ora inglobata nella città.
216 Franz Fëdorovič Timmerman (1644-1702), ingegnere navale olandese (non tedesco), fu
uno dei tutori di Pietro che in seguito gli affidò la costruzione di grandi navi, sia militari
che mercantili. Fu l’organizzatore dei due viaggi dello zar in Europa, particolarmente
dell’apprendistato di Pietro ad Amsterdam, dove Timmerman possedeva un cantiere
(tuttora esistente) dal quale, nel tempo, salparono circa 150 navi per la Russia.
217 Sull’originale Brant. L’olandese Carsten (Karšten) Brandt (?-1693), maestro falegname,
lavorò alla costruzione della prima nave militare sul Volga, chiamata Orël (Aquila), che fu
bruciata da Sten’ka Rasin. Brandt si rifugiò a Mosca dove conobbe il principe Timmerman,
che nel 1688 lo chiamò per riparare la piccola imbarcazione inglese (detta “Botik”,
diminutivo russo dell’inglese boat, barca, che misurava all’incirca 6x2 metri) trovata dallo
zar. Brandt costruì altre navi e insegnò a Pietro i rudimenti pratici sia della costruzione
delle navi che della lingua olandese.
218 Il ginevrino François Jacques Le Fort (in russo Franz Jakovlevič Lefort; 1655/56-1699)
iniziò la carriera militare in Francia, poi andò in Olanda e in Russia, dove Fëdor III
Alekseevič lo nominò capitano. Si distinse nelle guerre contro i Tatari (1676-1688) e da
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secoli a Ginevra, dove aveva ricoperto cariche principali. Il giovane Le Fort
era stato destinato al commercio, l’unica cosa che abbia reso importante
quella città, famosa in altri tempi soltanto per la controversia religiosa.
Il suo genio, che lo portava a più alte imprese, lo spinse ad abbandonare
la casa paterna all’età di soli quattordici anni: di lì passò in Olanda, servì per
qualche tempo come volontario e rimase ferito all’assedio di Grave sulla
Mosa, città abbastanza forte che il principe di Orange, futuro re
d’Inghilterra, ritolse a Luigi XIV nel 1764. Poi, cercando di farsi strada
dovunque lo guidasse la speranza, si imbarcò nel 1675 con un colonnello
tedesco di nome Forsten219 che aveva ottenuto dallo zar Alessio, padre di
Pietro, l’incarico di arruolare un certo numero di soldati nei Paesi Bassi e di
condurli al porto di Archangel’sk. Quando alfine giunsero a destinazione
dopo aver affrontato tutte le insidie del mare, lo zar Alessio non era più, il
governo era cambiato, la Russia era sconvolta e in preda al disordine; a
lungo il governatore di Archangel’sk lasciò Forsten, Le Fort e tutta la truppa
nella più completa indigenza e minacciò di relegarli nel fondo della Siberia:
ognuno cercò scampo come poté. Le Fort, privo anche del necessario, si
recò a Mosca e si presentò al residente di Danimarca, un certo de Horn, il
quale lo assunse come suo segretario. Presso di lui Le Fort imparò il russo e
dopo qualche tempo trovò il modo di essere presentato allo zar Pietro. Ivan,
il maggiore, non faceva al caso suo; Pietro mostrò di apprezzarlo e cominciò
con l’affidargli una compagnia di fanteria. Le Fort era quasi digiuno del
servizio militare, non era un sapiente, non aveva approfondito nessuna delle
arti, ma molto aveva visto e con la dote di saper vedere; aveva in comune
con lo zar il fatto di dovere tutto al proprio genio; d’altra parte sapeva
l’olandese e il tedesco, lingue che lo zar Pietro stava imparando come quelle
di due nazioni che avrebbero potuto essere utili ai suoi piani. Tutto lo
rendeva gradito a Pietro: divenne suo intimo. I piaceri furono l’occasione del
suo favore, i suoi talenti lo consolidarono: egli fu il confidente del progetto
più rischioso che uno zar potesse concepire, quello di mettersi in grado di
cacciare un giorno senza alcun rischio la barbara e turbolenta milizia degli
strel’cy. Il gran sultano o padisha Osman, per aver voluto riformare i
giannizzeri aveva pagato con la sua vita220. Pietro, malgrado la giovane età,
fu più accorto di Osman. Cominciò con il costituire, nella residenza di
campagna di Preobraženskoe, una compagnia di cinquanta servitori scelti
tra i più giovani. Alcuni figli di bojardi furono prescelti come ufficiali, ma, per
insegnare a questi bojardi una disciplina che essi ignoravano, li fece passare
attraverso tutti i gradi militari e dette lui stesso l’esempio prestando servizio
nella compagnia dapprima come tamburino, poi come soldato semplice,
quel momento fu inseparabile collaboratore di Pietro, che nel tempo lo nominò generale e
ammiraglio, seguendolo in tutte le guerre. Al suo nome è intitolato un quartiere di Mosca.
219 Sull’originale Verstin.
220 Osman II (1604-1622) diventò sultano a quattordici anni dimostrandosi subito deciso e
coraggioso, oltreché essere molto colto. Al tempo del trattato di pace con la
Confederazione Polacco-Lituana (1621) voluto dai giannizzeri, si accorse del loro
strapotere e chiuse i loro ritrovi. I giannizzeri si rivoltarono e uccisero Osman.
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quindi come sergente e come luogotenente. Nulla era più insolito né più
utile: i Russi avevano sempre fatto la guerra come noi la facevamo ai tempi
dell’ordinamento feudale, allorché dei signori senza esperienza portavano
all’assalto dei vassalli indisciplinati e armati alla meglio: metodo barbaro,
che poteva andare contro eserciti dello stesso tipo, ma era insufficiente
contro le truppe regolari.
Questa compagnia costituita personalmente da Pietro divenne ben presto
numerosa e doveva poi diventare il reggimento delle guardie
Preobraženskij. Un’altra compagnia costituita sull’esempio di quella diventò
l’altro reggimento delle guardie Semënovski.
Già si poteva contare su un reggimento di 5.000 uomini costituito dal
generale scozzese Gordon221 e composto quasi interamente di stranieri. Le
Fort, che aveva portato le armi per poco tempo ma era abile in tutto, si
addossò l’incarico di arruolare un reggimento di 12.000 uomini e vi riuscì;
sotto di lui furono posti cinque colonnelli: si trovò improvvisamente a essere
il generale di questa piccola armata costituita in realtà sia contro gli strel’cy
che contro i nemici dello Stato.
Una cosa è importante notare222, per smentire l’errore temerario di quanti
pretendono che la revoca dell’editto di Nantes e le sue conseguenze siano
costate pochi uomini alla Francia223: questo esercito chiamato reggimento
era composto per un terzo di fuorusciti francesi. Le Fort fece esercitare la
sua nuova truppa come se non avesse mai fatto altro in vita sua.
Pietro volle vedere una di quelle immagini della guerra, una di quelle
esercitazioni di cui incominciava ad affermarsi l’usanza anche in tempo di
pace. Fu costruita una fortezza; una parte delle nuove truppe aveva il
compito di difenderla e l’altra di attaccarla. La differenza fra questo e gli
altri campi fu che, invece di dare l’illusione del combattimento224, fu dato un
combattimento vero e proprio, nel corso del quale ci furono dei morti e molti
feriti. Le Fort, che comandava l’assalto, riportò una ferita considerevole,
Questi giochi cruenti avevano la funzione di agguerrire le truppe, eppure
furono necessarie lunghe cure e perfino grossi rovesci per riuscirvi. Lo zar
alternava questi ludi guerreschi alle cure che dedicava alla marina; come
aveva fatto Le Fort generale di terraferma senza che avesse mai
comandato, allo stesso modo lo fece ammiraglio senza che avesse mai
condotto una nave, ma lo riteneva degno dell’una e dell’altra cosa. È anche
221 Patrick Leopold Gordon (1635-1699), generale e ammiraglio russo di origini scozzesi.
Prestò servizio militare presso i Prussiani, poi nel 1661 si arruolò sotto lo zar Alessio I. Le
sue imprese in Inghiterra e in Crimea, l’appoggio a Pietro contro Sof’ja e il suo successo
ad Azov meritarono la fiducia incondizionata di Pietro che lo elesse suo sostituto a Mosca
durante il suo primo viaggio all’estero.
222 Manoscritto del generale Le Fort. (Nota dell’Autore)
223 L’editto di Nantes fu promulgato nel 1598 da Enrico IV di Francia per pacificare i rapporti
fra cattolici e ugonotti, garantendo a questi ultimi la libertà di culto ovunque tranne a
Parigi e nelle residenze reali e dava loro in pegno un centinaio di piazzeforti. Fu revocato
da Luigi XIV con l’editto di Fontainebleau (1685), che provocò l’espulsione di oltre
300.000 ugonotti.
224 Manoscritto del generale Le Fort. (Nota dell’Autore)
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vero che quell’ammiraglio non aveva una flotta, e che quel generale aveva
per esercito il proprio reggimento.
Si venivano via via correggendo i grandi abusi della classe militare e
l’insubordinazione dei bojardi, che portavano all’esercito i propri contadini:
era proprio il sistema dei Franchi, degli Unni, dei Goti e dei Vandali, popoli
che vinsero l’impero romano nella sua decadenza, ma sarebbero stati
sterminati se avessero dovuto affrontare le antiche legioni romane ben
disciplinate o eserciti come quelli dei nostri tempi.
Ben presto quello dell’ammiraglio Le Fort non fu più soltanto un vano
titolo: egli fece costruire dagli Olandesi e dai Veneziani delle lunghe barche
e finanche due navi con circa trenta pezzi di artiglieria, alla confluenza del
Voronež e del Tanais: queste navi potevano ridiscendere il fiume e tenere a
bada i Tatari di Crimea. Le ostilità con quei popoli si ripetevano ogni giorno.
Nel 1689, lo zar poteva scegliere se far guerra alla Turchia, alla Svezia o alla
Cina. Bisogna prima di tutto vedere quali erano i suoi rapporti con la Cina e
quale fu il primo trattato di pace fatto dai Cinesi.
Capitolo VII
CONGRESSO E TRATTATO CON I CINESI225
Innanzitutto bisogna farsi un’idea di come erano i confini tra l’impero
cinese e l’impero russo. Quando si esce dalla Siberia propriamente detta e ci
si lascia alle spalle, verso sud, innumerevoli orde di Tatari, Calmucchi
bianchi, Calmucchi neri, Mongoli maomettani, Mongoli detti idolatri, si
avanza verso il 130° di longitudine e i 52° di latitudine, lungo il fiume
Amour o Amur. A nord di questo fiume c’è una grande catena montuosa che
si estende al di là del circolo polare fino al mar Glaciale. Questo fiume che
scorre per cinquecento leghe nella Siberia e nella Tartaria cinese va a
perdersi dopo infiniti meandri nel mar di Kamčatka. Dicono che nel punto
dove sbocca in mare si peschi di tanto in tanto un pesce mostruoso che è
molto più grosso dell’ippopotamo del Nilo e ha la mascella di un avorio più
duro e più perfetto. Si vuole che quest’avorio fosse un tempo oggetto ai
commercio, che fosse trasportato attraverso la Siberia e che questa sia la
ragione per cui spesso nelle campagne se ne trovano ancora sepolti dei
pezzi. È questo quell’avorio fossile di cui abbiamo già parlato 226, ma si vuole
225 Tratto dalle relazioni inviate dalla Cina, da quelle di Pietroburgo e dalle lettere riportate
nella storia della Cina compilata da du Halde. (Nota dell’Autore) – Il gesuita Jean-Baptiste
Du Halde (o Duhalde; 1674-1743) era considerato, nel XVIII secolo, uno dei sinologi più
preparati e influenti anche se non sapeva il cinese e non era mai stato in Cina. Scrisse
Lettres édifiantes et curieuses, écrites des Missions étrangères, par quelques
missionnaires de la Compagnie de Jésus (34 voll., 1711-1743) e Description
géographique, historique, chronologique, politique et physique de l’empire de la Chine et
de la Tartarie chinoise (1736), quest’ultima scritta sotto forma di enciclopedia basandosi
su una trentina di opere già pubblicate.
226 Avorio di mammut e trichechi, cfr. capitolo I e nota 126.
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che anticamente in Siberia ci fossero gli elefanti e che i Tatari, vincitori degli
Indiani, ne avessero portati in Siberia parecchi esemplari, le cui ossa si
sarebbero conservate nella terra.
Questo fiume Amur è chiamato dai Tatari mancesi227 fiume Nero e dai
Cinesi fiume del Dragone.
È228 in queste plaghe per tanto tempo inesplorate che la Cina e la Russia
disputavano per i confini dei rispettivi imperi. La Russia possedeva alcune
fortezze verso il fiume Amur, a trecento leghe dalla Grande Muraglia. Più
volte tra i Russi e i Cinesi divamparono le ostilità a causa di queste fortezze.
Finalmente i due Stati compresero meglio i propri interessi: l’imperatore
K’hang-hsi preferì la pace e il commercio ad un’inutile guerra. Egli inviò
sette ambasciatori a Nipchou, uno di quei fortini229. Questi ambasciatori
portavano con sé circa diecimila uomini, compresa la scorta. Era il fasto
asiatico; ma la cosa importante è che negli annali dell’impero non c’erano
altri esempi di un’ambasceria presso altre potenze. Un altro fatto unico era
il seguente: dalla fondazione dell’impero i Cinesi non avevano mai concluso
un trattato di pace. Due volte sottomessi dai Tatari che li attaccarono e li
vinsero, essi non avevano mai mosso guerra a nessun popolo a eccezione di
poche orde presto soggiogate o abbandonate a se stesse senza alcun
trattato. Così questa nazione, tanto celebre per la morale, ignorava quello
che da noi si chiamava diritto delle genti, cioè qualche incerta regola della
guerra e della pace, i privilegi dei ministri, le formule dei trattati e gli
obblighi che ne conseguono, le dispute sulle questioni di precedenza o sul
punto d’onore.
In che lingua, del resto, i Cinesi avrebbero potuto negoziare con i Russi
nel mezzo dei deserti? Due gesuiti, uno portoghese chiamato Pereira, l’altro
francese chiamato Gerbillon, partiti da Pechino con gli ambasciatori cinesi,
appianarono per loro ogni nuova difficoltà e furono gli autentici mediatori.
Essi trattarono in latino con un tedesco dell’ambasceria russa che conosceva
quella lingua. A capo dell’ambasceria russa era Golovin, governatore della
Siberia230: questi ostentò una pompa ancora più grande di quella dei Cinesi
e con questo sistema dette un’alta opinione del suo impero a coloro che si
erano creduti i soli potenti della Terra. I due gesuiti fissarono il confine dei
due regni: esso fu posto sul fiume Kerbechi, vicino alla località dove si
svolgevano i negoziati. La parte meridionale restò ai Cinesi, quella
settentrionale ai Russi231. Questi ultimi non persero che una piccola fortezza
227 Coloro che parlavano il manciù, ossia della Mongolia.
228 Relazioni dei gesuiti Pereira e Gerbillon. (Nota dell’Autore) – I gesuiti Tomas Pereira,
portoghese, e Jean-François Gerbillon, francese, erano missionari in Cina e furono gli
interpreti ai negoziati tra Cina e Russia nel 1689.
229 Nipchou era il nome latino dato alla città di Nerčinsk, dove fu firmato il trattato tra Russia
e Cina nel 1689.
230 Fëdor Alekseevič Golovin (1650-1706) fu ministro degli Affari esteri e primo cancelliere
della Russia imperiale. Fu incaricato dalla reggente Sof’ja di difendere la fortezza di
Albazin, sul fiume Amur, che fu persa col trattato di Nerčinsk (1689). In seguito fu uno
stretto collaboratore di Pietro I.
231 I confini furono definiti dagli affluenti dell’Amur presso le sue sorgenti (Argun, Šilka,
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che risultò costruita al di là del confine: fu giurata una pace eterna, e dopo
qualche contestazione i Russi e i Cinesi la giurarono232 in nome dello stesso
Dio, nei seguenti termini: «Se qualcuno avrà mai il segreto pensiero di
riaccendere il fuoco della guerra, noi preghiamo il Signore sovrano di tutte
le cose, che conosce i cuori, di punire i traditori con morte improvvisa».
Questa formula, comune ai Cinesi e ai cristiani, può rivelare due cose
importanti: primo, che il governo cinese non è né ateo né idolatra come è
stato spesso accusato con accuse contraddittorie; secondo che tutti i popoli
che ossequiano la ragione riconoscono in realtà lo stesso Dio, nonostante
tutte le aberrazioni di quella stessa ragione quando è mal guidata. Il trattato
fu redatto in latino e in due esemplari233. Gli ambasciatori russi firmarono
per primi la copia che rimaneva loro; anche i Cinesi firmarono la loro per
primi, secondo l’usanza delle nazioni europee quando trattano da corona a
corona. Fu rispettata anche un’altra usanza delle nazioni asiatiche e delle
prime epoche del mondo conosciuto; il trattato fu inciso su due grossi massi
che furono collocati in modo da servire come pietre di confine ai due
imperi234. Tre anni dopo lo zar inviò il danese Ilbrand Ide235 e il commercio
così creatosi sopravvisse vantaggiosamente fino alla rottura tra Russia e
Cina del 1722; ma dopo tale interruzione è ripreso con rinnovato slancio.
Capitolo VIII
SPEDIZIONE VERSO LA PALUDE MEOTIDE. CONQUISTA DI AZOV.
LO ZAR INVIA ALCUNI GIOVANI A ISTRUIRSI ALL’ESTERO
Non fu altrettanto facile fare la pace con i Turchi, anzi pareva giunto il
momento d’innalzarsi sulle loro rovine. Venezia, già fiaccata da loro,
cominciava a risollevarsi. Quello stesso Morosini236 che aveva restituito
Candia ai Turchi, toglieva loro il Peloponneso e meritava con quella
conquista il nome di Peloponnesiaco, onorificenza che ricordava i tempi di
Roma repubblicana. L’imperatore di Germania Leopoldo riportava qualche
successo contro l’impero turco in Ungheria, e i Polacchi riuscivano se non
altro a rintuzzare le scorrerie dei Tatari di Crimea.
Pietro approfittò di queste circostanze per rendere più agguerrite le sue
truppe e per ottenere, se possibile, la sovranità sul mar Nero. Il generale
Gordon discese il corso del Tanais alla volta di Azov col suo grande
Cherlen ecc.).
232 8 settembre 1689 (nuovo calendario). Relazione dalla Cina. (Nota dell’Autore)
233 La lingua principale fu il latino, ma il trattato fu redatto in cinque lingue: latino, russo,
mancese, cinese, mongolo. Storici moderni hanno evidenziato che il trattato poteva
essere dichiarato nullo in quanto le copie non avevano testo uguale.
234 Questi totem non furono eretti.
235 Evert Ysbrandts Ides (1658-1705?), di origini danesi, fu inviato come ambasciatore in
Cina: partì in slitta da Mosca il 14 marzo 1692 e arrivò in Cina il Primo gennaio 1695. In
vita pubblicò una nuova carta dell’impero russo; postumi uscirono due libri sul viaggio.
236 Francesco Morosini (1619-1694) conquistò il Peloponneso nel 1683-1688.
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reggimento di 5.000 uomini. Il generale Le Fort con il suo di 12.000, un
corpo di strel’cy agli ordini di Šeremetev e Šein237, che era di origine
prussiana, un corpo di cosacchi, una nutrita artiglieria, tutto fu predisposto
per quella spedizione238.
All’inizio dell’estate 1695, questo grande esercito avanza agli ordini del
maresciallo Šeremetev alla volta di Azov, alla foce del Tanais e alla
estremità della Palude Meotide, l’odierno mare di Sivah239. Lo zar era
nell’esercito, ma in qualità di volontario poiché prima di comandare voleva
fare un lungo tirocinio. Durante la marcia furono prese d’assalto due torri
costruite dai Turchi sulle due sponde del fiume.
L’impresa era difficile e la postazione, abbastanza ben fortificata, era
difesa da una numerosa guarnigione. Delle imbarcazioni allungate costruite
dai Veneziani, simili ai caicchi turchi, e due piccole navi da guerra olandesi
provenienti dal Voronež non furono pronte in tempo e non riuscirono ad
entrare nel mar d’Azov. Ogni inizio presenta sempre qualche ostacolo. I
Russi non avevano ancora mai fatto un assedio regolare. Nei primi tempi il
tentativo non ebbe esito felice.
Un certo Jacob, nativo di Danzica, manovrava l’artiglieria agli ordini del
generale Šein; infatti i più importanti artiglieri, ingegneri e piloti erano tutti
stranieri. Questo Jacob fu condannato al supplizio delle verghe dal suo
generale, il prussiano Šein. A quel tempo si credeva che questo rigore
rafforzasse la disciplina. I Russi vi si assoggettavano, malgrado la loro
tendenza alle sedizioni, e dopo quelle punizioni servivano come al solito. Il
cittadino di Danzica la pensava diversamente e volle vendicarsi: inchiodò il
cannone240, si rifugiò ad Azov, abbracciò la religione musulmana e difese
validamente la piazzaforte. Quest’esempio dimostra che l’umanità adottata
oggi in Russia è preferibile all’antica crudeltà, e tiene meglio legati al dovere
uomini cui un’educazione indovinata ha inculcato il senso dell’onore. A quei
tempi con il popolino era necessario il massimo rigore, ma da quando i
costumi sono cambiati, l’imperatrice Elisabetta ha compiuto con la clemenza
l’opera cominciata dal padre con le leggi. Anzi quest’indulgenza è stata
spinta a un punto mai raggiunto nella storia di tutti gli altri popoli. Ella
promise che nessuno, durante il suo regno, sarebbe stato condannato alla
pena capitale e ha mantenuto la promessa. È la prima sovrana ad aver
rispettato così la vita degli uomini. I malfattori sono stati condannati ai
237 Per Šeremetev (che Voltaire scrive Sheremeto con nota: «Sheremetow, o Sheremetof, o
secondo un’altra ortografia Czcremetoff») cfr. nota 33. Aleksej Semënovič Šein
(sull’originale Shein; 1662-1700), nominato bojaro dalla reggente Sof’ja, partecipò come
comandante a tutte le campagne militari dal 1680 (Tobol’sk, Kursk, Crimea, Azov, ancora
Crimea) e partecipò a spegnere la rivolta degli strel’cy del 1698. Pietro lo nominò
generalissimo, ma perse ogni titolo per non aver ammesso i legami degli strel’cy con
Sof’ja.
238 Nel 1694. (Nota dell’Autore)
239 Più propriamente la Palude Meotide era il mar d’Azov, mentre il mare di Sivah, o Putrido,
era il nome dato alla sua laguna sabbiosa posta a occidente.
240 “Inchiodare il cannone” significa rendere inutilizzabile l’artiglieria danneggiandone o
asportandone un pezzo. Anticamente bastava conficcare un chiodo nel focone.
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lavori nelle miniere e nelle opere pubbliche, e la loro punizione è diventata
utile allo Stato, istituzione tanto saggia quanto umana. In tutti gli altri Paesi
i criminali si sanno soltanto uccidere con grande messinscena, senza che
questo abbia mai impedito i delitti. Forse il timore della morte fa poca
impressione ai malvagi, che in maggioranza sono fannulloni, in confronto al
timore di una punizione e di un lavoro faticoso che si rinnovano tutti i giorni.
Per tornare all’assedio di Azov, difesa ormai dallo stesso uomo che aveva
diretto gli assalti, fu tentato invano un attacco e dopo gravi perdite si fu
costretti a levare l’assedio.
La costanza in ogni cosa costituiva il centro del carattere di Pietro. Nella
primavera del 1696 condusse davanti ad Azov un’esercito ancor più
considerevole. Lo zar Ivan, suo fratello, era morto da poco. Anche se
l’autorità di Pietro non era mai stata intralciata da Ivan, che di zar aveva
soltanto il nome, tuttavia lo era stata almeno in parte dalla necessità di
salvare le apparenze. Le spese della corte di Ivan, dopo la sua morte,
confluivano nel mantenimento dell’esercito: ciò rappresentava un aiuto per
un Stato che a quel tempo non disponeva delle imponenti entrate di oggi.
Pietro scrisse all’imperatore Leopoldo, agli Stati generali e all’elettore di
Brandeburgo, perché gli fornissero ingegneri, artiglieri e marinai. Assoldò
bande di Calmucchi, la cui cavalleria è molto utile contro quella dei Tatari di
Crimea.
Il successo più lusinghiero per lo zar fu quello della sua piccola flotta,
finalmente completa e ben guidata241. Essa sconfisse i caicchi turchi mandati
da Costantinopoli e ne catturò alcuni. L’assedio fu condotto regolarmente
per trincee, ma con metodi non proprio simili ai nostri: le trincee erano tre
volte più profonde e avevano come parapetti degli spalti elevati. Finalmente
gli assediati capitolarono il 28 luglio (nuovo calendario)242 senza gli onori
militari e senza prendere con sé armi né munizioni: furono inoltre costretti a
consegnare agli assedianti il disertore Jacob.
Fortificando Azov, cingendola di fortezze, scavando un porto capace di
accogliere le navi più grandi, lo zar volle anzitutto rendersi padrone dello
stretto di Caffa, ossia di quel Bosforo Cimmerio che apre l’ingresso al Ponto
Eusino243, luogo celebre in passato per le apparecchiature belliche di
Mitridate. Egli lasciò davanti ad Azov244 trentadue caicchi armati e fece tutti i
preparativi per allestire, a danno dei Turchi, una flotta composta di nove
vascelli che portavano da trenta a cinquanta pezzi di artiglieria. Egli pretese
che i principali nobili e i più ricchi mercanti contribuissero agli armamenti;
inoltre, ritenendo che i beni del clero dovessero servire alla causa comune,
costrinse il patriarca, i vescovi e gli archimandriti a sostenerlo col loro
denaro in questo nuovo sforzo che faceva per l’onore della patria e per il
241 La storia dice che Pietro usò 29 galee e 13.000 chiatte (alcune trasportate via terra da
Archangel’sk) per chiudere la foce del Don e per combattere.
242 Nel 1696. (Nota dell’Autore)
243 Bosforo Cimmerio era il nome dato allo stretto di Kerč che separa il mar Nero (o Ponto
Eusino) dal mare d’Azov (Palude Meotide).
244 Relazione di Le Fort. (Nota dell’Autore)
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bene della cristianità. Fece costruire dai Cosacchi quelle imbarcazioni
leggere alle quali sono avvezzi e che possono costeggiare senza difficoltà la
Crimea. La Turchia avrebbe dovuto allarmarsi di tanti preparativi bellici, i
primi mai intrapresi sulla Palude Meotide. Il progetto era di scacciare
definitivamente i Tatari e i Turchi dalla Crimea e in seguito di stabilire un
commercio attivo, agevole e libero con la Persia attraverso la Georgia. È lo
stesso commercio che anticamente i Greci avevano svolto nella Colchide e in
quel Chersoneso taurico che lo zar sembrava destinato ad assoggettare.
Vincitore dei Turchi e dei Tatari, egli volle che il suo popolo si abituasse
alla gloria come era avvezzo alle fatiche. Fece entrare l’esercito in Mosca
sotto arcate trionfali, in mezzo ai fuochi d’artificio e a tutto quello che
poteva rendere più splendidi i festeggiamenti. Per primi venivano i soldati
che avevano combattuto i Turchi sui caicchi veneziani e che formavano una
milizia a parte. In questa cerimonia il maresciallo Šeremetev, i generali
Gordon e Šein, l’ammiraglio Le Fort e gli altri ufficiali precedevano il
sovrano, il quale affermava di non ricoprire ancora una carica importante
nell’esercito e con questo esempio voleva far capire ai nobili che per godere
i gradi militari bisogna meritarli.
Questo trionfo sembrava derivare per qualche verso da quelli dei Romani
antichi, e li ricordava soprattutto in questo: a Roma, i trionfatori
esponevano i vinti allo sguardo del popolo e talvolta li mandavano a morte;
anche i prigionieri presi in questa spedizione seguivano l’esercito, e quel tale
Jacob che aveva tradito era portato su un carro dove era stata drizzata una
forca, alla quale poi fu appeso dopo aver subito il supplizio della ruota.
In quell’occasione fu coniata in Russia la prima medaglia. È notevole la
dicitura russa: «Pietro I, imperatore di Moscovia, sempre augusto». Sul
rovescio è rappresentata Azov con queste parole: «Vincitore per le fiamme e
le acque».
Ciò che affliggeva Pietro, pure nel trionfo, era il fatto di vedere le sue navi
e le sue galere del mar d’Azov costruite unicamente da mano straniera.
Inoltre desiderava un porto sul mar Baltico quanto quello sul Ponto Eusino.
Nel marzo 1697 inviò in Italia sessanta giovani russi del reggimento di Le
Fort; la maggioranza andò a Venezia, alcuni a Livorno, per apprendere l’arte
della marina e la costruzione delle galere: altri quaranta245 ne fece partire
alla volta dell’Olanda perché s’impratichissero nella costruzione e nella
manovra delle grandi navi; altri ancora furono inviati in Germania perché
prestassero servizio nelle truppe di terra e si assuefacessero alla disciplina
tedesca. Da ultimo decise di lasciare per qualche anno la sua patria per
imparare a governarla meglio. Non poteva resistere all’ardente desiderio di
istruirsi con i suoi propri occhi e perfino con le sue stesse mani nelle arti
marinare e in tutte quelle che voleva trapiantare in patria. Si riprometteva
di viaggiare in incognito in Danimarca, nel Brandeburgo, in Olanda, a
Venezia e a Roma. Solo la Francia e la Spagna non entravano nei suoi piani,
la Spagna perché quelle arti che cercava vi erano allora neglette, la Francia
245 Manoscritti del generale Le Fort. (Nota dell’Autore)
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perché vi regnavano forse con troppo fasto, e l’alterigia di Luigi XIV che
aveva urtato tante potenze mal si addiceva alla semplicità con cui egli
intendeva fare questi viaggi. Per di più era già in rapporto con quasi tutte le
potenze presso le quali doveva recarsi ad eccezione della Francia e di Roma.
Ricordava ancora con un certo disappunto la poca considerazione mostrata
da Luigi XIV per l’ambasceria del 1687, che aveva riportato più celebrità che
successo, e per finire, inclinava già dalla parte di Augusto, elettore di
Sassonia246, al quale il principe di Conti contendeva la corona di Polonia247.
Capitolo IX
VIAGGI DI PIETRO IL GRANDE
Presa la decisione di visitare tanti Stati e tante corti da semplice privato,
si mise egli stesso al seguito di tre ambasciatori, come si era messo248 al
seguito dei generali nel suo ingresso trionfale in Mosca.
249
I tre ambasciatori erano: il generale Le Fort, il bojardo Alessio Golovin,
commissario generale della guerra e governatore della Siberia, quello stesso
che aveva firmato il trattato di pace perpetua con i plenipotenziari della Cina
sulle frontiere di quell’impero, e Voznicyn, diak o segretario di Stato che era
stato a lungo impiegato presso le corti straniere250. Quattro primi segretari,
dodici gentiluomini e due paggi per ogni ambasciatore, una compagnia di
cinquanta guardie con i rispettivi ufficiali, tutti del reggimento
Preobraženskij, componevano il grosso del seguito di quest’ambasceria: in
tutto duecento persone, e lo zar, riservando per il proprio servizio personale
solo un valletto, un domestico e un nano, si confondeva nella folla. Era una
cosa inaudita nella storia del mondo che un sovrano di venticinque anni
abbandonasse il proprio regno per meglio governarlo. La vittoria sui Tatari e
sui Turchi, il lustro dell’entrata trionfale a Mosca, le numerose truppe
straniere che lo servivano fedelmente, la morte di suo fratello Ivan, la
clausura della principessa Sof’ja e più ancora il rispetto universale di cui
godeva la sua persona dovevano garantirgli la tranquillità dello Stato
246 Augusto elettore di Sassonia (1670-1733) soprannominato il Forte, fu eletto re di Polonia
nel 1696. Partecipò a fianco della Russia e della Danimarca alla guerra nordica, fu
sconfitto da Carlo XII e deposto a favore di Stanislao Leszczyński.
247 A Francesco Luigi di Borbone-Conti (1664-1709), distintosi per le imprese militari, il re di
Francia Luigi XIV offrì, nel 1697, il trono di Polonia, vacante da un anno per la morte di
Giovanni Sobieski (cfr. nota 181), assicurandogli l’elezione. Tuttavia, quando il principe di
Conti arrivò in Polonia si era già insediato Augusto il Forte ed egli ritornò a Parigi. Nel
capitolo IX Voltaire lo chiama “Armando”, ma è un errore: Armando era il padre di
Francesco Luigi e morì di vaiolo nel 1666.
248 Nel 1697. (Nota dell’Autore)
249 Relazioni di Pietroburgo e di Le Fort. (Nota dell’Autore)
250 Sull’originale Vonitsin. Di Prokopij Bogdanovič Voznicyn si sa soltanto che partecipò alla
Grande Ambasciata del 1697-1698 (qui raccontata da Voltaire) e al trattato di pace del
1698-1699 tra Turchia e Russia.
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durante la sua assenza. Affidò la reggenza al bojardo Strešnev251 e allo knez
Romodanovskij252 i quali negli affari importanti avrebbero dovuto deliberare
insieme ad altri bojardi.
Le truppe raccolte dal generale Gordon rimasero a Mosca per garantire la
tranquillità della capitale. Gli strel’cy, che avrebbero potuto turbarla, furono
distribuiti sulle frontiere della Crimea per mantenere il possesso di Azov e
rintuzzare le incursioni dei Tatari. Avendo in tal modo provveduto a tutto 253,
si abbandonò alla sua passione per i viaggi e per l’istruzione.
Poiché questo viaggio fornì l’occasione o il pretesto alla sanguinosa
guerra che ostacolò per tanto tempo tutti i grandi progetti dello zar e finì
per assecondarli, a quella guerra che sbalzò dal trono Augusto re di Polonia,
che dette la corona a Stanislao e gliela ritolse, a quella stessa guerra che
per nove anni fece di Carlo XII di Svezia il più grande dei conquistatori e per
altri nove il più miserabile dei re, a questo punto è necessario, per meglio
addentrarci nei particolari degli avvenimenti, fare un quadro della situazione
europea del tempo.
In Turchia regnava il sultano Mustafà II254. La sua fiacca amministrazione
non tentava grandi sforzi né contro Leopoldo255, imperatore di Germania, i
cui eserciti avevano riportato dei successi in Ungheria, né contro lo zar che
da poco gli aveva tolto Azov e minacciava il Ponto Eusino, né tanto meno
contro Venezia che si era finalmente impadronita di tutto il Peloponneso.
Giovanni Sobieski, re di Polonia, che avrà gloria imperitura per la vittoria
di Chotin e per la liberazione di Vienna, era morto il 17 giugno 1696; la sua
corona era contesa tra Augusto, elettore di Sassonia, che la ottenne, e
Armando, principe di Conti, al quale toccò soltanto l’onore di essere eletto.
La Svezia aveva perso Carlo XI 256, ma lo rimpiangeva ben poco. Carlo XI
era stato il primo sovrano veramente assoluto di quel Paese e il padre di un
re che lo fu ancor di più e col quale il dispotismo si esaurì. Egli lasciava sul
trono un figlio quindicenne, Carlo XII. Apparentemente la congiuntura era
251 Sull’originale Strechnev. Tichon Nikotič Strešnev (1644-1719) statista e confidente di
Pietro I di cui fu insegnante. Nel 1709 fu nominato governatore di Mosca e due anni dopo
senatore e fu tra quelli che firmarono la condanna a morte dello zarevič Alessio.
252 Sull’originale Romadonoski. Il knez (o knjaz’, principe) Fëdor Jur’evič Romodanovskij
(1640-1717), figlio illegittimo di Alessio I, fu uno statista che lo zar chiamava “principe
cesare” o “principe sovrano” per la capacità dimostrate. Con Gordon, sostituì Pietro nelle
operazioni militari durante la Grande Ambasciata e poi nelle campagne di Azov.
253 Sembra che nello stesso periodo avesse sventato una ribellione e mandato a morte per
squartamento i cospiratori.
254 Mustafa II (1664-1703) salì al trono nel 1695 e fu deposto nel 1703 da una sollevazione
militare.
255 Leopoldo I d’Austria (1640-1705), imperatore del Sacro Romano Impero dal 1658, re
d’Ungheria dal 1655 e di Boemia dal 1656. Conclusa nel 1664 la prima guerra contro i
Turchi con una pace poco favorevole, reagì energicamente al malcontento delle nobiltà
ungheresi e croate. Respinse un nuovo attacco dei Turchi nel 1683, espandendo i domini
austriaci verso est, mentre verso ovest contrastò l’espansionismo di Luigi XIV di Francia.
256 Nell’aprile 1697. (Nota dell’Autore) – Carlo XI (1655-1697), re di Svezia dal 1660 (ma di
fatto al compimento della maggiore età), introdusse la monarchia assoluta sul modello
francese, riorganizzò l’esercito e promulgò un nuovo codice di leggi.
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propizia ai progetti dallo zar; egli poteva ingrandirsi sul golfo di Finlandia e
verso la Livonia. Non gli bastava minacciare i Turchi sul mar Nero; le basi
sulla Palude Meotide e verso il mar Caspio erano inadeguate ai suoi piani di
marina, di commercio e di potenza; la gloria stessa, cui aspirava
ardentemente ogni riformatore, non si trovava né in Persia né in Turchia,
ma nella nostra parte dell’Europa, dove si consacrano i grandi talenti in tutti
i campi. Per finire, Pietro non voleva introdurre nel suo Stato né i costumi
persiani né tanto meno quelli turchi, ma i nostri.
La Germania, che era in guerra contemporaneamente con la Turchia e
con la Francia avendo per alleata la Spagna, l’Inghilterra e l’Olanda contro il
solo Luigi XIV, era pronta a concludere la pace e i plenipotenziari erano già
riuniti nel castello di Ryswick, nei pressi dell’Aia257.
Tale era la situazione quando Pietro e la sua ambasceria, nell’aprile 1697,
si misero in viaggio alla volta della grande Novgorod. Di lì attraversarono
l’Estonia e la Livonia, province un tempo contese tra Russi, Svedesi e
Polacchi e finalmente acquistate dalla Svezia con la forza delle armi.
La fertilità della Livonia e la posizione di Riga, sua capitale, avrebbero
potuto far gola allo zar: lo colse, se non altro, la curiosità di visitare le
fortificazioni delle cittadelle. Il conte di Dahlberg, governatore di Riga258, se
ne adombrò, gli rifiutò questa soddisfazione e parve mostrare pochi riguardi
per l’ambasceria259. Questa condotta non contribuì certo a raffreddare nel
cuore dello zar le sue eventuali mire di venire un giorno in possesso di
quelle provincie.
Dalla Livonia passarono nella Prussia brandeburghese, che in parte è
stata abitata dagli antichi Vandali; la Prussia polacca era stata inclusa nella
Sarmazia europea. La Prussia brandeburghese era un Paese povero, ma il
suo elettore, che assunse in seguito il titolo di re, ostentava una
magnificenza insolita e disastrosa. Egli si piccò di ricevere l’ambasceria nella
sua città di Königsberg con sfarzo regale. Ci si scambiò da una parte e
dall’altra i doni più magnifici. Il contrasto tra l’abbigliamento francese
sfoggiato dalla corte di Berlino e le lunghe vesti asiatiche dei Russi, con i
copricapi ricamati di perle e pietre preziose e le scimitarre che pendevano
dalle cinture, produceva un curioso effetto. Lo zar era vestito alla tedesca.
Un principe originario della Georgia che era con lui, vestito alla moda
persiana, ostentava un’altra sorta di magnificenza: si tratta di quello stesso
principe che fu preso prigioniero alla giornata di Narva e morì in Svezia260.
Pietro disdegnava tutto quel fasto: ci sarebbe stato da augurarsi che
avesse disdegnato in egual misura i piaceri della tavola, nei quali la
257 Il trattato di Ryswick fu firmato nel settembre-ottobre 1697 e concluse la guerra fra la
Francia e la Lega di Augusta. Vi parteciparono i rappresentanti di Francia, Impero, Olanda,
Spagna, Inghilterra, Svezia, Ducato di Savoia, e dei principali Stati tedeschi.
258 Lo svedese Erik Jönsson conte di Dahlberg (1625-1703) era governatore di Riga dal 1696,
ma la sua fama era legata alla costruzione di fortezze, su cui scrisse vari volumi.
259 Si racconta che lo zar, temendo per la vita, salì su una barca per raggiungere la Curlandia,
a rischio di venire investito dai banchi di ghiaccio che galleggiavano sulla Dvina.
260 Alessandro di Imereti, cfr. cap. XI della Parte prima.
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Germania del tempo riponeva tutta la sua gloria261. Fu durante uno di questi
banchetti troppo in voga allora, altrettanto dannosi alla salute che ai
costumi, che egli sguainò la spada contro il suo favorito Le Fort, ma poi
mostrò per questo trasporto di collera passeggera un rimpianto pari a quello
manifestato da Alessandro per l’uccisione di Clito262. Chiese perdono a Le
Fort, dicendo che voleva riformare la sua nazione e non era ancora riuscito a
riformare se stesso. Il generale Le Fort, nel suo manoscritto, loda l’indole
profonda dello zar ancor più di quanto non deplori quell’eccesso di collera.
L’ambasceria passa per la Pomerania e per Berlino; una parte prende la
via di Magdeburgo e un’altra quella di Amburgo, città già potente grazie
all’imponente commercio ma non ancora opulenta e accogliente come
doveva diventare in seguito. Questa piega verso Minden, percorre la
Vestfalia e finalmente, passando per Clèves, giunge ad Amsterdam.
Lo zar entrò in città quindici giorni prima dell’ambasceria; dapprima prese
alloggio nel palazzo della Compagnia delle Indie, ma dopo poco si scelse un
piccolo alloggio nei cantieri dell’ammiragliato. Indossò l’abito dei piloti e in
quei panni si recò al villaggio di Zaandam263, dove si costruivano molte più
navi di quanto non si faccia oggigiorno. Questo villaggio è altrettanto
grande, popoloso e ricco di molte fiorenti città, ma è più lindo. Lo zar rimase
ammirato davanti all’ordine, alla precisione dei lavori, alla prodigiosa
celerità con cui si costruiva un vascello e lo si muniva di tutte le
attrezzature, davanti all’incredibile quantità di magazzini e di macchinari che
rendono il lavoro più facile e sicuro. Lo zar cominciò con l’acquistare una
barca alla quale fece con le sue mani un albero snodato; successivamente
lavorò a tutte le fasi della costruzione di una nave, conducendo la vita degli
artigiani di Zaandam, vestendosi e nutrendosi come loro, lavorando nelle
fucine, nelle fabbriche di cordami e nei mulini che circondano in numero
incredibile il villaggio, nei quali si segano l’abete e la quercia, si estrae l’olio,
si fabbrica la carta e si trafilano i metalli duttili. Si fece iscrivere tra i
carpentieri col nome di Pietro Michajlov. Tutti lo chiamavano mastro Pietro
(Peterbas) e gli operai, in un primo momento perplessi di aver come
compagno di lavoro un sovrano, si abituarono a trattarlo con familiarità.
Mentre maneggiava l’ascia e il compasso a Zaandam, gli fu confermata la
notizia della scissione della Polonia e della duplice elezione dell’elettore
Augusto e del principe di Conti. Subito il carpentiere di Zaandam promise
mille uomini al re Augusto. Dalla sua officina egli impartiva ordini all’esercito
di Ucraina riunito contro i Turchi.
Le sue truppe agli ordini del generale Šein e del principe Dolgorukij
261 Relazioni manoscritte di Le Fort. (Nota dell’Autore)
262 Clito detto il Nero (IV secolo a.C.) era un ufficiale macedone che salvò la vita ad
Alessandro Magno e fu da questi ucciso durante un alterco. In una lettera a Šuvalov,
Voltaire scrisse che non avrebbe taciuto questo atto barbaro, ma nella frase successiva ne
attenuò i contorni.
263 Sull’originale Sardam. Sardam (o Czardam) era il nome dato alla fortezza di Zaandam in
onore di Pietro I.
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avevano riportato, nei pressi di Azov, un successo sui Tatari264 e persino su
un corpo di giannizzeri che il sultano Mustafa aveva mandato loro
incontro265. Quanto allo zar, perseverava nell’istruirsi in varie arti e faceva la
spola tra Zaandam e Amsterdam per far pratica presso il celebre studioso di
antica anatomia Ruysch266; egli eseguiva delle operazioni chirurgiche che, in
caso di bisogno, potevano renderlo utile ai suoi ufficiali e a se stesso.
Apprendeva la fisica naturale presso il borgomastro Witsen267, cittadino
esemplare quant’altri mai per il suo patriottismo e per l’uso che fece delle
sue immense ricchezze, che prodigava da vero cittadino del mondo,
inviando a sue spese degli uomini abili a cercare quanto vi era di più raro in
ogni parte del mondo e noleggiando navi a sue spese per scoprire nuove
terre.
Peterbas sospese i suoi lavori solo per recarsi a Utrecht e all’Aia a
incontrare in forma privata Guglielmo, re d’Inghilterra e statholder delle
Province Unite268. Solo il generale Le Fort assistette all’incontro tra i due
monarchi. In seguito Pietro presenziò alla cerimonia dell’ingresso dei suoi
ambasciatori e all’udienza: a nome suo, offrirono ai deputati delle varie
nazioni seicento martore zibelline scelte; le nazioni da parte loro, oltre al
dono consueto fatto a ognuno di una catena e di una medaglia d’oro,
donarono tre magnifiche carrozze269. Essi ricevettero per primi la visita di
tutti gli ambasciatori plenipotenziari presenti al congresso di Ryswick,
tranne quella dei Francesi, ai quali non avevano notificato il proprio arrivo
non soltanto perché lo zar si era schierato dalla parte del re Augusto contro
il principe di Conti, ma anche perché il re Guglielmo, di cui egli coltivava
l’amicizia, non voleva la pace con la Francia.
Di ritorno ad Amsterdam, Pietro riprese le primitive occupazioni e finì con
le sue mani un vascello da sessanta cannoni che aveva cominciato e che
fece partire per Archangel’sk, visto che non possedeva allora altri porti sui
mari dell’Oceano. Non solo faceva assumere al suo servizio dei fuorusciti
francesi, degli svizzeri, dei prussiani, ma inviava a Mosca artigiani di ogni
tipo e faceva partire solo quelli che aveva visti all’opera e con i propri occhi.
264 Nel luglio 1696. (Nota dell’Autore)
265 Nell’agosto 1697.
266 Frederik Ruysch (1638-1731) incontrò Pietro I nel 1697, gli dette lezioni di botanica e di
anatomia umana e, nel 1717, durante la seconda visita di Pietro, gli vendette l’intero suo
archivio di preparati anatomici per 30.000 fiorini, che, caricato su due navi, raggiunse
Pietroburgo l’anno successivo. La fama di Ruysch, oltre che ai cataloghi botanici e
anatomici, è dovuta alla sua tecnica di imbalsamazione, per la quale usava un liquido a
base di alcol iniettato nelle arterie.
267 Sull’originale Visten. Nicolaas Witsen (1641-1717) fu borgomastro di Amsterdam dal 1682
al 1706, cartografo, fisico ed esperto di ingegneria navale. Era anche amministratore della
Compagnia Olandese delle Indie Orientali e facilitò l’esperienza dello zar. Scrisse libri sulle
navi olandesi del XVII secolo e il libro sulla Russia Noord en Oost Tartarye.
268 Guglielmo III d’Orange (1650-1702) fu nominato statolder (luogotenente) d’Olanda nel
1672 e fu incoronato re d’Inghilterra, d’Irlanda e di Scozia nel 1689 assieme a Maria II
Stuart che aveva sposato nel 1677. Concesse la libertà religiosa a tutti i protestanti.
269 Lo scopo di Pietro era di ottenere sessanta vascelli e cento galere per combattere gli
Ottomani, ma gli vennero rifiutati.
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Poche sono le arti e i mestieri che non giunse a possedere fin nelle minime
sfumature: soprattutto si dilettava a correggere le carte dei geografi i quali,
a quel tempo, segnavano a casaccio la posizione dei fiumi e delle città del
suo Stato che non era molto conosciuto. Si è conservata la carta sulla quale
egli tracciò la comunicazione tra il mar Caspio e il mar Nero, che già aveva
progettato e di cui aveva affidato l’esecuzione a un ingegnere prussiano di
nome Brakel. L’unione di quei due mari presentava minori difficoltà di quella
tra l’Oceano e il Mediterraneo attuata in Francia, ma l’idea di unire il mar
d’Azov e il mar Caspio a quel tempo sgomentava l’immaginazione. Dotare il
suo Paese di nuove istituzioni gli pareva tanto più opportuno quanto più i
suoi successi giustificavano nuove speranze.
Le sue truppe riportarono una vittoria contro i Tatari nelle immediate
vicinanze di Azov270 e qualche mese dopo prendevano anche la città di Or o
Orkapi, che noi chiamiamo Perekop271. Questo successo gli valse una
maggior considerazione da parte di quanti biasimavano un sovrano che
aveva lasciato il suo Stato per esercitare vari mestieri ad Amsterdam. Essi
poterono constatare che gli affari del monarca non risentivano
negativamente dei lavori del filosofo viaggiatore e artigiano.
Ad Amsterdam egli continuò a esercitare le consuete occupazioni di
costruttore di navi, di ingegnere, di geografo e di fisico pratico fino alla
metà del gennaio del 1698, quindi partì per l’Inghilterra sempre al seguito
della sua ambasceria.
Il re Guglielmo gli mandò incontro il proprio yacht e due navi da guerra. Il
suo modo di vivere fu lo stesso che si era imposto ad Amsterdam e a
Zaandam. Egli prese alloggio nei pressi del grande cantiere di Deptford272 e
non pensò ad altro che a imparare. I costruttori olandesi gli avevano
insegnato solo il metodo e la pratica, in Inghilterra imparò a conoscere più a
fondo l’arte: in quel Paese infatti le navi si costruivano secondo proporzioni
matematiche. Egli si perfezionò in questa scienza e ben presto fu in grado di
darne lezioni. Lavorò secondo il metodo inglese a costruire una nave che
risultò uno dei migliori velieri del mare. La sua attenzione fu attratta
dall’arte dell’orologiaio, che a Londra era già molto perfezionata: giunse a
possederne alla perfezione tutta la teoria. Il capitano e ingegnere Perry, che
lo seguì da Londra in Russia, dice che non c’è un solo mestiere, dalla
fonditura dei cannoni fino alla filatura delle corde, che lo zar non abbia
attentamente osservato e al quale non abbia posto mano ogni volta che si
trovava in un cantiere.
Per coltivare la sua amicizia, parve opportuno che assumesse degli operai
come aveva fatto in Olanda; oltre agli artigiani, egli ebbe qualcosa che non
era facile trovare ad Amsterdam: dei matematici. Lo scozzese Fergusson273,
270 11 agosto 1697. (Nota dell’Autore)
271 Città della Crimea. Perekop ha, in slavo, lo stesso significato del tataro “O Qapi”, ossia
passaggio scavato, trincea.
272 Località presso Londra sulla sponda sud del Tamigi.
273 Si tratta di Henry Fargwarson (?-1739) che in Russia era chiamato Andrej Danilovič
Farvarson, ma il cognome era tradotto anche in Farhvarson, Farkeson, Ferguson,
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valente geometra, si mise al suo servizio; è lui che in Russia introdusse la
matematica negli uffici delle finanze, dove prima era adottato
esclusivamente il metodo tataro consistente nel contare con palline infilate
su un filo di ottone. Questo metodo sostituiva la scrittura, ma era
complicato e induceva facilmente in errore perché, una volta fatto il calcolo,
è impossibile controllare gli eventuali sbagli. Le cifre arabe di cui noi ci
serviamo ci sono giunte soltanto nel secolo IX grazie agli Arabi, mentre
l’impero di Russia le ha conosciute soltanto mille anni dopo: è la sorte di
tutte le arti, che hanno fatto lentamente il giro del mondo. Due giovani della
scuola di matematica accompagnarono Pietro: furono questi gli inizi della
scuola di marina che Pietro fondò in seguito. Con Fergusson egli osservava e
calcolava le eclissi. L’ingegner Perry, sebbene sia rimasto assai malcontento
per non esser stato ricompensato a sufficienza, riconosce che Pietro aveva
imparato l’astronomia e conosceva a fondo i moti dei corpi celesti e perfino
le leggi di gravitazione che li governano. Questa forza così incontestabile ma
che, prima del grande Newton, era così sconosciuta, questa forza secondo la
quale tutti i pianeti pesano gli uni sugli altri e sono mantenuti nelle
rispettive orbite, era già familiare a un sovrano di Russia mentre altrove ci
si pasceva di chimerici turbini e nella patria di Galileo degli ignoranti
imponevano ad altri ignoranti di credere la terra immobile.
Perry partì per suo conto per andar a lavorare al collegamento dei fiumi,
ai ponti, alle chiuse. Il progetto dello zar era di far comunicare l’Oceano, il
mar Caspio e il mar Nero per mezzo di canali.
Non dobbiamo dimenticare che alcuni commercianti inglesi, a capo dei
quali si pose l’ammiraglio e marchese di Carmarthen274, gli diedero 15.000
sterline in cambio del permesso di vendere il tabacco in Russia. Il patriarca,
con malintesa severità, aveva messo al bando questo genere di commercio;
la Chiesa russa infatti proibiva il tabacco come un peccato. Pietro, che era
più accorto e che, fra gli altri cambiamenti, meditava anche la riforma della
Chiesa, introdusse nei suoi Stati quel commercio.
Prima che Pietro lasciasse l’Inghilterra, il re Guglielmo gli fece offrire lo
spettacolo più degno di tanto ospite: una battaglia navale. Nessuno
immaginava allora che lo zar ne avrebbe un giorno combattute di autentiche
contro gli Svedesi e che avrebbe ottenute varie vittorie sul mar Baltico.
Infine Guglielmo gli fece omaggio della nave sulla quale soleva recarsi in
Olanda, chiamata Royal Transport, nave tanto ben costruita quanto
Fulkerson, Ferkelson e altri. Matematico, astronomo ed esperto di scienze marine, fu
professore di matematica presso l’Università di Aberdeen (Scozia) fino al 1698, quando
incontrò Pietro I. Nel gennaio 1701 contribuì all’apertura a Mosca della Scuola superiore di
Scienze matematiche e di navigazione, nella Torre Sucharev, dove insegnò navigazione,
navigazione astronomica, geodesia, matematica. Nel 1712 fu incaricato di realizzare la
strada da Mosca a San Pietroburgo e da qui a Novgorod. Nel 1716 si trasferì a San
Pietroburgo presso la nuova Accademia navale. Scrisse trattati (in latino) e curò diverse
traduzioni in russo di libri scientifici.
274 Thomas Osborne, conte di Danby, marchese di Carmarthen e duca di Leeds (1631-1712),
vice-ammiraglio della Marina inglese, ricoprì ruoli governativi in politica interna ed estera.
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magnifica. Sul finire del maggio 1698, Pietro fece ritorno in Olanda su
questa nave. Portava con sé tre capitani di vascello da guerra, 25
comandanti di navi chiamati anch’essi capitani, 40 luogotenenti, 30 piloti,
30 chirurghi, 250 cannonieri, più di 300 artigiani. Questa colonia di uomini
abili in tutti i campi fu trasferita dall’Olanda ad Archangel’sk sul Royal
Transport, e di lì fu distribuita nei luoghi dove era necessaria la sua opera.
Quelli ingaggiati ad Amsterdam presero la strada di Narva controllata dalla
Svezia.
Mentre faceva così trapiantare le arti dall’Inghilterra e dall’Olanda nel suo
Paese, gli ufficiali che aveva inviato a Roma e in Italia assumevano anche
alcuni artisti. Il generale Šeremetev, che era a capo dell’ambasceria d’Italia,
andava da Roma a Napoli, a Venezia, a Malta; quanto allo zar, proseguì per
Vienna con gli altri ambasciatori. Dopo le flotte inglesi e i cantieri olandesi,
gli restava da vedere la disciplina militare tedesca. Inoltre, la politica aveva
nel suo viaggio un’importanza pari all’istruzione. L’imperatore era l’alleato
naturale dello zar contro i Turchi. Pietro incontrò Leopoldo in incognito. I
due monarchi si intrattennero stando in piedi per evitare le complicazioni del
cerimoniale.
Durante il suo soggiorno a Vienna non accadde nulla di rilevante tranne
l’antica festa dell’oste e dell’ostessa che Leopoldo riesumò per lui e che era
caduta in disuso durante il suo regno. Tale festa che si chiama Wirtschaft275
si celebra in questo modo: l’imperatore è l’oste, l’imperatrice l’ostessa, il re
di Roma276, gli arciduchi e le arciduchesse sono di solito gli aiutanti e
ricevono nella locanda tutte le nazioni abbigliate secondo la foggia più
antica del loro Paese. Gli invitati alla festa estraggono a sorte dei biglietti:
su ognuno è scritto il nome della nazione e della condizione che si dovranno
rappresentare. All’uno capita un biglietto di mandarino cinese, all’altro di
mirza tataro, di satrapo persiano o di senatore romano. Una principessa
estrae un biglietto di giardiniera o di lattaia; un principe è contadino o
soldato. Si organizzano delle danze appropriate a tutti i caratteri. L’oste,
l’ostessa e i familiari servono a tavola. Tale è l’antico regolamento 277, ma in
quell’occasione il re di Roma Giuseppe e la contessa di Traun
rappresentavano gli antichi Egizi, mentre l’arciduca Carlo e la contessa di
Wallenstein i Fiamminghi dei tempi di Carlo V. L’arciduchessa Maria
Elisabetta e il conte di Traun erano vestiti da Tatari, l’arciduchessa Marianna
e il principe Massimiliano di Hannover rappresentavano i contadini
dell’Olanda settentrionale. Pietro si vestì da contadino di Frisia: non gli fu
rivolta la parola che in questa qualità e tutti gli parlavano del grande zar di
Russia. Sono particolari irrilevanti, ma ciò che si riferisce agli antichi
costumi può, sotto certi aspetti, meritare che se ne parli.
Pietro si accingeva a partire da Vienna per andare a completare la sua
istruzione a Venezia allorché gli giunse notizia di una rivolta che gettava lo
275 Sull’originale wurtchafft.
276 Il titolo di Re di Roma spettava all’erede presuntivo al trono.
277 Manoscritti di Pietroburgo e di Le Fort. (Nota dell’Autore)
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scompiglio nel suo Paese.
Capitolo X
CONGIURA PUNITA. SOPPRESSIONE DEGLI STREL’CY. MUTAMENTI NEI COSTUMI
DELLO STATO E DELLA CHIESA
Partendo, lo zar aveva provveduto a tutto, perfino ai mezzi per reprimere
una ribellione. Causa di questa rivolta furono quelle stesse cose utili e
grandi che egli stava facendo per il suo Paese.
Dei vecchi bojardi, ai quali erano care le antiche usanze, e dei preti, ai
quali quelle nuove sembravano sacrileghe, dettero il segnale della rivolta.
L’antico partito della principessa Sof’ja rialzò il capo. Si dice che una delle
sue sorelle, rinchiusa con lei nel monastero, contribuì non poco a riscaldare
gli animi: da tutte le parti si prospettavano i grandi pericoli insiti nel fatto
che degli stranieri venissero a civilizzare la nazione278. Infine, chi lo
crederebbe, il permesso di vendere tabacco nel regno, accordato dallo zar a
onta del clero, fu uno dei grandi argomenti dei sediziosi. La superstizione,
che è dappertutto un flagello così funesto e così caro ai popoli, si trasmise
dal popolo russo agli strel’cy disseminati sulle frontiere della Lituania; essi si
raccolsero e marciarono su Mosca con l’intenzione di mettere sul trono
Sof’ja e di precludere il ritorno a uno zar che aveva violato le usanze osando
istruirsi in terra straniera. Le truppe al comando di Šein e Gordon, più
disciplinate, li sconfissero a quindici leghe da Mosca, ma questa superiorità
di un generale straniero sull’antica milizia nella quale militavano numerosi
borghesi moscoviti irritò ancor di più la nazione.
Per soffocare i disordini, lo zar parte in segreto da Vienna, passa per la
Polonia e si incontra in incognito con il re Augusto col quale già stava
prendendo accordi per ingrandirsi dalla parte del Baltico. Finalmente giunge
a Mosca279 e la sua presenza coglie tutti di sorpresa; egli ricompensa le
truppe che hanno vinto gli strel’cy: le prigioni rigurgitavano di quei
disgraziati. Se grande era stato il delitto, altrettanto grande fu la punizione.
I capi, parecchi ufficiali e alcuni preti, furono condannati a morte280, alcuni
subirono il supplizio della ruota, due donne furono sepolte vive. Duemila
strel’cy281 furono impiccati attorno alle mura della città, altri perirono tra i
supplizi; i corpi restarono per due giorni esposti sulle strade maestre e
soprattutto attorno al monastero dove risiedevano le principesse Sof’ja e
Evdokija. Furono erette delle colonne su cui furono incisi il delitto e la
punizione. Molti, che avevano moglie e figli a Mosca, furono sparpagliati con
le famiglie in Siberia, nel regno di Astrachan’, nel paese di Azov: in questo
278 Manoscritti di Le Fort. (Nota dell’Autore)
279 Settembre 1698. (Nota dell’Autore)
280 Relazioni del capitano e ingegnere Perry, che fu in Russia al servizio di Pietro il Grande.
Manoscritti di Le Fort. (Nota dell’Autore)
281 Manoscritti di Le Fort. (Nota dell’Autore)
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modo la loro punizione fu almeno di qualche utilità allo Stato; essi servirono
a dissodare e popolare delle terre che mancavano di abitanti e di colture.
Se lo zar non avesse sentito la necessità di dare un esempio terribile,
avrebbe forse adibito alle opere pubbliche una parte degli strel’cy che invece
fece giustiziare e che, in questo modo, furono perduti per lui e per lo Stato:
infatti la vita umana doveva essere considerata preziosa, soprattutto in un
Paese la cui popolazione richiedeva tutte le cure di un legislatore. Tuttavia
egli ritenne opportuno sbalordire e sottomettere una volta per tutte lo
spirito della nazione con il numero e la messinscena dei supplizi. L’intero
corpo degli strel’cy, che nessuno dei predecessori avrebbe osato neppure
ridurre, fu abolito per sempre e ne fu cancellato il nome. Questo grande
cambiamento si compì senza incontrare la minima resistenza perché era
stato preparato. In quello stesso secolo, come abbiamo già ricordato,
Osman, sultano dei Turchi, fu deposto ed ebbe tagliata la gola solo per aver
lasciato sospettare ai giannizzeri che voleva ridurne il numero282. Pietro,
avendo meglio preso le sue misure, fu più fortunato. Di tutta quella grande
milizia degli strel’cy non rimasero che pochi e deboli reggimenti ormai
inoffensivi i quali, malgrado tutto, conservando ancora l’antico carattere, si
ribellarono ad Astrachan’ nel 1705 e furono in breve domati.
Quanto grande era stata la severità dimostrata da Pietro in quest’affare di
Stato, altrettanto grande fu l’umanità che mostrò quando, qualche tempo
dopo, perse il suo favorito Le Fort che morì prematuramente all’età di
quarantasei anni283: volle che fosse onorato con esequie quali si sogliono
tributare ai grandi sovrani. Lo zar in persona assistette ai funerali con una
picca in mano, sfilando dopo i capitani secondo il grado di luogotenente che
aveva ricoperto nel grande reggimento del generale, insegnando così ai
nobili il rispetto del merito e della carica militare.
Dopo la morte di Le Fort, ci si rese conto che i cambiamenti progettati
nello Stato non provenivano da lui, ma dallo zar. Le conversazioni avute con
Le Fort lo avevano confermato nei suoi piani, ma li aveva concepiti tutti da
sé e li attuò senza di lui.
Dopo aver soppresso gli strel’cy, costituì dei reggimenti regolari sul
modello di quelli tedeschi: ebbero divise corte e uniformi, invece delle
scomode giubbe di cui erano vestiti prima, e gli esercizi furono più regolari.
Le guardie Preobraženskij esistevano già: il nome derivava da quella
primitiva compagnia di cinquanta uomini che lo zar, ancora giovane, aveva
organizzato nel ritiro di Preobraženskoe al tempo in cui sua sorella Sof’ja
teneva le redini dello Stato; anche l’altro reggimento di guardie era già
costituito.
Come lui stesso era passato per gli infimi gradi militari, così volle che i
figli dei suoi bojardi e dei suoi knez, prima di fare gli ufficiali, cominciassero
con l’essere soldati. Altri ne mise sulla flotta a Voronež e ad Azov, e
dovettero fare il tirocinio di marinai. Nessuno osava rispondere con un
282 Cfr. nota 220.
283 12 marzo 1699 del calendario gregoriano. (Nota dell’Autore)
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rifiuto a un sovrano che aveva dato l’esempio. Inglesi e Olandesi lavoravano
alla messa a punto della flotta, alla costruzione di chiuse, all’apertura di
nuovi cantieri dove fosse possibile carenare le navi in secco, e a riprendere
la grandiosa opera della congiunzione del Volga col Tanais abbandonata dal
prussiano Brakel. Quel momento segnò l’inizio della riforma del consiglio di
Stato, delle finanze, della Chiesa e della società stessa.
Le finanze erano amministrate all’incirca come in Turchia. Ogni bojardo
pagava per le sue terre una somma convenuta che riscuoteva dai servi della
gleba; lo zar assunse come esattori dei borghesi e dei borgomastri, i quali
non erano abbastanza potenti da arrogarsi il diritto di versare al tesoro
pubblico solo quanto piacesse a loro. Questa nuova amministrazione delle
finanze fu quella che costò più fatica; si dovettero provare diversi sistemi
prima di trovare quello definitivo.
La riforma della Chiesa, universalmente ritenuta difficile e pericolosa, non
fu tale per lo zar. Qualche volta i patriarchi avevano combattuto l’autorità
del trono come gli strel’cy: Nikon con audacia, Ioakim284, uno dei successori
di Nikon destreggiandosi abilmente. I vescovi si erano arrogati il diritto della
spada, quello cioè di condannare alle pene corporali e a quella capitale,
diritto contrario allo spirito della religione e al governo: quest’annosa
usurpazione fu revocata. Essendo morto, sul finire del secolo, il patriarca
Adrian285, Pietro dichiarò che non ce ne sarebbero stati altri. La carica fu
completamente abolita e le grandi ricchezze destinate al patriarcato vennero
immesse nelle pubbliche finanze, che ne avevano bisogno. Anche se lo zar
non si proclamò capo della Chiesa russa, come fece il sovrano di Gran
Bretagna nei confronti di quella anglicana, in pratica ne fu il capo assoluto,
dato che i sinodi non osavano trasgredire gli ordini di un sovrano dispotico
né tanto meno discutere con un principe più illuminato di loro.
Basta gettare uno sguardo sul preambolo dell’editto dei regolamenti
ecclesiastici promulgato nel 1721286, per constatare che egli agiva da
legislatore e da padrone: «Ci sentiremmo colpevoli di ingratitudine verso
l’Altissimo se, dopo aver riformato l’ordine militare e quello civile,
trascurassimo l’ordine spirituale, ecc. Per queste ragioni, seguendo
l’esempio dei più antichi sovrani celebri per la loro pietà, ci siamo assunti la
cura di dare buone leggi al clero». È vero che egli istituì un sinodo per far
rispettare le sue leggi ecclesiastiche, ma i membri del sinodo dovevano
inaugurare il loro ministero con un giuramento di cui egli stesso aveva
scritto e firmato la formula: era un giuramento di obbedienza redatto in
questi termini: «Giuro di essere fedele e obbediente servitore e suddito del
mio sovrano vero e naturale e degli augusti successori che gli piacerà di
designare in virtù del potere incontestabile che egli ne ha. Riconosco che
284 Ioakim (1621-1690) fu il nono patriarca di Mosca e di tutte le Russie dal 1674 (Nikon fu il
sesto). Viene ricordato per essere stato uno strenuo oppositore dei Vecchi Credenti.
285 Adrian (1637-1700) fu il successore di Ioakim al patriarcato. Rigido conservatore, fu
contrario a tutte le riforme di Pietro il Grande.
286 Il Regolamento spirituale pubblicato da Pietro I fu scritto con il teologo ucraino Feofan
Prokopovič (1681-1736), arcivescovo di Pskov.
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egli è il giudice supremo di questo collegio spirituale; giuro nel nome di Dio,
che vede tutto, che intendo e interpreto questo giuramento secondo tutta la
forza e il senso che queste parole presentano a chi le legge o le ascolta».
Questo giuramento è ancora più forte di quello di supremazia degli Inglesi.
È vero che il monarca russo non era uno dei padri sinodali, ma dettava
legge; non toccava il turibolo, ma guidava la mano che lo portava.
Mentre attendeva a quest’opera grandiosa, gli parve che nel suo Stato,
che aveva bisogno di essere popolato, il celibato ecclesiastico fosse contro la
natura e contro l’interesse pubblico. Secondo l’antica usanza della Chiesa
russa, i preti secolari sono tenuti a sposarsi almeno una volta, anzi vi sono
costretti e in passato quando perdevano la moglie cessavano di essere preti.
Ma quella moltitudine di giovani e di giovanette che, stando in un chiostro,
fanno voto di essere inutili e di vivere a spese altrui, gli parve dannosa: egli
decretò che si potesse entrare nel chiostro soltanto a cinquant’anni, vale a
dire in un’età in cui una simile tentazione non prende quasi mai, e proibì che
vi fosse ammesso, qualunque fosse la sua età, un uomo che ricopriva un
pubblico impiego.
Questa legge è stata abolita dopo di lui, allorché si è ritenuto di dover
usare più condiscendenza verso i monasteri; la carica di patriarca invece
non fu mai ristabilita perché le imponenti entrate del patriarcato erano state
utilizzate per il pagamento delle truppe.
In un primo momento questi cambiamenti suscitarono qualche
malcontento: un prete scrisse che Pietro era l’Anticristo perché non voleva
che ci fosse il patriarca, e l’arte della stampa che lo zar incoraggiava servì a
far stampare qualche libello contro di lui. In seguito però un altro prete
replicò che il principe non poteva essere l’Anticristo perché nel suo nome
non figurava il numero 666 ed egli non aveva il segno della bestia287. Ben
presto le lamentele furono messe a tacere288. In realtà, Pietro dette alla
Chiesa molto più di quanto non le togliesse: infatti rese gradatamente il
clero più disciplinato e più colto. Fondò a Mosca tre collegi dove si
insegnavano le lingue, e coloro che erano destinati al sacerdozio avevano
l’obbligo di studiarvi.
Una delle riforme più necessarie era l’abolizione o almeno l’attenuazione
delle quattro grandi quaresime, antica schiavitù della Chiesa greca tanto
dannosa a chi lavorava nei pubblici impieghi, e soprattutto ai soldati, quanto
lo era stata l’antica superstizione ebrea di non combattere nel giorno di
sabato. Dunque lo zar dispensò almeno l’esercito e gli operai da quei
digiuni, durante i quali del resto, se era proibito mangiare, c’era però
l’abitudine di ubriacarsi. Ugualmente li dispensò dall’astinenza nei giorni di
magro: i cappellani militari e di marina furono costretti a dare l’esempio e lo
dettero di buon grado.
Il calendario era una questione importante. Anticamente in tutti i Paesi
287 Cfr. Apocalisse 13.
288 Nella Storia di Carlo XII è detto che l’autore del libello patì il supplizio della ruota mentre
quello della confutazione fu nominato vescovo.
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della Terra l’anno era regolato dai capi religiosi, non soltanto a causa delle
feste ma anche perché, nei tempi passati, solo i preti conoscevano
l’astronomia. I Russi facevano cominciare l’anno il primo settembre; lo zar
ordinò che a partire da quel momento l’anno sarebbe cominciato il Primo
gennaio come nella nostra Europa. Il cambiamento fu fissato per l’anno
1700, all’inizio del secolo, che Pietro fece celebrare con un giubileo e con
solenni cerimonie. Il popolino ammirava lo zar che aveva cambiato il corso
del sole. Alcuni ostinati, convinti che Dio avesse creato il mondo a
settembre, continuarono secondo il vecchio sistema, ma esso cambiò negli
uffici, nelle cancellerie e ben presto in tutto l’impero. Pietro non adottò il
calendario gregoriano che non era riconosciuto dai matematici inglesi, ma
che prima o poi dovrà essere introdotto in tutti i Paesi289.
Dal V secolo, epoca in cui avevano imparato l’uso dei caratteri, i Russi
scrivevano su rotoli di corteccia, poi di pergamena e successivamente di
carta. Lo zar fu costretto a promulgare un editto nel quale ordinava che si
scrivesse soltanto alla nostra maniera.
Le riforme si estesero a tutto. Prima i matrimoni si celebravano come in
Turchia e in Persia, dove si conosce colei che si prende in moglie solo
quando il contratto è stato firmato e non ci si può tirare più indietro. Tale
usanza è ammissibile presso i popoli che praticano la poligamia e usano
rinchiudere le donne, ma non è adatta per quei Paesi in cui ci si limita a una
moglie e il divorzio non è frequente.
Lo zar volle avvezzare la sua nazione agli usi e ai costumi di quelle che
aveva percorso nei suoi viaggi e da cui aveva fatto venire tutti i maestri che
stavano ora istruendo la sua.
Era bene che i Russi non vestissero diversamente da quelli che
insegnavano loro le arti: infatti l’odio contro gli stranieri è anche troppo
connaturato all’uomo e troppo alimentato dalla differenza del vestire. L’abito
da cerimonia di quei tempi, che aveva qualcosa di quello polacco, di quello
tataro e dell’antico costume ungherese, era, come si disse, nobilissimo, ma
l’abito del popolino e dei borghesi rassomigliava a quelle casacche
pieghettate alla vita che ancor oggi si danno a certi poveri in alcuni dei
nostri ospedali. In generale, la veste lunga era l’abito adottato in passato da
tutti i popoli: è un indumento che richiede meno cure e meno abilità; per la
stessa ragione ci si lasciava crescere la barba. Lo zar non ebbe nessuna
difficoltà a introdurre a corte l’abito che usa dalle nostre parti e l’abitudine
di radersi, ma per il popolo fu più difficile. Fu necessario imporre una tassa
sulle vesti lunghe e sulle barbe; si appendevano modelli di giustacuore alle
porte delle città, si tagliavano vesti e barbe a chi rifiutava di pagare. Tutte
queste cose venivano eseguite allegramente, e fu proprio quest’allegria che
scongiurò le ribellioni.
289 Il 15 dicembre 1699 Pietro il Grande decretò l’abolizione del calendario bizantino che
contava gli anni dalla creazione del mondo (dal 7208 al 1700) e l’inizio dell’anno dal 1°
gennaio anziché il 1° settembre secondo il calendario giuliano. Il calendario gregoriano fu
adottato in Russia nel 1918, ma non dalla Chiesa.
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È stato impegno costante dei legislatori quello di rendere gli uomini
socievoli, ma per esserlo non basta trovarsi riuniti in una città: occorre
frequentarsi civilmente; questi rapporti addolciscono dovunque le amarezze
della vita. Lo zar introdusse l’uso delle riunioni, in italiano ridotti290, parola
che i gazzettieri hanno tradotto impropriamente col termine redoute. A
queste riunioni fece invitare le dame e le loro figlie vestite alla moda delle
nazioni meridionali dell’Europa; giunse a stabilire le norme di queste piccole
feste di società. Così tutte le cose, persino le buone maniere dei suoi
sudditi, furono opera sua e del tempo.
Affinché queste innovazioni fossero più apprezzate, abolì la parola golut,
schiavo, di cui i Russi si servivano quando volevano291 parlare allo zar e per
presentare le suppliche, e ordinò che si usasse il termine rab292, che significa
suddito. Questo cambiamento, che nulla toglieva all’obbedienza, doveva
favorire l’affetto. Ogni mese portava nuove iniziative o nuovi cambiamenti.
La previdenza di Pietro si spinse fino a far collocare, sulla strada da Voronež
a Mosca, dei paletti dipinti che fungevano da colonne miliari poste di versta
in versta, cioè alla distanza di 750 passi, e ogni venti verste fece costruire
una specie di caravanserraglio.
Mentre andava così rivolgendo le sue cure al popolo, ai mercanti e ai
viaggiatori, volle introdurre a corte un certo fasto: odiava lo sfarzo per la
sua persona, ma lo credeva necessario agli altri. Egli istituì l’ordine di
Sant’Andrea293 a somiglianza di quelli di cui pullulano tutte le corti d’Europa.
Golovin, successore di Le Fort nella dignità di grande ammiraglio, fu il primo
cavaliere di quest’ordine. L’onore di esservi ammessi fu considerato una
grande ricompensa. È un invito a essere rispettato dal popolo che si porta
sulla persona: questo segno d’onore non costa nulla al sovrano e lusinga
l’amor proprio dei sudditi senza renderli potenti.
Tante utili innovazioni erano accolte con entusiasmo dalla parte più sana
della popolazione, e le lamentele di quanti restavano fedeli alle vecchie
abitudini erano soffocate dalle acclamazioni degli uomini ragionevoli.
Mentre Pietro gettava le basi di quest’opera all’interno del regno, una
tregua vantaggiosa con l’impero turco gli consentiva di estendere le sue
frontiere in un’altra direzione. Mustafa II, che nel 1697 era stato vinto dal
principe Eugenio294 nella battaglia di Zenta, che aveva perduto la Morea
conquistata dai Veneziani ed era impotente a difendere Azov, fu costretto a
concludere la pace con tutti i vincitori: fu stipulata a Carlowitz295 tra
290 In italiano nel testo.
291 Nelle prime due edizioni “volevano” era sostituito da “potevano”.
292 Sull’originale raad.
293 10 settembre 1698, sempre secondo il nuovo calendario. (Nota dell’Autore)
294 Il principe Eugenio Francesco di Savoia (1663-1736), generale sabaudo, è considerato
uno dei migliori strateghi del suo tempo. Dopo la deposizione di Augusto il Forte, Pietro il
Grande lo propose per l’elezione al trono di Polonia, ma Leopoldo si oppose per non
suscitare l’ostilità degli Svedesi.
295 26 gennaio 1699. (Nota dell’Autore)
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Petrovaradin e Slankamen, località rese celebri dalle sue sconfitte296.
Temesvar fu il confine tra i possedimenti tedeschi e quelli ottomani,
Kamienieck fu restituita ai Polacchi, la Morea e alcune città della Dalmazia,
conquistate dai Veneziani, rimasero per qualche tempo in mano loro, Pietro
I restò padrone di Azov e di alcuni fortini costruiti nei dintorni. Ormai non
era più possibile allo zar ingrandirsi dalla parte dei Turchi le cui forze, prima
divise e ora riunite, sarebbero piombate su di lui. I suoi progetti marinari
erano troppo grandiosi per la Palude Meotide. Gli insediamenti sul mar
Caspio non comportavano una flotta da guerra; egli rivolse dunque i suoi
piani verso il mar Baltico, senza però abbandonare la marina del Tanais e
del Volga.
Capitolo XI
GUERRA CONTRO LA SVEZIA. BATTAGLIA DI NARVA
Un nuovo teatro di avvenimenti si apriva in quei tempi verso le frontiere
della Svezia. Una delle cause prime di tutti i rivolgimenti che si verificarono
dall’Ingria fino a Dresda e che desolarono tanti Stati per diciotto anni, fu
l’abuso del potere supremo da parte di Carlo XI re di Svezia e padre di Carlo
XII297. È questo un fatto che non ripeteremo mai abbastanza e che interessa
tutti i troni e tutti i popoli. Gran parte della Livonia e tutta l’Estonia erano
state cedute dalla Polonia al re di Svezia Carlo XI, che succedette a Carlo X
esattamente durante il trattato di Oliva; secondo l’usanza esse furono
cedute con la riserva che ne sarebbero stati rispettati tutti i privilegi. Carlo
XI non li rispettò molto. Nel 1692 Johann Reinhold Patkul, gentiluomo
livone298, venne a Stoccolma a capo di sei deputati della provincia per
deporre ai piedi del trono le sue rispettose ed energiche lamentele299. Per
tutta risposta i sei deputati furono gettati in carcere e Patkul fu condannato
296 Sull’originale Petervaradin e Salankemen. Entrambe sono città dell’attuale Serbia, come
Carlowitz, in cui furono i combattimenti del 1691.
297 Nella Storia di Carlo XII Voltaire fa ricadere la responsabilità della guerra non su Carlo XI,
morto da tre anni, ma su Pietro: «[lo zar] aveva recentemente pubblicato un manifesto
che avrebbe fatto meglio a sopprimere. Come giustificazione della guerra adduceva il fatto
che quando era passato in incognito per Riga non lo avevano accolto con sufficienti onori,
e che ai suoi ambasciatori avevano venduto dei viveri troppo cari. Erano questi i torti per
cui devastava l’Ingria con 80.000 uomini».
298 Johann Reinhold von Patkul (1660-1707), uomo politico che animò la resistenza della
nobiltà della Livonia contro Carlo XI e fu condannato a morte (1694), ma si rifugiò
all’estero, si accordò con Augusto II di Sassonia e partecipò alla conclusione delle alleanze
fra Danimarca, Sassonia e Russia. Entrato al servizio di Pietro I, durante la guerra nordica
comandò un corpo in Sassonia, ma nel 1707 Augusto II, costretto alla pace, lo consegnò a
Carlo XII di Svezia, che lo fece giustiziare.
299 Nordberg, cappellano e confessore di Carlo XII, scrive nella sua storia: «che egli fu tanto
insolente da lamentarsi delle vessazioni e fu condannato a perdere l’onore e la vita».
Questo è parlare da prete legato al dispotismo. Avrebbe dovuto sapere che non si può
privare dell’onore un cittadino che fa il proprio dovere. (Nota dell’Autore)
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a perdere l’onore e la vita. Egli non perse né l’uno né l’altra: riuscì a fuggire
e rimase per qualche tempo nel cantone di Vaud, in Svizzera. In seguito,
quando seppe che Augusto, elettore di Sassonia, al suo avvento al trono
aveva promesso di riscattare le province strappate alla corona, si precipitò a
Dresda per prospettare la facilità di riprendere la Livonia e far pagare a un
re di diciassette anni le conquiste dei suoi avi.
Intanto lo zar Pietro pensava ad annettersi l’Ingria e la Cardia, province
appartenute in passato alla Russia. Gli Svedesi se ne erano impadroniti per
diritto di guerra ai tempi del falso Demetrio, e le avevano conservate in
virtù di trattati. Una nuova guerra e nuovi trattati potevano darle alla
Russia. Patkul da Dresda passò a Mosca e, eccitando due sovrani alla sua
personale vendetta, cementò la loro unione e accelerò i preparativi per
conquistare tutte le regioni a oriente e a mezzogiorno della Finlandia.
Proprio in quel tempo il nuovo re di Danimarca Federico IV stringeva
alleanza con lo zar e con il re di Polonia contro il giovane Carlo, che
sembrava destinato a soccombere. Patkul ebbe la soddisfazione di assediare
gli Svedesi a Riga, capitale della Livonia, e di portare avanti l’assedio in
qualità di generale maggiore.
(Settembre) Lo zar fece marciare alla volta dell’Ingria circa 60.000
uomini. È vero però che in questo grande esercito solo 12.000 erano i
soldati ben agguerriti e addestrati personalmente da lui, come i due
reggimenti di guardie e alcuni altri: il resto era formato da truppe armate
alla meglio: c’erano dei Cosacchi e dei Tartari Circassi; in compenso portava
con sé 145 cannoni. Egli strinse d’assedio Narva, piccola città dell’Ingria
dotata di un comodo porto; tutto lasciava prevedere che il forte sarebbe
capitolato entro poco tempo.
Tutta l’Europa sa come Carlo XII, che non aveva ancora diciotto anni
compiuti, attaccò tutti i suoi nemici uno dopo l’altro, discese in Danimarca,
concluse la guerra di Danimarca in meno di sei settimane, inviò soccorsi a
Riga e fece togliere l’assedio, marciò alla volta dei Russi davanti a Narva in
mezzo ai ghiacci nel mese di novembre.
Lo zar, che contava sulla presa della città, era andato a Novgorod300,
portando con sé il favorito Menšikov, che era allora luogotenente nella
compagnia dei bombardieri del reggimento Preobraženskij e divenne in
seguito feldmaresciallo e principe301, uomo la cui singolare fortuna merita
che se ne parli altrove più ampiamente.
Pietro aveva affidato l’esercito e le istruzioni per l’assedio al principe di
Croÿ, originario della Fiandra, passato da poco al suo servizio 302. Il principe
300 18 novembre 1700. (Nota dell’Autore)
301 Aleksandr Danilovič Menšikov (1672-1729) fu statista e generale, ma soprattutto amico di
Pietro I fin dall’infanzia. Combatté tutte le campagne contro gli Svedesi, vincendoli a
Mardefeld (1705-1707). Morto Pietro, riuscì a mettere sul trono la vedova Caterina I e, di
fatto, governò la Russia fino al 1727 quando fu arrestato per corruzione e malversazione
ed esiliato in Siberia.
302 Cfr. la Storia di Carlo XII. (Nota dell’Autore) – Sull’originale Croï. Charles Eugène de Croÿ
(1651-1702) fu maresciallo dell’impero austriaco contro i Turchi e, dal 1697, comandante
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Dolgorukij fungeva da commissario dell’esercito. La gelosia fra i due capi e
l’assenza dello zar furono in parte la causa dell’inaudita disfatta di Narva.
Carlo XII, sbarcato con le sue truppe a Pernau, in Livonia, nel mese di
ottobre, avanza verso settentrione alla volta di Reval e sconfigge in quel
settore un corpo avanzato di Russi. Poi continua la marcia e ne sconfigge un
altro. I fuggiaschi fanno ritorno al campo di Narva e vi seminano il panico.
Nel frattempo si era già al mese di novembre. Narva, benché mal assediata,
era prossima alla resa. A quel tempo il giovane re di Svezia aveva con sé
meno di 9.000 uomini; inoltre, ai 145 cannoni che guarnivano le trincee
russe poteva opporre soltanto dieci pezzi di artiglieria. Tutte le relazioni del
tempo e tutti gli storici senza eccezione fanno ammontare a 80.000
combattenti l’esercito schierato davanti a Narva. Le relazioni che mi sono
state fatte pervenire dicono quale 60.000, quale 40.000 uomini: comunque
è certo un fatto: Carlo ne aveva meno di 9.000 e questa giornata è una
dimostrazione che spesso le grandi vittorie, dalla battaglia di Arbela303 in
poi, sono state riportate dalla parte che aveva l’inferiorità numerica.
Carlo non esitò un istante ad attaccare, con le poche truppe che aveva,
un esercito di tanto superiore; approfittando di un vento violento e di una
tempesta di neve che il vento spingeva contro i Russi, piombò nelle loro
trincee304 con l’appoggio di alcuni cannoni opportunamente piazzati. I Russi,
nel mezzo di quella tormenta di neve che li sferzava in pieno viso, fulminati
da invisibili cannoni e ben lontani dal sospettare il numero ridotto degli
avversari, non ebbero il tempo di riaversi.
Il duca di Croÿ volle impartire ordini, il principe Dolgorukij si rifiutò di
accettarli. Gli ufficiali russi si ribellarono a quelli tedeschi e massacrarono il
segretario del duca, colonnello Lyon, e parecchi altri. Tutti abbandonano il
proprio posto; il tumulto, la confusione e il panico dilagano per tutto
l’esercito. A questo punto alle truppe svedesi non restava che uccidere gli
uomini che fuggivano. Gli uni corrono a gettarsi nel fiume Narva: furono
moltissimi i soldati che vi annegarono; gli altri gettano le armi e si
inginocchiano davanti agli Svedesi. Il duca di Croÿ, il generale Allard e gli
ufficiali tedeschi, i quali temevano più i Russi sollevati contro di loro che non
gli Svedesi, andarono ad arrendersi al conte Stenbock305; il re di Svezia,
rimasto padrone di tutta l’artiglieria, vede ai propri piedi 30.000 vinti che
gettano le armi e sfilano davanti a lui a capo scoperto. Il knez Dolgorukij e
tutti gli altri generali moscoviti si arresero come quelli tedeschi, e solo dopo
essersi arresi seppero di essere stati vinti da 8.000 uomini. Si trovava tra i
dell’impero russo a Narva contro gli Svedesi. La sua morte avvenne nelle prigioni di Tallinn
e, poiché nessuno pagò i funerali, il suo corpo abbandonato si mummificò in una cappella
ed ebbe sepoltura solo nel 1897.
303 La battaglia di Arbela (cfr. nota 26) fu vinta nel 331 a.C. da Alessandro Magno con 30.000
soldati, contro Dario III al comando di 200.000 soldati.
304 30 novembre. (Nota dell’Autore)
305 Sull’originale Steinbock. Magnus Stenbock (1665-1717) fu colonnello svedese durante la
battaglia di Narva e nel 1712 fu nominato feldmaresciallo, ma lo stesso anno perse una
battaglia contro i Danesi che lo misero in prigione dove morì.
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prigionieri il figlio del re di Georgia, che fu inviato a Stoccolma; si chiamava
Mitelleski, czarovitz, ossia figlio di zar; questa è una prova ulteriore che il
titolo di zar o tzar non deriva dai cesari romani306.
Dalla parte di Carlo XII, in questa battaglia ci furono soltanto 1.200
morti307. Nel diario dello zar che mi è stato inviato da Pietroburgo è detto
che, contando i soldati periti all’assedio di Narva, durante la battaglia o
annegati nella fuga, le perdite furono di soli 6.000 uomini308. Dunque in
questa giornata l’indisciplina e il panico furono decisivi. I prigionieri di
guerra erano quattro volte più numerosi dei vincitori e, se dobbiamo prestar
fede a Nordberg309 il conte Piper310, che in seguito cadde prigioniero dei
Russi, rinfacciò loro che in quella battaglia il numero dei prigionieri era stato
otto volte superiore a quello dell’esercito svedese. Se ciò fosse vero gli
Svedesi avrebbero fatto 72.000 prigionieri. Da ciò si può dedurre quanto sia
difficile sapere i particolari. Ciò che è incontestabile e insolito è il fatto che il
re di Svezia concesse a una metà dei soldati russi di andarsene disarmati e
all’altra metà di ripassare il fiume con tutte le armi311. Questa strana fiducia
rese allo zar delle truppe che, quando finalmente furono addestrate,
divennero temibili.
Carlo ebbe tutti i vantaggi della vittoria: depositi immensi, navi da
trasporto cariche di provviste, fortini evacuati o conquistati, tutto il Paese a
discrezione degli Svedesi: ecco i frutti della vittoria. Narva era liberata, i
306 La frase è confusa e contiene inesattezze, perché Voltaire riassume (malamente) un suo
passo nella Storia di Carlo XII (libro II): «Tra i prigionieri catturati nella battaglia di Narva
[…] era il figlio maggiore ed erede del re Georgia, lo si chiamava czarafis Artfchelou
[Alessandro di Imereti]; questo titolo di czarafis significa principe, o il figlio dello zar,
presso tutti i Tartari così come in Moscovia; perché la parola czar o tzar significava re
presso gli antichi Sciti, da cui provengono tutti questi popoli, non venendo affatto dai
Cesari di Roma, così a lungo sconosciuti a questi barbari. Suo padre Mittelleski [Archil di
Imereti], lo czar e signore della parte più bella del Paese che si trova tra le montagne di
Ararat e le estremità orientali del mar Nero, era stato cacciato dal suo regno dai suoi
stessi sudditi nel 1688, e aveva scelto di gettarsi tra le braccia dell’imperatore di
Moscovia, piuttosto che ricorrere a quello dei Turchi. Il figlio del re, diciannovenne, volle
seguire Pietro il Grande nella sua spedizione contro gli Svedesi, e fu catturato in battaglia
da alcuni soldati finlandesi che l’aveva già spogliato e stavano per ucciderlo. Il conte
Renschild [Ehrensköld] lo strappò dalle loro mani, gli dette un mantello e lo presentò al
suo padrone: Carlo lo mandò a Stoccolma, dove questo sfortunato principe morì pochi
anni dopo». Alessandro di Imereti fu liberato nel 1710, ma, malato, morì quasi subito a
Riga (3 febbraio 1711); Archil, suo padre, morì a Mosca nel 1713.
307 I morti svedesi furono 677 e i feriti 1200 su un totale di 10.610 uomini.
308 Su un totale di 32.000 soldati.
309 Pag. 439, tomo I, ed. in 4°, L’Aia. (Nota dell’Autore)
310 Il conte Carl Piper (1647-1716) era stato segretario di Stato di Carlo XI, prima di esserlo
per suo figlio Carlo XII. Durante la prima parte della Grande Guerra del Nord aveva svolto
le funzioni di Primo ministro, poi fu sollevato dall’incarico perché in disaccordo su quasi
tutte le imprese militari di Carlo XII. Fu fatto prigioniero a Poltava (1709).
311 Stando al cappellano Nordberg, subito dopo la battaglia di Narva, il Gran Turco scrisse una
lettera di felicitazioni al re di Svezia in questi termini: «Il sultano bassà per grazia di Dio,
al re Carlo XII, ecc.». La lettera è datata dall’era della creazione del mondo. (Nota
dell’Autore) – Bassà, o basha, è un’antica variante di pascià.
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Russi superstiti non ardivano mostrarsi, tutta la regione fino a Pskov312 gli si
apriva davanti: il re di Svezia, vincitore in meno di un anno dei sovrani di
Danimarca, Polonia e Russia, fu guardato come il primo uomo d’Europa a
un’età in cui gli altri non osano ancora aspirare alla reputazione. Ma Pietro,
il cui carattere era dotato di una costanza incrollabile, non desistette da uno
solo dei suoi progetti.
In occasione della sconfitta, un vescovo russo scrisse una preghiera313
indirizzata a San Nicola che fu recitata in tutta la Russia. In questo scritto,
che rivela lo spirito dei tempi e lo stato di ignoranza da cui Pietro ha
sollevato il suo Paese, si legge che i forsennati e spaventevoli svedesi erano
tutti stregoni, e vi si lamenta di essere stati abbandonati da San Nicola.
Oggigiorno un vescovo russo non scriverebbe cose simili e, senza far torto a
San Nicola, in breve ci si rese conto che era Pietro quello a cui conveniva
rivolgersi.
Capitolo XII
RIPRESA DOPO LA BATTAGLIA DI NARVA. DISASTRO INTERAMENTE RIPARATO.
CONQUISTA DI PIETRO NEI DINTORNI STESSI DI NARVA. SUO OPERATO NELL’IMPERO.
COLEI CHE DOVEVA DIVENTARE IN SEGUITO IMPERATRICE È PRESA NEL SACCO DI UNA
CITTÀ. SUCCESSI DI PIETRO, SUO TRIONFO A MOSCA314
Lo zar, che aveva lasciato il suo esercito davanti a Narva verso la fine di
novembre del 1700 per prendere accordi col re di Polonia, apprese la
vittoria degli Svedesi durante il viaggio. La sua costanza era incrollabile
quanto il valore di Carlo XII era intrepido e tenace. Egli rinviò i colloqui con
Augusto per recare pronto rimedio ai rovesci occorsigli. Le truppe disperse
si raccolsero nella grande Novgorod e di lì a Pskov, sul lago Peipus.
Dopo un simile scacco, era già molto tenersi sulla difensiva. «So bene –
egli diceva – che gli Svedesi saranno ancora per molto superiori, ma alla
312 Sull’originale Pleskou (da Pleskau: nome della città di Pskov in tedesco).
313 È stampata nella maggior parte dei giornali e documenti del tempo, ed è riportata nella
Storia di Carlo XII. (Nota dell’Autore) – La preghiera è: «O tu che sei il nostro perpetuo
consolatore in tutte le avversità grande San Nicola infinitamente potente, con quale
peccato ti abbiamo offeso nei sacrifici, nelle genuflessioni, nelle riverenze e nei rendimenti
di grazie per averci così abbandonati? Avevamo implorato il suo aiuto contro i tremendi,
orgogliosi, rabbiosi, spaventosi e indomiti distruttori quando essi, come leoni e orsi che
abbiano perduto i piccoli, ci attaccarono, atterrirono, ferirono e uccisero a migliaia, noi,
tuo popolo. Tutto questo non può esser avvenuto senza qualche sortilegio e incantesimo
perciò ti imploriamo o grande San Nicola, di essere il nostro campione e il nostro
portabandiera, di liberarci da quell’orda di stregoni e cacciarli lontano dalle nostre
frontiere con la ricompensa che meritano» (cap. II). Per i commentari russi la preghiera,
di cui non esistono testimonianze contemporanee agli avvenimenti, è probabilmente un
falso. La si trova nella Histoire de Suède sous le règne de Charles XII (1720) di Limiers,
che cita come sua fonte una History of the wars of Charles XII uscita anonima nel 1715.
Limiers fu la probabile fonte di Voltaire.
314 Interamente tratto, come i seguenti, dal diario di Pietro il Grande fattomi pervenire da
Pietroburgo. (Nota dell’Autore)
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fine ci insegneranno a vincerli».
Dopo aver provveduto alle necessità più urgenti e dopo aver ordinato di
fare dovunque leva di soldati, Pietro corre a Mosca a far fondere dei
cannoni. Aveva perso davanti a Narva tutti quelli che aveva, il bronzo
scarseggiava: egli prese le campane delle chiese e dei monasteri. Se questo
particolare non denotava superstizione, non denotava neppure empietà.
Dunque si fanno con le campane 100 grossi cannoni, 143 pezzi di artiglieria
da campagna per palle da tre a sei libbre, dei mortai, degli obici; lo zar li fa
confluire a Pskov. Negli altri Paesi, il capo impartisce degli ordini che
vengono eseguiti, ma allora lo zar era costretto a fare tutto personalmente.
Mentre porta avanti in fretta questi preparativi, negozia col re di Danimarca
che si impegna a fornirgli tre reggimenti a piedi e tre a cavallo, impegno al
quale quel sovrano non osò tener fede.
Appena firmato il trattato, Pietro vola di nuovo verso il teatro della
guerra; raggiunge il re Augusto a Biržai315, alla frontiera tra la Curlandia e la
Lituania316. Bisognava confermare quel principe nella risoluzione di
sostenere la guerra contro Carlo XII e indurre la Dieta polacca a impegnarsi
nella guerra317 Come tutti sanno, il re di Polonia è soltanto il capo di una
repubblica. Lo zar aveva il vantaggio di essere obbedito in qualsiasi
momento, ma un re di Polonia, un re d’Inghilterra e oggi un re di Svezia 318
debbono sempre patteggiare con i sudditi. Patkul e i Polacchi che
parteggiavano per il re assistettero ai colloqui. Pietro promise dei sussidi e
20.000 soldati. La Livonia sarebbe stata restituita alla Polonia qualora la
Dieta avesse voluto unirsi al suo re e aiutarlo a riconquistare quella
provincia, ma nella Dieta il timore prevalse sulle offerte dello zar. I Polacchi
temevano a un tempo la supremazia dei Sassoni e quella dei Russi e ancor
più temevano Carlo XII. Così la maggioranza risolse di non servire il proprio
re e di non combattere.
Quelli che tenevano per il re di Polonia si sollevarono contro la parte
contraria; in breve, il fatto che Augusto avesse voluto rendere alla Polonia
una grande provincia fruttò a quel regno una guerra civile.
Pertanto Pietro trovò nel re Augusto solo un mediocre alleato e nelle
truppe sassoni solo un debole sostegno. Il timore che ispirava dovunque
Carlo XII era tale che Pietro si ridusse a confidare solo nelle proprie forze.
Dopo essersi precipitato da Mosca in Curlandia per un abboccamento con
Augusto, vola di nuovo319 dalla Curlandia a Mosca per sollecitare il
315 Sull’originale Birzen.
316 27 febbraio 1701. (Nota dell’Autore)
317 La Dieta polacca, una rappresentanza di nobili con potere legislativo, approvò nel 1652
una mozione in cui si stabiliva che anche un solo voto contrario bastava a bloccare una
deliberazione. Ciò ebbe conseguenze paradossali per l’epoca, come l’impossibilità di
costituire un esercito stabile.
318 Adolfo Federico, re di Svezia dal 1751, non aveva poteri assoluti che erano in mano a un
Parlamento diviso in fazioni. Anche nel 1759 (l’«oggi» di Voltaire) cercò di instaurare
l’assolutismo ma senza riuscirvi.
319 1° marzo. (Nota dell’Autore)
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mantenimento delle promesse. Ed effettivamente fa avanzare il principe
Repnin320 con 4.000 uomini alla volta di Riga sulla rive della Dvina, dove si
erano trincerati i Sassoni.
Il terrore generale aumentò ancora in luglio quando Carlo, passata la
Dvina321 nonostante i Sassoni accampati in posizione vantaggiosa sulla riva
opposta, riportò completa vittoria, quando, senza indugiare un istante,
sottomise la Curlandia e lo si vide avanzare in Lituania, quando il sovrano
vittorioso incoraggiò la fazione polacca contraria ad Augusto.
Ciò non impedì a Pietro di perseguire tutti i suoi progetti. Il generale
Patkul, che era stato l’animatore degli incontri di Biržai e che era passato al
suo servizio, gli procurava ufficiali tedeschi, addestrava le truppe e
sostituiva il generale Le Fort; egli portava a compimento ciò che l’altro
aveva cominciato. Lo zar forniva cavalli di ricambio a tutti gli ufficiali e
persino ai soldati tedeschi, livoni o polacchi che si arruolavano nel suo
esercito; egli si occupava fin nei particolari del loro armamento, del vestiario
e del sostentamento.
Ai confini tra la Livonia e l’Estonia, a occidente della provincia di
Novgorod, si trova il grande lago Peipus, che riceve dalla Livonia
meridionale il fiume Velikaja e dal quale defluisce a settentrione il fiume
Narova che bagna gli spalti di Narva: nei pressi di questa città gli Svedesi
avevano riportato la loro celebre vittoria. Questo lago ha una lunghezza di
trenta delle nostre leghe comuni, la larghezza varia da dodici a quindici
leghe322: era indispensabile mantenervi una flotta allo scopo di impedire le
aggressioni delle navi svedesi alla provincia di Novgorod. Per avere accesso
alle loro coste ma soprattutto per formare dei marinai, Pietro, durante tutto
il 1701, fece costruire sul lago cento mezze galere da cinquanta uomini circa
ciascuna; altre imbarcazioni furono messe in assetto di guerra sul lago
Ladoga. Lo zar diresse personalmente tutti i lavori e fece esercitare alla
manovra i nuovi marinai. Quelli che nel 1697 erano stati impiegati sulla
Palude Meotide furono utilizzati allora nei pressi dei Baltico. Spesso egli
tralasciava questi compiti per recarsi a Mosca e in tutte le altre province a
consolidare le innovazioni già introdotte e farne di nuove.
I principi che hanno dedicato gli ozi del tempo di pace alla costruzione di
opere pubbliche sono divenuti famosi; ma nel fatto che Pietro, dopo il
rovescio di Narva, pensasse a congiungere il mar Baltico, il mar Caspio e il
Ponto Eusino per mezzo di canali, c’è più autentica gloria che in una
battaglia vinta. Fu nel 1702 che egli cominciò a scavare quel profondo
canale che va dal Tanais al Volga. Altri canali avrebbero dovuto mettere in
comunicazione il Tanais con la Dvina, le cui acque il mar Baltico riceve a
Riga. Tuttavia questo secondo progetto era ancora molto lontano dall’aver
piena realizzazione perché Pietro era ben lungi dall’avere Riga in suo potere.
320 Il principe Anikita Ivanovič Repnin (1668-1726) fu nominato generale da Pietro I dopo la
campagna di Azov e in seguito governatore di Riga.
321 Luglio. (Nota dell’Autore)
322 Il lago copre una superficie di 3.555 kmq e ha una profondità media di 7 m.
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Carlo devastava la Polonia, Pietro faceva venire a Mosca dalla Polonia e
dalla Sassonia pastori e greggi per avere delle lane con le quali fabbricare
buone stoffe; egli faceva aprire manifatture di lino e di carta, per ordine suo
si facevano venire operai abili a lavorare il ferro e l’ottone, armaioli e
fonditori; i giacimenti della Siberia erano sfruttati. Egli pensava ad arricchire
il suo Stato e a difenderlo.
Carlo proseguiva la serie delle sue vittorie e lasciava verso i territori dello
zar truppe a suo parere sufficienti a conservare tutti i possedimenti della
Svezia. Il piano era già stato concertato: detronizzare il re Augusto e
successivamente ricacciare lo zar fino a Mosca con l’armata vittoriosa.
Quell’anno vi furono alcune scaramucce tra Russi e Svedesi. Non sempre
questi ultimi ebbero la meglio, ma persino negli scontri in cui essi
riportavano la vittoria, i Russi divenivano via via più agguerriti. Finalmente,
a un anno dalla battaglia di Narva, lo zar disponeva già di truppe tanto ben
addestrate da vincere uno dei migliori generali di Carlo.
Pietro si trovava a Pskov e di lì inviava in varie direzioni numerose truppe
ad attaccare gli Svedesi. A sconfiggerli non fu uno straniero, ma un russo.
Nei pressi di Derpt323, sulle frontiere della Livonia324, il generale
Šeremetev325 tolse vari quartieri al generale Slipenbak326 grazie a un’abile
manovra e in un secondo tempo sconfisse il generale in persona. Per la
prima volta furono conquistate delle bandiere svedesi in numero di quattro,
e per quei tempi era molto.
Qualche tempo dopo i laghi Peipus e Ladoga furono teatro di scontri
navali; qui gli Svedesi avevano lo stesso vantaggio che sulla terraferma,
cioè quello della disciplina e di una lunga esperienza. Malgrado ciò i Russi,
sulle loro mezze galere, si batterono talvolta con successo: in uno scontro
generale sul lago Peipus il feldmaresciallo Šeremetev catturò una fregata
svedese327.
Attraverso il lago Peipus lo zar teneva sotto una continua minaccia la
Livonia e l’Estonia; spesso le galere vi sbarcavano vari reggimenti: se il
successo non arrideva, tornavano a imbarcarsi, se invece vincevano si
manteneva il vantaggio. Due volte gli Svedesi furono battuti328 nei quartieri
presso Derpt mentre altrove vincevano dappertutto.
In tutte queste azioni, i Russi avevano sempre la superiorità numerica: è
questo il motivo per cui Carlo XII, che altrove combatteva con tanto
successo, non si preoccupò mai delle vittorie dello zar; avrebbe dovuto
invece considerare che questo gran numero di soldati si agguerriva ogni
giorno di più e che avrebbe potuto diventare temibile per se stesso.
Mentre la guerra divampa per terra e per mare 329 verso la Livonia, l’Ingria
323 Odierna città di Tartu, in Estonia.
324 11 gennaio 1702. (Nota dell’Autore)
325 Cfr. nota 33.
326 Forse Christoffel Graf von Schlippenbach (1654-1713), generale di cavalleria.
327 Maggio. (Nota dell’Autore)
328 Giugno e luglio. (Nota dell’Autore)
329 Luglio. (Nota dell’Autore)
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e l’Estonia, lo zar viene a sapere che una flotta svedese è stata destinata a
distruggere Archangel’sk. Egli marcia a quella volta: tutti stupiscono nel
saperlo sulle rive del mar Glaciale mentre lo si credeva a Mosca. Lo zar
mette tutto in assetto di difesa, previene l’incursione, traccia di sua mano il
progetto di una cittadella chiamata Nuova Dvina, posa la prima pietra, torna
a Mosca e di lì verso il teatro della guerra.
Carlo avanza in Polonia, i Russi avanzano nell’Ingria e nella Livonia. Il
maresciallo Šeremetev si fa incontro agli Svedesi comandati da Slipenbak,
dà battaglia presso il fiumicello Embach330 e vince: prende sedici bandiere e
venti cannoni. Nordberg pone questo scontro al primo dicembre 1701, il
diario di Pietro il Grande lo colloca al 19 luglio 1702.
Egli avanza e pretende contributi da tutti: conquista la piccola cittadina di
Marienburg331 ai confini dell’Ingria e della Livonia. Molte città del Nord
portano questo nome, ma questa, sebbene non esista più, è la più famosa
di tutte per l’avventura occorsa all’imperatrice Caterina.
Sebbene questa cittadina si fosse arresa a discrezione, gli Svedesi, non si
sa se inavvertitamente o a bella posta, appiccarono il fuoco ai magazzini. I
Russi irritati distrussero la città e presero prigionieri tutti gli abitanti che
trovarono. C’era tra questi una giovane livone cresciuta presso il ministro
luterano del luogo, che si chiamava Glück. Ella si trovò tra i prigionieri, ed è
la stessa persona che divenne la sovrana di quelli che l’avevano catturata e
che governò i Russi col nome di imperatrice Caterina332.
Già in passato si erano viste sul trono delle semplici borghesi: in Russia e
in tutti i reami dell’Asia non c’è nulla di più comune che i matrimoni tra i
sovrani e le loro suddite. Ma che una straniera presa tra le rovine di una
città saccheggiata sia diventata la sovrana assoluta dell’impero in cui fu
condotta prigioniera, ecco un fatto che la fortuna e il merito hanno fatto
vedere solo in quest’occasione negli annali di questo mondo.
Quanto avvenne in seguito in Ingria non smentì tale successo: la flotta di
mezze galere russe del lago Ladoga costrinse quella svedese a ritirarsi a
Vyborg, a un’estremità di quel gran lago: di lì poterono assistere, all’altra
estremità, all’assedio della fortezza di Noteburg che lo zar fece
intraprendere dal generale Šeremetev. Era un’impresa molto più importante
di quanto non si supponesse, poiché poteva aprire la comunicazione col mar
Baltico, meta costante dei progetti di Pietro.
Noteburg era una poderosa fortezza costruita su un’isola del lago Ladoga
che, dominando il lago, conferiva al suo possessore il controllo del corso
della Neva che sbocca nel mare. Fu tenuta sotto il tiro delle armi da fuoco
notte e giorno dal 18 settembre al 12 ottobre. Finalmente i Russi andarono
330 Nome tedesco dell’Emajõgi.
331 6 agosto. (Nota dell’Autore)
332 Nel 1702, a Marienburg (che Voltaire scrive Mariembourg, è oggi Aluksne, in Lettonia), fu
arrestata Marta (vero nome di Caterina I; 1683-1727) dall’allora maresciallo Boris
Šeremetev che la scelse come amante per un breve periodo dopo il quale la cedette al
principe Aleksandr Menšikov. Pietro la sposò in seconde nozze nel 1712 e nel 1714 la fece
incoronare solennemente.
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all’assalto per tre brecce. La guarnigione svedese era ridotta a cento soldati
non in condizione di difendersi, tuttavia, cosa incredibile, essi si difesero e
ottennero sulla breccia stessa una onorevole capitolazione. Inoltre il
colonnello Slipenbak, che comandava la piazzaforte, non volle arrendersi333
che a una sola condizione: che gli fosse permesso di far venire dalla
fortezza più vicina due ufficiali svedesi per esaminare le brecce e per render
conto al re suo signore che ottantatré combattenti, quanti allora ne
restavano, e 156 feriti o malati si erano arresi a un intero esercito solo
quando era impossibile combattere ancora e mantenere le posizioni. Basta
quest’episodio a mostrare con quali nemici lo zar avesse a che fare e quanto
necessari fossero stati per lui gli sforzi compiuti e la disciplina militare.
Egli distribuì medaglie d’oro agli ufficiali e ricompensò tutti i soldati, ma
ne fece anche punire alcuni che durante un assalto si erano dati alla fuga: i
compagni sputarono loro sul volto e poi li finirono con gli archibugi per unire
l’onta al supplizio.
Noteburg fu ricostruita, il suo nome fu mutato in Schlusselburg334, città
della chiave, perché questa fortezza è la chiave dell’Ingria e della Finlandia.
Il primo governatore fu quello stesso Menšikov che era diventato un ottimo
ufficiale e che, essendosi distinto durante l’assedio, meritò quest’onore. Il
suo esempio incoraggiava chiunque avesse qualche merito pur non essendo
di nobili natali.
Dopo questa campagna del 1702, lo zar volle che Šeremetev e tutti gli
ufficiali che si erano distinti facessero un ingresso trionfale a Mosca. Tutti i
prigionieri fatti in questa campagna marciarono al seguito dei vincitori335;
davanti a loro erano portati vessilli e insegne degli Svedesi con la bandiera
della fregata catturata sul lago Peipus. Pietro lavorò personalmente ai
preparativi della festa, così come aveva partecipato alle imprese che vi si
celebravano.
Queste solenni cerimonie erano destinate a ispirare l’emulazione: senza
di questo sarebbero state vane. Carlo le disprezzava, e dopo la giornata di
Narva disprezzava il nemico, i suoi sforzi e i suoi trionfi.
Capitolo XIII
RIFORMA A MOSCA. NUOVI SUCCESSI. FONDAZIONE DI PIETROBURGO.
PIETRO CONQUISTA NARVA…
Il breve soggiorno dello zar a Mosca agli inizi dell’inverno 1703 fu
consacrato a mandare a esecuzione tutte le nuove disposizioni e a far
progredire la popolazione civile e quella militare: perfino i divertimenti
furono consacrati allo scopo di far apprezzare il nuovo genere di vita che
333 16 ottobre. (Nota dell’Autore)
334 Nome tedesco di Šlissel’burg.
335 17 dicembre. (Nota dell’Autore)
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egli stava introducendo tra i suoi sudditi. Con questa intenzione fece invitare
dame e bojardi alle nozze di uno dei suoi buffoni e pretese che tutti si
presentassero vestiti secondo l’antica moda. Fu servito un pasto simile a
quelli che si facevano nel XVI secolo336. Un’antica superstizione vietava che
si accendesse il fuoco in un giorno di nozze, anche durante il freddo più
rigido: il giorno della festa quest’abitudine fu scrupolosamente osservata. In
passato i Russi non bevevano vino, ma idromele e acquavite: quel giorno lo
zar non permise altre bevande; invano ci si lamentava, egli rispondeva
scherzosamente: «I nostri avi usavano fare così, le antiche usanze sono
sempre le migliori». Questa battuta contribuì molto a far ravvedere quelli
che preferivano sempre il passato al presente o, se non altro, servì a
screditare le loro mormorazioni: ancor oggi ci sono delle nazioni che
avrebbero bisogno di un simile esempio.
Un’iniziativa più utile fu quella di una tipografia in caratteri russi e latini
per la quale tutti i macchinari erano stati fatti venire dall’Olanda e in cui si
cominciarono a stampare le traduzioni russe di alcune opere riguardanti la
morale e le arti. Fergusson fondò delle scuole di geometria, di astronomia e
di navigazione337.
Non meno necessaria si rivelò la fondazione di un grande ospedale, non
di quegli ospedali che incoraggiano i fannulloni e perpetuano la miseria, ma
un ospedale simile a quelli che lo zar aveva visto ad Amsterdam, in cui si
fanno lavorare vecchi e bambini e chiunque vi sia ricoverato si rende utile.
Egli fondò parecchie manifatture e, appena ebbe dato il primo impulso a
tutte le arti che faceva nascere a Mosca, si precipitò a Voronež e fece
impostare due navi da ottanta cannoni con lunghe casse a tenuta stagna
sotto l’ossatura della chiglia per sollevare lo scafo e farlo passare senza
pericolo al disopra delle lagune e dei banchi di sabbia che si incontrano nei
pressi di Azov, invenzione quasi simile a quella di cui ci si serve in Olanda
per passare il Pampus338.
Avendo predisposto l’impresa contro i Turchi, vola di nuovo339 contro gli
Svedesi e va a visitare le navi che faceva costruire nei cantieri di Olonec, tra
il lago Ladoga e l’Onega. In questa città egli aveva delle fabbriche di armi:
tutto qui parlava di guerra mentre a Mosca faceva prosperare le arti della
pace. Una sorgente di acqua minerale che fu scoperta in seguito a Olonec
ne accrebbe la celebrità. Da Olonec si recò a fortificare Schlusselburg.
336 Tratto dal diario di Pietro il Grande. (Nota dell’Autore)
337 Pietro I aveva emanato un ukase (editto) il 24 febbraio 1708 affinché fosse trasportata
dall’Olanda in Russia una tipografia slavone, ma l’invio fu fermato a Danzica da Carlo XII
(che l’impiegò per stampare falsi ordini alle frontiere). L’impresa fu possibile nel 1711 e a
Pietroburgo si cominciarono a stampare prima gli ukase imperiali e, dopo qualche tempo, i
libri. Per Fergusson, cfr. nota 273.
338 Si tratta del camello, o cammello, inventato ad Amsterdam nel 1688 da Meeuwis
Meindertsz Bakker. È un sistema di galleggiamento formato da due serbatoi esterni – uno
per fianco, opportunamente sagomati e agganciati allo scafo – che, svuotati dell’acqua
contenuta, si alzano sulla superficie, sollevando la nave, permettendole così di superare i
bassi fondali.
339 30 marzo 1703. (Nota dell’Autore)
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Si è già detto che aveva voluto passare per tutti i gradi militari: era
luogotenente dei bombardieri sotto il principe Menšikov prima che quel
favorito fosse stato eletto governatore di Schlusselburg. Allora prese i gradi
di capitano e prestò servizio sotto il maresciallo Šeremetev.
Nei pressi del lago Ladoga e vicino alla Neva c’era un’importante fortezza
chiamata Niantz o Nya340. Per consolidare le conquiste e facilitare
l’esecuzione dei suoi progetti, occorreva conquistarla. Si dovette assediarla
dalla parte di terra e impedire che le giungessero soccorsi per via d’acqua.
Lo zar si assunse personalmente il compito di condurre delle barche cariche
di soldati e di impedire l’accesso ai convogli svedesi. Šeremetev prese il
comando delle trincee: la cittadella si arrese341. Due navi svedesi
abbordarono troppo tardi per portarle soccorso: lo zar le attaccò con le sue
barche e le catturò. Il suo diario racconta che per ricompensa di quest’atto
«il capitano dei bombardieri342 fu creato cavaliere dell’ordine di Sant’Andrea
dall’ammiraglio Golovin, primo cavaliere dell’ordine».
Dopo la presa della fortezza di Nya egli risolse alfine di costruire la sua
città di Pietroburgo alla foce della Neva, sul golfo di Finlandia.
Le sorti del re Augusto precipitavano: le ripetute vittorie degli Svedesi in
Polonia avevano fatto imbaldanzire il partito avverso e perfino i suoi amici
l’avevano costretto a rimandare allo zar circa 20.000 russi che rafforzavano
il suo esercito. Pensavano che questo sacrificio avrebbe tolto agli scontenti il
pretesto di passare dalla parte del re di Svezia, ma i nemici si disarmano
solo con la forza mentre la debolezza li incoraggia. Quei 20.000 uomini
addestrati da Patkul furono utili nella Livonia e nell’Ingria, mentre Augusto
perdeva i suoi possedimenti. Questi rinforzi e soprattutto il possesso di Nya
permisero allo zar di fondare la nuova capitale.
Fu dunque su quel terreno deserto e acquitrinoso, comunicante con la
terraferma per una sola via, che egli gettò343 le prime fondamenta di
Pietroburgo, a 60° di latitudine e 44° e mezzo di longitudine. Le prime
pietre della fondazione furono le rovine di alcuni bastioni di Nya. Dapprima
fu innalzato un piccolo forte in una delle isole che si trovano oggi al centro
della città. Gli Svedesi non si curavano di quelle costruzioni sorte in mezzo a
una palude dove le grandi navi non potevano attraccare, ma ben presto
videro estendersi le fortificazioni, sorgere una città e alfine l’isolotto di
Kronštadt, che fronteggia la città, diventare nel 1704 una fortezza
imprendibile sotto i cui cannoni si possono riparare le flotte più numerose.
Queste opere che sembrano richiedere tempi di pace, venivano eseguite
in tempo di guerra e, da Mosca, da Astrachan’, da Kazan’, dall’Ucraina,
operai di ogni genere venivano a lavorare alla nuova città. Gli ostacoli posti
dalla natura del terreno che occorreva rassodare e innalzare, la lontananza
dei soccorsi, le difficoltà impreviste che sorgevano a ogni passo in ogni
340 Quasi sicuramente Naz’ja.
341 12 maggio. (Nota dell’Autore)
342 Cioè lo stesso Pietro.
343 27 maggio 1703, giorno della Pentecoste, fondazione di Pietroburgo. (Nota dell’Autore) –
Il 27 maggio corrispondeva al 16 maggio del calendario giuliano.
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genere di lavoro e per finire le malattie epidemiche che portarono via un
numero incredibile di operai, nulla valse a scoraggiare il fondatore: egli ebbe
la sua città nel giro di cinque anni. Non era che un gruppo di capanne con
due edifici in mattoni, il tutto circondato da spalti, ma per il momento era
tutto ciò che occorreva: il tempo e la costanza hanno fatto il resto.
Pietroburgo non era sorta ancora da cinque mesi che una nave olandese vi
andò a trafficare344; il capitano ebbe delle gratificazioni e gli Olandesi fecero
presto a imparare la strada di Pietroburgo.
Mentre dirige questa colonia, Pietro la rende ogni giorno più sicura
mediante la conquista dei forti vicini. Un colonnello svedese chiamato
Croniort345 si era attestato sul fiume Sestra e minacciava la città nascente.
Pietro si affretta ad andargli incontro346 con i suoi due reggimenti di guardie,
lo batte e lo costringe a ripassare il fiume. Avendo provveduto alla sicurezza
della sua città, si reca ad Olonec a ordinare la costruzione di parecchie
piccole navi, e ritorna a Pietroburgo347 su una fregata che ha fatto costruire
assieme a sei navi da trasporto, in attesa che siano pronte le altre.
In quello stesso periodo continua a tendere la mano al re di Polonia: gli
invia348 12.000 soldati di fanteria e un sussidio di 300.000 rubli che
equivalgono a più di un milione e mezzo dei nostri franchi. Già abbiamo
detto che le sue entrate ammontavano soltanto a circa cinque milioni di
rubli: le spese per le flotte, per l’esercito e per tutte le nuove opere
dovevano essere un peso gravoso. Quasi contemporaneamente aveva
fortificato Novgorod, Pskov, Smolensk, Azov, Archangel’sk, e stava fondando
una capitale. Eppure gli restava ancora di che aiutare l’alleato con uomini e
denaro. Secondo quanto riferisce l’olandese Cornelis de Bruyn349, che
viaggiava a quei tempi attraverso la Russia e col quale Pietro si intrattenne,
come faceva con tutti gli stranieri, lo zar gli disse di aver ancora nei suoi
forzieri una rimanenza di 300.000 rubli dopo aver provveduto a tutte le
spese della guerra. Per mettere al sicuro la nascente città di Pietroburgo,
egli si reca di persona a scandagliare la profondità del mare, stabilisce il
punto dove innalzare il forte di Kronštadt, ne fa un modellino in legno e
lascia a Menšikov l’incarico di far eseguire il lavoro secondo il suo modello.
Di lì va a passare l’inverno a Mosca350 per consolidare sensibilmente tutti i
cambiamenti che ha introdotto nelle leggi, nei costumi e nelle usanze. Egli
disciplina le finanze e vi mette nuovo ordine, sollecita l’esecuzione delle
344 Novembre. (Nota dell’Autore)
345 Nel libro di Alexander Gordon di Auchintouli (1669–1752; generale di Pietro I fino al 1711
e genero di Patrick Gordon, cfr. nota 221), The history of Peter the Great, Emperor of
Russia, pubblicato nel 1755, il nome è Cronsort. ed è indicato come maggiore generale.
346 9 luglio. (Nota dell’Autore)
347 Settembre. (Nota dell’Autore)
348 Novembre. (Nota dell’Autore)
349 Cornelis de Bruijn o Bruyn (1652-1726/27), pittore e scrittore olandese, compì due lunghi
viaggi, nel secondo dei quali (1701-1708) attraversò la Russia da Archandel’sk al mar
Caspio. Su questo viaggio pubblicò il libro Viaggio in Moscovia, Persia e Indie Occidentali
nel 1711, subito tradotto in francese e in inglese.
350 5 novembre. (Nota dell’Autore)
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opere iniziate sul Voronež, ad Azov, in un porto che faceva costruire sulla
Palude Meotide sotto la fortezza di Taganrog351.
La Porta352 allarmata gli spedì353 un ambasciatore per protestare contro
tutti quei preparativi: egli rispose che nel suo Stato era il padrone come il
Gran signore nel suo, e che rendere rispettabile la Russia sul Ponto Eusino
non significava violare la pace.
Tornato a Pietroburgo354, trovò la nuova cittadella di Kronštadt fondata in
mezzo al mare e finita: la rifornì di artiglieria. Per affermarsi nell’Ingria e
rimediare completamente al rovescio subito davanti a Narva, era necessario
prendere finalmente quella città. Mentre fa i preparativi dell’assedio, una
piccola flotta di brigantini svedesi fa la sua comparsa sul lago Peipus per
contrastare i suoi piani. Le galere russe le si fanno incontro e la catturano
tutta: portava novantotto cannoni. Allora355 si stringe d’assedio Narva per
terra e per mare; la cosa più interessante è che contemporaneamente viene
assediata la città di Derpt in Estonia.
A Derpt, cosa incredibile, c’era un’università. Era stata fondata da
Gustavo Adolfo, e non era servita a rendere più celebre la città. Derpt è
famosa soltanto per il periodo dei due assedi. Pietro fa ininterrottamente la
spola dall’uno all’altro per sollecitare gli attacchi e dirigere tutte le
operazioni. Il generale svedese Slipenbak si trovava a Derpt con circa 2.500
uomini.
Gli assediati aspettavano il momento in cui avrebbe portato soccorso alla
fortezza. Pietro immaginò uno stratagemma di guerra che non è abbastanza
sfruttato. Egli fa distribuire a due reggimenti di fanteria e a uno di cavalleria
uniformi, stendardi e bandiere svedesi. I presunti Svedesi attaccano le
trincee. I Russi fingono di darsi alla fuga; la guarnigione, tratta in inganno
dalle apparenze, tenta una sortita356: a questo punto i finti assaltori e gli
assaliti si riuniscono e piombano sulla guarnigione: metà è sterminata e
l’altra metà rientra in città. Poco dopo arriva effettivamente Slipenbak con i
soccorsi ed è completamente sconfitto. Finalmente Derpt è costretta a
capitolare357, nel momento in cui Pietro stava per dare l’assalto generale.
Un rovescio abbastanza importante che lo zar subisce nello stesso tempo
sulla strada della nuova città di Pietroburgo non gli impedisce di continuare
la costruzione della sua città né di sollecitare l’assedio di Narva.
Come si è detto, aveva inviato truppe e denaro al re Augusto che era sul
punto di essere detronizzato; i due aiuti furono egualmente inutili. I Russi,
uniti ai Lituani del partito di Augusto, furono completamente sconfitti in
351 Sull’originale Taganroc.
352 Costantinopoli.
353 Gennaio 1704. (Nota dell’Autore)
354 30 marzo. (Nota dell’Autore)
355 Aprile. (Nota dell’Autore)
356 27 giugno. (Nota dell’Autore)
357 23 luglio. (Nota dell’Autore)
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Curlandia358 dal generale svedese Levenhaupt359. Se i vincitori avessero
concentrato i loro sforzi sulla Livonia, l’Estonia e l’Ingria, avrebbero potuto
rendere vani tutti gli sforzi dello zar e fargli perdere il frutto delle sue grandi
imprese. Pietro minava ogni giorno di più gli avamposti della Svezia, e Carlo
non faceva abbastanza per impedirglielo: egli perseguiva una gloria meno
utile e più brillante.
Sin dal 12 luglio 1704, nel campo d’elezione chiamato Kolo, nei pressi di
Varsavia, un semplice colonnello svedese a capo di un distaccamento aveva
fatto eleggere dalla nobiltà polacca un nuovo re.
Ad onta di tutte le minacce e le scomuniche del pontefice, un primate del
regno e vari vescovi si assoggettarono alla volontà di un principe luterano:
tutto soccombeva alla forza. Nessuno ignora come fu fatta l’elezione di
Stanislao Leszczyński, e come Carlo XII lo fece riconoscere in gran parte
della Polonia360.
Pietro non abbandonò il re detronizzato, ma raddoppiò gli aiuti via via che
le sue disgrazie aumentavano e mentre il nemico faceva dei re, egli batteva
separatamente i generali svedesi in Estonia e nell’Ingria, correva all’assedio
di Narva e predisponeva gli assalti. C’erano tre bastioni celebri se non altro
per il nome: erano chiamati Vittoria, Onore e Gloria. Lo zar li espugnò tutti
con la spada in pugno. Gli assediati entrano nella città, la saccheggiano e vi
esercitano tutte quelle crudeltà che erano anche troppo frequenti tra Russi e
Svedesi.
Pietro dette allora un esempio destinato a cattivargli i cuori dei nuovi
sudditi361: egli corre da ogni parte per fermare il saccheggio e il massacro,
strappa le donne dalle mani dei suoi soldati e, avendo ucciso due di quei
forsennati che non obbedivano ai suoi ordini, entra nel municipio dove i
cittadini si accalcavano per rifugiarsi e qui, posando sulla tavola la spada
lorda di sangue: «Non del sangue dei cittadini – dice – è tinta questa spada,
ma del sangue dei miei soldati che ho versato per salvarvi la vita».
Capitolo XIV362
TUTTA L’INGRIA RIMANE IN MANO A PIETRO IL GRANDE MENTRE CARLO XII TRIONFA SU
TUTTI GLI ALTRI FRONTI. ASCESA DI MENŠIKOV. PIETROBURGO AL SICURO. PROGETTI
358 31 luglio. (Nota dell’Autore)
359 Il generale svedese Adam Ludwig Levenhaupt (o Lewenhaupt; (1659–1719) vinse i Russi
nel luglio 1705 a Gemauerthof (ma fu una vittoria simbolica perché in agosto la Curlandia
fu riconquistata). In seguito fu sconfitto dai Russi nelle battaglie di Lesnaja (1708) e di
Poltava (1709), dove fu fatto prigioniero e tenuto a Mosca fino alla morte.
360 Dopo la disfatta subita da Augusto II, Stanislao Leszczyński (1677-1766), nobile polacco,
riuscì a firmare la pace con Carlo XII, il quale appoggiò la sua candidatura a re di Polonia
proposta dalla Francia (Stanislao era suocero di Luigi XV). La Dieta di Varsavia nominò re
Stanislao il 12 luglio 1704.
361 20 agosto. (Nota dell’Autore)
362 I capitoli precedenti e tutti i successivi sono stati tratti dal diario di Pietro il Grande e dalle
relazioni inviatemi da Pietroburgo, confrontate con tutte le altre. (Nota dell’Autore)
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SEMPRE REALIZZATI MALGRADO LE VITTORIE DI CARLO
Padrone di tutta l’Ingria, Pietro ne affidò il governo a Menšikov e gli
conferì il titolo di principe e il grado di generale maggiore. Altrove, l’orgoglio
e i pregiudizi avrebbero potuto trovar da ridire che un garzone pasticciere 363
diventasse generale, governatore e principe, ma Pietro aveva da tempo
abituato i suoi sudditi a non stupirsi se vedevano accordare tutto al merito e
nulla alla sola nobiltà, Menšikov, tratto dalla sua primitiva condizione sin
dall’infanzia grazie ad un caso fortunato che lo aveva fatto entrare nella
casa dello zar, aveva imparato varie lingue, era diventato esperto nel
commercio e nelle armi e avendo cominciato col rendersi bene accetto al
suo signore, seppe poi rendersi necessario.
Egli sollecitava i lavori di Pietroburgo; già si stavano costruendo parecchie
case di pietra e mattoni, un arsenale e dei magazzini; erano completate le
fortificazioni, mentre i palazzi vennero soltanto in seguito.
Pietro si era appena insediato a Narva che già offriva nuovi soccorsi al
deposto re di Polonia: oltre ai 12.000 uomini già inviati, gli promise ancora
delle truppe ed effettivamente fece partire364 per le frontiere della Lituania il
generale Repnin con 6.000 uomini di fanteria e 6.000 di cavalleria. Non
perdeva di vista un solo istante la colonia di Pietroburgo: la città stava
sorgendo, la marina aumentava; nei cantieri di Olonec si costruivano
vascelli e fregate: egli vi si recò per farli terminare e li portò a
Pietroburgo365.
Ognuno dei suoi ritorni a Mosca era contrassegnato da un’entrata
trionfale: quell’anno vi tornò366 nello stesso modo e ripartì soltanto per
andare a far varare la prima nave da ottanta cannoni di cui aveva stabilito le
dimensioni l’anno precedente sul Voronež.
Non appena fu possibile dare inizio alla campagna in Polonia367, si trasferì
presso l’esercito che aveva inviato sulle frontiere della Lituania in soccorso
di Augusto, ma mentre aiutava così l’alleato, una flotta svedese avanzava
per distruggere Pietroburgo e Kronštadt appena costruite. Era formata da
ventidue vascelli che portavano da 54 a 64 cannoni ciascuno, sei fregate,
due galeotte da bombe e due brulotti368. Le truppe da trasporto sbarcarono
nell’isolotto di Kotlin. Un colonnello russo di nome Tolbuchin, fatto sdraiare il
suo reggimento ventre a terra durante lo sbarco degli Svedesi sulla riva369,
lo fece alzare in piedi all’improvviso, e il fuoco fu così nutrito e così diretto
che gli Svedesi furono ricacciati e costretti a ritirarsi sulle navi,
363 Pasticciere era, sembra, il padre di Menšikov.
364 19 agosto 1704. (Nota dell’Autore)
365 11 ottobre. (Nota dell’Autore)
366 30 dicembre. (Nota dell’Autore)
367 Maggio 1705. (Nota dell’Autore)
368 Il brulotto è una barca di piccole dimensioni, caricata con esplosivo o materiali
infiammabili, che veniva diretta sulle navi nemiche per incendiarle o farle esplodere.
369 17 giugno. (Nota dell’Autore) – Sull’originale il colonnello russo è Tolboguin, ma è Fedot
Semënovič Tolbuchin, al quale fu dedicato, dalla metà del Settecento, il faro di Kotlin a
nord-ovest di Kronštadt.
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abbandonando i morti e lasciando 300 prigionieri.
Ma la flotta restava sempre nei paraggi e minacciava Pietroburgo. Essi
tentarono un altro sbarco e ancora una volta furono respinti. Delle truppe di
terraferma avanzavano da Vyborg agli ordini del generale svedese Maydell370
e marciavano alla volta di Schlusselburg: era la più grande azione che Carlo
XII avesse mai tentato contro gli Stati conquistati o creati da Pietro. Gli
Svedesi furono ricacciati da ogni parte371 e Pietroburgo restò tranquilla.
Pietro da parte sua avanzava verso la Curlandia e voleva penetrare fino a
Riga. Il suo piano era di prendere la Livonia mentre Carlo XII finiva di
sottomettere la Polonia al nuovo re che le aveva dato. Lo zar era ancora a
Vilna372, in Lituania, e il maresciallo Šeremetev si andava avvicinando a
Mitau373, capitale della Curlandia, quando trovò il generale Levenhaupt, già
celebre per più di una vittoria. Fu data battaglia campale in una località
chiamata Gemavershof o Gemavers374.
In casi come questi, in cui contano soprattutto l’esperienza e la disciplina,
gli Svedesi, sebbene numericamente inferiori, avevano sempre la meglio. I
Russi furono completamente sconfitti e tutta la loro artiglieria fu presa 375.
Pietro, dopo tre battaglie perdute in questo modo, rimediava regolarmente
alle perdite e ne ricavava persino dei vantaggi.
Dopo la giornata di Gemavers egli marcia in forze alla volta della
Curlandia, arriva di fronte a Mitau, si impossessa della città, assedia la
cittadella e vi penetra dopo averla costretta alla capitolazione376.
A quei tempi le truppe russe godevano fama di consacrare ogni successo
col saccheggio, usanza fin troppo antica di tutte le nazioni. In occasione
della presa di Narva, Pietro aveva a tal punto trasformato quest’usanza che
nel castello di Mitau i soldati russi incaricati di montare la guardia ai
sotterranei dove erano inumati i granduchi di Curlandia, vedendo che le
salme erano stare tratte fuori dai rispettivi sepolcri e spogliate degli
ornamenti, si rifiutarono di prenderle in consegna e pretesero che si facesse
prima venire un colonnello svedese a ispezionare le condizioni del luogo.
Infatti ne venne uno e rilasciò loro un certificato nel quale riconosceva che
autori del danno erano stati gli Svedesi.
La voce della disfatta totale dello zar alla giornata di Gemavers, che corse
per tutto l’impero, gli fece ancora più torto della battaglia vera e propria. Un
gruppo superstite di strel’cy di guarnigione ad Astrachan’ a questa falsa
notizia trovò l’ardire di ribellarsi; essi trucidarono il governatore della città,
e lo zar fu costretto a inviare il maresciallo Šeremetev con alcune truppe
per sottometterli e punirli.
370 Sull’originale Meidel. Georg Johan Maydell (1648-1710) era maggiore generale della
cavalleria svedese.
371 25 giugno. (Nota dell’Autore)
372 O Vilnius.
373 Sull’originale Mittau. È il nome tedesco di Jelgava, in Lettonia.
374 È Gemauerthof. La battaglia fu combattuta il 15/26 luglio 1705.
375 28 luglio. (Nota dell’Autore)
376 14 settembre. (Nota dell’Autore)
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Tutto cospirava contro di lui. La fortuna e il valore di Carlo XII, i rovesci di
Augusto, la forzata neutralità della Danimarca, le ribellioni degli ex-strel’cy,
le mormorazioni di un popolo che della riforma sentiva allora solo i disagi e
non l’utilità, il malcontento dei grandi sottoposti alla disciplina militare, il
dissesto delle finanze, nulla scoraggiò Pietro un solo istante; egli soffocò la
rivolta e dopo aver messo al sicuro l’Ingria ed essersi assicurato il possesso
della cittadella di Mitau, a onta del vincitore Levenhaupt che non aveva
truppe a sufficienza per opporglisi, attraversò liberamente la Samogizia e la
Lituania.
Egli divideva con Carlo XII la gloria di dominare in Polonia. Avanzò fino a
Tykocin. Colà incontrò il re Augusto per la seconda volta, lo consolò della
sua sfortuna, gli promise di vendicarlo, gli fece dono di alcuni vessilli
strappati da Menšikov ad alcune bande del rivale; poi si recarono a Grodno,
capitale della Lituania, dove rimasero fino al 14 dicembre. Partendo377,
Pietro gli lasciò del denaro e un esercito e, dopo aver sostenuto una
difficilissima campagna, andò a passare una parte dell’inverno a Mosca,
come era sua abitudine, per favorire lo sviluppo delle arti e delle leggi.
Capitolo XV
MENTRE PIETRO MANTIENE LE CONQUISTE E CIVILIZZA IL REGNO, IL SUO NEMICO
CARLO XII VINCE ALCUNE BATTAGLIE, DOMINA IN POLONIA E IN SASSONIA. AUGUSTO,
MALGRADO UNA VITTORIA DEI RUSSI, SI SOTTOMETTE AL VOLERE DI CARLO XII. EGLI
RINUNCIA ALLA CORONA E CONSEGNA PATKUL, AMBASCIATORE DELLO ZAR; UCCISIONE DI
PATKUL CONDANNATO AL SUPPLIZIO DELLA RUOTA
Pietro era appena arrivato a Mosca quando seppe che Carlo XII, vittorioso
su tutti i fronti, avanzava alla volta di Grodno per affrontare il suo esercito.
Il re Augusto era stato costretto a fuggire da Grodno e si ritirava
precipitosamente verso la Sassonia con quattro reggimenti di dragoni russi:
in questo modo egli indeboliva l’esercito del protettore e lo demoralizzava
con la propria ritirata. Lo zar trovò tutte le strade che portavano a Grodno
controllate dagli Svedesi e l’esercito disperso.
Mentre con estrema difficoltà riuniva le sue forze in Lituania, il celebre
Schulenburg, ultima risorsa di Augusto, che doveva in seguito coprirsi di
gloria difendendo Corfù contro i Turchi378, avanzava alla volta della grande
Polonia con circa 12.000 Sassoni e 6.000 Russi presi dalle truppe che lo zar
aveva affidato allo sfortunato principe. Schulenburg nutriva fondate
speranze di risollevare le sorti di Augusto. Egli sapeva che in quel momento
Carlo XII era occupato verso la Lituania: non c’erano che 10.000 Svedesi
377 30 dicembre 1705. (Nota dell’Autore)
378 Johann Mathias conte di Schulenburg (o Schulenberg; 1661-1747), che durante la guerra
nordica era con i Sassoni contro Carlo XII perdendo a Klissow e Wschowa (o Fraustadt),
passò al servizio di Venezia nel 1715 e l’anno seguente si distinse alla presa di Corfù.
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all’incirca, agli ordini del generale Rehnskiöld379, che potessero contrastargli
il cammino. Egli avanzava dunque fiducioso verso le frontiere della Slesia,
che funge da varco tra la Sassonia e l’alta Polonia. Quando fu nei pressi del
borgo di Fraustadt, sulle frontiere polacche, si incontrò col maresciallo
Rehnskiöld che veniva a dar battaglia.
Per quanto io cerchi di non riferire quello che ho già detto nella Storia di
Carlo XII, a questo punto sono costretto a ripetere che nell’esercito sassone
c’era un reggimento francese il quale, essendo stato fatto prigioniero in
blocco alla famosa battaglia di Hochstadt380, era stato costretto a prestare
servizio nell’esercito sassone. Le mie relazioni dicono che gli era stata
affidata la sorveglianza dell’artiglieria e aggiungono che questi Francesi,
abbagliati dalla gloria di Carlo XII e scontenti del servizio in Sassonia, non
appena furono in vista del nemico381 gettarono le armi e chiesero di passare
agli Svedesi, con i quali prestarono effettivamente servizio fino al termine
della guerra. Fu quello l’inizio e il segnale di una completa disfatta. Si
salvarono meno di tre battaglioni russi, e per giunta i soldati scampati erano
feriti; tutti gli altri furono uccisi senza che si desse quartiere a nessuno. Il
cappellano Nordberg pretendeva che in quella battaglia la parola d’ordine
degli Svedesi fosse «nel nome di Dio» e quella dei Russi «massacrate tutti»;
in realtà furono gli Svedesi a massacrare tutti nel nome di Dio. Lo zar stesso
assicura in uno dei suoi manifesti382 che molti prigionieri russi, cosacchi e
calmucchi furono uccisi tre giorni dopo la battaglia. Le truppe irregolari dei
due eserciti avevano abituato i generali a simili crudeltà, neppure ai tempi
dei barbari ne furono commesse di peggiori. Il re Stanislao mi ha fatto
l’onore di dirmi che durante una di quelle battaglie così frequenti in Polonia,
uno degli ufficiali russi, dopo la disfatta del corpo ai suoi ordini, andò a
mettersi sotto la sua protezione, e che il generale svedese Stenbock lo
freddò tra le sue braccia con un colpo di pistola.
Ecco dunque quattro battaglie perdute dai Russi contro gli Svedesi, senza
contare le altre vittorie di Carlo XII in Polonia. Le truppe dello zar, che si
trovavano a Grodno, correvano il rischio di subire un rovescio ancora più
grave e di essere accerchiate da tutte le parti: fortunatamente egli riuscì a
raccoglierle e persino ad aumentarle; occorreva provvedere a un tempo alla
sicurezza dell’esercito e a quella delle conquiste nell’Ingria. Egli fece
avanzare l’armata, agli ordini del principe Menšikov, verso oriente e di lì
verso mezzogiorno fino a Kiev.
Durante la sua marcia383, lo zar si reca a Schlusselburg, a Narva, alla
colonia di Pietroburgo, dovunque prende misure di sicurezza e dalle rive del
mar Baltico corre a quelle del Boristene per tornare in Polonia attraverso la
379 Carl Gustav Rehnskiöld (1651-1722) era consigliere e secondo generale dopo re Carlo XII.
Dopo la vittoria a Fraustadt, fu sconfitto a Poltava e imprigionato dai Russi fino al 1718.
380 Presso Hochstadt, in Baviera, Eugenio di Savoia e il duca di Marlborough sconfissero
Francesi e Bavaresi togliendo alla Francia la Germania meridionale (13 agosto 1704).
381 6 febbraio. (Nota dell’Autore)
382 Manifesto dello zar in Ucraina del 1709. (Nota dell’Autore)
383 Agosto. (Nota dell’Autore)
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provincia di Kiev, sempre cercando di rendere inutili quelle vittorie di Carlo
XII che non era riuscito a impedire; anzi preparava già una nuova
conquista, quella di Vyborg sul golfo di Finlandia, capitale della Carelia. La
cinse d’assedio384, ma stavolta la città resistette alle sue armi, i soccorsi
giunsero al momento opportuno ed egli tolse l’assedio. Il suo rivale Carlo
XII vincendo le battaglie non faceva nessuna conquista effettiva; in quel
momento egli braccava il re Augusto in Sassonia, ma si preoccupava più di
umiliare il principe e di schiacciarlo sotto il peso della sua gloria e della sua
potenza, che di riprendere l’Ingria a un nemico vinto che gliel’aveva tolta.
Carlo seminava il terrore nell’alta Polonia, in Slesia, e in Sassonia: i
familiari del re Augusto, la madre, la moglie, il figlio e le principali famiglie
del Paese si rifugiavano nel cuore dell’impero. Augusto implorava la pace:
egli preferiva rimettersi a discrezione del vincitore che nelle braccia del
protettore. Stava conducendo i negoziati per un trattato che lo privava della
corona di Polonia e lo copriva di vergogna. Questo trattato era segreto;
occorreva tenere all’oscuro i generali dello zar, con i quali egli era come
rifugiato in Polonia mentre Carlo XII dettava legge a Lipsia e regnava in
tutto il suo elettorato. Era già stato firmato385 dai suoi plenipotenziari il
fatale trattato in virtù del quale rinunciava alla corona di Polonia,
prometteva di non assumere mai il titolo di re di quel Paese, riconosceva
Stanislao, rinunciava all’alleanza con lo zar, suo benefattore, e per colmo
d’umiliazione si impegnava a consegnare nelle mani di Carlo XII
l’ambasciatore dello zar, Johann Reinhold Patkul, generale dell’esercito
russo, che combatteva in sua difesa. Qualche tempo prima aveva fatto
arrestare Patkul sulla base di falsi sospetti e in spregio al diritto delle genti,
e contro quello stesso diritto delle genti lo consegnava al nemico. Era
preferibile morire con le armi in pugno piuttosto che sottoscrivere un simile
trattato: non solo egli perdeva la corona e la gloria, ma rischiava la sua
stessa libertà poiché in quel momento si trovava in Posnania386, in potere del
principe Menšikov, e i pochi Sassoni che aveva allora con sé ricevevano il
soldo dalle casse dei Russi.
In quel settore il principe Menšikov aveva di fronte un esercito svedese
con dei rinforzi polacchi del partito del nuovo re Stanislao, agli ordini del
generale Meyerfeldt387. Ignorando che Augusto era allora in trattative col
nemico, gli propose di attaccarlo. Augusto non osò rifiutare: la battaglia fu
combattuta nei pressi di Kalish388, nello stesso palatinato del re Stanislao, e
fu la prima battaglia campale vinta dai Russi contro gli Svedesi. Al principe
Menšikov andò la gloria: i nemici ebbero 4.000 morti e 2.598 prigionieri.
È difficile capire come Augusto, dopo questa vittoria, abbia potuto
384 Ottobre. (Nota dell’Autore)
385 14 settembre. (Nota dell’Autore)
386 Provincia orientale della Prussia.
387 Johan August Meijerfeldt (1664-1749) partecipò a tutte le campagne di Carlo XII,
compresa quella – da lui osteggiata – di Poltava. Fedele al re, lo seguì nell’esilio di Bender
e nel 1713 fu nominato governatore generale della Pomerania svedese.
388 19 ottobre. (Nota dell’Autore)
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ratificare un trattato che gliene toglieva tutti i vantaggi, ma Carlo era in
Sassonia ed era onnipotente; tale era il terrore ispirato dal suo nome, così
scarso affidamento si faceva sui successi da parte russa, il partito polacco
avverso ad Augusto era così forte e per finire Augusto era così mal
consigliato che sottoscrisse quel funesto trattato. E non si limitò a questo.
Non contento, scrisse al suo inviato Finkstein389 una lettera ancor più penosa
del trattato stesso, nella quale si scusava della sua vittoria «assicurando che
la battaglia si era fatta suo malgrado, che i Russi e i Polacchi del suo partito
ve lo avevano costretto, che con quell’intento egli aveva preso delle misure
per abbandonare Menšikov, che Meyerfeldt cogliendo l’occasione avrebbe
potuto sconfiggerlo, che prometteva di restituire tutti i prigionieri svedesi e
di rompere con i Russi, e finalmente che avrebbe dato al re di Svezia giusta
soddisfazione per aver osato sconfiggere le sue truppe.
Tutto ciò è inaudito, inconcepibile, eppure è la pura verità. Se si pensa
che malgrado questa debolezza Augusto era uno dei più valorosi principi
d’Europa, si vede che è solo la forza d’animo quella che fa perdere o
conservare gli Stati, che li innalza o li fa decadere.
Due episodi portarono al culmine la sfortuna del re di Polonia ed elettore
di Sassonia e l’abuso che Carlo XII faceva della propria fortuna: il primo fu
una lettera di congratulazioni che Augusto, costretto da Carlo, scrisse al
nuovo re Stanislao390. Il secondo fu atroce: allo stesso Augusto fu imposto di
consegnare Patkul, che era ambasciatore e generale dello zar. L’Europa sa
fin troppo bene che in seguito, nel settembre 1707, quel ministro fu
suppliziato vivo sulla ruota a Kazimierz391. Il cappellano Nordberg ammette
che tutti gli ordini per quell’esecuzione furono scritti da Carlo di suo pugno.
Non c’è giureconsulto in Europa, non c’è nessuno, nemmeno tra gli
schiavi, che non senta tutto l’orrore di questa barbara ingiustizia. La colpa
più grave di quell’infelice era di aver fatto presente con il massimo rispetto i
diritti della propria patria in qualità di capo di sei gentiluomini livoni che
rappresentavano tutto lo Stato. Condannato per aver adempiuto il primo dei
doveri, quello di servire il proprio Paese secondo le leggi, quest’iniqua
sentenza l’aveva messo nel pieno diritto naturale che ogni uomo ha di
scegliersi una patria. Divenuto ambasciatore di uno dei più grandi monarchi
del mondo, la sua persona era sacra. Il diritto del più forte violò in lui il
diritto naturale e quello delle nazioni. Un tempo il lustro della gloria
nascondeva simili crudeltà, oggi ne è offuscato.
389 Quasi sicuramente Albrecht Konrad von Finck Reinhold Finckenstein (1660-1735),
feldmaresciallo e statista prussiano.
390 La lettera è riportata nella Storia di Carlo XII (libro III): «Mio Signore e Fratello. Come io
devo avere del riguardo alle preghiere del Re di Svezia, così io non posso trattenermi di
felicitare Vostra Maestà per il suo arrivo alla Corona; benché forse il Trattato vantaggioso,
che il Re di Svezia ha concluso per Vostra Maestà, m’avesse dovuto dispensare da questo
commerzio: tuttavia io felicito Vostra Maestà; pregando Iddio per i vostri Sudditi vi sieno
più fedeli di quello, che sono stati a me. AUGUSTO RE. Lipsia 8. Aprile 1707.»
391 Patkul fu sottoposto alla tortura della ruota e alla successiva decapitazione il 10 ottobre
1707 (calendario gregoriano) nel borgo di Kazimierz Biskupi (che Voltaire scrive
“Casimir”). Alcune ricostruzioni russe parlano di squartamento anziché decapitazione.
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Capitolo XVI
Si VUOLE ELEGGERE UN TERZO RE DI POLONIA. CARLO XII PARTE DALLA SASSONIA CON
UN FIORENTE ESERCITO E ATTRAVERSA LA POLONIA DA VINCITORE. CRUDELTÀ E
CONDOTTA DELLO ZAR. SUCCESSI DI CARLO XII CHE FINALMENTE AVANZA VERSO LA
RUSSIA.
Ad Altranstädt, nei pressi di Lipsia, Carlo XII coglieva il frutto dei suoi
successi. I principi protestanti dell’impero germanico venivano in folla a
rendergli omaggio e a mettersi sotto la sua protezione. Quasi tutte le
potenze gli inviavano ambascerie. L’imperatore Giuseppe I392 esaudiva tutti i
suoi desideri. Pietro allora, vedendo che il re Augusto aveva rinunciato alla
sua protezione e che una parte della Polonia riconosceva Stanislao, prestò
ascolto alle proposte di Yolkova miranti a far eleggere un terzo re393.
In una Dieta tenuta a Lublino furono proposti diversi principi palatini:
allora si mise in lizza il principe Rákóczi394. Era quello stesso principe Rákóczi
che in gioventù era stato lungamente prigioniero dell’imperatore Leopoldo e
che in seguito, riconquistata la libertà, gli aveva conteso il trono di
Ungheria. I negoziati arrivarono molto avanti e poco mancò che non si
vedessero sul trono di Polonia tre sovrani nello stesso tempo. Dopo
l’insuccesso del principe Rákóczi, Pietro volle mettere sul trono il gran
generale della repubblica Siniavski395, uomo potente, accreditato, capo di un
terzo partito che non riconosceva né il deposto Augusto né Stanislao eletto
da un partito avverso.
Nel mezzo di questi disordini, come sempre, si parlò di pace. Buzenval,
incaricato di Francia in Sassonia, si intromise per riconciliare lo zar e il re di
Svezia. A quel tempo la corte di Francia pensava che Carlo, non avendo più
da combattere né Russi né Polacchi, avrebbe rivolto le armi contro
l’imperatore Giuseppe di cui era scontento e al quale durante il soggiorno in
Sassonia aveva imposto dure condizioni; ma Carlo rispose che avrebbe
trattato la pace con lo zar a Mosca. È in quell’occasione che lo zar disse: «Il
mio fratello Carlo vuol fare l’Alessandro, ma non sarò io il suo Dario».
Frattanto, mentre il re che Carlo XII aveva dato ai Polacchi era a
malapena riconosciuto e Carlo arricchiva il suo esercito con le spoglie dei
392 Giuseppe I d’Asburgo (1678-1711), figlio di Leopoldo I, strinse con Carlo XII l’accordo di
Altranstädt (1706) in virtù del quale Augusto II rinunciava alla Polonia e alla Lituania e si
ritirava dall’alleanza contro la Svezia.
393 Gennaio 1707. (Nota dell’Autore) – La frase compare identica nella Storia di Carlo XII, ma
nessun commentario identifica “Yolkova”.
394 Sull’originale Ragotski. Il principe ungherese Ferenc Rákóczi (1676-1735) fu fino alla
maggiore età sotto la tutela legale del re d’Austria, Leopoldo I, cosa che gli sviluppò l’odio
verso gli Asburgo. Alleatosi coi Francesi, nel 1700 fu imprigionato a Vienna, poi, dal 1703
al 1711, come principe di Transilvania, guidò la ribellione nazionale ungherese contro gli
Asburgo. Sconfitto si rifugiò a Costantinopoli.
395 Adam Nicolaus Siniavski, conte polacco e voivoda di Belsk.
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Sassoni, i Russi erano ancora in Polonia, anzi nella stessa Varsavia.
Finalmente Carlo XII partì396 dal quartiere di Altranstädt alla testa di un
esercito di 45.000 uomini cui pareva che il nemico non sarebbe mai stato in
grado di resistere, dato che con 8.000 lo stesso Carlo l’aveva sconfitto
davanti a Narva.
Fu nel passare sotto le mura di Dresda che egli andò 397 a fare al re
Augusto quella strana visita che, a detta di Nordberg, desterà l’ammirazione
dei posteri e che se non altro desterà un certo stupore. Mettersi nelle mani
di un principe a cui aveva tolto il regno, significava rischiare molto. Carlo
ripassò per la Slesia e rientrò in Polonia.
Quel Paese era interamente devastato dalla guerra, lacerato dalle fazioni
e in preda a tutte le calamità. Carlo avanzava attraverso la Masovia 398,
scegliendo la strada meno praticabile. Seimila contadini deputarono un
vegliardo della loro gente; quest’uomo, di aspetto straordinario, tutto
vestito di bianco e armato di due carabine, parlò a Carlo e, poiché non si
capiva bene quello che diceva, si risolse di ucciderlo sotto gli occhi del
principe nel bel mezzo della sua allocuzione. I contadini esasperati si
ritirarono e presero le armi. Tutti quelli che fu possibile trovare furono
catturati: li costrinsero a impiccarsi l’un l’altro e all’ultimo era imposto di
passarsi da solo la corda al collo e di essere il boia di se stesso. Tutte le
abitazioni furono ridotte in cenere. È il cappellano Nordberg ad attestare
questo fatto di cui fu testimone: non si può negargli fede, né reprimere un
fremito di orrore.
Carlo arriva a poche leghe da Grodno in Lituania399; gli viene riferito che
lo zar in persona si trova in città con un certo contingente di truppe: senza
pensarci due volte, Carlo prende con sé solo 800 guardie e corre a Grodno.
Un ufficiale tedesco, certo Mulfels400, che comandava un corpo di truppe alle
porte della città, vedendo Carlo XII non dubita un istante che sia seguito dal
suo esercito e invece di contendergli il passo glielo cede. L’allarme si
diffonde per tutta la città, tutti credono che l’esercito svedese sia entrato: i
pochi russi che vorrebbero opporre resistenza sono fatti a pezzi dalla
guardia svedese. Tutti gli ufficiali sono concordi nel riferire allo zar che un
esercito vittorioso si impadronisce di tutte le postazioni della città. Pietro si
ritira al di là dei baluardi e Carlo mette trenta uomini a guardia della porta
dalla quale lo zar è appena uscito.
Nella confusione generale alcuni gesuiti, il cui convento, essendo l’edificio
più bello della città, era stato requisito per alloggiarvi il re di Svezia,
raggiungono nottetempo lo zar e lo informano questa volta della verità.
Seduta stante Pietro rientra in città e forza la guarnigione svedese: si
combatte per le strade e nelle piazze, ma già sopraggiunge l’esercito del re.
Alla fine lo zar si vide costretto a desistere, lasciando la città in mano al
396 22 agosto. (Nota dell’Autore)
397 27 agosto. (Nota dell’Autore)
398 Regione polacca in cui è Varsavia.
399 6 febbraio 1708. (Nota dell’Autore)
400 Forse Mühlfeld.
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vincitore che faceva tremare la Polonia.
Carlo aveva rafforzato le truppe in Livonia e in Finlandia. Da quella parte
Pietro aveva tutto da temere per le sue conquiste come, dalla parte della
Lituania, per i suoi antichi possedimenti e per la stessa Mosca. Bisognava
dunque fortificarsi in tutte quelle zone così distanti le une dalle altre.
Piegando verso Oriente attraverso la Lituania, nel cuore di una stagione
rigida, in regioni paludose e infestate da malattie contagiose che la fame e
la miseria avevano diffuso ovunque da Varsavia a Minsk, Carlo non poteva
avanzare rapidamente. Pietro appostò le sue truppe in quartieri posti ai
guadi dei fiumi, assegnò truppe alle postazioni importanti, fece quanto era
in suo potere perché la marcia del nemico fosse contrastata a ogni passo,
poi corse401 a predisporre tutto a Pietroburgo.
Carlo, vincitore dei Polacchi, non toglieva loro nulla; Pietro, facendo buon
uso della nuova marina, calando in Finlandia e prendendo Borgo che rase al
suolo402, facendo lauto bottino sui nemici, acquistava utili vantaggi.
Carlo, trattenuto a lungo in Lituania da continue piogge, avanzò
finalmente sul fiumicello detto Beresina, a poche leghe dal Boristene. La sua
attività non si arrestava davanti a nulla: gettò un ponte sotto gli occhi dei
Russi, sconfisse il distaccamento che difendeva il passaggio e giunse a
Holowczyn403 sul fiume Vabis. Qui lo zar aveva appostato un ragguardevole
contingente destinato a fermare l’impeto di Carlo. Il piccolo fiume Vabis404
non è che un rigagnolo in tempo di secca ma allora era un torrente
impetuoso, ingrossato dalle piogge. Al di là si estendeva un acquitrino e
oltre l’acquitrino i Russi avevano scavato una trincea di un quarto di lega
difesa da un largo fossato e coperta da un parapetto guarnito di artiglieria.
Nove reggimenti di cavalleria e undici di artiglieria erano disposti su quella
linea in posizione vantaggiosa. Il passaggio del fiume sembrava impossibile.
Gli Svedesi, secondo l’uso di guerra, approntarono dei pontoni per
passare e piazzarono delle batterie di cannone per coprire la marcia, ma
Carlo non aspettò che i pontoni fossero pronti: la sua impazienza di
combattere non tollerava il minimo ritardo. Il maresciallo di Schwerin, che
servì a lungo sotto i suoi ordini, mi ha confermato più di una volta questo
episodio: un giorno di azione, Carlo ebbe a dire ai suoi generali, intenti a
stabilire i dettagli delle sue disposizioni: «Quando la finirete con queste
bagattelle?» quindi si avanzò per primo alla testa della sua guardia; è quello
che fece anche in questa memorabile giornata.
Egli si slancia verso il fiume seguito dal reggimento delle guardie. Quella
calca rompeva l’impeto della corrente, ma si era nell’acqua fino alle spalle
ed era impossibile servirsi delle armi. Per poco che l’artiglieria del parapetto
fosse stata ben diretta e che i battaglioni avessero fatto fuoco al momento
giusto, non un solo svedese ne sarebbe uscito vivo.
401 8 aprile. (Nota dell’Autore)
402 21 maggio. (Nota dell’Autore)
403 Sull’originale Hollosin. In russo è Golovčin, oggi in Belarus’. La battaglia tra Russi e
Svedesi, raccontata nel seguito, si combatté il 3/14 luglio 1708.
404 In russo Bibitsch. (Nota dell’Autore)
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Dopo aver attraversato il fiume405 il re passò ancora la palude a piedi.
Appena l’esercito ebbe superato quegli ostacoli sotto gli occhi dei Russi, si
schierò in ordine di battaglia: sette volte furono attaccate le postazioni e i
Russi cedettero soltanto alla settima. Persero soltanto dodici pezzi da
campagna e ventiquattro mortai a granate, come ammettono persino alcuni
storici svedesi.
Era dunque evidente che lo zar era riuscito a formare truppe agguerrite e
questa vittoria di Holowczyn, pur coprendo di gloria Carlo XII, avrebbe
dovuto fargli sentire tutti i pericoli cui andava incontro addentrandosi in
regioni così remote: si sarebbe potuto marciare solo a gruppi separati, di
bosco in bosco, di palude in palude, e a ogni passo si sarebbe dovuto
combattere. Ma gli Svedesi, abituati a spazzare tutto davanti a sé, non si
preoccuparono né del pericolo né dei disagi.
Capitolo XVII
CARLO XII PASSA IL BORISTENE E SI INOLTRA NELL’UCRAINA, MA FA MALE I SUOI
CALCOLI: UNO DEI SUOI ESERCITI È SCONFITTO DA PIETRO IL GRANDE: LE MUNIZIONI
SONO PERDUTE. EGLI AVANZA IN UN DESERTO. EPISODI ACCADUTI IN UCRAINA
Finalmente Carlo giunse alle rive del Boristene, presso una piccola città
chiamata Mogilëv406. In quel luogo fatale si doveva sapere se intendeva
dirigere i suoi passi a oriente, verso Mosca, o a mezzogiorno verso l’Ucraina.
L’esercito, i nemici, gli amici, tutti si aspettavano che avrebbe marciato sulla
capitale. Qualunque strada prendesse, Pietro lo seguiva sin da Smolensk
con un forte esercito: nessuno si aspettava che prendesse la via
dell’Ucraina. Questa strana decisione gli fu suggerita da Mazepa, etmano dei
Cosacchi407; era questi un vecchio di settant’anni il quale, non avendo figli,
sembrava non dover pensare ad altro che a finire in pace i suoi giorni:
inoltre avrebbe dovuto essere unito da legami di riconoscenza allo zar, cui
doveva la carica; tuttavia, sia che effettivamente avesse da lamentarsi del
suo sovrano, sia che la gloria di Carlo XII lo avesse abbagliato, sia che
cercasse di rendersi indipendente, fatto sta che aveva tradito il proprio
benefattore ed era passato segretamente al re di Svezia, illudendosi di
sollevare dietro di sé tutta la popolazione.
Carlo non dubitava che quando le sue truppe vittoriose fossero state
appoggiate da un popolo così bellicoso, avrebbe trionfato su tutto l’impero
russo. Da Mazepa avrebbe ricevuto i viveri, le munizioni, l’artiglieria che gli
405 25 luglio. (Nota dell’Autore)
406 Sull’originale Mohilo con nota di Voltaire: «In russo Mogilew».
407 Ivan Stepanovič Mazepa-Kolendinskyj (1645-1709), diventato etmano dell’esercito dei
Cosacchi ucraini nel 1687, concepì il progetto di creare uno Stato ucraino indipendente
dalla Russia. Nel 1706 entrò in trattative segrete con Stanislao Leszczyński e con Carlo
XII e nel 1708 passò apertamente dalla loro parte. Dopo la battaglia di Poltava seguì
Carlo XII in Turchia dove morì due mesi dopo.
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fossero occorsi; a quest’imponente soccorso si doveva aggiungere un
esercito forte di 16-18.000 uomini, che giungeva dalla Livonia agli ordini del
generale Levenhaupt portando con sé una quantità prodigiosa di provvigioni
belliche e alimentari. Carlo non si curava di sapere se lo zar aveva la
possibilità di piombare su quell’esercito privandolo di un soccorso tanto
necessario. Non si informava se Mazepa era in grado di mantenere tutte le
sue promesse, né se quel cosacco aveva credito sufficiente per far cambiare
un’intera popolazione che non accetta pareri che da se stessa e per finire,
nemmeno se, in caso di insuccesso, restavano al suo esercito risorse
sufficienti. Se Mazepa si fosse rivelato infido o impotente, contava sul suo
valore e sulla sua buona stella. L’esercito svedese avanzava dunque al di là
del Boristene alla volta della Desna: proprio tra questi due fiumi si
aspettava Mazepa. La strada era difficile e le truppe russe che manovravano
nella zona rendevano rischiosa la marcia.
Menšikov, a capo di alcuni reggimenti di cavalleria e di dragoni, attaccò 408
l’avanguardia del re, vi seminò lo scompiglio e uccise molti svedesi. Le sue
perdite furono ancora più numerose ma egli non si perse d’animo. Carlo,
accorso sul campo di battaglia, respinse i Russi solo a fatica, rischiando a
lungo la vita e combattendo contro alcuni dragoni che lo avevano
accerchiato. Frattanto Mazepa non arrivava, i viveri cominciavano a
scarseggiare, i soldati svedesi, vedendo che il re condivideva i loro pericoli,
le loro fatiche e i loro disagi, non si lasciavano demoralizzare, ma pur
ammirandolo, lo disapprovavano e mormoravano.
L’ordine di mettersi in marcia con l’esercito e di portare d’urgenza le
munizioni che il re aveva inviato a Levenhaupt, era stato recapitato con
dodici giorni di ritardo; in simili circostanze quel tempo era lungo.
Finalmente Levenhaupt si era messo in marcia; Pietro lasciò che
attraversasse il Boristene e quando l’esercito fu chiuso tra il fiume e i suoi
piccoli affluenti, passò il fiume dopo di lui e l’attaccò con le sue unità
ravvicinate che incalzavano quasi a scaglioni. La battaglia fu combattuta tra
il Boristene e il Sož409.
Il principe Menšikov tornava indietro con quello stesso corpo di cavalleria
che si era misurato con Carlo XII; lo seguiva il generale Baur410, mentre
Pietro, da parte sua, conduceva le truppe scelte del suo esercito. Gli Svedesi
credettero di trovarsi di fronte a 40.000 combattenti e così si continuò a
credere per molto tempo sulla base della loro versione. Apprendo dalle mie
nuove relazioni che Pietro in quella giornata aveva soltanto 20.000 uomini,
numero non di molto superiore a quello del nemico. L’attività dello zar, la
sua pazienza, la sua tenacia e quella delle truppe galvanizzate dalla sua
presenza decisero della sorte non soltanto di quella ma di tre giornate
408 11 settembre 1708. (Nota dell’Autore)
409 Sull’originale Sossa con nota di Voltaire: «In russo Socza».
410 Sull’originale Bauer. Rudolf (Rodion) Frederik Baur (1667-1718), generale di cavalleria e
consigliere militare dello zar Pietro I. Iniziò la carriera militare nel ducato di Meclemburgo,
poi in Prussia e infine, dal 1700, in Russia agli ordini del generale Boris Šeremetev, con il
quale combatté in tutte le battaglie contro gli Svedesi.
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consecutive, nel corso delle quali si combatté a più riprese.
Fu dapprima attaccata l’avanguardia dell’esercito svedese nei pressi del
villaggio di Lesnaja che ha dato il nome alla battaglia. Questo primo urto fu
cruento senza essere decisivo. Levenhaupt si ritirò in un bosco e salvò i
bagagli411; l’indomani bisognò stanare gli Svedesi dal bosco: il
combattimento fu più sanguinoso e più fortunato; è in quell’occasione che lo
zar, vedendo le sue truppe in disordine, gridò che si tirasse sui fuggiaschi e
su lui stesso se si ritirava. Gli Svedesi furono ricacciati ma non messi in
rotta.
Finalmente giunse un rinforzo di 4.000 dragoni; per la terza volta i Russi
piombarono sugli Svedesi, che si ritirarono in un borgo chiamato
Propojsk412; qui furono attaccati di nuovo, marciarono alla volta della Desna
e furono inseguiti. Non furono mai battuti completamente ma persero più di
8.000 uomini, 17 cannoni, 44 bandiere; lo zar prese prigionieri 46 ufficiali e
quasi 900 soldati; tutto l’enorme convoglio destinato a Carlo restò nelle
mani del vincitore.
Era la prima volta che lo zar vinceva personalmente, in battaglia
campale, coloro che si erano segnalati con tante vittorie sulle truppe. Stava
rendendo grazie a Dio per la vittoria quando seppe che il generale Apraksin
aveva colto413 un successo in Ingria, a poche leghe da Narva. Era in realtà
un successo meno considerevole della vittoria di Lesnaja, ma quel concorso
di eventi favorevoli risollevava le sue speranze e il morale dell’esercito.
Carlo XII seppe tutte queste funeste notizie mentre si trovava in Ucraina,
pronto a passare la Desna. Finalmente Mazepa arrivò. Doveva portargli
20.000 uomini e provvigioni immense, ma arrivò soltanto con due
reggimenti, e sembrava più un fuggiasco che viene a implorare soccorso che
un principe che viene a offrirne. Il cosacco si era effettivamente messo in
marcia con 15-16.000 dei suoi, ai quali aveva cominciato col dire che
andavano ad affrontare il re di Svezia, che avrebbero avuto la gloria di
fermare la marcia di quell’eroe, che lo zar avrebbe serbato loro eterna
riconoscenza di quel servigio.
A poche miglia dalla Desna svelò alfine il suo progetto, ma quella buona
gente ne fu inorridita e si rifiutò di tradire un monarca, di cui non aveva da
lamentarsi, per uno svedese che veniva armato nella loro terra e che, una
volta partito, non avrebbe più potuto difenderli lasciandoli così a discrezione
dei Russi risentiti e dei Polacchi, loro passati padroni e tuttora loro nemici.
Essi se ne tornarono alle loro case e avvertirono lo zar della defezione del
capo; con Mazepa rimasero soltanto due reggimenti circa, i cui ufficiali
erano mercenari414.
Mazepa era ancora padrone di alcune piazzeforti dell’Ucraina e soprattutto
di Baturin, sua residenza, che veniva considerata la capitale dei Cosacchi:
411 7 ottobre. (Nota dell’Autore)
412 Sull’originale Prospock.
413 17 settembre. (Nota dell’Autore)
414 Nella Storia di Carlo XII, Voltaire dice invece che furono sorpresi e vinti dai Moscoviti e
solo quei due reggimenti riuscirono a fuggire.
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questa città è situata in vicinanza di alcuni boschi in riva alla Desna, ma è
molto lontana dal campo di battaglia dove Pietro aveva vinto Levenhaupt. In
quella zona c’era sempre qualche reggimento russo. Il principe Menšikov
rimase tagliato dall’esercito dello zar e lo raggiunse facendo un largo giro.
Carlo non poteva controllare tutti i passaggi, anzi non li conosceva
nemmeno: aveva tralasciato di impadronirsi dell’importante postazione di
Starodub, che porta direttamente a Baturin attraverso sette o otto leghe di
foresta attraversate dalla Desna. I nemici avevano sempre su di lui il
vantaggio di conoscere la regione. Menšikov passò senza difficoltà col
principe Golicyn415, e giunse con lui davanti a Baturin 416. La città fu presa
quasi senza colpo ferire, saccheggiata e ridotta in cenere: furono presi un
magazzino destinato al re di Svezia e i tesori di Mazepa. I Cosacchi elessero
un altro etmano, Skoropadskij, che fu approvato dallo zar 417. Questi volle
che un’imponente messinscena facesse sentire al popolo la gravità del
tradimento: l’arcivescovo di Kiev assieme ad altri due, scomunicò
pubblicamente Mazepa: egli fu impiccato in effigie418 e alcuni dei suoi
compagni perirono sulla ruota.
Nel frattempo Carlo XII che capeggiava 25-27.000 Svedesi e che inoltre
aveva raccolto i resti dell’esercito di Levenhaupt e un rinforzo di due o
tremila uomini portatigli da Mazepa, accarezzando ancora la speranza di far
dichiarare in suo favore tutta l’Ucraina, passò la Desna lontano da Baturin e
vicino al Boristene419, nonostante che le truppe dello zar lo circondassero da
tutte le parti, alcune incalzando la sua avanguardia, altre sparpagliandosi al
di là del fiume e contrastandogli il passo.
Egli avanzava, ma in un deserto, e non trovava che villaggi distrutti e
bruciati. Fin dal mese di dicembre, il freddo si fece sentire con un rigore così
eccezionale che, durante una delle marce, quasi duemila uomini caddero
morti sotto i suoi occhi: le truppe dello zar soffrivano meno perché
trovavano più facilmente soccorso, mentre quelle di Carlo, che non avevano
quasi di che coprirsi, erano più esposte ai rigori della stagione.
In questo miserevole stato il conte Piper, cancelliere di Svezia, che dette
sempre buoni consigli al suo signore, lo scongiurò di fermarsi e di passare
almeno il periodo più rigido dell’inverno in una cittadina dell’Ucraina
chiamata Romny, dove avrebbe potuto fortificarsi e fare qualche provvista
con l’aiuto di Mazepa. Carlo rispose che non era uomo da chiudersi in una
città. Piper allora lo scongiurò di ripassare la Desna e il Boristene e di
415 Sull’originale Galitzin. Dmitrij Michajlovič Golycin (1665-1737), cugino di Vasilij (cfr. nota
204), era già stato inviato nel 1704 in Polonia contro Carlo XII. Conservatore, contrario al
matrimonio di Pietro con una plebea e alle sue riforme, alla morte dello zar tentò di
contrastare l’autocrazia, ma fu vinto da Menšikov. Tornò in auge sotto il breve regno di
Pietro II, poi nel 1736 fu condannato all’ergastolo per le sue idee antimonarchiche.
416 14 novembre. (Nota dell’Autore) – Sull’originale Barhurin.
417 Ivan Il’ič Skoropadskij (1646-1722) fu eletto etmano dei Cosacchi ucraini nel 1708.
418 22 novembre [1708]. (Nota dell’Autore) – Ossia simbolicamente. Mazepa spirò di morte
naturale il 22 settembre 1709 a Bender dov’era prigioniero dei Turchi con Carlo XII.
419 15 novembre. (Nota dell’Autore)
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tornare in Polonia; colà avrebbe potuto dare alle sue truppe i quartieri di cui
avevano bisogno, valersi della cavalleria leggera dei Polacchi, che gli era
assolutamente necessaria, e frenare il partito di Augusto che cominciava a
risollevare il capo. Carlo replicò che ciò equivaleva a una fuga davanti allo
zar, che la stagione sarebbe diventata più propizia, che era necessario
sottomettere l’Ucraina e marciare su Mosca420.
L’armata russa e quella svedese rimasero qualche settimana nell’inazione,
tanto forte fu il freddo nel mese di gennaio 1709, ma appena i soldati
furono in grado di usare le armi, Carlo attaccò tutte le piccole postazioni che
trovò sul suo passaggio. Occorreva inviare spedizioni in tutte le direzioni in
cerca di viveri, ossia a rubare le provviste dei contadini in un raggio di venti
leghe. Pietro, senza affrettarsi, sorvegliava le sue mosse e lasciava che si
estenuasse.
È impossibile per il lettore seguire la marcia degli Svedesi in quelle
regioni: molti dei fiumi che passarono non sono segnati sulle carte; non si
creda che i geografi conoscano questo Paese come conosciamo l’Italia, la
Francia e la Germania; di tutte le arti, la geografia è quella che avrebbe
ancora maggiormente bisogno di essere perfezionata, ma fino a oggi
l’ambizione si è più preoccupata di devastare la terra che di descriverla.
Ci basti sapere che finalmente, nel mese di febbraio, Carlo attraversò
tutta l’Ucraina bruciando ovunque i villaggi o trovandoli già bruciati dai
Russi. Egli avanzò verso sud-est fino agli aridi deserti delimitati da
montagne che separano i Tartari Nogai dai Cosacchi del Tanais; a oriente di
queste montagne si trovano gli altari di Alessandro. Egli si trovava dunque
oltre l’Ucraina, sulla strada che i Tartari percorrono per recarsi in Russia:
colà giunto, fu costretto a tornare sui suoi passi per trovare da vivere: gli
abitanti si nascondevano nelle tane con gli animali e talvolta disputavano il
cibo ai soldati che venivano a prenderlo. I contadini che fu possibile
catturare furono messi a morte: dicono che questo sia un diritto di guerra.
Debbo trascrivere a questo punto alcune righe del cappellano Nordberg421:
«Per mostrare fino a che punto il re amasse la giustizia – egli scrive –
includiamo il biglietto scritto di suo pugno al colonnello Hielmen: “Signor
colonnello, mi compiaccio che siano stati presi i contadini che rapirono uno
svedese; quando saranno stati convinti del loro delitto, saranno puniti come
richiede il caso, facendoli morire”. Carlo, e più sotto Budis».
Sono questi i sentimenti di giustizia e di umanità del confessore di un re.
Ma se i contadini dell’Ucraina avessero potuto far impiccare quei contadini
ostrogoti irreggimentati che si credevano in diritto di venire da tanto lungi a
rapir loro il cibo delle donne e dei bambini, i confessori e i cappellani di
quegli stessi Ucraini non li avrebbero forse benedetti per aver fatto
giustizia?
Da tempo Mazepa era in trattative con gli Zaporogi che abitano sulle due
420 Ciò è ammesso dal cappellano Nordberg, tomo II, pag. 263. (Nota dell’Autore)
421 Tomo II, pag. 279. (Nota dell’Autore)
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sponde del Boristene e in parte sulle isole del fiume422. Proprio di
quest’ultima parte si compone quel popolo senza donne né bambini che vive
di rapina accumulando le provviste nelle isole durante l’inverno e andando a
venderle a primavera nella cittadina di Poltava. Gli altri abitano in borghi a
destra e a sinistra del fiume. Tutti insieme scelgono uno speciale etmano,
che è subordinato a quello dell’Ucraina. Quello che capeggiava gli Zaporogi
andò a trovare Mazepa: questi due barbari ebbero un colloquio, durante il
quale ognuno fece tenere davanti a sé una coda di cavallo e una mazza.
Per far capire che uomini fossero questo capo degli Zaporogi e tutto il suo
popolo, non mi pare indegno della storia riferire in che modo venne concluso
il trattato. Mazepa offrì all’etmano degli Zaporogi e ai principali ufficiali un
lauto pasto servito in vasellame d’argento: quando i capi furono ebbri di
acquavite, giurarono sul vangelo, a tavola, di fornire uomini e viveri a Carlo
XII, dopo di che portarono via il vasellame e tutti i mobili. Il maestro di
palazzo corse loro dietro protestando che una simile condotta non si
conciliava con il vangelo sul quale avevano prestato giuramento. I servitori
di Mazepa tentarono di riprendere il vasellame, gli Zaporogi fecero
assembramento e andarono in gruppo da Mazepa a lamentare l’affronto
inaudito fatto a simili galantuomini, chiedendo che fosse loro consegnato il
maggiordomo per punirlo secondo la legge; questi fu dato nelle loro mani e
gli Zaporogi, secondo la legge, si gettarono dall’uno all’altro quel
pover’uomo come si colpisce un pallone, dopodiché gli fu immerso un
pugnale nel cuore.
Ecco chi erano i nuovi alleati che Carlo XII fu costretto ad accettare; con
essi compose un reggimento di duemila uomini, il resto marciò a gruppi
separati contro i Cosacchi e i Calmucchi dello zar disseminati in quella zona.
La cittadina di Poltava dove trafficano questi Zaporogi, traboccava di
provviste e avrebbe potuto servire a Carlo da piazza d’armi: essa è situata
sul fiume Vorskla, abbastanza vicino a una catena di montagne che la
dominano a Nord. Dal lato orientale si trova un vasto deserto, quello
occidentale è più fertile e popoloso. Quindici grandi leghe a valle, la Vorskla
va a sboccare nel Boristene. Attraverso i valichi che servono di passaggio ai
Tatari, si può andare da Poltava verso il nord e raggiungere la strada di
Mosca. Questa strada è difficile e le precauzioni dello zar l’avevano resa
quasi impraticabile, ma nulla pareva impossibile a Carlo, il quale contava
ancora di prendere la via di Mosca dopo essersi impadronito di Poltava; egli
strinse dunque d’assedio la città agli inizi di maggio.
Capitolo XVIII
BATTAGLIA DI POLTAVA
Qui l’aspettava Pietro. Egli aveva disposto le sue unità in modo che
422 Cfr. capitolo I. (Nota dell’Autore)
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potessero congiungersi e marciare tutte insieme alla volta degli assedianti.
Aveva visitato tutte le regioni attorno all’Ucraina: il ducato di Severia, in cui
scorre la Desna resa celebre dalla sua vittoria e dove quel fiume è già
profondo, il paese di Bolcho, nel quale si trova la sorgente dell’Oka, i deserti
e le montagne che portano alla Palude Meotide. Da ultimo si trovava nei
pressi di Azov e quivi faceva dragare il porto, costruire navi, fortificare la
cittadella di Taganrog e in tal modo utilizzava a vantaggio del suo Stato
l’intervallo tra la battaglia di Desna e quella di Poltava.
Appena sa che la città è cinta d’assedio, raccoglie le sue unità. La
cavalleria, i dragoni, la fanteria, i Cosacchi, i Calmucchi convergono da
cento parti diverse; il suo esercito non manca di nulla: cannoni, pezzi da
campagna, munizioni di ogni tipo, viveri, medicamenti. Era questo un altro
vantaggio che aveva acquistato sul rivale.
Il 15 giugno 1709 giunge in vista di Poltava con un esercito di circa
60.000 combattenti. Il fiume Vorskla lo separava da Carlo; gli assedianti
erano a nord-ovest, i russi a sud-est.
Pietro risale il fiume a monte della città, getta i ponti, fa passare
l’esercito423 e fa scavare una lunga trincea che fronteggia l’esercito nemico:
essa viene cominciata e finita in una sola notte. Carlo allora poté giudicare
se l’uomo che egli disprezzava e che contava di detronizzare a Mosca
conosceva o no l’arte della guerra. Ultimato questo schieramento, Pietro
piazzò la cavalleria tra due boschi e la coprì con numerose postazioni di
artiglieria. Prese così tutte le misure, va in ricognizione del campo degli
assedianti per elaborare un piano di attacco.
Da questa battaglia dipendevano le sorti della Russia, della Polonia, della
Svezia e di due monarchi su cui si appuntavano gli occhi dell’Europa. Quasi
tutte le nazioni che seguivano attentamente questi grandi interessi non
sapevano dove si trovassero i due principi né quale fosse la loro situazione,
ma dopo aver visto Carlo XII lasciare la Sassonia vittorioso alla testa del più
formidabile esercito e dopo averlo visto incalzare il nemico senza dargli
requie, nessuno dubitava che lo avrebbe schiacciato, che dopo aver dettato
legge in Polonia, in Germania e in Danimarca, avrebbe dettato le condizioni
della pace dal Cremlino di Mosca e che infine, dopo aver fatto un re di
Polonia, avrebbe fatto uno zar. Ho visto le lettere di più di un ministro che
confermavano le rispettive corti in quella che era la convinzione generale.
I due rivali non correvano lo stesso rischio. Se Carlo avesse perduto una
vita che aveva rischiato tante volte, ci sarebbe stato un eroe in meno. Le
province dell’Ucraina, le frontiere della Lituania e della Russia, avrebbero
visto cessare le devastazioni; la Polonia avrebbe tranquillamente riaccolto il
legittimo re che già si era riconciliato con lo zar, suo benefattore.
Per finire, la Svezia, impoverita di uomini e di denaro, avrebbe potuto
trovare dei motivi di consolazione. Ma se fosse perito lo zar, imprese
grandissime, utili a tutto il genere umano, sarebbero state sepolte con lui e
il più vasto impero della terra sarebbe ripiombato nel caos da cui era stato
423 3 luglio. (Nota dell’Autore)
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tratto.
A più riprese vari corpi svedesi e russi erano venuti alle mani sotto le
mura della città. Durante uno di questi scontri424 Carlo era stato ferito da un
colpo di carabina che gli aveva fracassato le ossa del piede: egli si sottopose
a varie dolorose operazioni che sopportò con l’abituale coraggio e fu
costretto qualche giorno a letto. In quelle condizioni seppe che Pietro
doveva attaccarlo; le sue idee di gloria non gli consentirono di aspettarlo
nelle trincee: ne usci facendosi portare su una barella. Come ammette
anche il diario di Pietro il Grande, gli Svedesi andarono con tale indomabile
ardore all’attacco delle fortificazioni munite di cannoni che proteggevano la
cavalleria che, malgrado il fuoco ininterrotto, presero due postazioni. È stato
scritto che la fanteria svedese, padrona di due postazioni, credette di aver
battaglia vinta e gridò vittoria. Il cappellano Nordberg che si trovava lontano
dal teatro del combattimento, presso i bagagli (e cioè dove doveva stare),
sostiene che è una calunnia. Tuttavia, che gli Svedesi abbiano o no gridato
vittoria, quello che è certo è che non la ottennero. Il fuoco delle altre
postazioni non rallentò, i Russi resistettero dovunque con fermezza pari
all’ardore con cui erano attaccati. Non fecero nessuna mossa irregolare. Lo
zar schierò l’esercito in battaglia fuori delle trincee con ordine e
tempestività.
La battaglia divenne generale. Pietro ricopriva nell’esercito il grado di
generale maggiore; il generale Baur comandava l’ala destra, Menšikov la
sinistra, Šeremetev il centro. L’azione durò due ore. Carlo, con la pistola in
pugno, andava di fila in fila sulla sua barella portato dalle guardie del corpo.
Un colpo di cannone uccise uno degli uomini che lo portavano e mandò in
pezzi la barella. Carlo allora si fece portare sulle picche; infatti, checché ne
dica Nordberg, è difficile che in un’azione così violenta si sia trovata su due
piedi un’altra barella. Pietro ricevette parecchi colpi nelle vesti e sul
cappello: durante tutta l’azione i due sovrani furono continuamente sulla
linea del fuoco. Finalmente dopo due ore di battaglia gli Svedesi furono
respinti su tutta la linea: la confusione si diffuse fra loro e Carlo XII fu
costretto a fuggire davanti a colui che aveva tanto disprezzato. Quello
stesso eroe che non aveva potuto montare a cavallo durante la battaglia vi
fu issato per la fuga: la necessità gli rese un poco di forze. Corse soffrendo
atroci dolori, resi ancor più cocenti da quelle di essere stato
irrimediabilmente sconfitto. I Russi contarono sul campo di battaglia 9.224
svedesi uccisi: nel corso dell’azione presero dai due ai tremila prigionieri,
soprattutto nella cavalleria.
Carlo XII fuggiva a precipizio con circa 14.000 combattenti ma con
pochissima artiglieria da campagna; pochi erano anche i viveri, le munizioni
e la polvere. Marciò verso sud alla volta del Boristene, tra i fiumi Vorskla e
Sož425, nel paese degli Zaporogi. In quella zona, al di là del Boristene si
estendono i grandi deserti che portano alle frontiere della Turchia. Nordberg
424 27 giugno. (Nota dell’Autore)
425 Sull’originale Sol, con nota di Voltaire: «O Psol».
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afferma che i vincitori non osarono inseguire Carlo; malgrado ciò ammette
che mentre il re passava il Boristene il principe Menšikov si presentò sulle
alture con diecimila uomini di cavalleria e una ragguardevole artiglieria.
Quattordicimila Svedesi si dettero prigionieri di guerra426 a quei diecimila
Russi; Levenhaupt, che li comandava, sottoscrisse la fatale capitolazione in
virtù della quale consegnava allo zar quegli Zaporogi che, avendo
combattuto per il suo re, si trovavano presso l’esercito in fuga. I prigionieri
più importanti fatti in battaglia e con la capitolazione furono il conte Piper,
primo ministro, con due segretari di Stato e due di gabinetto, il
feldmaresciallo Rehnskiöld, i generali Levenhaupt, Slipenbak, Rosen,
Stackelberg, Kreutz e Hamilton, tre aiutanti di campo generali, l’uditore
generale dell’esercito, cinquantanove ufficiali dello Stato maggiore, cinque
colonnelli tra cui si trovava un principe di Würtemberg, 16.942 soldati o
ufficiali subalterni. In breve, contando anche i domestici del re e altre
persone al seguito dell’esercito, rimasero in potere del vincitore 18.746
uomini. Questa cifra, aggiunta ai 9.224 morti in battaglia e ai duemila
uomini circa che passarono il Boristene al seguito del re, prova che in realtà
durante quella giornata memorabile c’erano ai suoi ordini 27.000
combattenti427.
Carlo XII era partito dalla Sassonia con 45.000 combattenti, mentre
Levenhaupt ne aveva portati dalla Livonia più di 16.000; di tutto questo
prospero esercito non rimaneva nulla e della ricca artiglieria perduta
durante le marce o sprofondata nelle paludi non erano rimasti che diciotto
cannoni di ghisa, due obici e dodici mortai. È con questo debole armamento
che Carlo aveva intrapreso l’assedio di Poltava e che aveva attaccato un
esercito dotato di una formidabile artiglieria. Perciò è stato accusato di aver
dimostrato più coraggio che prudenza da quando aveva lasciato la
Germania. Da parte russa furono uccisi solo cinquantadue ufficiali e 1.293
soldati: è questa una prova che lo schieramento era migliore di quello di
Carlo e il tiro infinitamente superiore.
Un ministro inviato alla corte dello zar afferma nelle sue memorie che
Pietro, venuto a conoscenza del progetto di Carlo XII di ritirarsi tra i Turchi,
gli scrisse per scongiurarlo di non prendere tale estrema risoluzione e di
mettersi piuttosto fra le sue mani che fra quelle del nemico naturale di tutti i
principi cristiani. Gli dava la sua parola d’onore che non lo avrebbe
trattenuto in prigionia e che avrebbe risolto le controversie esistenti tra loro
con una pace ragionevole. La lettera fu recapitata da una staffetta fino al
fiume Bug che divide i deserti dell’Ucraina dalle terre del Gran Signore.
Questi arrivò quando Carlo era già in Turchia e riportò la lettera al suo
426 12 luglio. (Nota dell’Autore)
427 Sono uscite a Amsterdam nel 1730 le Memorie di Pietro il Grande del sedicente boiardo
Ivan Nestesuranoy. In queste Memorie è detto che il re di Svezia, prima di passare il
Boristene, inviò un ufficiale generale allo zar con offerte di pace. I quattro tomi di queste
Memorie sono un tessuto di menzogne e assurdità di questo tipo, oppure una
compilazione di gazzette. (Nota dell’Autore)
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signore. Il ministro aggiunge di aver saputo questo episodio 428 dallo stesso
uomo a cui fu affidata la lettera. Questo aneddoto non è del tutto
inverosimile ma non figura né sul diario di Pietro il Grande né in alcuno dei
rapporti affidatimi. La cosa più importante di questa battaglia è che, di tutte
quelle che insanguinarono mai la terra, è la sola che invece di seminare solo
distruzione ha contribuito alla felicità del genere umano, poiché ha dato allo
zar la possibilità di civilizzare una vasta parte del mondo.
Dagli inizi del secolo all’anno in cui scrivo si sono combattute in Europa
più di duecento battaglie campali. Le vittorie più illustri e cruente non hanno
avuto altro frutto che la conquista di qualche piccola provincia, ceduta in
seguito per via di trattati e ripresa con altre battaglie. Spesso si sono
affrontati eserciti di centomila uomini, ma gli sforzi più grandi hanno portato
solo a piccoli ed effimeri successi: si sono ottenuti i minimi risultati col
massimo sforzo. Nelle nostre moderne nazioni non si è dato alcun esempio
di una guerra che abbia compensato con un po’ di bene il male che ha fatto,
ma il risultato della giornata di Poltava è stato la felicità del regno più
grande del mondo429.
Capitolo XIX
ANCORA SULLA VITIORIA DI POLTAVA. CARLO XII SI RIFUGIA PRESSO I TURCHI.
AUGUSTO, DEPOSTO DA LUI, TORNA NEL SUO REGNO. CONQUISTE DI PIETRO IL GRANDE
Frattanto venivano presentati al vincitore tutti i prigionieri più
ragguardevoli: lo zar fece restituire loro le spade e li invitò alla sua tavola. È
risaputo che, brindando alla loro salute, disse: «Brindo alla salute dei miei
maestri nell’arte della guerra». Ben presto tuttavia la maggior parte di quei
maestri o per lo meno tutti gli ufficiali subalterni e tutti i soldati semplici
furono relegati in Siberia. Tra Russi e Svedesi non esisteva nessuna
convenzione per lo scambio dei prigionieri: lo zar l’aveva proposta prima
dell’assedio di Poltava, ma Carlo aveva rifiutato e gli Svedesi furono fino
all’ultimo le vittime della sua indomabile fierezza430.
A quella stessa fierezza, sempre inopportuna, vanno imputate tutte le
traversie del principe in Turchia e le sue disavventure più degne di un eroe
dell’Ariosto che di un sovrano avveduto. Infatti appena giunto nei pressi di
Bender, gli fu consigliato di scrivere al gran visir secondo l’usanza, ma ciò
parve al sovrano un abbassarsi troppo. Una tale ostinazione lo guastò
successivamente con tutti i ministri della Porta: egli era incapace di
428 Questo episodio si trova anche in una lettera stampata all’inizio degli Aneddoti di Russia.
(Nota dell’Autore) – Cfr. nota 51.
429 Perry (cfr. nota 107) scrisse che, senza la vittoria di Poltava, Pietro avrebbe perso il trono
perché «tutto era maturo per la ribellione, anche nella capitale».
430 Nella Storia di Carlo XII (libro IV), Voltaire scrisse che «al contrario del re [di Svezia] che
aveva rimandato i prigionieri moscoviti che non temeva, lo zar trattenne gli Svedesi
catturati a Poltava».
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adattarsi ai luoghi e alle situazioni431.
Al primo sentore della battaglia di Poltava ci fu un fermento generale
negli animi e negli affari di Polonia, di Sassonia, di Svezia e di Slesia.
All’epoca in cui ancora dettava legge, Carlo aveva preteso dall’imperatore di
Germania Giuseppe I che fossero tolte ai cattolici cinquecento chiese a
favore degli Slesiani della confessione di Asburgo; appena i cattolici seppero
della disgrazia di Carlo ripresero la maggior parte dei templi luterani. I
Sassoni pensarono soltanto a vendicarsi delle estorsioni di un vincitore che,
dicevano, era costato loro ventitré milioni di scudi. Il loro elettore, re di
Polonia, protestò seduta stante432 contro l’abdicazione che gli era stata
estorta e, rientrato nelle buone grazie dello zar, si affrettò a risalire sul trono
di Polonia. La Svezia costernata credette a lungo che il re fosse morto, il
senato nell’incertezza non poteva prendere alcuna decisione.
Pietro prese immediatamente quella di approfittare della vittoria; fa
partire il maresciallo Šeremetev con un esercito alla volta della Livonia sulle
cui frontiere quel generale si era distinto tante volte. Il principe Menšikov fu
prontamente inviato con una numerosa cavalleria per appoggiare le truppe
lasciate in Polonia, per incoraggiare tutta la nobiltà del partito di Augusto,
per cacciare il contendente al quale ormai si guardava soltanto come a un
ribelle e per disperdere le poche truppe svedesi condotte dal generale
svedese Krassow433 che rimanevano ancora.
Ben presto lo stesso Pietro si mette in cammino: attraverso la regione di
Kiev, i palatinati di Chelm e dell’alta Volinia, giunge a Lublino e si consulta
col generale della Lituania; successivamente passa in rassegna le truppe
della Corona che prestano giuramento di fedeltà al re Augusto434, di lì si reca
a Varsavia; finalmente a Thorn assapora il più alto di tutti i trionfi, quello di
ricevere435 i ringraziamenti di un re cui restituiva il regno. Quivi egli
conclude, assieme ai re di Polonia, di Danimarca, e di Prussia, un trattato
contro la Svezia. Già si progettava di ritoglierle tutte le conquiste di Gustavo
Adolfo. Pietro riesumava le antiche pretese degli zar sulla Livonia, l’Ingria e
la Carelia e su un parte della Finlandia; la Danimarca rivendicava la Scania,
il re di Prussia la Pomerania.
Così lo sfortunato valore di Carlo faceva vacillare tutto l’edificio innalzato
dal valore fortunato di Gustavo Adolfo. La nobiltà polacca veniva in folla a
confermare al re il proprio giuramento o a chiedergli perdono per averlo
431 La Motraye nella sua relazione di viaggio riporta una lettera di Carlo XII al gran visir, ma
la lettera è falsa come la maggior parte dei racconti di quel viaggiatore mercenario; lo
stesso Nordberg ammette che il re di Svezia non acconsentì mai a scrivere al gran visir.
(Nota dell’Autore) – Aubry de La Motraye (o La Mottraye; 1674-1743) scrisse nel 1727
Voyages du Sr. A. de la Motraye, en Europe, Asie & Afrique; où l’on trouve une grande
varieté de recherches geographiques, historiques & politiques.
432 8 agosto. (Nota dell’Autore)
433 Sull’originale Crassau. Lo svedese Ernst
‪
Detlof von Krassow‪ (1660?-1714) iniziò la
carriera militare in Olanda; nel 1699 entrò nell’esercito svedese e combatté nelle guerre
del Nord diventando maggiore generale nel 1706 e tenente generale nel 1713.
434 18 settembre. (Nota dell’Autore)
435 7 ottobre. (Nota dell’Autore)
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abbandonato: quasi tutti riconoscevano Pietro come loro protettore.
Alle armi dello zar, a quei trattati, a quell’improvviso rivolgimento,
Stanislao non aveva da opporre altro che la propria rassegnazione: fece
circolare uno scritto noto come Universale, nel quale afferma che se la
nazione lo esige è pronto a rinunciare alla corona.
Dopo aver tutto concertato col re di Polonia e ratificato un trattato con la
Danimarca, Pietro parte seduta stante per concludere i negoziati col re di
Prussia. Allora i sovrani non usavano recarsi di persona a fare l’ufficio degli
ambasciatori: fu Pietro a introdurre quest’usanza nuova e poco diffusa.
L’elettore di Brandeburgo, primo re di Prussia436, andò ad abboccarsi con lo
zar a Marienwerder, cittadina della Pomerania occidentale che era stata
costruita dai Cavalieri teutonici e poi inglobata nei confini della Russia
quando questa si era trasformata in regno. Il regno era piccolo e povero, ma
il re, nei suoi viaggi, ostentava la pompa più sfarzosa; già al suo primo
passaggio, quando Pietro aveva lasciato l’impero per andare all’estero a
istruirsi, l’aveva accolto con l’abituale magnificenza; con uno splendore
ancora più grande accolse il vincitore di Carlo XII. In un primo momento
Pietro concluse col re di Prussia un trattato soltanto difensivo437, che tuttavia
finì di rovinare le sorti della Svezia.
Non un solo istante è sprecato: Pietro, conclusi rapidamente i negoziati
che altrove sono dovunque così lunghi, va a raggiungere l’esercito davanti a
Riga, capitale della Livonia. Dapprima bombarda la piazzaforte438, appicca
personalmente il fuoco alle prime tre bombe, poi ordina il blocco e, certo
che Riga non può sfuggirgli, si reca a sorvegliare i lavori della sua città di
Pietroburgo, la costruzione delle case, la flotta: egli imposta con le sue
stesse mani lo scafo di un vascello439 da cinquantaquattro cannoni e
finalmente parte per Mosca. Fu per lui un diversivo lavorare ai preparativi
del trionfo che offrì come uno spettacolo alla capitale: progettò tutta la festa
e lavorò personalmente a predisporre ogni cosa.
L’anno 1710 fu inaugurato440 con questa solennità che allora era
necessaria al popolo, cui ispirava sentimenti di grandezza tanto più graditi a
chi aveva temuto di veder entrare da vincitori nelle proprie mura quegli
stessi uomini su cui si celebrava il trionfo. Si videro passare sotto sette
magnifici archi di trionfo l’artiglieria dei vinti, le insegne, gli stendardi, la
barella del re, i soldati, gli ufficiali, i generali e i ministri prigionieri, tutti a
piedi, al suono delle campane, delle trombe, di cento bocche di cannone e
delle acclamazioni di una moltitudine innumerevole che si facevano sentire
436 Antico possesso dell’Ordine Teutonico, la Prussia divenne nel 1525 un ducato laico,
ereditario, vassallo della Polonia. Il vassallaggio fu sciolto nel 1660 da Federico Guglielmo,
creatore del formidabile esercito prussiano. Il figlio Federico III elettore di Brandeburgo
(1657-1713) che gli successe nel 1688, ottenne dall’imperatore il riconoscimento della
dignità reale e fu incoronato a Königsherg, nel 1701, col nome di Federico I di Prussia.
437 20 ottobre. (Nota dell’Autore)
438 21 novembre. (Nota dell’Autore)
439 3 dicembre. (Nota dell’Autore)
440 1° gennaio. (Nota dell’Autore)
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quando il cannone taceva. Chiudevano la marcia i vincitori a cavallo, con i
generali in testa e Pietro al suo posto di generale maggiore. A ogni arco di
trionfo si trovavano le deputazioni dei diversi ordini dello Stato, e all’ultimo
un gruppo scelto di giovani figli di bojardi, vestiti secondo la foggia romana,
che offrirono allori al monarca vittorioso.
A questa festa pubblica fece seguito una cerimonia non meno ricca di
soddisfazioni. Nel 1708 era accaduta una disavventura tanto più sgradevole
in quanto Pietro era allora perseguitato dalla sfortuna. Matveev441, suo
ambasciatore a Londra presso la regina Anna, dopo essersi congedato, fu
arrestato a viva forza da due ufficiali di giustizia a nome di alcuni mercanti
inglesi e condotto presso un giudice di pace come garanzia dei loro crediti. I
commercianti inglesi pretendevano che le leggi del commercio dovessero
prevalere sui privilegi del ministro: l’ambasciatore dello zar e tutti i pubblici
ministri che presero le sue parti, sostenevano che la loro persona doveva
essere comunque inviolabile. Lo zar, con delle lettere alla regina Anna,
chiese energicamente giustizia; ella non poteva fargliela perché le leggi
inglesi permettevano ai mercanti di perseguire i debitori e nessuna legge
esentava i pubblici ministri da tale procedura. L’assassinio di Patkul,
ambasciatore dello zar, avvenuto l’anno prima per ordine di Carlo XII,
incoraggiava il popolo inglese a non rispettare un’istituzione così
crudelmente profanata: gli altri ministri presenti a Londra in quel periodo
furono costretti a rispondere di quello dello zar, e finalmente tutto ciò che la
regina pare fare in suo favore fu di convincere il parlamento a varare un
atto in virtù del quale non sarebbe stato più permesso per il futuro di far
arrestare un ministro per debiti; tuttavia, dopo la battaglia di Poltava,
bisognò dare una soddisfazione più consistente. La regina gli fece pubbliche
scuse tramite una solenne ambasceria. Il signore di Widworth, prescelto per
tale cerimonia442, apri l’arringa con queste parole: Altissimo e potentissimo
imperatore. Disse che coloro che avevano osato arrestare il suo
ambasciatore erano stati gettati in prigione e dichiarati infami. Non era vero
niente, ma bastava dirlo; inoltre il titolo di imperatore che la regina non gli
dava prima della battaglia di Poltava era una prova della considerazione che
egli godeva in Europa. Questo titolo gli era già dato comunemente in
Olanda, e non soltanto da coloro che lo avevano visto lavorare al proprio
fianco nei cantieri di Zaandam e che si interessavano in modo speciale alla
sua gloria. Tutti i notabili dello Stato infatti gareggiavano nel dargli il titolo
di imperatore e celebravano la sua vittoria con festeggiamenti in presenza
del ministro di Svezia.
L’universale considerazione che si era guadagnata con la vittoria, egli la
accresceva non perdendo un solo istante per metterla a frutto. Prima fu
441 Sull’originale Matéof. Andrej Artamonovič Matveev (1666-1728) era il figlio di Artamon
Matveev (cfr. nota 192) ucciso dagli strel’cy. Fu ambasciatore e plenipotenziario in
Francia, Gran Bretagna, Olanda e Austria. Nel 1716 fu richiamato a San Pietroburgo per
entrare nel consiglio privato di Pietro I e, poi, di Caterina I.
442 16 febbraio. (Nota dell’Autore) – Riguardo al seguito, la straordinaria accoglienza fu
dettata dagli interessi politici e mercantili.
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assediata Elbing, città anseatica della Prussia reale situata in Polonia, dove
gli Svedesi mantenevano ancora una guarnigione. I Russi vanno
all’assalto443, entrano in città e la guarnigione si dà prigioniera di guerra.
Questa fortezza era uno dei grandi depositi di Carlo XII: vi furono trovati 83
cannoni di bronzo e 157 mortai. Subito dopo Pietro si reca prontamente da
Mosca a Pietroburgo: appena arrivato444, s’imbarca ai piedi della nuova
fortezza di Kronštadt, costeggia la Carelia e malgrado una violenta tempesta
conduce la flotta davanti a Vyborg in Finlandia, capitale della Carelia. Nel
frattempo le truppe di terraferma avanzavano sugli stagni gelati: la città è
presa d’assalto, il blocco contro la capitale della Livonia viene rafforzato.
Vyborg si arrende poco dopo445 che è stata praticata una breccia, una
guarnigione composta di circa 4.000 uomini capitola senza ottenere gli onori
di guerra e viene presa prigioniera malgrado la capitolazione. Pietro
lamentava parecchie infrazioni da parte degli Svedesi: promise di rimettere
in libertà le truppe dopo che gli Svedesi avessero dato soddisfazione alle sue
richieste; a questo proposito si dovettero chiedere istruzioni al re di Svezia,
inflessibile come sempre, e quei soldati che Carlo avrebbe potuto liberare,
restarono prigionieri. Allo stesso modo nel 1695 Guglielmo III principe di
Orange e re d’Inghilterra aveva preso prigioniero il maresciallo de Boufflers
malgrado la capitolazione di Namur446. Si contano numerosi esempi di simili
violazioni, ma ci sarebbe da augurarsi che non ne avvenissero più.
Dopo la presa della capitale, l’assedio di Riga divenne ben presto un
assedio regolare condotto con alacrità: si era costretti a rompere il ghiaccio
del fiume Dvina che bagna a nord le mura della città. Il contagio che
desolava da qualche tempo la regione dilagò nell’esercito assediante e rapì
9.000 uomini, ciononostante l’assedio non fu rallentato: esso fu lungo e la
guarnigione ottenne gli onori militari, ma nella capitolazione447 venne
stipulato che tutti gli ufficiali e soldati livoni sarebbero rimasti al servizio
della Russia in quanto sudditi di un Paese che ne era stato smembrato e che
era stato usurpato dagli antenati di Carlo XII. I privilegi che il padre di
questi aveva tolto ai Livoni furono loro restituiti e tutti gli ufficiali entrarono
al servizio dello zar: era la più nobile vendetta che questi potesse prendersi
per l’uccisione del livone Patkul, suo ambasciatore, condannato per aver
difeso quegli stessi privilegi. La guarnigione era composta di circa 5.000
uomini. Poco dopo fu presa la cittadella di Peenmünder448 e si trovarono, tra
la città e il forte, più di 800 bocche da fuoco.
Per essere padrone incontrastato della Carelia, gli mancava la potente
443 11 marzo. (Nota dell’Autore)
444 2 aprile. (Nota dell’Autore)
445 23 giugno. (Nota dell’Autore)
446 Louis-François de Boufflers (1644-1711), maresciallo di Francia dal 1693. Nel 1695 fu
responsabile della difesa di Namur assediata da Guglielmo d’Orange, ma dovette ritirarsi a
Vauban e arrendersi dopo due mesi di combattimenti.
447 15 luglio. (Nota dell’Autore)
448 Sull’originale Pennamunde.
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città di Kexholm449 sul lago Ladoga, che sorgeva su di un’isola e passava per
imprendibile; essa fu bombardata qualche tempo dopo450 e ben presto si
arrese451. L’isola di Ösel, nel mare che bagna a nord la Livonia, fu
sottomessa con pari rapidità.
Dalla parte dell’Estonia, provincia della Livonia, verso nord e sul golfo di
Finlandia, si trovano le città di Pernov e Reval; prese quelle, la conquista
della Livonia poteva dirsi compiuta. Pernov si arrese dopo un assedio di
pochi giorni452 e Reval capitolò453 senza che venisse sparato contro la città
un solo colpo di cannone, ma gli assediati trovarono il modo di sfuggire al
vincitore nel momento stesso in cui si dichiaravano prigionieri di guerra:
alcuni vascelli svedesi accostarono alla rada durante la notte, la guarnigione
si imbarcò assieme alla maggior parte dei civili, e gli assedianti, entrando in
città, ebbero la sorpresa di trovarla deserta. Quando Carlo XII trionfava a
Narva, certo non immaginava che un giorno le sue truppe avrebbero dovuto
ricorrere a simili stratagemmi di guerra.
In Polonia Stanislao, vedendo il suo partito disperso, si era rifugiato nella
Pomerania, rimasta in mano di Carlo XII: Augusto regnava ed era difficile
stabilire se avesse avuto più gloria Carlo nel deporlo o Pietro nel rimetterlo
sul trono.
Gli Stati del re di Svezia erano ancor più disgraziati di lui: quell’epidemia
che aveva devastato tutta la Livonia, passò in Svezia e mieté tremila vittime
nella sola città di Stoccolma454, devastando province già troppo impoverite
di abitanti, dato che la maggior parte, per dieci anni continui, aveva lasciato
il Paese per andare a morire al seguito del suo signore.
La sua cattiva stella lo perseguitava in Pomerania. Le sue truppe di
Polonia si erano qui ritirate in numero di diecimila combattenti; lo zar, il re
di Danimarca, quello di Prussia, l’elettore di Hannover e il duca di Holstein si
unirono tutti insieme per ridurre all’impotenza quest’esercito e per
costringere alla neutralità il suo capo, generale Krassow. La reggenza di
Stoccolma, priva di notizie del suo re, fu ben lieta, nel colmo del contagio
che infuriava in città, di sottoscrivere quella neutralità che sembrava
dovesse almeno tenere lontani gli orrori della guerra da una delle province.
L’imperatore di Germania favorì questo insolito trattato: fu stipulato che
l’esercito svedese di stanza in Pomerania non avrebbe potuto muoversi per
andare a difendere altrove il suo re; nell’impero di Germania fu persino
deciso di arruolare un esercito per far rispettare questa convenzione che
non aveva precedenti: in realtà l’imperatore, che era allora in guerra con la
Francia, sperava di far entrare al suo servizio l’esercito svedese. Tutti questi
negoziati furono condotti mentre Pietro conquistava la Livonia, l’Estonia e la
449 Odierna Korela.
450 19 settembre. (Nota dell’Autore)
451 23 settembre. (Nota dell’Autore)
452 25 agosto. (Nota dell’Autore)
453 10 settembre. (Nota dell’Autore)
454 Nel 1711 si diffuse a Stoccolma – che contava circa 50.000 abitanti – un’epidemia di
peste che arrivò a 1200 decessi al giorno.
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Carelia.
Carlo XII, che frattanto metteva in moto tutte le influenze possibili tra
Bender e la Porta ottomana per indurre il divan a dichiarare guerra allo zar,
accolse questa notizia come uno dei colpi più funesti inflittigli dalla sua
cattiva stella; gli era intollerabile che il suo senato di Stoccolma avesse
legato le mani al suo esercito: in quell’occasione scrisse al senato che
avrebbe mandato a governarlo uno dei suoi stivali.
Intanto i Danesi preparavano l’invasione della Svezia. Tutte le nazioni
europee erano in guerra: la Spagna, il Portogallo, l’Italia, la Francia, la
Germania, l’Olanda e l’Inghilterra combattevano ancora per la successione
del re di Spagna Carlo II, mentre tutto il Nord era in armi contro Carlo XII.
Mancava solo una contesa con la Porta ottomana perché non ci fosse più in
Europa un solo villaggio al sicuro dalle devastazioni. Questo dissidio scoppiò
quando Pietro era all’apice della gloria, e proprio perché vi era giunto.
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PARTE SECONDA
Capitolo I
CAMPAGNA DEL PRUT
Il sultano Ahmed III455, dichiarò guerra a Pietro I, ma non a causa del re
di Svezia: naturalmente lo fece per il proprio interesse. Il khan dei Tatari di
Crimea vedeva con occhio preoccupato un vicino divenuto così potente. La
Porta si era risentita delle navi sulla Palude Meotide e sul mar Nero, della
fortificazione di Azov, del porto di Taganrog che già era famoso, insomma di
tutti quei grandi successi e dell’ambizione che i successi non mancarono mai
di incoraggiare.
Non è né vero né verosimile che la Porta ottomana abbia mosso guerra
allo zar verso la Palude Meotide col pretesto che un vascello svedese aveva
catturato nel Baltico un’imbarcazione e che in essa si era trovata una lettera
di un ministro di cui non si è mai fatto il nome. Nordberg ha scritto che la
455 Sull’originale Achmet. Ahmed III (1673-1736), sultano dell’impero ottomano dal 1703 al
1730, quando fu deposto dal nipote Mahmud I (1696-1754).
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lettera conteneva un piano per la conquista dell’impero turco, che la lettera
fu recapitata a Carlo XII in Turchia, che Carlo la fece pervenire al divan e
che sulla scorta di questa lettera fu dichiarata la guerra. Questa storia
presenta abbastanza evidenti le caratteristiche della favola. Fu il khan dei
Tatari, che si preoccupava ancor più di Costantinopoli per la vicinanza di
Azov, a ottenere con le sue pressioni che si aprissero le ostilità456.
La Livonia non era ancora interamente sottomessa allo zar quando
Ahmed III, sin dall’agosto, risolse di dichiarar guerra. A malapena poteva
aver notizia della capitolazione di Riga. La proposta di risarcire in danaro i
danni materiali subiti dal re di Svezia a Poltava sarebbe stata di tutte le idee
la più ridicola, se quella di demolire Pietroburgo non lo fosse stata ancora di
più. C’era stato molto di romanzesco nella condotta di Carlo a Bender, ma
quella del divan, se avesse avanzato simili richieste, sarebbe stata ancora
più romanzesca.
Il khan dei Tatari, che fu il maggior promotore di questa guerra, andò a
incontrare Carlo nel suo rifugio457. Essi erano accomunati dagli stessi
interessi, perché Azov fa da frontiera alla piccola Tartaria. Quelli che erano
stati maggiormente danneggiati dagli ingrandimenti dello zar erano Carlo e
il khan di Crimea; ma il khan non aveva alcuna autorità sulle truppe del
Gran Signore: egli era come i principi feudatari di Germania, che hanno
servito l’impero con le loro truppe, obbedendo al generale dell’imperatore
tedesco.
La prima mossa del divan fu quella di far arrestare 458 nelle strade di
Costantinopoli Tolstoj, ambasciatore dello zar459, con trenta dei suoi
domestici, e di rinchiuderlo nel castello delle Sette Torri460. Questa barbara
usanza, di cui arrossirebbe perfino un selvaggio, deriva dal fatto che i Turchi
hanno sempre dei ministri stranieri residenti in permanenza nel loro Paese
ma non inviano mai ambasciatori ordinari. Essi considerano gli ambasciatori
dei principi cristiani come semplici consoli mercantili e, dato che del resto
non disprezzano meno i cristiani che gli ebrei, si degnano di osservare con
456 Ciò che riporta Nordberg sulle pretese del Gran signore è falso e puerile: egli dice che il
sultano Ahmed inviò allo zar le condizioni alle quali avrebbe accordato la pace prima di
iniziare la guerra. Le condizioni erano, secondo il confessore di Carlo XII, di rinunciare alla
sua alleanza con il re Augusto, di ristabilire Stanislao, di rendere la Livonia a Carlo, di
risarcire il principe in contanti di quello che gli aveva tolto a Poltava e di demolire
Pietroburgo. Questo documento fu redatto da un certo Brazey, affamato autore di un
foglio intitolato Mémoires satiriques, historiques et amusants. Norberg prese da questa
fonte. Sembra persino che questo confessore non fosse affatto il confidente di Carlo XII.
(Nota dell’Autore) – Per Nordberg, cfr. nota 27. “Brazey” è l’abate Jean Nicolas Moreau de
Brasey che pubblicò il libro Memoires politiques: amusans et satiriques nel 1735.
457 Novembre 1710. (Nota dell’Autore)
458 29 novembre 1710. (Nota dell’Autore)
459 Il conte Pëtr Andreevič Tolstoj (1645-1729) fu consigliere di Pietro il Grande e
ambasciatore in Italia (1697-1699) e a Costantinopoli (1701-1714), poi seguì lo zar nel
viaggio in Europa (1716-1717) e nel 1726 fu nominato capo del Consiglio Supremo
Segreto. Morto lo zar fu esiliato nel monastero delle Solovki sul mar Bianco.
460 “Sette Torri” (Yedikule) era il nome di una fortezza accanto alla Porta d’Oro di
Costantinopoli, usata come prigione per i prigionieri politici fino al 1831.
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loro il diritto delle genti solo quando vi sono costretti; almeno fino a oggi
hanno insistito in questo feroce orgoglio.
Il celebre visir Ahmed Koprülü, che espugnò Candia sotto Maometto IV461,
aveva trattato il figlio di un ambasciatore di Francia in modo oltraggioso e
dopo aver spinto la sua brutalità fino alle percosse, l’aveva gettato in
prigione senza che Luigi XIV, pur così fiero, avesse dato altri segni di
risentimento oltre a quello di inviare un altro ministro alla Porta. I sovrani
cristiani, che sul punto d’onore sono tra loro suscettibilissimi, tanto da
includerlo nel diritto pubblico, sembrano dimenticarsene con i Turchi.
Nessun sovrano fu mai offeso nella persona dei suoi ministri come lo zar
di Russia. Nel giro di pochi anni vide il suo ambasciatore a Londra
imprigionato per debiti, il suo plenipotenziario in Polonia e Sassonia
suppliziato sulla ruota per ordine del re di Svezia, il suo ministro presso la
Porta ottomana arrestato e messo in prigione a Costantinopoli come un
malfattore.
La regina d’Inghilterra gli diede soddisfazione per l’oltraggio di Londra nel
modo che si è visto, l’atroce affronto subito nella persona di Patkul fu lavato
nel sangue degli Svedesi alla battaglia di Poltava, ma la fortuna lasciò
impunita questa violazione del diritto delle genti compiuta dai Turchi.
Lo zar fu costretto ad abbandonare il teatro della guerra in Occidente 462
per andare a guerreggiare sulle frontiere della Turchia. Dapprima fa
avanzare verso la Moldavia463 dieci reggimenti di stanza in Polonia. Dà
l’ordine al maresciallo Šeremetev di partire dalla Livonia col suo corpo
d’armata, quindi, lasciando al principe Menšikov la direzione degli affari di
Pietroburgo, si reca a Mosca a dare tutte le disposizioni per la campagna
che si deve iniziare.
Viene insediato un senato di reggenza464, i reggimenti di guardie si
mettono in marcia, lo zar ordina ai giovani nobili di andare a imparare sotto
la sua guida il mestiere delle armi, sistemando alcuni in qualità di cadetti e
altri di ufficiali subalterni. L’ammiraglio Apraksin raggiunge Azov con le
funzioni di comandante per terra e per mare. Prese tutte queste misure,
ordina da Mosca che si riconosca una nuovo zarina: era la stessa persona
fatta prigioniera di guerra a Marienburg nel 1702465. Nel 1696 Pietro aveva
ripudiato Evdokija Lopuchina466 sua sposa, che gli aveva dato due figli467. Le
leggi della sua Chiesa consentono il divorzio, ma anche se l’avessero
proibito egli avrebbe fatto una legge per renderlo lecito.
La giovane prigioniera di Marienburg, cui era stato imposto il nome di
Caterina, era superiore al suo sesso e alla sventura che l’aveva colpita.
461 Sull’originale Achmet Couprougli e Mahomet IV; cfr. nota 180.
462 Gennaio 1711. (Nota dell’Autore)
463 È ben strano che tanti scrittori confondano la Valacchia con la Moldavia. (Nota dell’Autore)
464 18 gennaio 1711. (Nota dell’Autore)
465 Cfr. nota 332.
466 Sull’originale Eudoxia Lapoukin con nota di Voltaire: «Ou Lapouchin». – Cfr. nota 213.
467 I figli furono tre: Alessio nel 1690, Alessandro nel 1692 (morto l’anno dopo) e Paolo nel
1693 (morto lo stesso anno).
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Grazie al suo buon carattere seppe rendersi così gradita che lo zar volle
averla con sé: ella lo accompagnò nei suoi spostamenti e nei suoi gravosi
lavori, dividendo con lui le fatiche, alleviandogli le pene con il suo spirito
gaio e la sua compiacenza, ignorando del tutto quell’apparato di lussi e di
mollezze di cui altrove le donne hanno fatto un bisogno reale. Ciò che rese
ancor più singolare il suo favore, fu il fatto che non fu mai invidiata né
osteggiata e che non fece vittime. Spesso placò la collera dello zar e lo rese
più grande rendendolo più clemente. Infine si rese così necessaria che nel
1707 egli la sposò segretamente. Già aveva avuto da lei due figlie, e l’anno
seguente ebbe una principessa che in seguito doveva sposare il duca di
Holstein468. Il matrimonio segreto di Pietro e Caterina fu reso pubblico lo
stesso giorno469 in cui lo zar470 partì con lei per andare a tentare la fortuna
contro l’impero ottomano471. Tutte le disposizioni prese sembravano
promettere un esito felice. L’etmano dei Cosacchi doveva tenere a bada i
Tatari che già dal mese di febbraio devastavano l’Ucraina; l’esercito russo
avanzava alla volta del Dnestr; un altro battaglione agli ordini del principe
Golicyn avanzava attraverso la Polonia. All’inizio tutto andò per il meglio:
infatti Golicyn, preso contatto nei pressi di Kiev con un forte contingente di
Tatari a cui si erano uniti dei Cosacchi, dei Polacchi del partito di Stanislao e
persino alcuni Svedesi, li sbaragliò completamente e ne uccise cinquemila.
Questi Tatari avevano già fatto diecimila schiavi nella piana circostante. I
Tatari usano da tempo immemorabile portarsi dietro più corde che
scimitarre, e con queste corde legano gli sventurati che capitano loro a tiro.
Tutti i prigionieri furono rimessi in libertà e i rapitori passati per le armi. Se
l’esercito fosse stato riunito, avrebbe contato complessivamente 60.000
uomini. Avrebbe dovuto aumentare ancora grazie alle truppe del re di
Polonia. Il 3 giugno questo principe che doveva tutto allo zar si recò a fargli
visita a Jarosłav sul fiume San472, promettendogli imponenti aiuti. La guerra
contro i Turchi fu dichiarata in nome dei due sovrani, ma la Dieta di Polonia
non ratificò quanto Augusto aveva promesso: essa non volle la rottura con i
Turchi. Era destino dello zar avere nel re Augusto un alleato che non poteva
mai aiutarlo. Analoghe speranze ripose nella Moldavia e nella Valacchia e fu
ugualmente disilluso.
La Moldavia e la Valacchia dovevano scuotersi di dosso il giogo turco.
Queste regioni sono quelle degli antichi Daci che riunitisi ai Gepidi
minacciarono a lungo l’impero romano. Traiano li sottomise, Costantino I li
convertì al cristianesimo. La Dacia divenne una provincia dell’impero
d’Oriente; ma poco dopo quegli stessi popoli dovevano contribuire alla
caduta di quello d’Occidente prestando servizio sotto i vari Odoacre e
Teodorico.
468 Anna Petrovna Romanova (1708-1728) era la figlia maggiore di pietro e Caterina. Nel
1725 sposò Carlo Federico di Holstein-Gottorp (1700-1739).
469 17 marzo 1711. (Nota dell’Autore)
470 Diario di Pietro il Grande. (Nota dell’Autore)
471 7 marzo 1711.
472 In Polonia, nella regione dei Carpazi.
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Successivamente queste contrade rimasero a far parte dell’impero
d’Oriente e dopo la presa di Costantinopoli da parte turca furono governate
e tiranneggiate da principi locali. Da ultimo sono state interamente
sottomesse dal padisha o imperatore turco, che ne conferisce l’investitura.
L’ospodaro o voivoda, scelto dalla Porta per governare queste province, è
sempre un cristiano greco. Con questa scelta i Turchi danno prova di
tolleranza, mentre da noi, declamatori ignoranti li accusano di fanatismo. Il
principe scelto dalla Porta è tributario o meglio appaltatore: essa conferisce
tale carica a chi fa l’offerta più alta e i doni più ricchi al visir, proprio come
conferisce il patriarcato greco di Costantinopoli. Qualche volta ottiene la
carica un dragomanno, cioè un portavoce del divan. Raramente la Moldavia
e la Valacchia sono riunite sotto lo stesso voivoda: la Porta tiene divise
queste due province per maggior sicurezza. Dimitrie Cantemir473 aveva
ottenuto la Moldavia. Si faceva discendere questo Cantemir da Tamerlano
perché il nome di Tamerlano era Timur, questo Timur era un khan tataro, e
si diceva che la famiglia Cantemir derivasse dal nome di Timur-Khan.
Bassaraba de Brancovan474 era stato investito della Valacchia. Questo
Bassaraba non trovò un esperto di genealogie capace di farlo discendere da
un conquistatore tartaro. Cantemir credette giunto il momento di sottrarsi al
dominio turco e rendersi indipendente grazie alla protezione dello zar. Egli fu
per Pietro ciò che Mazepa era stato per Carlo. In un primo momento indusse
perfino l’ospodaro di Valacchia, Bassaraba, a entrare nel complotto di cui
sperava di godere tutti i frutti. Egli progettava di rendersi padrone delle due
province. Il vescovo di Gerusalemme, che si trovava allora in Valacchia, fu
l’animatore della congiura. Cantemir promise allo zar viveri e truppe, come
Mazepa aveva fatto col re di Svezia, e mantenne la promessa allo stesso
modo.
Il generale Šeremetev avanzò fino a Iaşi, capitale della Moldavia, per
presenziare all’attuazione di quei vasti progetti e favorirli. Cantemir gli si
fece incontro ed ebbe accoglienze principesche, ma il suo solo atto da
principe fu quello di pubblicare un manifesto contro l’impero turco.
L’ospodaro di Valacchia, che smascherò ben presto i suoi ambiziosi progetti,
473 Sull’originale Démétrius Cantemir. Dimitrie Cantemir (o in russo Dmitrii Konstantinovič
Kantemir (1673–1723), letterato, etnografo e geografo moldavo, nonché comandante
dell’esercito ottomano. Nel marzo aprile 1693 e tra il 1710 e il 1711 fu voivoda della
Moldavia. Scrisse in latino Descriptio Moldaviae (Descrizione della Moldavia) e l’opera
enciclopedica Incrementa atque decrementa aulae othomanicae (Ascesa e declino
dell’impero ottomano) nel 1714-1716. Era il padre di Antioch Dmitrievič Kantemir, famoso
scrittore russo.
474 Bassaraba de Brancovan è il nome di una dinastia valacca. Voltaire si riferisce a
Constantin Brâncoveanu (1654-1714), principe di Valacchia tra il 1688 e il 1714. All’inizio
egli provò a tessere delle alleanze anti-ottomane con gli Asburgo e con Pietro il Grande,
da cui ricevette dei regali, ma la loro alleanza col principe della Moldavia, storico nemico
della Valacchia, compromise tutto. Quando alcuni suoi bojari si rifugiarono presso i Russi,
tornò ad appoggiarsi agli Ottomani e restituì i doni a Pietro. La cosa si seppe e
Brâncoveanu fu deposto (1714), imprigionato a Costantinopoli e decapitato assieme ai
suoi figli. La Chiesa ortodossa rumena li ha dichiarati santi martiri nel 1992 ritenendo che
furono giustiziati perché non vollero convertirsi all’Islam.
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disertò il suo partito e rientrò nella legittimità. Il vescovo di Gerusalemme
che giustamente temeva per la propria vita fuggì a nascondersi; la
popolazione moldava e valacca restò fedele alla Porta ottomana, e coloro
che avrebbero dovuto rifornire di viveri l’esercito russo andarono a
consegnarli a quello turco.
Già il visir Baltaci Mehmet475 aveva attraversato il Danubio alla testa di
centomila uomini e avanzava alla volta di Iaşi lungo il corso del Prut, già
Hierasus, che si getta nel Danubio e che segna all’incirca la demarcazione
fra la Moldavia e la Bessarabia. Egli inviò il conte Poniatowski, gentiluomo
legato alle fortune del re di Svezia476, affinché pregasse il sovrano di venire
a fargli visita e a passare in rivista il suo esercito. Carlo non poté risolversi a
questo: pretendeva che il gran visir gli facesse visita per primo nel suo
rifugio di Bender: la fierezza fu più forte dell’interesse. Quando Poniatowski
fu di ritorno al campo turco e scusò il rifiuto di Carlo XII, il visir disse al
khan dei Tatari: «Ero sicuro che quell’orgoglioso pagano si sarebbe
comportato così». Questa fierezza reciproca, che sempre allontana i potenti,
non valse certo a migliorare la posizione del re di Svezia; d’altronde doveva
accorgersi ben presto che i Turchi agivano per sé, non per lui.
Mentre l’esercito ottomano passava il Danubio, lo zar avanzava lungo le
frontiere della Polonia per andare a disimpegnare il maresciallo Šeremetev il
quale, trovandosi a sud di Iaşi, sulle rive del Prut, correva il pericolo di
essere in breve circondato da centomila turchi e da un esercito tataro.
Prima di attraversare il Boristene, Pietro esitava a esporre Caterina a un
pericolo che si faceva di giorno in giorno più grave, ma Caterina vide in
questa preoccupazione dello zar un affronto al proprio amore e al proprio
coraggio e fece tali pressioni che lo zar non poté fare a meno di lei.
L’esercito era felice di vederla cavalcare alla testa della schiera. Raramente
ella si serviva della carrozza. Si dovette avanzare al di là del Boristene
attraverso vari deserti, attraversare il Bug e poi il Tiras, oggi Dnestr, dopo di
che si incontrava ancora un altro deserto prima di giungere sulle rive del
Prut. Ella incoraggiava l’esercito, vi portava la gaiezza, faceva giungere il
suo aiuto agli ufficiali malati ed estendeva le sue cure fino ai soldati.
Finalmente giunsero a Iaşi477, dove si dovevano installare dei magazzini.
L’ospodaro di Valacchia Bassaraba, che si era riavvicinato agli interessi della
Porta ma fingeva di fare quelli dello zar, gli offrì la pace, sebbene il gran visir
non gliene avesse dato l’incarico. Fu fiutato il tranello e ci si limitò a
475 Sull’originale Baltagi Méhémet. Baltaci Mehmet Pasha (1662-1712) Baltaci significa
“dipendente del palazzo” del sultano e gli rimase come epiteto. Fu Gran visir per due
volte, la prima durò fino al 1706, la seconda dal 1710 al 1711. Durante quest’ultimo
ricevette Carlo XII a Bender dopo la battaglia di Poltava (1709) e l’anno seguente dichiarò
guerra ai Russi. Pur avendo circondato Pietro il Grande accettò la richiesta di pace
(Trattato del Prut). Accusato di aver riscosso una tangente da Caterina I fu esiliato sulle
isole greche.
476 Il conte Stanisław Poniatowski (1676-1762) fu un generale polacco che, essendo contrario
all’elezione di Augusto il Forte (cfr. note 246 e 247), passò nell’esercito svedese contro la
Polonia. Infine, nel 1722 fu nominato da Augusto II Gran tesoriere della Lituana.
477 4 luglio 1711. (Nota dell’Autore)
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chiedergli dei viveri che non poteva né voleva fornire. Era difficile farli
venire dalla Polonia; i rifornimenti promessi da Cantemir, che questi sperava
invano di ottenere dalla Valacchia, non potevano giungere: la situazione
diventava critica. A tutti questi contrattempi venne ad aggiungersi un grave
flagello: nugoli di cavallette ricoprirono le campagne, le spogliarono e le
infettarono: spesso durante le marce, sotto un sole che bruciava, in mezzo
ad aridi deserti, l’acqua mancava: si dovette farla portare dall’esercito
dentro le botti.
Per una singolare fatalità, Pietro, nel corso di questa marcia, si trovava a
tiro di Carlo XII: infatti Bender dista soltanto venticinque leghe comuni dalla
località dove l’esercito russo era accampato nei pressi di Iaşi. Manipoli di
Cosacchi si spinsero fino al rifugio di Carlo, ma gruppi di Tatari di Crimea
che manovravano in quella zona misero il re di Svezia al sicuro dalle
sorprese. Nel suo campo egli attendeva, impaziente e fiducioso, l’esito della
guerra.
Appena Pietro ebbe costituito alcuni depositi, si affrettò ad avanzare sulla
riva destra del Prut. La mossa decisiva era quella di impedire ai Turchi,
attestati sotto di lui sulla sponda sinistra, di attraversare il fiume e di
venirgli incontro. Questa manovra avrebbe dovuto renderlo padrone della
Moldavia e della Valacchia: egli spedì il generale Janus478 con l’avanguardia
a contrastare il passo ai Turchi. Ma il generale giunse soltanto nel preciso
momento in cui essi stavano attraversando il fiume su dei pontoni; egli
ripiegò e la sua fanteria fu inseguita fino a che lo zar in persona venne a
disimpegnarla.
Ben presto dunque l’esercito del visir si fece incontro a quello dello zar
costeggiando il fiume. I due eserciti erano molto diversi: quello turco, con
dei rinforzi tatari, si aggirava, si dice, sui 250.000 uomini, quello russo era
allora di soli 37.000 combattenti. Un contingente considerevole agli ordini
del generale Rönne479 si trovava al di là delle montagne della Moldavia sul
fiume Siret, ma i Turchi tagliarono la comunicazione.
Lo zar cominciava a mancare di viveri e le sue truppe, accampate non
lontano dal fiume, potevano a malapena procurarsi l’acqua. Erano sotto il
tiro di una nutrita artiglieria, piazzata dal gran visir sulla riva sinistra del
fiume con un reggimento che faceva continuamente fuoco sui Russi. A
giudicare da questo racconto molto particolareggiato e molto fedele, si
direbbe che il visir Baltaci Mehmet, ben lungi dall’essere l’imbecille che è
stato descritto dagli Svedesi, si fosse regolato con molta intelligenza.
Attraversare il Prut sotto gli occhi del nemico costringendolo a
indietreggiare, inseguirlo, tagliare d’un tratto la comunicazione tra l’esercito
478 Jahnus (Janus) von Eberstädt, generale di cavalleria.
479 Sull’originale Renne. Karl von Ewald Rönne (1663-1716), di origine estone, militò negli
eserciti svedese 1675-1685), danese (1686-1697), sassone (1697-1702) e russo (dal
1702) sotto il quale arrivò al grado di generale. Sotto Pietro I, partecipò a tutte le
campagne del Nord e in Ucraina. Ferito a Poltava, dovette cedere il comando del suo
reggimento al generale Baur, ma per il suo valore fu promosso generale di cavalleria.
Durante la battaglia del Prut conquistò la fortezza di Brăila.
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dello zar e un suo squadrone di cavalleria, accerchiare quest’esercito senza
lasciargli via di scampo, tagliargli l’acqua e i viveri, tenerlo sotto il tiro delle
batterie di cannoni che lo minacciano dalla riva opposta, tutto ciò non può
essere l’opera di un uomo inattivo e imprevidente.
Pietro allora venne a trovarsi in una situazione ancora più critica di quella
di Carlo XII a Poltava: come lui era circondato da un esercito più numeroso,
ancor più di lui era provato dalla carestia, come lui aveva fatto affidamento
sulle promesse di un principe non abbastanza potente da mantenerle;
scelse dunque la soluzione della ritirata, e tentò di andarsi a scegliere una
posizione vantaggiosa indietreggiando verso Iaşi.
Tolse il campo durante la notte480, ma si è appena messo in marcia che i
Turchi, all’alba, piombano sulla sua retroguardia. Il reggimento di guardie
Preobraženskij ne sostenne a lungo l’urto. L’esercito si schierò, si trincerò
dietro i carri e i bagagli. Lo stesso giorno481 tutto l’esercito turco attaccò i
Russi ancora una volta. Checché se ne sia detto, la prova che potevano
difendersi è data dal fatto che si difesero a lungo e uccisero molti nemici
senza esser messi in rotta.
Nell’esercito ottomano c’erano due ufficiali del re di Svezia con alcuni
cosacchi del partito di Carlo XII: uno era il conte Poniatowski, l’altro il conte
di Sparre482. Le mie relazioni dicono che questi due ufficiali consigliarono al
gran visir di non dar battaglia, di tagliare al nemico l’acqua e i viveri e di
costringerlo ad arrendersi o a morire. Secondo altre relazioni essi avrebbero
invece incitato il visir a distruggere con la spada un esercito sfinito e
stremato che già soccombeva alla carestia. La prima idea parrebbe più
circospetta, la seconda più conforme al carattere di ufficiali formatisi alla
scuola di Carlo XII483.
Di fatto il gran visir all’alba piombò sulla retroguardia. Questa
retroguardia era in disordine: al principio i Turchi si trovarono di fronte solo
una linea di 400 uomini, ma i Russi si disposero rapidamente in ordine di
battaglia. A un generale tedesco di nome Allart484 andò la gloria di aver dato
480 20 luglio 1711. (Nota dell’Autore)
481 21 luglio 1711. (Nota dell’Autore)
482 Per l’esercito svedese, Axel Sparre (1652-1728) partecipò a tutte le battaglie ricoprendo
via via ruoli più responsabili. Voltaire lo cita anche nella Storia di Carlo XII a proposito di
un’azione nel 1697 con Carl Piper ma ciò non è confermato dai fatti. Sparre invase
l’Ucraina insieme al re svedese fino a Poltava e fu esiliato con lui a Bender. Qui diventò
consigliere dei Turchi contro al Russia e tornò in Svezia con Carlo XII.
483 Al contrario, nella Storia di Carlo XII (libro V), Voltaire scrisse: «Poniatowski consiglia al
gran visir di affamare l’esercito moscovita, che, mancando di tutto, sarebbe
obbligato, in capo a un giorno, ad arrendersi con il suo imperatore».
484 Sull’originale Alard. Ljudvig Nikolaj von Allart (o Gallard; 1659-1727), di origini sassoni,
era un ingegnere militare che fu al servizio di Pietro I anche come generale dal 1700.
Prigioniero degli Svedesi a Narva e rilasciato nel 1706, fu nominato ambasciatore in
Russia di Augusto II e quando dopo pochi mesi questi fu deposto restò in Russia,
partecipando a numerose operazioni contro gli Svedesi e supervisionando la costruzione di
alcuni impianti strategici. Si distinse sia nella battaglia di Poltava (perciò decorato) che in
quella del Prut (dove rimase ferito). Nel 1711 si dimise dagli incarichi per divergenze con
Menšikov e rientrò in servizio nel 1721, dopo il trattato di Neustadt/Nystad, ma si ritirò
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disposizioni così tempestive e così vantaggiose che i Russi resistettero per
tre ore all’esercito ottomano senza perdere terreno.
La disciplina cui lo zar aveva abituato le proprie truppe lo ripagò delle sue
fatiche. A Narva si erano visti 60.000 uomini travolti da 8.000 perché erano
indisciplinati; qui si vide una retroguardia di circa 8.000 Russi sostenere
l’urto di 150.000 Turchi, uccidere 7.000 dei loro uomini e costringerli a
indietreggiare.
Dopo questo pesante scontro i due eserciti si accamparono per la notte,
ma l’esercito russo restava sempre accerchiato, privo di rifornimenti e
persino di acqua. Si trovava vicino alle rive del Prut ma non poteva
accostarsi al fiume: infatti bastava che dei soldati si arrischiassero ad
andare ad attingere acqua perché un drappello di Turchi appostato sull’altra
sponda facesse piovere su di loro il piombo e il ferro di una nutrita artiglieria
caricata a cartucce. Da parte sua l’esercito turco che aveva attaccato i Russi
continuava a fulminarli con i suoi cannoni.
Era probabile che alla lunga i Russi fossero perduti senza scampo, a
causa della posizione, della sproporzione numerica e della carestia. Le
scaramucce continuavano sempre: la cavalleria dello zar, quasi tutta
appiedata, non era più di nessuna utilità a meno che non combattesse a
piedi; la situazione sembrava disperata. È sufficiente avere sotto gli occhi la
mappa esatta degli accampamenti dello zar e dell’esercito ottomano per
rendersi conto che la situazione era rischiosa quant’altre mai, che la ritirata
era impossibile, che bisognava o riportare completa vittoria o perire fino
all’ultimo oppure essere schiavi dei Turchi.
Tutte le relazioni e le memorie dei tempo sono unanimi nell’affermare che
lo zar, incerto se l’indomani avrebbe o no tentato le sorti di una nuova
battaglia, se avrebbe esposto la sua sposa, l’esercito, l’impero e il risultato
di tante fatiche a una rovina che pareva inevitabile, si ritirò nella sua tenda
vinto dal dolore e agitato dalle convulsioni che talvolta lo coglievano e che
l’angoscia non faceva che aggravare. Solo, in preda a tante crudeli
inquietudini, non volendo che nessuno lo vedesse in quello stato, proibì a
chiunque di entrare nella tenda. Allora si vide che fortuna fosse stata per lui
l’aver permesso alla sua sposa di seguirlo. Caterina, malgrado il divieto,
entrò.
Una donna che aveva sfidato la morte in tanti scontri, esposta al fuoco
dell’artiglieria turca come chiunque altro, aveva il diritto di parlare. Ella
convinse lo sposo a tentare la via del negoziato.
È usanza immemorabile in tutto l’Oriente che, quando si chiede udienza a
un sovrano o a un suo rappresentante, non ci si presenti mai senza doni.
Caterina radunò i pochi gioielli che aveva portato seco in quel viaggio
guerriero da cui ogni lusso e ogni magnificenza erano banditi; ai gioielli
aggiunse due pellicce di volpe nera; il denaro contante che poté mettere
poco dopo. Scrisse la prima parte di una storia di Pietro I (rimasta manoscritta) e La
descrizione dettagliata dell’assedio della città di Narva.
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insieme fu destinato al kiaia485. Scelse personalmente un ufficiale
intelligente che avrebbe dovuto, con due servitori, recapitare i doni al gran
visir e in seguito rimettere al kiaia, in sicurezza, il dono a lui destinato. A
quest’ufficiale fu affidata una missiva del maresciallo Šeremetev a Baltaci
Mehmet. Le memorie di Pietro confermano la notizia della lettera, ma non
dicono nulla sui particolari che escogitò Caterina: tutto l’episodio è
confermato a sufficienza dalla dichiarazione che lo stesso Pietro rilasciò nel
1725, allorché fece incoronare Caterina imperatrice: «Ci è stata, egli dice, di
grande aiuto in tutti i pericoli e particolarmente in occasione della battaglia
del Prut, dove il nostro esercito era ridotto a 22.000 uomini». Se è vero che
in quell’occasione lo zar aveva ormai solo 22.000 combattenti che
minacciavano di soccombere al ferro o alla fame, il servizio reso da Caterina
fu pari ai benefici di cui lo sposo l’aveva colmata. Apprendiamo dal diario
manoscritto di Pietro il Grande486 che il giorno stesso della grande battaglia,
20 luglio, c’erano 31.554 uomini di fanteria e 6.692 di cavalleria, quasi tutti
appiedati: in quella battaglia avrebbe dunque perduto 16.246 combattenti.
Le altre relazioni affermano che le perdite dei Turchi furono di gran lunga
più considerevoli delle sue, e che siccome questi andavano all’assalto
accalcandosi alla rinfusa, nessuno dei colpi tirati su di loro andò a vuoto. Se
è così, la giornata del Prut tra il 20 e il 21 luglio fu una delle più sanguinose
cui si sia assistito da vari secoli a questa parte.
O bisogna supporre che Pietro il Grande si è ingannato quando,
nell’incoronare l’imperatrice, le esprimeva la sua riconoscenza «per aver
salvato il suo esercito ridotto a 22.000 combattenti», o accusare di falso il
suo diario dal quale risulta che il giorno della battaglia l’esercito del Prut,
indipendentemente dallo squadrone accampato sul Sireth, «ammontava a
31.554 uomini di fanteria e 6.692 di cavalleria». Sulla base di questi calcoli
la battaglia sarebbe stata ancor più terribile di quanto non abbiano riferito
sinora gli storici e tutte le relazioni pro e contro. Sicuramente a questo
punto c’è un malinteso, cosa comunissima nelle relazioni di guerra appena si
comincia a entrare nei dettagli. Il sistema più sicuro è quello di attenersi
sempre all’evento principale, la vittoria o la sconfitta: è difficile che si sappia
con precisione quanto l’una e l’altra siano costate.
Per quanto esiguo fosse il numero cui era ridotto l’esercito russo, ci si
illudeva che una resistenza così intrepida e tenace si sarebbe imposta al
rispetto del gran visir, che si sarebbe conclusa la pace a condizioni onorevoli
per la Porta ottomana e che questo trattato, mettendo il visir in buona luce
presso il suo signore, non sarebbe stato troppo umiliante per l’impero di
Russia. A quanto pare, il gran merito di Caterina fu proprio quello di aver
intravisto tale possibilità in un momento in cui i generali non sembravano
prevedere altro che un’inevitabile rovina.
Nordberg, nella sua Storia di Carlo XII, cita una lettera dello zar nella
quale egli si esprime in questi termini: «Se, contro ogni mia intenzione, ho
485 Rappresentante del principe.
486 Pagina 177 del diario di Pietro il Grande. (Nota dell’Autore)
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avuto la sfortuna di dispiacere a Sua Altezza, sono pronto a riparare a tutte
le cagioni di lamentela che ella può avere contro di me. Vi scongiuro,
nobilissimo generale, di impedire che sia sparso altro sangue, e vi supplico
di far cessare all’istante il fuoco eccessivo della vostra artiglieria. Ricevete
l’ostaggio che vi invio».
Questa lettera ha tutte le apparenze della falsità, come del resto la
maggior parte dei documenti citati a casaccio da Nordberg: essa porta la
data dell’11 luglio, secondo il nuovo calendario, e non si scrisse a Baltaci
Mehmet che il 21. Inoltre non fu lo zar a scrivere, bensì il maresciallo
Šeremetev. Nella lettera non furono impiegate espressioni come «lo zar ha
avuto la sfortuna di dispiacere a Sua Altezza», termini convenienti soltanto
a un suddito che domanda perdono al suo signore, e non vi si fa alcun
cenno a ostaggi perché non se ne mandarono; inoltre la lettera fu recapitata
da un ufficiale, mentre l’artiglieria fulminava da ambo le parti. Šeremetev,
nella sua lettera, si limitava a ricordare al visir alcune offerte di pace
avanzate dalla Porta all’inizio della campagna tramite i ministri d’Inghilterra
e di Olanda, allorché il divan domandava la cessione della cittadella e del
porto di Taganrog, vere cause della guerra.
Varie ore passarono prima che giungesse una risposta dal gran visir. Si
temeva che il latore fosse stato ucciso dal cannone o trattenuto dai Turchi.
Fu spedito un secondo corriere487 con un duplicato, e fu tenuto un consiglio
di guerra alla presenza di Caterina. Dieci ufficiali generali firmarono il
seguente verbale: «Se il nemico non vuole accettare le condizioni offertegli
o se esige che deponiamo le armi e ci arrendiamo a discrezione, tutti i
generali e i ministri all’unanimità sono risoluti ad aprirsi la strada attraverso
le schiere nemiche».
In seguito a questa decisione, i bagagli dell’esercito furono circondati con
delle trincee e si avanzò fino a cento passi dall’esercito turco: fu a questo
punto che il visir fece finalmente proclamare una tregua d’armi.
Tutto il partito svedese nelle sue memorie ha dato del vile e dell’infame a
questo visir che si è lasciato corrompere. Allo stesso modo molti scrittori
hanno accusato il conte Piper di aver accettato denaro dal duca di
Marlborough per convincere il re di Svezia a continuare la guerra contro lo
zar, e un ministro di Francia fu incolpato di aver concluso dietro compenso il
trattato di Siviglia. Accuse del genere devono essere avanzate solo su prove
lampanti. È estremamente raro che dei primi ministri si abbassino a viltà
tanto infamanti, che prima o poi si vengono a risapere o a opera di chi ha
sborsato il denaro o dai registri che attestano il fatto. Un ministro è sempre
un uomo che sta sulla ribalta europea, l’onore è alla base del suo credito;
egli è sempre ricco abbastanza da non aver bisogno di essere un traditore.
Quella di viceré dell’impero ottomano è una carica così importante, i
profitti in tempo di guerra sono così ingenti, nelle tende di Baltaci Mehmet
regnava tale abbondanza e magnificenza, nell’esercito dello zar vi era tale
semplicità e soprattutto tale penuria che il gran visir era più in condizione di
487 21 luglio 1711. (Nota dell’Autore)
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dare che di prendere. La piccola attenzione di una donna che invia delle
pellicce e qualche anello come usa in tutte le corti, anzi in tutte le Porte
dell’Oriente, non poteva esser considerata corruzione. La condotta franca e
aperta di Baltaci Mehmet sembra confondere le accuse di cui si sono
macchiati tanti scritti concernenti quest’affare. Il vice-cancelliere Šafirov488
si recò alla sua tenda in pompa magna, tutto vi svolse alla luce del sole e
non poteva svolgersi altrimenti. I negoziati veri e propri furono avviati alla
presenza di un uomo legato al re di Svezia e domestico del conte
Poniatowski, ufficiale di Carlo XII, il quale all’inizio servì da interprete; gli
articoli furono redatti pubblicamente, a opera del primo segretario del
visirato, tale Ömer Efendi489. Lo stesso conte Poniatowski era presente. Il
dono destinato al kiaia fu offerto pubblicamente nel corso di una cerimonia,
tutto si svolse secondo l’usanza orientale, furono scambiati doni da ambo le
parti: nulla che assomigli all’aria di un tradimento. Ciò che convinse il visir a
concludere è il fatto che proprio allora il corpo d’armata stanziato sul Siret,
in Moldavia, agli ordini del generale Rönne, aveva attraversato tre fiumi e in
quel momento si trovava sul Danubio, dove Rönne aveva espugnato la città
e il castello di Brăila difesi da una nutrita guarnigione agli ordini di un
pascià. Lo zar disponeva di un altro contingente che stava avanzando dalle
frontiere della Polonia. Per giunta è probabile che il visir non fosse al
corrente della carestia che travagliava i Russi. Di solito non si comunica al
nemico il computo dei viveri e delle munizioni, anzi, proprio quando si soffre
di più, davanti a lui ci si vanta di nuotare nell’abbondanza. Tra Russi e Turchi
non esistono disertori: le differenze nel vestire, nella religione e nel
linguaggio non lo consentono. Essi non conoscono, come noi, la diserzione;
perciò il gran visir non conosceva con esattezza le deplorevoli condizioni in
cui si trovava l’esercito di Pietro.
Baltaci, che non amava la guerra e che pure l’aveva saputa fare, pensò
che la sua spedizione poteva dirsi riuscita se egli consegnava nelle mani del
gran signore le città e i porti per i quali combatteva, se, dalle sponde del
Danubio, ricacciava in Russia l’esercito vittorioso del generale Rönne, se
chiudeva per sempre la strada del Bosforo Cimmerio, della Palude Meotide e
del mar Nero a un sovrano intraprendente, e se, per finire, non esponeva
questi vantaggi assicurati ai rischi di una nuova battaglia nella quale, dopo
tutto, la disperazione poteva vincere sulla forza. Il giorno avanti aveva visto
i suoi giannizzeri respinti, e c’era più di un esempio di vittorie riportate dai
pochi contro i molti. Tali furono le sue ragioni, ma né gli ufficiali di Carlo
presenti presso il suo esercito né il khan dei Tatari le approvarono:
488 Sull’originale Schaffirof. Il barone Pëtr Pavlovič Šafirov (1670-1739) fu uno statista tra i
più abili sotto Pietro il Grande. Iniziò la carriera come traduttore e interprete, poi
mostrando doti diplomatiche non comuni fu eletto vice-cancelliere e fu lui a concludere
con i Turchi la pace del Prut (1711) e il trattato di Adrianopoli (1713). Nel 1718 fu
nominato vicepresidente del ministero degli Affari esteri e senatore, ma accusato di
peculato, nel 1723 fu condannato all’esilio in Siberia, da cui fu liberato alla morte di
Pietro. Scrisse una vita dello zar e un trattato sulle guerre intraprese contro Carlo XII.
489 Sull’originale Hummer Effendi. Effendi, o efendi, era il titolo indicante il segretario capo.
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l’interesse dei Tatari era quello di poter esercitare liberamente il saccheggio
sulle frontiere russe e polacche, l’interesse di Carlo XII era di vendicarsi
dello zar. Il generale e primo ministro dell’impero ottomano, al contrario,
non era animato né dalla vendetta privata di un principe cristiano, né dal
miraggio del bottino che allettava i Tatari. Appena ci si fu accordati su una
tregua d’armi, i Russi comprarono dai Turchi i viveri di cui mancavano. Gli
articoli di questa pace non furono redatti nel modo riferito dal viaggiatore La
Motraye e che Nordberg riprende da lui490. Il visir, fra le condizioni che pose,
voleva innanzi tutto che lo zar si impegnasse a non intromettersi più negli
interessi della Polonia, ed è questo il punto su cui insisteva Poniatowski, ma
in fondo era negli interessi dell’impero turco che la Polonia restasse divisa e
impotente: pertanto questo punto si ridusse a ritirare le truppe russe dalle
frontiere. Il khan dei Tatari pretendeva un tributo di 40.000 zecchini: questo
articolo fu dibattuto a lungo e non passò.
Il visir domandò ripetutamente che gli si consegnasse Cantemir come il
re di Svezia si era fatto consegnare Patkul. Cantemir si trovava nell’esatta
posizione in cui si era trovato Mazepa. Lo zar aveva fatto a Mazepa il
processo penale e l’aveva fatto giustiziare in effigie; i Turchi non si
comportarono così: presso di loro sia il processo in contumacia che le
sentenze pubbliche sono sconosciuti. Queste condanne affisse e le
esecuzioni in effigie sono tanto meno in uso presso di loro in quanto la loro
legge proibisce la rappresentazione della figura umana, di qualunque genere
essa sia. Invano essi insistettero per ottenere l’estradizione di Cantemir.
Pietro scrisse al vice cancelliere Šafirov queste precise parole: «Lascerò
piuttosto ai Turchi tutto il territorio che si estende fino a Kursk491: mi resterà
sempre la speranza di riconquistarlo. Ma la perdita della mia parola è
irreparabile e io non posso violarla. Non abbiamo che l’onore che sia
veramente nostro: rinunciarvi significa cessare di essere monarca».
Finalmente il trattato fu concluso e firmato presso il villaggio chiamato
Falksen492, sulle rive del Prut. Nel trattato fu convenuto che Azov e il suo
territorio sarebbero stati restituiti con le munizioni e l’artiglieria di cui era
fornito nel 1696, prima che lo zar lo conquistasse; che il porto di Taganrog,
sul mar di Sivah493 sarebbe stato demolito come quello di Samara sul fiume
omonimo e altre piccole cittadelle. Per finire fu aggiunta una clausola
concernente il re di Svezia, e persino da questa clausola appariva
chiaramente il risentimento del visir contro di lui. Fu stipulato che lo zar non
avrebbe importunato questo principe se egli faceva ritorno nel suo Stato, e
che d’altronde lo zar e lui potevano fare la pace quando ne avessero avuto
voglia.
L’insolita formula di questa clausola rivela chiaramente che Baltaci
Mehmet non aveva dimenticato l’alterigia di Carlo XII, anzi chi può dire se
490 Cfr. nota 431.
491 Sull’originale Cursk.
492 O in polacco Falczi.
493 Sull’originale Zabache.
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non fu proprio quell’alterigia a far propendere Mehmet verso la pace? La
rovina dello zar equivaleva alla grandezza di Carlo e non è del cuore umano
rendere potenti coloro che ci disprezzano. Finalmente questo principe, che
non aveva acconsentito a recarsi presso l’esercito del visir quando avrebbe
dovuto usargli dei riguardi, vi si precipitò quando stava per essere compiuta
l’opera che gli toglieva ogni speranza. Il visir non gli andò incontro e si
limitò a inviargli due pascià; si incontrò con Carlo soltanto a qualche
distanza dalla sua tenda.
La conversazione, come è noto, consistette solo in rimproveri. A vari
storici è parso che la risposta del visir al re allorché questi gli rimproverò
che, pur potendo prendere prigioniero lo zar, non lo aveva fatto, fosse una
risposta da imbecille. «Se avessi preso lo zar – egli disse – chi avrebbe
governato il suo impero?» Eppure non è difficile accorgersi che era la
risposta di un uomo indispettito e le parole che aggiunse: «Non è bene che
tutti i re escano di casa loro» rivelano la sua intenzione di umiliare l’ospite
di Bender.
Dal suo viaggio, Carlo non trasse altro vantaggio che quello di strappare
la veste del gran visir con lo sperone degli stivali. Il visir, che avrebbe
potuto farlo pentire di questo, finse di non accorgersene, e in questo fu
molto superiore a Carlo. Se qualcosa nella vita brillante e tumultuosa di
questo monarca poteva fargli sentire quanto può la fortuna umiliare la
grandezza era proprio il fatto che a Poltava un pasticciere aveva fatto
deporre le armi a tutto il suo esercito494 e che al Prut un taglialegna aveva
deciso le sorti sue e dello zar. Infatti il visir Baltaci Mehmet era stato il
taglialegna del serraglio, come risulta dal suo nome495, e ben lungi
dall’arrossirne egli se ne faceva un vanto. A tal punto i costumi orientali
sono diversi dai nostri.
In un primo momento il sultano e tutta Costantinopoli furono molto
soddisfatti dell’operato del visir: furono indetti pubblici festeggiamenti che
durarono una intera settimana, il kiaia di Mehmet che aveva recapitato il
trattato al divan fu innalzato seduta stante alla dignità di büyük imrahor
cioè gran cavaliere496: non è certo il trattamento che si riserva a coloro da
cui ci si ritiene mal serviti.
Si direbbe che Nordberg non conoscesse a fondo il governo ottomano:
infatti dice che «il gran signore badava a non irritare il suo visir» e che
Baltaci Mehmet era un uomo da temere. È spesso accaduto che i giannizzeri
fossero un pericolo per i sultani ma non si è mai dato l’esempio di un visir
che non sia stato sacrificato senza difficoltà per ordine del suo signore, e
Mehmet non aveva i mezzi per sostenersi da solo. Per giunta affermare nella
stessa pagina che i giannizzeri erano risentiti contro Mehmet e che il sultano
paventava la sua potenza, significa contraddirsi.
494 Cfr. nota 363.
495 Cfr. nota 475.
496 Sull’originale Buyuk Imraur. Büyük significa “grande” e imrahor è il massimo responsabile
dell’addestramento dei cavalli ed è quindi persona molto importante in tempo di guerra.
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Il re di Svezia si ridusse all’espediente di intrigare alla corte ottomana. Si
vide un re, che aveva creati altri, adoperarsi per far presentare al sultano
suppliche e petizioni che venivano respinte. Carlo ricorse a tutti gli intrighi
come un suddito che voglia mettere in cattiva luce un ministro presso il suo
signore. Così si comportò nei confronti del visir Mehmet e di tutti i suoi
successori. Ora si rivolgeva alla Sultan Valide497 per mezzo di un’ebrea, ora
ricorreva a un eunuco; ci fu persino un uomo che, confondendosi fra le
guardie del gran signore, si finse pazzo per attirare la sua attenzione e
consegnargli una supplica da parte del re498. Di tutte queste manovre Carlo
dapprima non raccolse altro frutto che la mortificazione di vedersi togliere
l’appannaggio, cioè la somma che la generosità della Porta gli elargiva ogni
giorno e che ammontava a 500 lire francesi. Invece dell’appannaggio il gran
visir gli fece recapitare un ordine sotto forma di consiglio di lasciare la
Turchia.
Carlo si ostinò più che mai a rimanere, sempre sperando di poter un
giorno far ritorno in Polonia e nell’impero russo con un esercito ottomano.
Tutti sanno quale fu alla fine, nel 1714, il risultato della sua inflessibile
audacia, come egli affrontò un reggimento di giannizzeri, di spahi 499 e di
Tatari con i suoi segretari, camerieri, cuochi e stallieri, come fu prigioniero
in quello stesso Paese dove aveva goduto della più generosa ospitalità,
come tornò in seguito al suo Paese travestito da corriere dopo essere
rimasto in Turchia cinque anni. Se c’è una logica nella sua condotta, bisogna
riconoscere che questa logica non è quella degli altri mortali.
Capitolo II
SEGUITO DELLA QUESTIONE DEL PRUT
Può essere utile a questo punto ricordare un episodio già raccontato nella
Storia di Carlo XII. Durante la tregua d’armi che precedette il trattato del
Prut avvenne che due tatari si imbattessero in due ufficiali italiani
dell’esercito dello zar: essi li catturarono e andarono a venderli a un ufficiale
dei giannizzeri. Il visir punì questo attentato contro il diritto pubblico con la
morte dei due tatari. Come conciliare tanta sensibilità e tanto rigore con la
violazione del diritto delle genti perpetrata nella persona dell’ambasciatore
Tolstoj, il quale fu arrestato dallo stesso visir nelle strade di Costantinopoli?
Le contraddizioni nella condotta degli uomini hanno sempre un movente.
Baltaci Mehmet era maldisposto contro il khan dei Tatari, che non intendeva
sentir parlare di pace, e volle fargli sentire chi era il padrone.
Firmata la pace, lo zar si ritirò per la via di Iaşi fin sulla frontiera; lo
497 Sultan Valide, ossia “madre del sultano” era il titolo che portava la madre di un sultano
regnante nell’impero ottomano.
498 Dalla Storia di Carlo XII si sa che l’uomo fintosi pazzo era Villelongue, un gentiluomo
francese diventato colonnello del re di Svezia.
499 Gli spahi erano truppe scelte della cavalleria ottomana.
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scortava un reggimento di 8.000 turchi inviato dal visir non solo per
controllare la marcia dell’esercito russo ma anche per impedire che fosse
importunato da gruppi dispersi di tatari.
Dapprima Pietro si attenne al trattato, facendo demolire le fortezze di
Samara e di Kam’janec’500, ma la resa di Azov e la demolizione di Taganrog
comportavano maggiori difficoltà. Stando ai termini del trattato, bisognava
distinguere l’artiglieria e le munizioni di Azov che appartenevano ai Turchi
da quelle che lo zar vi aveva portate dopo aver conquistato la fortezza. Il
governatore portò per le lunghe il negoziato e la Porta giustamente se ne
risentì. Il sultano era impaziente di avere in consegna le chiavi di Azov: il
visir gliele prometteva, il governatore continuava a rimandare. Questo costò
a Baltaci Mehmet il favore dello zar e la carica; il khan dei Tatari e gli altri
suoi nemici ebbero il sopravvento: fu coinvolto nella disgrazia di vari pascià,
ma il gran signore che conosceva la sua fedeltà non lo privò né dei beni né
della vita. Egli fu inviato a Mitilene501, dove ricoperse la carica di
comandante. La semplice deposizione, la conservazione dei suoi beni e
soprattutto il comando di Mitilene, smentiscono in modo inoppugnabile tutti
gli argomenti che Nordberg adduce per provare che il visir era stato
comprato dai denari dello zar.
Nordberg dice che il bostanci basha502 che venne a ritirargli la bolla del
comando e a notificargli l’arresto, lo dichiarò «traditore, ribelle al suo
signore, venduto ai nemici per denaro e colpevole di non aver vegliato sugli
interessi del re di Svezia». Innanzitutto questo tipo di dichiarazione non è
usato affatto in Turchia: gli ordini del sultano vengono recapitati in segreto
ed eseguiti in silenzio. In secondo luogo se il visir fosse stato dichiarato
traditore, ribelle e venduto, tali delitti sarebbero stati puniti con la morte in
un Paese dove non vengono mai perdonati. Per finire, se egli fosse stato
punito per non aver sufficientemente tutelato gli interessi di Carlo XII, è
evidente che il sovrano avrebbe goduto presso la Porta ottomana di un
potere effettivo tale da far tremare gli altri ministri. In tal caso essi
avrebbero dovuto implorare il suo favore e prevenire i suoi desideri: al
contrario, Yusuf pascià, successore di Baltaci Mehmet nella carica di visir503 a
proposito della condotta del principe la pensava apertamente come il suo
predecessore e, ben lungi dal rendergli dei servigi, non pensò che a disfarsi
di un ospite pericoloso. Quando Poniatowski, confidente e amico di Carlo
XII, andò a congratularsi con quel visir per la sua nuova carica, egli rispose:
«Pagano, ti avverto: al primo intrigo che vorrai tramare, ti farò gettare in
mare con una pietra al collo».
Questo complimento che lo stesso Poniatowski riferisce nelle memorie
stese dietro mia richiesta, non lascia adito a dubbi sulla scarsa influenza di
500 Sull’originale Kamienska.
501 Novembre 1711. (Nota dell’Autore)
502 Sull’originale bostangi bachi. Letteralmente significa capo giardiniere, cioè chi guidava un
corpo di 5.000 giardinieri addetti sia al mantenimento dei giardini imperiali, sia alle
funzioni di sorveglianti, ispettori doganali e all’occorrenza anche boia.
503 Sull’originale Jussuf pacha. Ağa Yusuf Paşa III restò in carica solo un anno (1711-1712).
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cui Carlo XII godeva alla Porta. Tutto ciò che Nordberg riferisce sugli affari
di Turchia sembra provenire da un uomo tendenzioso e male informato.
Tutto ciò che egli afferma senza averne alcuna prova a proposito della
presunta corruzione di un gran visir, cioè di un uomo che disponeva di più di
sessanta milioni all’anno senza doverne rendere conto a nessuno, deve
essere relegato tra gli errori imputabili allo spirito di parte e al falso politico.
Ho ancora fra le mani la lettera che il conte Poniatowski scrisse al re
Stanislao immediatamente dopo la pace del Prut: egli rimprovera a Baltaci
Mehmet la sua freddezza verso il re di Svezia, la sua poca simpatia per la
guerra e la sua condiscendenza, ma si guarda bene dall’accusarlo di
corruzione: conosce troppo bene la carica di gran visir per pensare che lo
zar potesse mettere un prezzo al tradimento del viceré dell’impero
ottomano.
Šafirov e Šeremetev, trattenuti in ostaggio a Costantinopoli, non ebbero
certo il trattamento che sarebbe stato loro riservato se sul loro capo fosse
pesata l’accusa di aver comperato la pace e di aver ingannato il sultano
d’accordo con il visir. Essi rimasero in città, a piede libero, scortati da due
compagnie di giannizzeri.
L’ambasciatore Tolstoj fu liberato dalle Sette Torri immediatamente dopo
la pace del Prut, e i ministri dell’Inghilterra e dell’Olanda si adoperarono
presso il nuovo visir per l’esecuzione degli articoli.
Azov era stata appena restituita ai Turchi, le fortezze stipulate nel
Trattato venivano demolite. Sebbene la Porta ottomana non sia solita
intromettersi nelle questioni fra i principi cristiani, era tuttavia lusingata al
vedersi arbitro tra la Russia, la Polonia e il re di Svezia. Essa avrebbe
preteso che lo zar ritirasse le truppe dalla Polonia e liberasse la Turchia da
una vicinanza così pericolosa, inoltre auspicava che Carlo facesse ritorno nel
suo Stato affinché i principi cristiani fossero perennemente divisi, ma non
ebbe mai l’intenzione di fornirgli un esercito. I Tatari volevano sempre la
guerra, come un artigiano vuole esercitare una professione redditizia. I
giannizzeri la desideravano anch’essi, ma più per odio contro i cristiani, per
fierezza, per amore della licenza, che per altri motivi. Eppure i negoziati dei
ministri inglesi e olandesi prevalsero contro il partito opposto. La pace del
Prut fu confermata, ma nel nuovo trattato venne aggiunta la clausola che lo
zar entro tre mesi avrebbe ritirato dalla Polonia tutte le sue truppe, e che
l’imperatore di Turchia avrebbe licenziato immediatamente Carlo XII.
Si giudichi da questo nuovo trattato se il re di Svezia aveva veramente
tutto il potere che si è detto presso la Porta. Era evidente che il nuovo visir
Yusuf pascià lo sacrificava come il suo predecessore Baltaci Mehmet. Per
giustificare questo nuovo affronto, non è rimasta ai suoi storici altra risorsa
che quella di accusare Yusuf di essersi lasciato corrompere come il suo
predecessore. Simili imputazioni tante volte rinnovate fanno pensare più
agli schiamazzi di una cabala impotente che alla testimonianza della storia.
Lo spirito di parte, quando, costretto ad ammettere i fatti, ne altera le
circostanze e moventi; così purtroppo avviene che tutte le storie
contemporanee giungono falsificate alla posterità, la quale non potrà più
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sceverare la verità dalla menzogna.
Capitolo III
MATRIMONIO DELLO ZAREVIČ E SOLENNE PROCLAMAZIONE DEL MATRIMONIO
TRA PIETRO E CATERINA, CHE RICONOSCE SUO FRATELLO
La sfortunata campagna del Prut fu più funesta allo zar di quanto non lo
fosse stata la battaglia di Narva. Dopo Narva infatti egli aveva saputo trarre
partito dalla sua stessa sconfitta, rimediare a tutte le perdite e togliere
l’Ingria a Carlo XII. Invece, una volta perduti i porti e le fortezze sulla
Palude Meotide in virtù del trattato di Falksen con il sultano, egli fu costretto
a rinunciare all’egemonia sul mar Nero. Gli restava ancora un campo
d’azione abbastanza vasto: tutte le sue istituzioni in Russia da perfezionare,
le conquiste ai danni della Svezia da estendere, la posizione del re Augusto
in Polonia da consolidare e i buoni rapporti con gli alleati da mantenere. Gli
strapazzi avevano compromesso la sua salute: dovette recarsi alle acque di
Carlsbad504 in Boemia; ma mentre faceva la cura delle acque, faceva
contemporaneamente attaccare la Pomerania, Stralsund era stretta da un
blocco e cinque piccole città furono conquistate.
La Pomerania è la provincia più settentrionale della Germania: confina a
oriente con la Prussia e la Polonia, a occidente col Brandeburgo, a sud con il
Meclemburgo e a nord con il mar Baltico: fu soggetta quasi ogni secolo a
nuovi padroni. Gustavo Adolfo se ne impadronì nella famosa guerra dei
Trent’anni, e finalmente, con il trattato di Vestfalia505 fu ceduta agli Svedesi
a eccezione del vescovado di Kammin e di qualche piccola fortezza situata
nella Pomerania ulteriore506. Tutta quella provincia spettava di diritto
all’elettore di Brandeburgo in virtù dei patti di famiglia stretti con i duchi di
Pomerania. La casata di questi duchi si era estinta nel 1637 di conseguenza,
secondo le leggi dell’impero, la casa di Brandeburgo aveva diritti
inoppugnabili su quella provincia, ma con il trattato di Osnabrück507 la
necessità che è la prima delle leggi prevalse sui patti di famiglia e da allora
quasi tutta la Pomerania era andata a premiare il valore svedese.
Lo zar vagheggiava di spogliare la corona di Svezia di tutti i suoi
possedimenti in Germania: per attuare questo piano bisognava allearsi con
gli elettori di Brandeburgo e di Hannover e con la Danimarca. Pietro stese
tutti gli articoli del trattato che progettava di stringere con quelle potenze e
tutto il piano delle operazioni necessarie per conquistare la Pomerania.
In quello stesso periodo, egli celebrò a Torgau il matrimonio 508 tra suo
504 O Karlsbad, o Karlovy Vary, ossia “terme di Carlo”, dal nome dell’imperatore del Sacro
Romano Impero Carlo IV che fondò la città nel 1370.
505 Nel 1648.
506 Ossia la Pomerania orientale.
507 Uno dei tre trattati firmati con la pace di Vestfalia.
508 25 ottobre 1711. (Nota dell’Autore)
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figlio Alessio e la principessa di Wolfenbüttel, sorella dell’imperatrice di
Germania e sposa di Carlo VI, matrimonio che doveva in seguito rivelarsi
così funesto e costare la vita ai due sposi.
Lo zarevič era nato dal primo matrimonio di Pietro con Evdokija
Lopuchina, celebrato come si è detto nel 1689. All’epoca di questi fatti, la
zarina era confinata in un convento a Suzdal’. Suo figlio Alessio Petrovič,
nato il 1° marzo 1690 aveva allora 22 anni509. Questo principe non era
ancora noto in Europa. Un ministro di cui si sono stampate delle memorie
sulla corte di Russia510 in una lettera indirizzata al suo signore e datata 25
agosto 1711, dice che «il principe era alto e ben fatto, che rassomigliava
molto al padre, che aveva buon cuore, che era molto pio, che aveva letto
cinque volte le Sacre Scritture, che prediligeva la lettura delle antiche storie
greche. Il ministro gli riconosceva lo spirito aperto e pronto e dice che
questo principe conosceva la matematica, si intendeva di guerra, di
navigazione, di scienza e di idraulica, sapeva il tedesco e stava imparando il
francese, ma che suo padre non gli aveva mai permesso di fare quello che
da noi si chiama servizio militare».
Questo ritratto è ben diverso da quello che di lì a qualche tempo lo zar in
persona tracciò di questo figlio sfortunato: si vedrà con quanto dolore il
padre gli rinfaccia tutti i difetti contrari alle buone qualità che ammira in lui
il ministro.
Spetta alla posterità pronunciarsi fra uno straniero, il quale può giudicare
alla leggera il carattere di Alessio o volerlo adulare, e un padre il quale ha
creduto di dover sacrificare i sentimenti naturali al bene del suo impero. Se
il ministro conosceva la mente di Alessio come conobbe il suo aspetto
esteriore, la sua testimonianza vale poco; egli dice infatti che il principe era
alto e ben fatto mentre dalle relazioni che ho ricevuto da Pietroburgo risulta
che non era né l’una né l’altra cosa.
La sua matrigna Caterina non assistette al matrimonio: infatti, sebbene
fosse considerata la zarina, tale qualità non le era ufficialmente riconosciuta
e il titolo di altezza che le veniva dato alla corte dello zar la poneva in una
posizione troppo ambigua perché ella potesse firmare il contratto e perché il
cerimoniale tedesco le accordasse un rango conveniente alla sua dignità di
sposa dello zar. Caterina si trovava allora a Thorn, nella Prussia polacca511.
Dapprima lo zar inviò i due sposi novelli a Wolfenbüttel512, e ben presto
ricondusse la zarina a Pietroburgo con quella rapidità e semplicità di
apparato cui uniformava tutti i suoi viaggi.
509 Alessio nacque il 18 febbraio secondo il calendario giuliano che secondo il gregoriano
corrisponderebbe al 1° marzo, ma in Russia viene indicato come 28 febbraio. Il
matrimonio con la principessa Carlotta Cristina di Braunschweig-Wolfenbüttel, cognata
dell’imperatore Carlo VI del Sacro Romano Impero, avvenne il 17 ottobre 1711, quindi
Alessio aveva 21 anni.
510 Friedrich Christian Weber, Mémoires pour servir à l’histoire de l’Empire Russien sous le
regne de Pierre le Grand, 1725.
511 Thorn è il nome tedesco di Torun, ora in Polonia.
512 9 gennaio 1712. (Nota dell’Autore)
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Celebrato il matrimonio di suo figlio, il suo fu reso pubblico con grande
solennità e celebrato a Pietroburgo513. La cerimonia fu tanto augusta quanto
è possibile renderla in un paese creato da poco e in un tempo di dissesti
finanziari causati dalla guerra sostenuta contro i Turchi e da quella che si
stava ancora combattendo contro il re di Svezia. Lo zar predispose da solo il
programma dei festeggiamenti e vi lavorò di persona secondo la sua
abitudine. Così Caterina fu pubblicamente riconosciuta zarina come premio
di aver salvato lo sposo e l’esercito.
Le acclamazioni con cui quel matrimonio fu accolto a Pietroburgo erano
sincere; è vero che il plauso dei sudditi alle azioni di un principe assoluto è
sempre sospetto, ma fu confermato da tutte le menti sagge dell’Europa, che
videro di buon occhio quei due eventi quasi contemporanei: da una parte
l’erede di quella vasta monarchia, la cui unica gloria era la nascita, unito in
matrimonio a una principessa; dall’altra un conquistatore e un legislatore
che divideva pubblicamente il letto e il trono con una sconosciuta fatta
prigioniera a Marienburg che contava unicamente sui suoi meriti. Questa
stessa approvazione è divenuta più generale via via che gli spiriti venivano
illuminati dalla sana filosofia che ha fatto tanti progressi negli ultimi
quarant’anni. Sublime e prudente filosofia, che ci insegna a rispettare solo
esteriormente ogni forma di grandezza e di potenza, riservando il vero
rispetto al talento e ai benefici.
È mio dovere riferire fedelmente ciò che trovo, a proposito di questo
matrimonio, nei dispacci del conte di Bassewitz514 che fu consigliere aulico a
Vienna e per lungo tempo ministro dello Holstein presso la corte di Russia.
Fu questi un uomo di grandi meriti, di rara dirittura e candore, che ha
lasciate in Germania delle memorie preziose. Ecco quello che ci dice nelle
sue lettere: «Non solo la zarina era stata necessaria alla gloria di Pietro, ma
lo era anche alla sua conservazione in vita. Disgraziatamente questo
principe andava soggetto a dolorose convulsioni, che si credeva fossero la
conseguenza di un veleno propinatogli in gioventù. Soltanto Caterina
conosceva il segreto di alleviare i suoi dolori con delle cure penose e delle
minuziose precauzioni che solo lei era in grado di fornire: ella si era
interamente votata al mantenimento di una salute altrettanto preziosa allo
Stato che a lei stessa. Così lo zar, non potendo vivere senza di lei, la fece
compagna del letto e del trono». Mi limito a trascrivere le sue parole.
La fortuna, che in questa parte di mondo aveva prodotto tanti eventi
straordinari ai nostri occhi e che aveva innalzato la imperatrice Caterina
dall’avvilimento e dalla sventura fino al culmine dell’esaltazione, qualche
anno dopo la celebrazione solenne del suo matrimonio doveva renderle
ancora un singolare servigio.
Ecco quanto leggo nel curioso manoscritto di un uomo che si trovava
513 19 febbraio 1712. (Nota dell’Autore)
514 Henning Friedrich Graf von Bassewitz (1680-1749) fu presidente del consiglio del ducato
di Schleswig-Holstein. Dopo la morte fu pubblicato il suo libro Memorie di conte di
Bassewitz utili a illustrare alcuni degli eventi del regno di Pietro il Grande, in cui è
riportata la rete di relazioni tessuta al tempo della Grande Guerra del Nord.
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allora al servizio dello zar e che parla da testimone:
«A un inviato del re Augusto, che se ne ritornava a Dresda attraverso la
Curlandia, capitò di sentire in un’osteria i discorsi di un uomo che sembrava
in miseria e al quale veniva riservata l’accoglienza offensiva che fin troppo
spesso la sua condizione ispira agli altri uomini. Lo sconosciuto, indispettito,
disse che non sarebbe stato trattato così se gli riusciva di essere presentato
allo zar, e che forse disponeva presso la sua corte di protezioni più potenti di
quanto non si supponesse.
«L’inviato del re Augusto, al cui orecchio giunsero questi discorsi, fu
spinto dalla curiosità a interrogare quell’uomo, e sulla base delle vaghe
risposte che ne ebbe, avendolo osservato con più attenzione credette di
ravvisare nei suoi lineamenti una certa rassomiglianza con l’imperatrice.
Giunto a Dresda, non poté trattenersi dallo scriverne a uno dei suoi amici di
Pietroburgo. La lettera cadde nelle mani dello zar che dette disposizioni al
principe Repnin, governatore di Riga, affinché cercasse di rintracciare
l’uomo di cui si parlava nella lettera. Il principe Repnin fece partire per Mitau
un messo di fiducia e l’uomo fu rintracciato: si chiamava Karl Skavronskij515
ed era figlio di un gentiluomo lituano morto durante le guerre di Polonia, il
quale aveva lasciato due figli ancora in fasce, un maschio e una femmina.
Sia l’uno che l’altra non ricevettero alcuna educazione, tranne quella che ci
dà la natura nell’abbandono generale di ogni cosa. Skavronskij, che era
stato diviso dalla sorella sin dalla più tenera età, sapeva soltanto che ella
era stata presa a Marienburg nel 1704 e la credeva ancora presso il principe
Menšikov, dove immaginava che avesse fatto una certa fortuna.
«Il principe Repnin, dietro ordine esplicito dello zar, fece condurre
Skavronskij a Riga con il pretesto di certi delitti di cui era accusato. Fu fatta
contro di lui una specie di istruttoria e quindi fu inviato a Riga sotto buona
scorta, con l’ordine di trattarlo bene durante il viaggio.
«Giunto a Pietroburgo fu condotto in casa di un maggiordomo dello zar
chiamato Šeplev516. Questo maggiordomo, istruito della parte che doveva
recitare, cavò da quell’uomo molte notizie sulla sua condizione e finalmente
gli disse che l’accusa intentata contro di lui a Riga era molto grave, ma che
avrebbe ottenuto giustizia. Avrebbe dovuto, gli disse, presentare una
supplica a Sua Maestà; tale supplica sarebbe stata redatta in suo nome e si
sarebbe fatto in modo che fosse lui stesso a presentarla.
«L’indomani lo zar si recò a pranzare in casa di Šeplev. Gli fu presentato
Skavronskij: il principe gli fece molte domande e il candore delle sue
risposte lo convinse che si trattava proprio del fratello della zarina. Tutti e
due durante la loro infanzia erano stati in Livonia. Tutte le risposte che
Skavronskij diede alle domande dello zar, corrispondevano a ciò che la
moglie gli aveva raccontato a proposito della sua nascita e delle prime
sventure della sua vita.
«L’indomani lo zar, ormai certo della verità, propose alla sua sposa di
515 Sull’originale Charles Scavronsky.
516 Sull’originale Shepleff.
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pranzare con lui in casa di quello stesso Šeplev; alzatisi da tavola, fece
venire l’uomo che aveva interrogato il giorno avanti. Questi comparve
vestito degli stessi abiti che aveva portato durante il viaggio, poiché lo zar
non volle che si mostrasse con un aspetto diverso da quello al quale l’aveva
avvezzato la sua cattiva stella».
Egli lo interrogò nuovamente alla presenza di sua moglie. Il manoscritto
riferisce che alla fine gli rivolse queste precise parole: «Quest’uomo è tuo
fratello; animo, Karl, bacia la mano all’imperatrice e abbraccia tua sorella».
L’autore della relazione aggiunge che l’imperatrice svenne e che, quando
tornò in sé, lo zar le disse: «Ma è semplicissimo: questo gentiluomo è mio
cognato; se ha delle capacità, ne caveremo qualche cosa, se non ne ha, non
ne caveremo nulla».
A mio avviso, un tale discorso rivela una grandezza pari alla sua
semplicità; tanta grandezza mi sembra fuori del comune. L’autore riferisce
che Skavronskij restò a lungo in casa di Šeplev, che gli fu assegnata una
rispettabile pensione e che visse molto ritirato. Egli si ferma qui con il
racconto di questo episodio, che servì unicamente a scoprire le origini di
Caterina. Apprendiamo da altra fonte che questo gentiluomo fu fatto conte,
che sposò una fanciulla di nobili natali e che ebbe due figlie, le quali presero
marito fra i primi gentiluomini di Russia517. Lascio alle poche persone in
grado di appurare questi particolari il compito di distinguere ciò che c’è di
vero in questa avventura e ciò che può esservi stato aggiunto. L’autore del
manoscritto non sembra aver raccontato questi fatti con l’intenzione di
rifilare ai suoi lettori storie mirabolanti: infatti la sua relazione non era
destinata alla pubblicazione. Egli scrive a un amico con semplicità cose cui
afferma di aver assistito. È possibile che si sbagli su qualche circostanza,
ma la sostanza sembra vera: infatti, se quel gentiluomo avesse saputo di
essere il fratello di una persona così potente, non avrebbe certo aspettato
tanti anni a farsi riconoscere. Questo riconoscimento, per quanto possa
parere strano, è meno straordinario dell’ascesa di Caterina: l’uno e l’altro
sono sorprendenti testimonianze del destino e varranno a farci sospendere il
giudizio allorché prendiamo per favole tanti avvenimenti dell’antichità i quali
forse contrastano con l’ordine naturale delle cose meno di tutta la storia
dell’imperatrice.
Le feste indette da Pietro per il proprio matrimonio e per quello di suo
figlio non furono di quei divertimenti passeggeri che danno fondo alle
finanze e di cui resta a malapena il ricordo. Egli completò la fonditura dei
cannoni e le costruzioni dell’ammiragliato; le grandi strade furono
perfezionate; furono costruiti nuovi vascelli; furono scavati dei canali;
517 Karl Skavronskij ebbe sei figli. La prima figlia, Anna Karlovna Skavronskaja (1722-1775),
sposò nel 1742 Michail Illarionovič Voroncov, cugino della zarina Elisabetta, che li tenne a
corte in ruoli di primo piano (nel 1760 Anna fu insignita della gran croce dell’Ordine di
Santa Caterina e Voroncov fu cancelliere e diplomatico di Elisabetta, Pietro III e Caterina
II). Il secondo figlio di Karl, Martin, sposò Marija Nikolaevna Stroganova della famiglia
principesca degli Stroganov di Mosca. Degli altri figli, Ivan e Anton rimasero celibi,
Ekaterina sposò Nikolaj Korf e Sof’ja il lituano Pëtr Ivanovič Sapega.
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inoltre lo zar fece completare la Borsa e i magazzini, e il commercio
marittimo di Pietroburgo cominciò a prosperare. Egli ordinò che il senato di
Mosca fosse trasferito a Pietroburgo; l’ordine fu eseguito nell’aprile 1712.
Grazie a ciò, la nuova città divenne come la capitale dell’impero. Molti
prigionieri svedesi furono impiegati all’abbellimento della città la cui
fondazione era frutto della loro sconfitta.
Capitolo IV
PRESA DI STETTINO. SPEDIZIONE IN FINLANDIA. AVVENIMENTI DEL 1712
Vedendo il successo arridergli nella sua casa, nel governo, nelle guerre
contro Carlo XII, nei negoziati con tutti i sovrani che miravano a cacciare gli
Svedesi dal continente e rinchiuderli per sempre nella penisola scandinava,
Pietro rivolgeva tutti i suoi progetti alle coste occidentali del Nord-Europa e
dimenticava la Palude Meotide e il mar Nero. Le chiavi di Azov, lungamente
negate al pascià che avrebbe dovuto entrare in quel fortino a nome del gran
signore, erano state finalmente consegnate: nonostante tutti gli sforzi di
Carlo XII, nonostante tutti gli intrighi dei suoi partigiani presso la corte
ottomana, nonostante persino varie avvisaglie di una nuova guerra, tra la
Russia e la Turchia regnava la pace.
Carlo XII si ostinava sempre a rimanere a Bender facendo dipendere tutta
la sua fortuna e le sue speranze dai capricci del gran visir, mentre lo zar
teneva sotto la sua minaccia tutte le sue province, sollevava contro di lui la
Danimarca e l’Hannover, era pronto a far dichiarare la Prussia e tentava di
scuotere la Polonia e la Sassonia.
Della stessa irriducibile fierezza che Carlo metteva nelle relazioni con la
Porta, da cui dipendeva, egli faceva uso anche contro i suoi nemici lontani,
riuniti per perderlo. Dal fondo del suo rifugio nei deserti della Bessarabia,
lanciava la sua sfida allo zar, al re di Polonia, al re di Danimarca, al re di
Prussia, all’elettore di Hannover che poco dopo doveva salire sul trono
d’Inghilterra e all’imperatore di Germania che aveva tanto offeso quando
attraversava la Slesia da trionfatore. L’imperatore si vendicava
abbandonandolo alla sua cattiva stella e negando ogni protezione ai
possedimenti svedesi in Germania.
Gli sarebbe stato facile sciogliere la lega che si andava formando contro
di lui. Bastava che cedesse Stettino al primo re di Prussia, Federico, elettore
di Brandeburgo, che avanzava legittime pretese su quella porzione della
Pomerania. Ma a quel tempo egli non considerava la Prussia una grande
potenza: né Carlo né nessun altro avrebbe potuto prevedere che il piccolo
regno di Prussia, quasi disabitato, e l’elettorato di Brandeburgo sarebbero
diventati così temibili. Egli non volle acconsentire ad alcun accomodamento
e, risoluto a spezzarsi piuttosto che piegarsi, diede ordine di resistere su
tutti i fronti, per mare e per terra. Il suo Stato aveva quasi esaurito le
scorte di uomini e di denaro, tuttavia fu obbedito: il senato di Stoccolma
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allestì una flotta con tredici vascelli di linea, furono armate delle truppe,
ogni abitante si trasformò in soldato. Parve che il coraggio e la fierezza di
Carlo XII animassero fino all’ultimo dei suoi sudditi, sfortunati quasi quanto
il loro signore.
È difficile credere che Carlo avesse un piano di condotta prestabilito.
Disponeva ancora in Polonia di un partito che, con l’aiuto dei Tatari di
Crimea, poteva devastare quello sfortunato Paese ma non rimettere sul
trono il re Stanislao. La sua speranza di indurre la Porta ottomana a
sostenere quel partito e di convincere il divan, affinché inviasse in suo
soccorso 200.000 uomini con il pretesto che lo zar in Polonia appoggiava il
suo alleato Augusto, era una speranza chimerica.
A Bender egli aspettava l’esito di tutti quei vani intrighi e intanto Russi,
Danesi e Sassoni erano in Pomerania. Pietro in questa spedizione condusse
seco la sua sposa518. Già il re di Danimarca si era impadronito di Stade, città
marinara del ducato di Brema; gli eserciti russo, sassone e danese erano
davanti a Stralsund.
Fu allora519 che il re Stanislao, vedendo le pietose condizioni di tante
province, ogni possibilità di risalire sul trono di Polonia preclusa e la
generale confusione dovuta all’ostinata assenza di Carlo XII, convocò i
generali svedesi che difendevano la Pomerania con un esercito di 10-11.000
uomini, sola e ultima risorsa della Svezia in quella provincia. Egli propose
loro un accomodamento con il re Augusto e si offrì di esserne la vittima.
Rivolse loro la parola in francese: ecco le esatte parole di cui si servì e che
lasciò loro in uno scritto che fu firmato da nove ufficiali generali, tra i quali
si trovava un Patkul, cugino germano di quello sfortunato Patkul che Carlo
XII aveva fatto perire sulla ruota: «Fino a questo momento sono stato lo
strumento della gloria dell’esercito svedese ma non aspiro a essere la causa
funesta della sua rovina. Io dichiaro di sacrificare la mia corona520 e i miei
propri interessi alla conservazione della sacra persona del re, poiché non
vedo umanamente altro mezzo per trarlo dal luogo in cui si trova».
Rilasciata tale dichiarazione, si preparò a partire per la Turchia con la
speranza di piegare l’ostinazione del suo benefattore e di toccargli il cuore
con questo sacrificio. La sua cattiva stella lo fece arrivare in Bessarabia 521
nel preciso momento in cui Carlo, dopo la promessa fatta al sultano di
abbandonare il suo rifugio, dopo aver ricevuto il denaro e la scorta necessari
per il ritorno, essendosi ostinato a rimanere e a sfidare i Turchi e i Tatari,
affrontava un intero esercito col solo aiuto dei suoi domestici in quello
sfortunato scontro di Bender in cui i Turchi, che pure avrebbero potuto
facilmente ucciderlo, si contentarono di prenderlo prigioniero. Stanislao,
sopraggiunto in quella strana congiuntura, fu egli stesso tratto in arresto.
518 Settembre 1712. (Nota dell’Autore)
519 Ottobre 1712. (Nota dell’Autore)
520 Si è creduto di dover lasciare la dichiarazione del re Stanislao quale egli la rilasciò, parola
per parola. Ci sono degli errori di lingua: «Je me déclare de sacrifier» non è francese: ma
ciò rende il documento ancora più autentico e non meno rispettabile. (Nota dell’Autore)
521 Regione storica tra i fiumi Prut e Dnestr.
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Così due re cristiani si trovano contemporaneamente prigionieri in Turchia.
In quei tempi in cui l’intera Europa era sconvolta e la Francia portava a
termine contro una parte dell’Europa una guerra non meno funesta per
mettere sul trono di Spagna il nipote Luigi XIV, l’Inghilterra concluse la pace
con la Francia e la vittoria che il maresciallo di Villars colse a Denain in
Fiandra salvò il regno dagli altri suoi nemici522. Ormai da un secolo la Francia
era alleata della Svezia, ed era importante che l’alleata non fosse privata dei
suoi possessi in Germania. Carlo, che era troppo lontano, ancora non
sapeva a Bender ciò che accadeva in Francia.
La reggenza di Stoccolma si arrischiò a chiedere denaro a una Francia
sfinita, in un momento in cui Luigi XIV non aveva nemmeno di che pagare i
suoi domestici. Essa fece partire un certo conte di Sparre con l’incarico di
questo negoziato destinato a fallire. Sparre giunse a Versailles e fece
presente al marchese di Torcy523 l’impossibilità in cui si trovava di pagare il
piccolo esercito svedese che restava a Carlo XII in Pomerania. Tale esercito
era sul punto di disperdersi per la mancanza di denaro e il solo alleato della
Francia stava per perdere delle province la cui conservazione era
indispensabile all’equilibrio generale; è vero che Carlo XII, nelle sue vittorie,
aveva trascurato veramente troppo il re di Francia, ma la generosità di Luigi
XIV era pari alle sventure di Carlo. Il ministro francese dimostrò a quello
svedese che ci si trovava nell’impotenza di aiutare il suo sovrano; Sparre
disperava ormai del successo.
Un privato cittadino di Parigi fece ciò che Sparre non sperava ormai di
ottenere. C’era a Parigi un banchiere di nome Samuel Bernard, che aveva
accumulato una fortuna prodigiosa sia con le rimesse della corte in terra
straniera, sia con altre iniziative524. Era un uomo inebriato di una specie di
gloria che raramente si incontra nella sua professione: amava
appassionatamente tutto ciò che è brillante e sapeva che presto o tardi il
ministero di Francia rendeva a usura ciò che si arrischiava per lui. Sparre
andò a pranzare da lui, lo adulò e alla fine del pranzo il banchiere fece
consegnare al conte di Sparre 600.000 lire. Dopo di ciò si recò dal ministro,
marchese di Torcy, e gli disse: «Ho dato 200.000 scudi alla Svezia a nome
vostro; me li farete restituire quando vi sarà possibile».
Il conte Stenbock525, generale dell’esercito di Carlo, non sperava in tale
soccorso: vedeva le sue truppe sul punto di ammutinarsi e, non avendo da
dar loro niente altro che promesse, vedeva addensarsi attorno a sé la
tempesta e temeva di trovarsi alla fine circondato da tre eserciti: quello
522 La battaglia di Denain fu combattuta il 24 luglio 1712 durante la guerra di successione
spagnola e fu vinta dal maresciallo Claude Louis Hector de Villars (1653-1734) con
l’esercito franco-olandese del principe Eugenio di Savoia.
523 Jean-Baptiste Colvert, detto marchese di Torcy (1618-1684), politico ed economista sotto
Luigi XIV, controllava l’amministrazione centrale e la politica interna francese.
524 Samuel Bernard (1651-1739) fu un finanziere francese che fece fortuna dapprima col
commercio di stoffe, poi con la tratta degli schiavi neri e l’importazione di merci e infine
con i prestiti allo Stato.
525 Cfr. nota 305.
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russo, quello sassone e quello danese. Egli chiese un armistizio: prevedeva
infatti che Stanislao avrebbe finito per abdicare, che avrebbe piegato
l’altezzoso Carlo XII, che bisognava se non altro guadagnare tempo e
salvare le truppe con i negoziati. Inviò dunque un corriere a Bender per far
presente al re il miserevole stato delle sue finanze, dei suoi affari e delle sue
truppe e per comunicargli che si vedeva costretto a quell’armistizio: poteva
già dirsi fortunato se lo otteneva. Il corriere non era ancora partito da tre
giorni e neppure Stanislao era ancora partito, che Stenbock ricevette i
200.000 scudi del banchiere di Parigi. Per quei tempi e in un Paese
devastato, quella cifra rappresentava un favoloso tesoro. Forte di questo
aiuto, con il quale si rimediava a tutto, si trovò alla testa di 12.000 uomini e
rinunciando a ogni tregua d’armi non pensò più che a combattere.
Era quello stesso Stenbock che nel 1710, dopo la sconfitta di Poltava,
aveva vendicato la Svezia sui Danesi con un scorreria nella Scania526: aveva
marciato contro di loro con un semplice milizia che invece di bandoliere
aveva degli spaghi e aveva riportato completa vittoria. Come tutti gli altri
generali di Carlo, era intrepido e instancabile, ma il suo valore era offuscato
dalla ferocia. È lui che, dopo uno scontro con i Russi, avendo dato ordine
che si sopprimessero tutti i prigionieri, vide un ufficiale polacco del partito
dello zar gettarsi alla staffa di Stanislao mentre il principe lo abbracciava per
salvargli la vita. Stenbock lo freddò con un colpo di pistola fra le braccia del
principe, come è riferito nella vita di Carlo XII527. Il re Stanislao ebbe a dire
a chi scrive che avrebbe rotto la testa a Stenbock se non lo avessero
trattenuto il rispetto e la riconoscenza per il re di Svezia.
Il generale Stenbock avanzò dunque528 sulla strada di Wismar contro le
forze riunite dei Russi, dei Sassoni e dei Danesi. Si trovò di fronte l’esercito
sassone e quello danese che precedevano i Russi, i quali distavano tre
leghe. Lo zar manda tre corrieri uno dopo l’altro al re di Danimarca per
scongiurarlo di aspettare e metterlo in guardia sul pericolo che correva se
avesse combattuto gli Svedesi senza avere la superiorità numerica. Il re di
Danimarca non volle condividere l’onore di una vittoria che riteneva
assicurata: avanzò contro gli Svedesi e li attaccò nei pressi di una località
chiamata Wandsbek529. In questa giornata si vide ancora una volta l’odio
naturale che correva fra Danesi e Svedesi. Gli ufficiali delle due nazioni si
accanivano gli uni contro gli altri e cadevano crivellati di colpi.
Stenbock strappò la vittoria prima che i Russi potessero arrivare a portata
del campo di battaglia. Qualche giorno dopo gli giunse la risposta del re suo
signore che rigettava ogni idea di armistizio: il re diceva che avrebbe
perdonato quella iniziativa disonorante solo nel caso che fosse stata riparata
e che, forti o deboli, bisognava vincere o morire. Stenbock aveva già
prevenuto quest’ordine con la sua vittoria.
526 Provincia storica della Svezia.
527 Non nella Storia di Carlo XII, ma nel capitolo XV della Parte prima di questo volume.
528 9 dicembre 1712. (Nota dell’Autore)
529 Sull’originale Gadebesk o, in un’altra edizione, Gadebush. Ora è un quartiere di Amburgo.
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Questa vittoria, tuttavia, fu simile a quella che aveva consolato il re
Augusto allorché, nel pieno delle sue sventure, vinse la battaglia di Kalish
contro gli Svedesi che trionfavano da ogni parte. La vittoria di Kalish non
fece che aggravare le sventure di Augusto; quanto a quella di Wandsbek,
servì solo a ritardare la rovina di Stenbock e del suo esercito.
Il re di Svezia alla notizia della vittoria di Stenbock credette che le sue
sorti si fossero risollevate; giunse a illudersi che avrebbe fatto intervenire
l’impero ottomano che minacciava lo zar di una nuova guerra e con questa
speranza ordinò al generale Stenbock di recarsi in Polonia, credendo sempre
a ogni minimo successo che stessero per tornare i tempi di Narva, quelli in
cui dettava legge. Queste idee furono ben presto smentite dall’affare di
Bender e dalla sua prigionia presso i Turchi.
L’unico vantaggio della vittoria di Wandsbek fu quello di andare a ridurre
in cenere, durante la notte, la cittadina di Altona, popolata di commercianti
e di artigiani, città indifesa che non avendo prese le armi non doveva essere
sacrificata. Altona fu interamente distrutta: molti abitanti perirono tra le
fiamme; altri, scampati nudi all’incendio, vecchi, donne e bambini, perirono
di freddo e di sfinimento alle porte di Amburgo530. Spesso molte migliaia di
uomini subirono un’analoga sorte per la rivalità di due soli. Stenbock non
ricavò che questo atroce vantaggio. Dopo la vittoria, Russi, Danesi, e
Sassoni lo perseguitarono con tale accanimento che si vide costretto a
chiedere asilo per sé e per il suo esercito nella fortezza di Tönning, nello
Holstein.
La regione dello Holstein era allora tra le più devastate del Nord e il suo
sovrano uno dei principi più sfortunati. Egli era nipote di Carlo XII; fu a
causa di suo padre, cognato del re, che Carlo aveva portato le sue armi fin
dentro Copenaghen, prima della battaglia di Narva. Fu a causa sua che egli
concluse il trattato di Travendahl531, in virtù del quale i duchi di Holstein
erano rientrati in possesso dei loro diritti.
Questo Paese è in parte la culla dei Cimbri e di quegli antichi Normanni
che conquistarono la Neustria in Francia, l’intera Inghilterra, Napoli e la
Sicilia. Nessuno al giorno d’oggi è meno in grado di fare delle conquiste di
quanto sia questa porzione dell’antico Chersoneso cimbrico. Lo compongono
due piccoli ducati, lo Schleswig, che appartiene in comune al ducato di
Danimarca e al duca, e il Gottorp che appartiene al solo duca di Holstein. Lo
Schleswig è un principato sovrano, lo Holstein è membro dell’impero
austriaco detto anche Sacro Romano Impero.
Il re di Danimarca e il duca di Holstein-Gottorp appartengono alla stessa
casata, ma il duca, nipote di Carlo XII e suo erede presunto, aveva ereditato
sin dalla nascita una inimicizia per il re di Danimarca che lo aveva oppresso
durante l’infanzia. Un fratello di suo padre, vescovo di Lubecca e
amministratore delle terre di questo sfortunato pupillo, veniva a trovarsi tra
530 Nella sua storia, il cappellano confessore Nordberg dice che il generale Stenbock non
incendiò la città perché non aveva carri per trasportare i mobili. (Nota dell’Autore)
531 Il trattato di Travendahl fu concluso il 18 agosto 1700 fra Svezia e Danimarca.
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l’esercito svedese che non osava aiutare e gli eserciti russo, sassone e
danese che lo tenevano sotto la loro minaccia. Eppure bisognava sforzarsi di
salvare le truppe di Carlo XII senza offendere il re di Danimarca, che era
divenuto padrone del Paese e lo dissanguava.
Il vescovo amministratore dello Holstein, era completamente in balia del
famoso barone di Görtz532, uomo abile e intraprendente quant’altri mai,
spirito aperto e fertile di risorse cui nulla sembrava troppo ardito o troppo
difficile, uomo tanto insinuante nei negoziati quanto audace nei progetti,
dotato della facoltà di piacere e di persuadere, che soleva trascinare gli
spiriti con l’impeto del suo genio dopo averli conquistati con la dolcezza
della parola. Lo stesso ascendente egli doveva poi avere su Carlo XII, che lo
anteponeva al vescovo amministratore dello Holstein. È noto che pagò con
la testa l’onore che gli toccò, cioè quello di guidare il sovrano più inflessibile
e più ostinato che sia mai salito su un trono.
A Usum, Görtz533 ebbe un incontro segreto534 con Stenbock e promise a
questi che gli avrebbe consegnato la fortezza di Tönning senza
compromettere il vescovo amministratore, suo signore, e nello stesso tempo
fece assicurare al re di Danimarca che non sarebbe stata consegnata. È così
che si conducono quasi tutti i negoziati, poiché gli affari di Stato sono di
natura diversa da quelli privati e l’onore dei ministri si fonda unicamente sul
successo, mentre quello dei privati consiste nel rispetto della parola data.
Stenbock si presentò davanti a Tönning: il comandante della città ricusò
di aprirgli le porte; così il re di Danimarca è messo nell’impossibilità di
lamentarsi del vescovo amministratore. Tuttavia Görtz fa impartire in nome
del duca minorenne, l’ordine che l’esercito svedese sia fatto entrare in
Tönning. Il segretario del Gabinetto, che si chiamava Stambke535, firma a
nome del duca di Holstein; con questo sistema Görtz non compromette altri
che un fanciullo il quale non aveva ancora l’autorità di impartire ordini,
rende un servizio al re di Svezia presso il quale voleva farsi valere e
contemporaneamente al vescovo suo signore che sembrava non voler
acconsentire all’ingresso dell’esercito svedese. Il comandante di Tönning,
guadagnato senza fatica, aprì la città agli Svedesi; quanto a Görtz, egli si
giustificò come poté davanti al re di Danimarca protestando che tutto era
stato fatto suo malgrado.
L’esercito svedese536, rifugiato in parte nella città e in parte sotto la
protezione dei suoi cannoni, non fu per questo al sicuro: il generale
532 Noi lo pronunciamo Gueurts. (Nota dell’Autore) – Georg Heinrich barone di Görtz (16681719). Dapprima, durante la guerra nordica, nel 1698 fu al servizio del duca di Gottorp e,
in seguito, di Carlo XII di Svezia di cui divenne ministro delle finanze (1715). Tentò,
inutilmente, di concludere una pace separata con la Russia (1718). Dopo la morte del re
svedese fu decapitato.
533 Memorie segrete di Bassewitz. (Nota dell’Autore)
534 21 gennaio 1713. (Nota dell’Autore)
535 Sull’originale Stamke. Andrea Ernst barone di Stambke fu prima segretario di Görtz all’Aia
e poi ambasciatore dello Holstein in Russia.
536 Memorie di Stenbock. (Nota dell’Autore)
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Stenbock fu costretto a darsi prigioniero di guerra con 11.000 uomini, allo
stesso modo dei quasi 16.000 che si erano arresi dopo Poltava.
Fu stipulato che Stenbock, i suoi ufficiali e i suoi soldati potessero esser
riscattati o barattati; il riscatto di Stenbock fu fissato a 8.000 scudi
dell’impero, ben povera somma che tuttavia non fu possibile trovare:
Stenbock restò prigioniero a Copenaghen fino alla morte.
Gli stati dello Holstein restarono a discrezione di un vincitore inasprito. Il
giovane duca fu oggetto della vendetta del re di Danimarca, come prezzo
dell’abuso del suo nome perpetrato da Görtz: le sventure di Carlo XII
ricadevano su tutta la sua famiglia.
Görtz, che vedeva sfumare i suoi progetti, ma si preoccupava sempre di
avere una parte importante in questa confusione, tornò alla sua vecchia
idea di instaurare la neutralità tra i possedimenti svedesi in Germania.
Il re di Danimarca stava per entrare in Tönning. Giorgio elettore di
Hannover537, aspirava ai ducati di Brema e di Verden e alla città di Stade. Il
nuovo re di Prussia Federico Guglielmo aveva delle mire su Stettino538.
Pietro I si preparava a impadronirsi della Finlandia. Tutti gli Stati di Carlo
XII, tranne la Svezia, erano come spoglie che gli altri cercavano di dividersi:
come conciliare tanti interessi con la neutralità? Görtz allacciò negoziati
contemporaneamente con tutti i principi interessati alla spartizione: giorno e
notte faceva la spola da una provincia all’altra; convinse il governatore di
Brema e Verden a lasciare in sequestro i suoi due ducati all’elettore di
Sassonia perché i Danesi non se ne appropriassero; a furia di insistere
ottenne dal re di Prussia che si occupasse, unitamente allo Holstein, del
sequestro di Stettino e Wismar: grazie a ciò il re di Danimarca avrebbe
lasciato in pace lo Holstein e non sarebbe entrato a Tönning. Certo, mettere
le sue città nelle mani di chi avrebbe potuto conservarle per sempre
significava rendere a Carlo XII uno strano servizio, ma Görtz, dando loro
queste città come in ostaggio, li costringeva alla neutralità almeno per
qualche tempo. Egli sperava che, in un secondo tempo, avrebbe potuto far
dichiarare lo Hannover e il Brandeburgo in favore della Svezia; metteva al
corrente dei suoi progetti il re di Polonia, il cui Paese stremato aveva
bisogno di pace, e per finire voleva rendersi indispensabile a tutti i principi.
Dei beni di Carlo XII, egli disponeva come un tutore il quale sacrifica una
parte delle sostanze del suo pupillo rovinato per salvare il resto, un pupillo
incapace di badare da solo ai suoi affari. Tutto ciò senza un incarico,
senz’altra garanzia della sua condotta all’infuori dei pieni poteri conferitegli
dal vescovo di Lubecca, che a sua volta non era stato affatto autorizzato da
Carlo XII.
Ecco chi è stato questo Görtz fino a oggi quasi sconosciuto. Si sono visti
537 Georg Ludwig von Hannover, asceso al trono col nome di Giorgio I di Gran Bretagna
(1660-1727) fu elettore di Hannover dal 1698 al 1727, re della Gran Bretagna (col nome
di Giorgio I) dal 1714.
538 Federico Guglielmo I di Hohenzollern (1688-1740) fu re di Prussia dal 1713. Ottenne
Stettino e parte della Pomerania col trattato di Stoccolma (1720).
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dei primi ministri di grandi nazioni Oxenstierna, Richelieu o Alberoni539
mettere in subbuglio una parte dell’Europa, ma che il consigliere privato di
un vescovo di Lubecca abbia fatto altrettanto senza essere riconosciuto da
nessuno era una cosa inaudita.
In un primo momento gli arrise il successo: concluse con il re di Prussia
un trattato540 in virtù del quale quel sovrano si impegnava, trattenendo
Stettino in ostaggio, a conservare a Carlo XII il resto della Pomerania. In
virtù di questo trattato Görtz fece proporre al governatore della Pomerania
(Meijerfeldt)541 di restituire la città di Stettino al re di Prussia per favorire la
pace, credendo che lo svedese governatore di Stettino si sarebbe dimostrato
docile come il governatore holsteiniano di Tönning, ma gli ufficiali di Carlo
XII non avevano l’abitudine di obbedire a siffatti ordini. Meijerfeldt rispose
che sarebbero entrati a Stettino solo passando sul suo cadavere e sulle
macerie. Poi informò il suo signore della strana proposta che gli era stata
fatta. Il corriere trovò Carlo XII che, dopo l’avventura di Bender, era
prigioniero a Demirtaş542. Nessuno allora sapeva se Carlo sarebbe rimasto
prigioniero dei Turchi per il resto dei suoi giorni o se sarebbe stato relegato
in qualche isola dell’arcipelago o dell’Asia. Dalla sua prigionia, Carlo mandò
a Meijerfeldt un messaggio simile a quello che aveva mandato a Stenbock,
ossia che bisognava morire piuttosto che cedere al nemico e gli dava ordine
di essere inflessibile come era lui stesso.
Görtz, vedendo che il governatore di Stettino rischiava di mandare all’aria
i suoi piani e non voleva sentire parlare né di neutralità né di sequestro, si
mise in testa di far sequestrare non solo Stettino ma anche la città di
Stralsund. Egli trovò una via segreta per concludere con il re di Polonia ed
elettore di Sassonia543 lo stesso trattato che aveva fatto per Stettino con
l’elettore di Brandeburgo. Vedeva chiaramente che gli Svedesi, trovandosi
senza denaro e senza esercito, erano impotenti a conservare quella città
mentre il loro re era prigioniero in Turchia. Egli contava su questi sequestri
per allontanare il flagello della guerra da tutto il Nord. Infine la stessa
Danimarca si prestava ai negoziati di Görtz. Egli seppe conquistare
completamente il cuore del principe Menšikov, generale e favorito dello zar,
e gli fece credere che sarebbe stato possibile cedere lo Holstein al suo
signore. Fece balenare allo zar l’idea di aprire un canale dallo Holstein fino
al mar Baltico, impresa così conforme ai gusti di quel fondatore e
539 Axel Oxenstierna (1583-1654) consigliere di Gustavo II Adolfo, fu membro del consiglio di
reggenza eletto alla sua morte e conservò il cancellierato sotto Cristina e Carlo X Gustavo.
Il cardinale Richelieu (Armand-Jean du Plessis; 1585-1642) fu uno dei più grandi uomini
di Stato francesi, ministro di Luigi XIII. Il cardinale italiano Giulio Alberoni (1664-1752)
svolse vari incarichi in Francia e in Spagna, tra cui, dal 1717 al 1719, quello di Primo
ministro in Spagna alla corte di Filippo V di Borbone.
540 Giugno 1713. (Nota dell’Autore)
541 Sull’originale Mayerfeld. Johan August Meijerfeldt, detto il Vecchio (1664-1749), generale
svedese, diventò vicegovernatore della Pomerania svedese nel 1711 e governatore nel
1713 succedendo a Jürgen Mellin.
542 Nell’odierna Turchia asiatica, presso il mar di Marmara.
543 Giugno 1713. (Nota dell’Autore)
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soprattutto che avrebbe acquistato nuovo potere accettando di essere uno
dei principi dell’impero ed entrando in possesso del diritto di suffragio
presso la Dieta di Ratisbona, diritto che sarebbe stato sempre sostenuto dal
diritto delle armi.
È impossibile piegarsi in più modi, prendere più aspetti differenti, recitare
più parti diverse di quanto non fece questo volontario negoziatore. Giunse a
persuadere il principe Menšikov a distruggere quella stessa città di Stettino
che era sua intenzione salvare e a bombardarla per costringere i
comandante Meijerfeldt a darla in sequestro. Così ardiva offendere il re di
Svezia al quale voleva rendere un servigio e nelle cui grazie doveva entrare
anche troppo, per sua sfortuna.
Quando il re di Prussia vide che un esercito russo bombardava Stettino,
temette che questa città fosse perduta per lui e restasse in mano ai Russi:
era qui che Görtz l’aspettava. Il principe Menšikov mancava di denaro: gli
fece prestar dal re di Prussia 400.000 scudi e poi fece recapitare un
messaggio al governatore della città. «Che cosa preferite – gli fu detto –
vedere Stettino in cenere sotto il dominio russo o affidarla al re di Prussia
che la restituirà al re vostro Signore?» Alla fine il comandante si lasciò
convincere e si arrese. Menšikov entrò in città, e dietro versamento di
400.000 scudi la consegnò con tutto il territorio nelle mani del re di Prussia,
il quale permise a due battaglioni dello Holstein di entrarvi pro-forma, ma
non restituì mai questa parte della Pomerania.
Da quel momento il secondo re di Prussia, che succedeva a un sovrano
inetto e prodigo, gettò le fondamenta della grandezza cui il suo Paese
doveva giungere in seguito grazie alla disciplina militare e all’economia.
Il barone di Görtz, che aveva messo in atto tanti espedienti non riuscì a
ottenere che i Danesi perdonassero alla provincia dello Holstein né che
rinunciassero all’idea di impadronirsi di Tönning. Egli fallì quello che
sembrava essere il suo scopo principale, ma riuscì in tutto il resto e
soprattutto riuscì a diventare un personaggio importante nel Nord, ciò che
in realtà era il suo vero scopo.
Già l’elettore di Hannover s’era assicurato il possesso di Brema e Verden,
tolte a Carlo XII; i Sassoni erano davanti alla sua città di Vismar; Stettino
era in mano al re di Prussia544, i Russi stavano per assediare Stralsund
assieme ai Sassoni, mentre questi ultimi avevano già messo piede nell’isola
di Rügen. In mezzo a tanti negoziati, mentre altrove si disputava sulla
neutralità e sulle spartizioni, lo zar aveva invaso la Finlandia. Dopo aver
piazzato personalmente l’artiglieria davanti a Stralsund affidando il resto
agli alleati e al principe Menšikov, nel mese di maggio si era inoltrato nel
Baltico su una nave da cinquanta cannoni che lui stesso aveva fatto
costruire a Pietroburgo. Egli fece rotta verso la Finlandia seguito da 92
galere e 110 semigalere su cui erano imbarcati 16.000 soldati.
Lo sbarco avvenne a Helsinki545, che si trova al sessantunesimo grado,
544 Settembre 1713. (Nota dell’Autore)
545 22 maggio 1713 del nuovo calendario. (Nota dell’Autore) – Sull’originale la città è detta
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nella parte più meridionale di questa fredda e sterile regione.
Malgrado tutte le difficoltà, lo sbarco riuscì. Si simulò un attacco in un
punto e si sbarcò in un altro; le truppe posero piede a terra e la città fu
conquistata. Lo zar si rese padrone di Borgo, di Åbo546 ed ebbe in mano
tutta la costa. Pareva ormai che agli Svedesi non restasse più scampo:
infatti proprio allora l’esercito svedese comandato da Stenbock si dava
prigioniero di guerra.
Come si è visto, tutti questi disastri di Carlo XII furono seguiti dalla
perdita di Brema, Verden, Stettino e di una parte della Pomerania. Per
finire, il re Stanislao e lo stesso Carlo erano prigionieri in Turchia. Malgrado
ciò egli non aveva ancora abbandonato l’idea di tornare in Polonia a capo di
un esercito ottomano, di rimettere sul trono Stanislao e di far tremare tutti i
suoi nemici.
Capitolo V
SUCCESSI DI PIETRO IL GRANDE. CARLO XII FA RITORNO NEL SUO STATO
Seguendo il corso delle sue conquiste, Pietro perfezionava la sua marina,
faceva venire 12.000 famiglie a Pietroburgo, teneva tutti i suoi alleati legati
alla sua fortuna e alla sua persona, sebbene avessero tutti interessi diversi
e punti di vista opposti. La sua flotta minacciava contemporaneamente tutte
le coste svedesi sui golfi di Botnia e di Finlandia.
Uno dei suoi generali di terra, principe Golicyn, formato da lui come tutti
gli altri, avanzava da Helsinki, dove era avvenuto lo sbarco dello zar, fino al
cuore della terraferma verso il borgo di Tavastehus547. Era una fortezza che
proteggeva la Botnia. La difendevano alcuni reggimenti svedesi, forti di
8.000 soldati. Si dovette dar battaglia: i Russi vinsero completamente548,
dispersero l’esercito svedese e avanzarono fino a Vasa, rimanendo così
padroni di un territorio di ottanta leghe.
Restava ancora agli Svedesi una flotta con la quale dominavano sul mare.
Da tempo Pietro nutriva l’ambizione di mettere in mostra la marina da lui
creata. Era partito da Pietroburgo e aveva riunito una flotta di 16 vascelli di
linea e di 180 galere atte a manovrare tra gli scogli che circondano l’isola di
Åland e le altre isole del Baltico non lontane dalle coste della Svezia; in quei
paraggi incontrò la flotta svedese. Questa flotta era superiore alla sua
quanto a grandi navi, ma inferiore per le galere e più adatta a combattere in
mare aperto che in una zona irta di scogli. Questa superiorità lo zar la
doveva al suo solo genio. Egli prestava servizio presso la sua flotta in
qualità di contrammiraglio e riceveva ordini dall’ammiraglio Apraksin. Pietro
Elsinford (da Helsingfors, nome in svedese).
546 Borgo è forse Borgà, Åbo è l’odierna Turku.
547 Sull’originale Tavastus. Tavastehus è il nome svedese, Hämeenlinna quello finlandese.
548 13 marzo 1714. (Nota dell’Autore)
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avrebbe voluto impadronirsi dell’isola di Åland che dista dalla Svezia
soltanto dodici leghe. Bisognava passare sotto gli occhi della flotta svedese.
Quest’ardita manovra fu eseguita. Le galere si aprirono la strada sotto il tiro
del cannone nemico che non arrivava abbastanza lontano. Si entrò in Åland,
e poiché la costa è quasi completamente disseminata di scogli, lo zar fece
trasportare a braccia ottanta piccole galere attraverso una lingua di terra e
le fece rimettere in mare nel golfo detto di Hangö549 dove si trovavano le sue
grandi navi. Ehrensköld550, contrammiraglio degli Svedesi si illuse che
sarebbe stato facile catturare o far colare a picco quelle ottanta galere;
avanzò da quella parte per portarsi a tiro, ma fu accolto da un fuoco così
nutrito che quasi tutti i soldati e i marinai caddero sotto i suoi occhi. Furono
catturate le galere che aveva portato con sé e la nave su cui era imbarcato.
Riuscito a fuggire in una scialuppa551, fu ferito; alla fine, costretto alla resa,
fu portato sulla galera dove manovrava lo zar in persona. Il resto della flotta
svedese fece ritorno in Svezia. Stoccolma fu costernata poiché sembrava
direttamente minacciata.
Frattanto il colonnello Šuvalov Neushlof552 attaccava la sola fortezza che
rimanesse ancora da prendere sulle coste occidentali della Finlandia, e la
sottometteva allo zar malgrado una accanitissima resistenza.
La giornata di Åland fu la più gloriosa della vita di Pietro dopo quella di
Poltava. Padrone della Finlandia, di cui affidò il governo al principe Golicyn,
vincitore di tutte le forze navali della Svezia e più rispettato che mai dai suoi
alleati, fece ritorno a Pietroburgo553 quando la stagione, divenuta troppo
tempestosa, non gli consentì più di restare sui mari di Finlandia e di Botnia.
La sua buona stella volle che mentre giungeva nella nuova capitale, la
zarina desse alla luce una principessa, la quale morì l’anno seguente554. In
onore della sua sposa istituì l’ordine di Santa Caterina e celebrò la nascita di
sua figlia con un ingresso trionfale. Di tutti i festeggiamenti ai quali aveva
avvezzato il suo popolo, questo gli era divenuto più caro di tutti gli altri.
L’inizio della festa fu il seguente: furono condotte nel porto di Kronštadt
nove galere svedesi, sette navi cariche di prigionieri e il vascello del
contrammiraglio Ehrensköld.
Sulla nave ammiraglia della flotta russa erano caricati tutti i cannoni, le
bandiere e le insegne prese durante la conquista della Finlandia. Tutte
549 Hangö in svedese e Hanko in finlandese.
550 Sull’originale Erenschild. Nils Ehrensköld (1674-1728) fu responsabile delle navi da guerra
contro la Russia dal 1700. Fu ferito e fatto prigioniero nella battaglia di Åland, ma fu
rilasciato da Pietro I. Tornato in patria, diventò ammiraglio e direttore del ministero della
marina svedese.
551 8 agosto. (Nota dell’Autore)
552 “Neushlof” non risulta né un nome, né un epiteto. Furono i fratelli Ivan Maksimovič
Šuvalov senior e junior (il primo morto nel 1736, il secondo nel 1741) a essere al servizio
di Pietro I e poi di Elisabetta. In particolare, il maggiore dei fratelli compilò una mappa del
mare e delle rive dei fiumi al confine tra Russia e Svezia e facilitò la conclusione del
trattato di Neustadt/Nystad (1721).
553 15 settembre 1714. (Nota dell’Autore)
554 Natal’ja nacque nel 1713 e morì nel 1715.
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queste spoglie furono portate a Pietroburgo, dove si entrò schierati in ordine
di battaglia. Un arco di trionfo, che lo zar secondo la sua abitudine aveva
disegnato personalmente, fu decorato degli emblemi di tutte queste vittorie:
i vincitori passarono sotto l’arco trionfale, in testa marciava l’ammiraglio
Apraksin, poi lo zar nella sua qualità di contrammiraglio, quindi tutti gli altri
ufficiali secondo il grado. Furono presentati al viceré Romodanovskij555 il
quale, in queste cerimonie, rappresentava il signore dell’impero. Questo
vice-zar distribuì a tutti gli ufficiali medaglie d’oro, tutti i soldati e i marinari
ricevettero medaglie d’argento. I prigionieri svedesi passarono sotto l’arco
di trionfo e l’ammiraglio Ehrensköld seguiva immediatamente lo zar suo
vincitore. Giunti al trono su cui sedeva il vice-zar, l’ammiraglio Apraksin gli
presentò il contrammiraglio Pietro il quale, in ricompensa dei suoi servigi,
domandò di essere creato vice-ammiraglio. Si passò ai voti e non è difficile
immaginare che tutti i voti gli furono favorevoli.
Dopo questa cerimonia che colmava di gioia tutti quelli che vi assistevano
e ispirava a tutti l’emulazione, l’amor di patria e l’amor della gloria, lo zar
pronunciò questo discorso che merita di giungere alla più lontana posterità:
«Fratelli, c’è fra voi qualcuno che vent’anni fa immaginava che avrebbe
combattuto con me sul mar Baltico, in navi costruite dalle vostre stesse
mani e che ci saremo insediati in quelle contrade conquistate dalle nostre
fatiche dal nostro coraggio? … L’antica culla delle scienze si pone in Grecia;
in seguito esse passarono in Italia e di lì si sparsero per tutta l’Europa.
Adesso è il nostro turno, se vorrete assecondare i miei piani unendo lo
studio all’obbedienza. Le arti circolano nel mondo, come il sangue nel corpo
dell’uomo, e forse stabiliranno fra noi la loro sede per tornare poi in Grecia,
loro antica patria. Oso sperare che noi faremo un giorno arrossire le nazioni
più civili grazie alle nostre imprese e alla nostra solida gloria».
Ecco l’autentico sunto di questo discorso degno di un fondatore. Tutte le
traduzioni ne hanno diminuito l’efficacia, ma il più grande merito di questa
eloquente arringa è stato quello di essere pronunciato da un monarca
vittorioso, fondatore e legislatore del proprio impero.
I vecchi bojardi ascoltarono questa arringa rimpiangendo le loro antiche
usanze più che non ammirassero la gloria del loro signore, ma i giovani
furono toccati fino alle lacrime.
Questo tempo si segnala anche per l’arrivo degli ambasciatori russi che
tornarono da Costantinopoli con la conferma della pace con la Turchia 556.
Poco tempo prima era giunto da parte dello scià Husayn 557 un ambasciatore
persiano che aveva portato in dono allo zar un elefante e cinque leoni.
Contemporaneamente egli ricevette un’ambasceria dal khan degli Uzbeki,
Mehmet Bahadir558, che chiedeva la sua protezione contro gli altri Tatari.
555 Sull’originale Romanodowski, cfr. nota 252.
556 15 dicembre 1714. (Nota dell’Autore)
557 Sull’originale Hussein. Husayn regnò dal 1694 al 1722, quando fu destituito dai ribelli
afgani.
558 Probabile discendente di Mohamed Köprülü (cfr. nota 180) in quanto molti Köprülü ebbero
il soprannome di Bahadir (o Bagatur, o altre varianti) che significa “il coraggioso” ed era
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Tutti, dal cuore dell’Asia e dell’Europa, rendevano omaggio alla sua gloria.
La reggenza di Stoccolma, disperata per le miserevoli condizioni in cui si
trovavano i suoi affari e per l’assenza del re che trascurava le cure dello
Stato, si era finalmente risolta a non consultarlo più e, subito dopo la
vittoria navale dello zar, aveva chiesto al vincitore un passaporto per un
ufficiale cui erano state affidate delle proposte di pace. Il passaporto fu
rilasciato, ma proprio allora la principessa Ulrica Eleonora, sorella di Carlo
XII559, ricevette la notizia che il re suo fratello si preparava finalmente a
lasciare la Turchia e a tornare per difendersi. Nessuno allora osò più inviare
allo zar il diplomatico segretamente nominato: ci si rassegnò alla cattiva
sorte e si attese che Carlo XII si presentasse a porvi riparo.
Effettivamente, sul finire dell’ottobre 1714, dopo cinque anni e qualche
mese di soggiorno in Turchia, Carlo partì. È noto che durante il viaggio
mostrò la stessa stravaganza che distingueva tutte le sue azioni. Il 22
novembre 1714 giunse a Stralsund. Appena giunto, il barone di Görtz si
recò a fargli visita: era stato lo strumento di una parte delle sue disgrazie
ma seppe giustificarsi con tale abilità e fargli balenare tali speranze che
conquistò la sua fiducia come aveva conquistato quella di tutti i ministri e di
tutti i principi con i quali aveva trattato. Görtz gli fece sperare che avrebbe
diviso gli alleati dello zar e che allora sarebbe stato possibile concludere una
pace onorevole o almeno fare guerra ad armi pari. Da quel momento Görtz
ebbe sull’anima di Carlo un ascendente assai più grande di quanto non
avesse mai avuto il conte Piper.
La prima cosa che fece Carlo arrivato a Stralsund fu di chiedere denaro ai
cittadini di Stoccolma. Il poco che avevano gli fu dato: nessuno sapeva
rifiutare nulla a un principe che chiedeva unicamente per dare, che faceva
una vita durissima come i soldati semplici e come loro rischiava la vita. Le
sue sventure, la sua prigionia e il suo ritorno commuovevano tanto i sudditi
che gli stranieri: non si poteva fare a meno di biasimarlo, né di ammirarlo,
né di lamentarlo, né di aiutarlo. La sua gloria era di un tipo completamente
diverso da quella di Pietro: non consisteva né nel favorire le arti, né nella
legislazione, né nella politica, né nel commercio; era una gloria che non
andava oltre la sua persona: il suo merito era un valore superiore al comune
coraggio: difendeva il suo Stato con una grandezza d’animo pari a questo
intrepido valore e ciò bastava perché le nazioni provassero rispetto per lui.
Egli aveva più partigiani che alleati.
dato a un guerriero particolarmente valoroso. Dalla stessa parola turca deriva il russo
bogatyr’, famoso eroe epico.
559 Ulrica Eleonora di Svezia (1688-1741) diventò regina regnante di Svezia dopo la morte di
Carlo XII e, dal 1720, regina consorte (moglie di Federico I).
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Capitolo VI
CONDIZIONI DELL’EUROPA AL RITORNO DI CARLO XII. ASSEDIO DI STRALSUND ECC.
Quando finalmente, alla fine del 1714, Carlo XII fece ritorno in patria,
trovò l’Europa cristiana in condizioni ben diverse da quelle in cui l’aveva
lasciata. La regina Anna di Inghilterra era morta dopo aver concluso la pace
con la Francia. Luigi XIV assicurava a suo nipote il trono di Spagna e
costringeva Carlo VI imperatore di Germania e gli Olandesi a sottoscrivere
una pace necessaria: così tutti gli affari dell’Europa meridionale
presentavano un nuovo volto.
Quelli dell’Europa settentrionale erano ancor più cambiati. Pietro ne era
diventato l’arbitro. L’elettore di Hannover, chiamato sul trono di Inghilterra,
voleva estendere i suoi possedimenti in Germania a spese della Svezia, la
quale aveva acquistato territori tedeschi unicamente grazie alle conquiste
del grande Gustavo. Il re di Danimarca pretendeva di conquistare la Scania
che era la migliore provincia della Svezia ed era appartenuta in passato ai
Danesi. Il re di Prussia, erede dei duchi di Pomerania, pretendeva di
rientrare in possesso almeno di una parte di quella provincia. D’altra parte
la casata di Holstein, oppressa dal re di Danimarca, e il duca di
Meclemburgo, in guerra quasi aperta con i suoi sudditi, imploravano la
protezione di Pietro I. Il re di Polonia e elettore di Sassonia avrebbe voluto
che la Curlandia fosse annessa alla Polonia. Così, dall’Elba fino al Baltico,
Pietro era l’appoggio di tutti i sovrani come Carlo ne era stato il terrore.
Dopo il ritorno di Carlo si allacciarono molti negoziati, ma non si concluse
niente. Egli si illuse che avrebbe potuto disporre di tante navi da guerra e di
tanti armatori da non dover temere la nuova potenza marittima dello zar.
Per quel che riguarda la guerra di terraferma, faceva affidamento sul proprio
coraggio e Görtz, divenuto di punto in bianco suo primo ministro, lo
convinse che avrebbe potuto far fronte alle spese con una moneta di rame
cui fu attribuito un valore novantasei volte superiore a quello naturale, ciò
che rappresenta un prodigio nella storia dei governi. Senonché, sin
dall’aprile 1715, le navi di Pietro catturarono i primi armatori svedesi che
presero il mare e un esercito russo avanzò in Pomerania.
Davanti a Stralsund, i Prussiani, i Danesi, e i Sassoni congiunsero le loro
forze. Carlo XII si rese conto di essere tornato dalla sua prigione di
Demirtaş e di Demotica, sul mar Nero560, unicamente per subire un assedio
sulle sponde del mar Baltico.
Già si è visto nella sua storia con quale valore fiero e tranquillo egli
affrontò a Stralsund tutti i suoi nemici riuniti. In questa sede ci limiteremo
ad aggiungere soltanto un piccolo particolare, che pone in pieno risalto il
suo carattere. Quasi tutti i suoi principali ufficiali erano stati uccisi o feriti
durante l’assedio. Il colonnello barone di Reichel, dopo un lungo
combattimento, si era gettato su una panca sfinito dalle veglie e dallo
560 Odierna Didymoteicho (o in turco Dimetoka) in Grecia, vicino ad Adrianopoli.
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strapazzo per concedersi un’ora di riposo. Proprio in quel momento fu
chiamato per montare la guardia sugli spalti: egli vi si trascinò maledicendo
la testardaggine del re e tutte quelle fatiche tanto insopportabili e tanto
inutili. Il re che lo senti si precipitò verso di lui, e togliendosi il mantello che
gli spiegò davanti, disse: «Caro Reichel, voi non ne potete più; io invece ho
dormito un’ora e sono riposato: vado a montare la guardia al posto vostro.
Dormite pure, quando sarà il momento vi sveglierò». Dopo queste parole, lo
coprì suo malgrado, lo lasciò a dormire e andò a montare la guardia.
Durante l’assedio di Stralsund561 avvenne che il nuovo re di Inghilterra ed
elettore di Hannover comperò dal re di Danimarca le province di Brema e di
Verden unitamente alla città di Stade che i Danesi avevano strappato a
Carlo XII. Tutto ciò costò al re Giorgio 800.000 scudi tedeschi. Mentre Carlo
difendeva Stralsund palmo a palmo, si trafficava con i suoi Stati. Alfine,
quando questa città non fu più che un cumulo di rovine, i suoi ufficiali lo
obbligarono a uscirne562. Quando fu al sicuro, il suo generale Dücker563
consegnò quelle rovine al re di Prussia.
Dopo qualche tempo, essendosi Dücker presentato davanti a Carlo XII, il
suo re lo rimproverò per aver capitolato davanti al nemico. «Tengo troppo
alla vostra gloria – egli rispose – per farvi l’affronto di resistere in una città
da cui vostra Maestà era uscita». Del resto questa città rimase in mano ai
Prussiani soltanto fino al 1721, quando la restituirono per la Pace del Nord.
Durante l’assedio di Stralsund, Carlo ricevette un’altra umiliazione che
sarebbe stata per lui ancor più penosa se il suo cuore fosse stato sensibile
all’amicizia come lo era alla gloria. Il suo primo ministro conte Piper, uomo
celebre in tutta l’Europa e sempre fedele al suo principe (checché ne
abbiano detto tanti scrittori indiscreti sulla parola di uno solo e male
informato), Piper, dicevamo, era la sua vittima sin dalla battaglia di Poltava.
Siccome fra Russi e Svedesi non esisteva un accordo per il baratto dei
prigionieri, era rimasto prigioniero a Mosca e, sebbene non fosse stato
relegato in Siberia come tanti altri, pure era in una condizione deplorevole.
A quel tempo le finanze dello zar non erano amministrate così fedelmente
come avrebbero dovuto esserlo e tutte le sue nuove istituzioni esigevano
spese alle quali egli faceva fronte a fatica. Egli doveva agli Olandesi una
somma abbastanza considerevole per due delle loro navi mercantili bruciate
sulle coste finlandesi. Lo zar pretendeva che toccasse agli Svedesi sborsare
quella somma e volle convincere il conte Piper ad assumersi quel debito: lo
fece venire da Mosca a Pietroburgo e gli promise la libertà a condizione che
ottenesse dalla Svezia circa 60.000 scudi in lettere di cambio. Si dice che
egli sborsò effettivamente quella somma sulla garanzia di sua moglie
rimasta a Stoccolma, che questa non ebbe la possibilità né forse la volontà
di rimborsarla e che il re di Svezia non mosse un dito per pagarla. Come che
561 Ottobre 1715. (Nota dell’Autore)
562 Dicembre 1715. (Nota dell’Autore)
563 Sull’originale Duker. Karl Gustav Dücker (1663-1732) fu feldmaresciallo svedese e
governatore della Livonia. Partecipò a tutte le guerre svedesi contro i Russi e i Danesi e
dal 1715 contro i Norvegesi.
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sia, il conte Piper fu rinchiuso nella fortezza di Schlusselburg dove mori
l’anno seguente all’età di settant’anni. La salma fu restituita al re di Svezia
che gli fece tributare magnifiche esequie: triste e vana ricompensa di tante
sventure e di una fine così miseranda.
Pietro era soddisfatto di aver ottenuto la Livonia, l’Estonia, la Carelia e
l’Ingria, che considerava come province appartenenti al suo Stato, e di
avervi aggiunto quasi l’intera Finlandia che gli serviva di garanzia nel caso
che si fosse giunti alla pace. Nell’aprile di quello stesso anno aveva dato in
moglie una figlia di suo fratello564 a Carlo Leopoldo duca di Meclemburgo, in
modo che tutti i principi del Nord erano o suoi alleati o sue creature. In
Polonia teneva a bada i nemici del re Augusto: uno dei suoi eserciti, che
ammontava a circa 18.000 uomini, scioglieva senza sforzo tutte le
confederazioni che rinascono così spesso in quella nazione, patria della
libertà e dell’anarchia. I Turchi, finalmente rispettosi dei trattati, lasciavano
piena libertà alla sua potenza e ai suoi progetti.
In queste floride condizioni, quasi ogni giorno segnava una nuova
iniziativa in favore della marina, delle truppe, del commercio e delle leggi.
Egli compose personalmente un codice militare per la fanteria.
Fondò a Pietroburgo un’Accademia di marina565. Lange, incaricato degli
interessi commerciali, partì per la Cina attraverso la Siberia566. Per tutto
l’impero, degli ingegneri rilevavano delle carte geografiche; si stava
costruendo la villa di Petershof e contemporaneamente si realizzavano dei
fortini sull’Irtyš, si impediva il brigantaggio dei popoli della Bukaria e
dall’altra parte si tenevano a bada i Tatari del Kuban’.
Quando, quello stesso anno, la sua sposa Caterina gli dette un figlio ed
ebbe un erede nel figlio del principe Alessio567, parve che avesse raggiunto il
culmine della prosperità; ma il bambino nato dalla zarina fu ben presto
rapito dalla morte e, come vedremo, la sorte di Alessio fu troppo funesta
perché la nascita di un figlio di questo principe potesse essere considerata
una fortuna.
Il parto della zarina interruppe la continua serie dei suoi viaggi con lo
sposo per terra e per mare, ma appena rimessa lo accompagnò in nuove
spedizioni.
564 Ekaterina Ivanovna Romanova (1692-1733) era la terza figlia di Ivan V, fratellastro di
Pietro.
565 8 novembre 1715. (Nota dell’Autore)
566 Lorenz Lange (1690?-1752) fu un ingegnere e un diplomatico svedese al servizio della
Russia dal 1712. Fu inviato a Pechino nel 1715 per promuovere i commerci e ritornò nel
1717. Il diario di questo viaggio fu pubblicato in tedesco da Friedrick Christian Weber in
Das veränderte Russland, e tradotto in inglese (Journal of Travels Laurence Lange to
China) nel 1723. Nel 1719-1722 Lange fu di nuovo in Cina per conto di Pietro I e
successivamente vi ritornò nel 1727-1728 e nel 1736. Nel 1739 fu nominato governatore
di Irkutsk.
567 Nel 1715 lo zar ebbe da Caterina un figlio di nome Pietro che morì nel 1719 e lo zarevič
Alessio ebbe, dalla moglie Carlotta Cristina di Braunschweig-Wolfenbüttel, che morì di
parto, il granduca Pietro, futuro zar Pietro II.
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Capitolo VII
PRESA DI VISMAR. NUOVI VIAGGI DELLO ZAR
In quel tempo Vismar era assediata da tutti gli alleati dello zar. Questa
città, che spetterebbe naturalmente al duca di Meclemburgo, è situata sul
mar Baltico a sette leghe da Lubecca e potrebbe minacciare il prospero
commercio di quest’ultima. In passato era stata una delle più importanti
città anseatiche, e i duchi di Meclemburgo vi esercitavano piuttosto il diritto
di protezione che quello di sovranità. Era questo un altro di quei territori
soggetti all’impero che erano rimasti in mano agli Svedesi con la pace di
Vestfalia. Alla fine si giunse alla resa come era avvenuto a Stralsund. Gli
alleati dello zar si affrettarono a impadronirsene prima che giungessero le
sue truppe, ma Pietro comparve personalmente davanti alla città dopo la
capitolazione avvenuta senza di lui e fece la guarnigione prigioniera di
guerra. Egli fu indignato al vedere che i suoi alleati lasciavano al re di
Danimarca una città che spettava invece al principe cui aveva dato in moglie
la propria nipote: questo raffreddamento, di cui il ministro Görtz fu pronto
ad approfittare, fu l’origine prima della pace che questi progettò di
concludere tra lo zar e Carlo XII.
Da quel momento in poi, Görtz lasciò intendere allo zar che la Svezia era
stata sufficientemente colpita, che non bisognava innalzare troppo la
Danimarca e la Prussia. Lo zar entrava nel suo stesso ordine di idee: mentre
Carlo XII aveva sempre fatto la guerra da guerriero, egli l’aveva sempre
fatta da politico. Da quel momento agì tiepidamente contro la Svezia e Carlo
XII, sfortunato ovunque nell’impero, decise con uno di quei colpi di testa
disperati che solo il successo può giustificare, di portare la guerra in
Norvegia.
Frattanto lo zar volle fare un secondo viaggio in Europa. Aveva fatto il
primo da uomo che vuole istruirsi nelle arti; fece il secondo da principe che
cerca di penetrare i segreti di tutte le corti. Condusse la sua sposa a
Copenaghen, a Lubecca, a Schwerin, a Neustadt568. Nella cittadina di
Auersberg si incontrò con il re di Polonia, di lì passarono ad Amburgo, a
quella città di Altona che gli Svedesi avevano bruciato e che si stava
ricostruendo. Disceso il corso dell’Elba fino a Stade, passarono per Brema
dove il magistrato569 preparò un fuoco di artificio e una luminaria il cui
tracciato scriveva in cento luoghi diversi queste parole: «Il nostro liberatore
viene a trovarci». Finalmente rivide Amsterdam e la capanna di Zaandam
dove, quasi diciotto anni prima, aveva appreso l’arte del costruttore di navi.
Trovò questa capanna trasformata in una bella e comoda casa che rimane
ancora e che viene chiamata la casa del principe.
Si immagini con quale adorazione lo accolse un popolo di commercianti e
568 Nome in tedesco di Nystad.
569 17 dicembre 1716. (Nota dell’Autore)
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di marinai di cui era stato il compagno; nel vincitore di Poltava sembrava
loro di vedere un discepolo che aveva introdotto nel suo Paese il commercio
e la navigazione e che da loro aveva imparato a vincere le battaglie navali:
lo consideravano come uno dei loro concittadini divenuto imperatore.
Nella vita, nei viaggi e nelle azioni di Pietro il Grande, come in quelle di
Carlo XII, tutto sembrava diverso dai nostri costumi che forse sono un po’
troppo effeminati; questa è una delle ragioni per cui la storia di questi due
uomini suscita in noi tanta curiosità.
La sposa dello zar era rimasta a Schwerin ammalata e la sua nuova
gravidanza era molto avanzata; tuttavia, appena poté mettersi in viaggio,
volle raggiungere lo zar in Olanda: le doglie la sorpresero a Vesel, dove
partorì un principe570 che visse un solo giorno. Non è nelle nostre abitudini
che una donna ammalata si metta in viaggio subito dopo il parto: la zarina
giunse ad Amsterdam nel giro di dieci giorni. Volle visitare la capanna di
Zaandam nella quale lo zar aveva lavorato con le sue mani. I sovrani
andarono insieme in forma privata, senza seguito e con due soli domestici,
a pranzare in casa di un ricco carpentiere di Zaandam, di nome Kalf, che era
stato il primo a commerciare a Pietroburgo571. Suo figlio era appena tornato
dalla Francia, dove Pietro voleva recarsi. Lui e la zarina ascoltarono con
diletto l’avventura capitata a quel giovane che non riferirei se non servisse a
far conoscere dei costumi completamente diversi dai nostri.
Il figlio del carpentiere Kalf era stato mandato dal padre a Parigi a
imparare il francese e il padre aveva voluto che vivesse decorosamente. Egli
dispose che il giovane deponesse l’abito semplicissimo che portano tutti i
cittadini di Zaandam e che a Parigi facesse una vita più conveniente alla sua
fortuna che all’educazione ricevuta: conosceva abbastanza suo figlio da
prevedere che questo cambiamento non avrebbe corrotto la sua frugalità e
il suo buon carattere.
In tutte le lingue del Nord, kalf significa vitello; a Parigi il viaggiatore si
fece chiamare du Veau. Egli visse con una certa larghezza e si fece delle
amicizie. Nulla di più comune a Parigi che si prodighi il titolo di marchese o
di conte a chi non ha nemmeno l’ombra di un feudo ed è a malapena
gentiluomo. Questa ridicola usanza è stata sempre tollerata dal governo
affinché, essendo i ceti confusi e la nobiltà svilita, si fosse ormai al sicuro
dalle guerre civili così frequenti per il passato. Risaliti e plebei, che avevano
pagato a caro prezzo la carica, si sono arrogati il titolo di alto e potente
signore. Per finire, il grado di marchese e di conte senza marca e senza
contea non contano nulla in quel Paese, come del resto quelli di cavaliere
senza ordine e di abate senza abbazia.
Gli amici e i domestici di Kalf lo chiamarono sempre conte du Veau: fu
invitato a cenare in casa di principesse, andò a giocare dalla duchessa di
Berry572, pochi stranieri furono festeggiati come lui. Un giovane marchese
570 14 gennaio 1717. (Nota dell’Autore) – Era il principe Paolo.
571 Mynheer Kalf (o Calf) era il proprietario dell’arsenale in cui lavorò Pietro nel 1697.
572 In Francia il titolo di Duca di Berry era dato ai membri giovani della famiglia reale
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che gli era stato compagno in tutti i suoi svaghi, promise di andare a fargli
visita a Zaandam e mantenne la promessa. Trovò un cantiere di costruttori
di navi e il giovane Kalf che, nei panni di un marinaio olandese, con l’ascia
in pugno dirigeva i lavori di suo padre. Kalf accolse l’ospite con l’antica
semplicità alla quale era ritornato e da cui non si discostò mai. I lettori saggi
perdoneranno questa piccola digressione che è solo una condanna della
vanità e un elogio dei buoni costumi.
Lo zar rimase in Olanda tre mesi. Durante il suo soggiorno avvennero
cose più importanti dell’avventura di Kalf. Dopo le paci di Nimèga573, di
Rysvick e d’Utrecht574, l’Aia aveva mantenuto la fama di centro dei negoziati
europei. Questa cittadina o meglio questo villaggio, il più ridente di tutto il
Nord, era abitato principalmente da ministri di tutte le corti e da viaggiatori
che venivano a istruirsi a quella scuola. A quel tempo si stavano gettando in
Europa le basi di un grande rivolgimento. Lo zar, informato delle prime
avvisaglie della bufera, prolungò il suo soggiorno nei Paesi Bassi per essere
in condizione di assistere contemporaneamente a quello che si tramava nel
Mezzogiorno e nel Nord e per prepararsi alla decisione che avrebbe dovuto
prendere.
Capitolo VIII
CONTINUANO I VIAGGI DI PIETRO IL GRANDE. COSPIRAZIONE DI GÖRTZ.
ACCOGLIENZE A PIETRO IN FRANCIA
Egli sapeva quanto i suoi alleati fossero gelosi della sua potenza e quanto
spesso sia più difficile trattare con gli amici che con i nemici.
Il Meclemburgo era una fra le cause principali di quella divisione quasi
inevitabile fra principi vicini che si spartiscono delle conquiste. Pietro non
aveva voluto che i Danesi tenessero per sé Vismar, e tanto meno che
radessero al suolo le fortificazioni; ciononostante essi avevano fatto l’una e
l’altra cosa.
Il duca di Meclemburgo, marito di sua nipote e che egli trattava come suo
genero, era apertamente protetto da lui contro la nobiltà del Paese, mentre
il re d’Inghilterra proteggeva i nobili. Per finire, cominciava a essere
scontento del re di Polonia, o meglio del suo primo ministro conte
Flemming575 che voleva scrollare il giogo di dipendenza imposto dai benefici
e dalla forza.
francese.
573 I trattati di Nimega (1678-1679) conclusero la guerra tra la Francia e una coalizione
europea (Austria, Brandeburgo, Danimarca, Spagna, Olanda) sorta a difendere i diritti
dell’Olanda, il cui territorio era stato invaso nel 1672 dagli eserciti di Luigi XIV.
574 Il trattato di Rysvick, che proseguì quello di Nimega, fu stipulato nel 1697 e pose fine alla
Guerra della Grande Alleanza. Il trattato di Utrecht concluse nel 1713 la guerra di
successione spagnola.
575 Il conte Jakob Heinrich von Flemming (1667-1728) fu feldmaresciallo dal 1711. Guidò
varie volte l’esercito sassone contro gli Svedesi, vincendoli.
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Le corti di Inghilterra, Polonia, Danimarca, Holstein, Meclemburgo e
Brandeburgo erano agitate dagli intrighi e dalle cabale.
La maggior parte di questi intrighi era stata suscitata, tra la fine del 1716
e l’inizio del 1717, da Görtz, il quale, come dicono le memorie di Bassewitz,
era stanco di non aver altri titoli che quello di consigliere dello Holstein e di
non essere altro che un plenipotenziario segreto di Carlo XII, e si risolse
quindi ad approfittarne per mettere l’Europa in fermento. Il suo progetto era
di riavvicinare Carlo XII e lo zar non soltanto mettendo termine alla guerra
ma facendone due alleati, di rimettere Stanislao sul trono di Polonia e di
togliere al re di Inghilterra, Giorgio I, Brema, Verden e persino il trono
d’Inghilterra allo scopo di metterlo nell’impossibilità di impadronirsi delle
spoglie di Carlo.
C’era in quello stesso periodo un ministro dello stesso stampo il cui
progetto era di mettere sossopra l’Inghilterra e la Francia: si tratta del
cardinale Alberoni576, che allora spadroneggiava in Spagna più di quanto non
facesse Görtz in Svezia, uomo tanto audace e intraprendente quanto lo era
quest’ultimo, ma molto più potente perché era a capo di un regno più ricco
e non pagava le sue creature con monete di rame.
Ben presto dalle sponde del Baltico Görtz allacciò rapporti con la corte di
Madrid. Sia Alberoni che lui si accordarono con tutti i fuorusciti inglesi che
parteggiavano per la famiglia Stuart. Görtz percorse tutte le nazioni dove
sperava di suscitare nemici al re Giorgio: la Germania, l’Olanda, la Fiandra,
la Lorena, e finalmente, sul finire del 1716, Parigi. Il cardinale Alberoni
incominciò con l’inviargli nella stessa Parigi un milione di lire francesi per
cominciare ad appiccare fuoco alle polveri, così si esprimeva l’Alberoni.
Görtz avrebbe voluto che Carlo XII cedesse molto a Pietro per riprendere
ai nemici tutto il resto, e che fosse libero di fare una spedizione in Scozia
mentre i partigiani degli Stuart si sarebbero dichiarati apertamente in
Inghilterra, dopo essersi tante volte esposti inutilmente. Per attuare questi
piani era necessario togliere al re regnante d’Inghilterra il suo principale
appoggio e quest’appoggio era il reggente di Francia. Era straordinario
vedere la Francia unirsi con un re di Inghilterra ai danni del nipote di Luigi
XIV che la stessa Francia aveva posto sul trono di Spagna, contro tanti
nemici riuniti, a costo dei suoi tesori e del suo sangue: ma tutto a quei
tempi era uscito dalla sua via naturale e gli interessi del reggente non
coincidevano con gli interessi del regno. Sin da allora Alberoni suscitò in
Francia una congiura contro quello stesso reggente. Le basi di tutta questa
vasta trama furono gettate quasi subito dopo aver messo a punto il piano.
Görtz fu il primo a essere messo a parte di quel segreto: avrebbe dovuto
recarsi in Italia travestito per abboccarsi con il pretendente nei pressi di
Roma, di lì precipitarsi all’Aia, incontrarsi con lo zar e quindi tornare dal re
di Svezia.
Colui che scrive questa storia è ben sicuro di quanto afferma poiché Görtz
gli propose di accompagnarlo nei suoi viaggi e, sebbene allora giovanissimo
576 Cfr. nota 539.
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fu uno dei primi testimoni di gran parte di questi intrighi577.
Alla fine del 1716 Görtz era tornato in Olanda munito di lettere di cambio
di Alberoni e di pieni poteri da parte di Carlo. È accertato che il partito del
pretendente doveva dichiararsi mentre Carlo discendeva dalla Norvegia nella
Scozia settentrionale. Questo principe, che non aveva saputo conservare i
suoi possedimenti sul continente, stava per invadere e sconvolgere quelli di
un altro: dalla prigionia di Demirtaş in Turchia e dalle ceneri di Stralsund lo
si sarebbe visto incoronare a Londra il figlio di Giacomo II come aveva
incoronato Stanislao a Varsavia.
Lo zar, che era al corrente di una parte dei tentativi di Görtz, ne
aspettava gli sviluppi senza entrare in nessuno dei suoi piani e senza
conoscerli tutti. Egli era amante di tutto ciò che è grande e straordinario
almeno quanto Carlo XII, Görtz e Alberoni, ma lo era come può esserlo un
fondatore di Stati, un legislatore e un vero politicante: forse Alberoni, Görtz
e lo stesso Carlo erano più che altro uomini irrequieti che tentavano grandi
avventure e non uomini profondi che prendevano le misure adeguate e
forse, dopo tutto, è stato il loro insuccesso a farli accusare di temerità.
Quando Görtz giunse all’Aia, lo zar non lo incontrò: avrebbe urtato troppo
la suscettibilità degli Stati generali, suoi amici, legati al re d’Inghilterra. I
suoi ministri si incontrarono con Görtz solo segretamente, con la massima
precauzione, con le istruzioni di ascoltare tutto e di dare delle speranze
senza prendere alcun impegno e senza compromettere lo zar. Ciò
nonostante, dal fatto che lo zar restava inattivo proprio nel momento in cui
avrebbe potuto discendere in Scania con la sua flotta e quella di Danimarca,
dal suo raffreddamento nei confronti degli alleati, dalle lamentele che
trapelavano nelle loro corti e persino dal suo viaggio, era facile alle persone
lungimiranti accorgersi che si preparava un gran cambiamento, il quale non
avrebbe tardato molto a manifestarsi.
Nel gennaio 1717 un bastimento svedese che portava delle lettere in
Olanda fu costretto dal maltempo a fare scalo in Norvegia e le lettere furono
sequestrate. In quelle di Görtz e di alcuni ministri c’era di che aprire gli
occhi sul rivolgimento che si veniva tramando. La corte danese comunicò le
lettere a quella inglese. A Londra si arresta immediatamente il ministro
svedese Gyllenborg578: si sequestrano le sue carte e vi si trova una parte
della sua corrispondenza con i giacobiti.
Immediatamente il re Giorgio scrive in Olanda579 chiedendo che, in
ossequio ai trattati che legano l’Inghilterra e gli Stati generali alla loro
577 Voltaire conobbe Görtz al castello di Châtillon, presso Parigi, dove abitava il banchiere
Hoguière.
578 Il conte Carl Gyllenborg (1679-1746) fu uno statista svedese. Inviato a Londra come
segretario di legazione sposò la giacobita Sara Wright. Nel 1715 fu nominato ministro
plenipotenziario e due anni dopo fu imprigionato per cinque mesi a causa della sua
partecipazione al complotto per ripristinare la Casa degli Stuart. Nel 1723 fu nominato
consigliere di Stato e dal 1738 Primo ministro, poi fu cancelliere delle università di Lund
(1728) e Upsala (1739). Pubblicò un libro sui fatti del 1717.
579 Febbraio 1717. (Nota dell’Autore)
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comune sicurezza, il barone di Görtz sia arrestato. Questo ministro, che si
faceva dappertutto delle creature, fu avvertito dell’ordine. Partì
immediatamente ed era già ad Arnheim, alla frontiera, quando, grazie allo
zelo veramente insolito in quel Paese mostrato dalle guardie e dagli ufficiali
che lo inseguivano, fu catturato, le sue carte furono sequestrate e la sua
persona trattata con severità. Ancor più duramente fu trattato il suo
segretario Stambke, quello stesso che nell’affare di Tönning aveva
contraffatto la firma del duca di Holstein. Finalmente il conte di Gyllenborg,
inviato svedese in Inghilterra, e il barone di Görtz, munito di lettere di
plenipotenziario di Carlo XII, furono interrogati come semplici criminali uno
a Londra e l’altro ad Arnheim. I ministri di tutti i sovrani gridarono alla
violazione del diritto delle genti.
A questo diritto, più citato che conosciuto e di cui non sono mai stati
stabiliti i limiti e l’estensione, furono portati in ogni tempo i più fieri colpi.
Vari ministri sono stati cacciati dalle corti dove risiedevano e più di una volta
furono arrestati, ma non era mai accaduto che dei ministri stranieri fossero
interrogati come i sudditi del Paese. La corte di Londra e gli Stati, di fronte
al pericolo che minacciava la casa di Hannover, passarono sopra a tutte le
regole ma alla fine tale pericolo, una volta scoperto, cessava di essere un
pericolo almeno nella presente congiuntura.
Bisogna che lo storico Nordberg sia stato veramente male informato, che
abbia conosciuto male gli uomini e gli affari, che sia stato del tutto accecato
dalla passione o se non altro abbia subito forti pressioni da parte della sua
corte per tentare di dare a intendere che il re di Svezia non era
compromesso a fondo in quel complotto.
L’affronto fatto ai suoi ministri lo rinsaldò nella risoluzione di tentare tutto
per detronizzare il re di Inghilterra. Pure, una volta nella sua vita, fu
costretto a ricorrere alla dissimulazione, a sconfessare i suoi ministri presso
il reggente di Francia che gli elargiva un sussidio e presso gli Stati generali
con cui teneva a mantenere buoni rapporti. Meno soddisfazioni egli diede al
re Giorgio. Görtz e Gyllenborg furono tenuti prigionieri quasi sei mesi e la
durata dell’affronto riconfermò in lui tutti i disegni di vendetta.
In mezzo a tanti allarmi e tante gelosie, Pietro non si comprometteva in
nulla, lasciava tutto al tempo e aveva messo nel suo vasto Stato un ordine
tale da non aver niente da temere né dall’interno né dall’esterno; egli risolse
alfine di recarsi in Francia: non capiva la lingua del posto e questo gli faceva
perdere il maggior frutto del suo viaggio, ma pensava che ci fosse molto da
vedere e volle accertare da vicino in che termini si trovasse il reggente di
Francia con l’Inghilterra, e quanto fosse solida la posizione di quel principe.
Pietro il Grande ebbe in Francia le accoglienze che gli erano dovute. Prima
gli fu mandato incontro il maresciallo di Tessé580 con molti nobili, uno
squadrone di guardie e le carrozze del re. Secondo il suo solito aveva
viaggiato con tanta rapidità che era già a Gournay quando il suo seguito
580 René de Froulay de Tessé (1651-1725) fu nominato maresciallo di Francia nel 1703 e fu
ambasciatore a Roma e in Spagna.
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entrava a Elbeuf. Lungo la strada gli furono tributati tutti i festeggiamenti
che volle accettare. Dapprima fu ospitato al Louvre, dove gli era stato
preparato l’appartamento grande, mentre altri appartamenti erano destinati
al suo seguito, i principi Kurakin e Dolgorukij581, il vice cancelliere barone
Šafirov e l’ambasciatore Tolstoj, lo stesso che aveva dovuto subire in
Turchia tante violazioni del diritto delle genti. Tutto questo seguito doveva
essere magnificamente alloggiato e servito, ma Pietro era venuto per vedere
ciò che poteva riuscirgli utile e non per prestarsi a inutili cerimonie che
mettevano in imbarazzo la sua semplicità e gli facevano perdere tempo
prezioso; perciò quella sera stessa andò a prendere alloggio all’altro capo
della città, presso il palazzo o residenza di Lesdiguières, di proprietà del
maresciallo di Villeroi582 dove fu riverito e trattato come al Louvre. Il giorno
dopo583 il reggente584 venne a fargli visita nel suo alloggio; l’indomani gli fu
condotto il re ancora fanciullo, accompagnato dal maresciallo di Villeroi, che
era il suo precettore come suo padre era stato il precettore di Luigi XIV. Fu
abilmente risparmiato allo zar l’imbarazzo di restituire la visita subito dopo
averla ricevuta: ci furono due giorni di intervallo; egli ricevette gli omaggi
dell’amministrazione della città e la sera si recò a visitare il re. La reggia era
parata in armi, il giovane principe fu condotto fino alla carrozza dello zar,
Pietro, stupito e preoccupato per la folla che si accalcava intorno al monarca
fanciullo, lo prese in braccio e ve lo tenne per qualche tempo585.
Alcuni ministri più raffinati che sensati hanno scritto che, poiché il
maresciallo di Villeroi voleva che fosse lasciata al re di Francia la precedenza
della mano e del passo, l’imperatore di Russia ricorse a quello stratagemma
per eludere il cerimoniale sotto l’apparenza dell’affetto e della sensibilità. È
un’idea completamente falsa: né la gentilezza francese né ciò che era
dovuto a Pietro il Grande avrebbero mai consentito che gli onori che gli
venivano tributati fossero trasformati in offese. Il cerimoniale consisteva nel
fare per un grande sovrano e per un grand’uomo tutto ciò che lui stesso
avrebbe desiderato se si fosse occupato di questi particolari. I viaggi degli
imperatori Carlo IV, Sigismondo e Carlo V, furono ben lontani dal riscuotere
una popolarità paragonabile a quella del soggiorno di Pietro il Grande.
Quegli imperatori, infatti, vennero solo per interessi politici e non apparvero
581 Il principe Boris Ivanovič Kurakin (1676-1727) è considerato il padre della diplomazia
russa e fu tra i più stretti collaboratori di Pietro I di cui era cognato (fratello della prima
moglie Evdokija). Dal 1683 partecipò a tutte le campagne militari di Pietro, nel 1697 fu
inviato in Italia ad apprendere la navigazione e nel 1707 iniziò la carriera diplomatica
(Roma, Londra, Hannover, L’Aia, Parigi). Fu l’artefice di molti trattati di pace. Per
Dolgorukij, cfr. nota 206.
582 François de Neufville, duca di Villeroi (1644-1730), amico fraterno di Luigi XIV fin dalla
gioventù, combatté al suo fianco numerose volte. Nel 1693 fu nominato maresciallo di
Francia. Fu in Italia contro l’esercito austriaco e nei Paesi Bassi contro gli Inglesi dove
venne sconfitto e fu escluso dalla vita militare.
583 8 maggio 1717. (Nota dell’Autore)
584 Filippo II d’Orléans (1674-1723) fu reggente di Francia durante la minorità di Luigi XV
(1715-1723).
585 Luigi XV, nato a Versailles nel 1710, aveva allora sette anni.
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in un tempo in cui il progresso delle arti potesse fare del loro viaggio
un’epoca memorabile. Ma quando Pietro si recò a pranzare presso il duca
d’Antin nella sua residenza di Petit-Bourg a tre leghe da Parigi 586 e quando
tutt’a un tratto, alla fine del pranzo, vide collocare nel salone il suo ritratto
appena dipinto, allora capì che i Francesi meglio di qualunque altro popolo al
mondo erano in grado di ricevere un ospite così degno.
Ancor più sorpreso fu quando, recatosi ad assistere al conio delle
medaglie in quella lunga galleria del Louvre in cui sono onorevolmente
alloggiati tutti gli artisti del re, ed essendo caduta una delle medaglie che si
stavano coniando, lo zar, che si era affrettato a raccoglierla, si vide effigiato
su quella stessa medaglia con un motto sul rovescio, nell’atto di posare il
piede al globo e con queste parole di Virgilio che tanto si addicevano a
Pietro il Grande: vires acquirit eundo587, allusione tanto sottile quanto nobile
e che conveniva sia ai suoi viaggi che alla sua gloria. Questa medaglia d’oro
fu offerta a lui e a tutti quelli che lo accompagnavano. Se si recava a
visitare gli artisti, si vedeva deporre ai piedi tutti i capolavori e supplicare
affinché degnasse accettarli; se andava a visitare i telai dei Gobelins 588, i
tappeti della Savonnerie589, i laboratori degli scultori, dei pittori, degli orafi
del re, dei fabbricanti di strumenti matematici, tutto ciò che sembrava
meritare la sua approvazione gli veniva offerto a nome del re.
Pietro era esperto meccanico, artista e geometra. Si recò a visitare
l’Accademia delle scienze, che in suo onore si adornò di quanto aveva di più
raro; ma nulla era raro come lo stesso zar: egli corresse di sua mano
parecchi errori di geografia nelle carte che erano state tracciate dei suoi
Stati e soprattutto in quelle del mar Caspio. Per finire, accettò di divenire
membro di quell’Accademia e da allora in poi intrecciò regolare
corrispondenza a proposito di varie esperienze e scoperte con coloro di cui
si degnava di essere il semplice confratello590 Bisogna risalire a Pitagora e ad
Anacarsi per trovare viaggiatori di questa tempra, ma quelli non avevano
lasciato certo un impero per istruirsi.
A questo punto non possiamo fare a meno di rimettere sotto gli occhi del
lettore il trasporto da cui fu colto al cospetto della tomba del cardinal
Richelieu591: poco sensibile alla bellezza di quel capolavoro di scultura, lo fu
586 Louis Antoine de Pardaillan de Gondrin, duca d’Antin (1665-1736) era sovrintendente
delle costruzioni del re, particolarmente la reggia di Versailles, e risiedeva nel castello di
Petit-Bourg a Évry-sur-Seine.
587 Dall’Eneide IV, 175: «acquista le forze camminando». La medaglia raffigurava la dea
Fama, per cui il significato della scritta era che la fama (di Pietro) tanto più cresce, tanto
più si diffonde.
588 La manifattura dei Gobelins è la famosa fabbrica di arazzi, istituita nel 1601 e tuttora
attiva, nel XIII arrondissement di Parigi.
589 La manifattura La Savonnerie tesseva tappeti dal 1627 in un locale precedentemente
adibito alla fabbricazione del sapone, da cui il nome. Nel 1826 si fuse coi Gobelins.
590 Pietro inviò soltanto, nel 1721, una carta del Caspio. Della visita ne scrisse Fontenelle in
Éloge du czar Pierre Ier (traduzione in www.larici.it).
591 Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu (1585-1642), noto come Cardinale Richelieu, fu
primo ministro del re Luigi XIII di Francia. La sua politica mirò a rafforzare il potere del re
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unicamente all’immagine di un ministro che si era reso tanto celebre in
Europa e l’aveva messa in fermento, un ministro che aveva restituito alla
Francia la gloria perduta dopo la morte di Enrico IV. Sappiamo che egli
abbracciò la statua ed esclamò: «Grand’uomo! ti avrei dato la metà del mio
Stato pur di imparare da te a governare l’altra metà». Finalmente, prima di
partire, volle vedere quella celebre Madame de Maintenon592 che egli sapeva
essere in realtà la vedova di Luigi XIV e che ormai era giunta al termine dei
suoi giorni593. Questa specie di rassomiglianza fra il matrimonio di Luigi XIV
e il suo lo incuriosiva. Tuttavia fra il re di Francia e lo zar c’era una
differenza: mentre lo zar aveva sposato pubblicamente un’eroina, Luigi XIV
aveva avuto in segreto nient’altro che una donna amabile. La zarina non
aveva partecipato a questo viaggio: Pietro aveva troppo temuto i fastidi del
cerimoniale e la curiosità di una corte poco adatta a capire i meriti di una
donna che dalle sponde del Prut a quelle della Finlandia aveva affrontato la
morte per terra e per mare a fianco del suo sposo.
Capitolo IX
RITORNO DELLO ZAR NEL SUO STATO. LA SUA POLITICA E LE SUE OCCUPAZIONI
L’iniziativa della Sorbona nei confronti dello zar, allorché egli si recò a
visitare il mausoleo del cardinal Richelieu, merita un discorso a parte.
Alcuni dottori della Sorbona vollero avere la gloria di riunire la Chiesa
greca a quella latina. Chi conosce l’antichità sa che il cristianesimo è giunto
in Occidente per mezzo dei Greci dell’Asia, che esso è nato in Oriente, che i
primi padri, i primi concili, la prima liturgia, i primi riti, tutto proviene
dall’Oriente; anzi non c’è un solo termine per designare le dignità o gli uffici
che non sia greco e che non attesti ancor oggi la fonte da cui tutto deriva.
Dopo la divisione dell’impero romano, era inevitabile che prima o poi ci
fossero due religioni come c’erano due imperi e che si assistesse fra i
cristiani d’Oriente e d’Occidente allo stesso scisma che si verificò tra gli
Osmanli e i Persiani.
È questo lo scisma che alcuni dottori dell’Università di Parigi credettero di
poter sanare d’un colpo consegnando una supplica a Pietro il Grande. Il
Papa Leone IX e i suoi successori non avevano potuto venirne a capo né con
legati, né con concili e nemmeno col denaro. Questi dottori avrebbero
dovuto sapere che Pietro il Grande, il quale governava la sua Chiesa, non
era uomo da riconoscere l’autorità del pontefice: invano nelle loro relazioni
in Francia (a scapito dei nobili) e a fare della Francia la più grande potenza d’Europa. Il
suo sepolcro, opera di François Girardon, è nella chiesa della Sorbona a Parigi.
592 La marchesa di Maintenon (1635-1719), nipote di Agrippa d’Aubigné e vedova di Scorron,
fu incaricata dell’educazione dei figli che Luigi XIV aveva avuto da M.me de Montespan,
sua favorita, e riuscì a conquistare il cuore del re che la sposò segretamente nel 1684.
593 Un resoconto della visita in Francia dello zar e del curioso incontro con la Maintenon è in
Mémoires di Louis de Rouvroy duca di Saint-Simon (1788) nel tomo 14, cap. XVIII.
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ricordarono la libertà della Chiesa gallicana, che allo zar non interessava
affatto; invano dissero che i papi debbono essere sottomessi ai concili e che
il parere di un papa non è un articolo di fede594; con il loro scritto riuscirono
soltanto a indisporre molto la corte pontificia senza rendersi graditi né
all’imperatore né alla Chiesa russa.
In questo progetto di riunificazione c’erano degli aspetti politici che essi
non afferravano e dei punti controversi che pretendevano di capire e che
ogni partito spiega come gli fa comodo. Si trattava dello Spirito Santo che,
secondo i latini, procede dal Padre e dal Figlio, che oggi, secondo i Greci,
procede dal Padre per mezzo del Figlio, mentre per un lungo periodo ha
proceduto soltanto dal Padre. Essi citavano sant’Epifanio, il quale scrive che
«lo Spirito Santo non è fratello del Figlio né nipote del Padre»595.
Ma lo zar, partendo da Parigi, aveva affari ben più importanti che la
verifica dei passaggi di Sant’Epifanio. Egli accolse benignamente la relazione
dei dottori. Questi scrissero ad alcuni vescovi russi che risposero
cortesemente, ma la maggioranza fu sdegnata davanti a quella proposta.
Fu proprio per dissipare il timore di tale riunione che lo zar, cacciati i
gesuiti dal suo regno nel 1718, istituì qualche tempo dopo la festa comica
del conclave.
C’era a corte un vecchio pazzo chiamato Sotov che gli aveva insegnato a
leggere e che si illudeva di aver meritato per questo servigio le più alte
cariche. Pietro, che talvolta alleviava le cure del governo con degli scherzi
convenienti a un popolo non ancora interamente riformato, promise al suo
maestro di scrittura di dargli una delle maggiori cariche di questo mondo: lo
creò knez papa, con duemila rubli di appannaggio, e gli assegnò una casa a
Pietroburgo, nel quartiere tartaro. Alcuni buffoni andarono a insediarlo con
una cerimonia, quattro balbuzienti gli fecero un sermone, egli investì dei
cardinali e sfilò in processione davanti a loro. Tutto il sacro collegio era
ebbro di acquavite. Dopo la morte di questo Sotov, venne eletto papa un
ufficiale di nome Buturlin. Mosca e Pietroburgo hanno visto ripetersi per ben
tre volte questa cerimonia che sembrava un’innocua farsa ma in realtà
rafforzava nel popolo l’avversione per una Chiesa che aspirava al potere
supremo e il cui capo aveva lanciato il suo anatema su tanti re. Ridendo lo
zar vendicava venti imperatori di Germania, dieci re di Francia e mille altri
sovrani. È questo tutto il frutto che la Sorbona raccolse dall’idea poco
opportuna di riunire la Chiesa greca e quella latina.
Il viaggio dello zar in Francia fu utile grazie ai rapporti allacciati con
questo regno dedito al commercio e popolato di uomini industriosi, e non
per la presunta riunione di due Chiese rivali, l’una delle quali manterrà
sempre la sua antica indipendenza e l’altra la sua nuova superiorità.
594 Il dogma dell’infallibilità papale fu proclamato nel 1848 e non è riconosciuto dalla Chiesa
ortodossa.
595 Si tratta del cosiddetto Filioque, espressione latina che significa “e dal Figlio”, che non
compariva nel Credo messo a punto nei concili ecumenici di Nicea (325) e di
Costantinopoli (381). Tale aggiunta, voluta dalla Chiesa di Roma, fu condannata come
eretica dal patriarca di Costantinopoli e fu una delle ragioni del Grande Scisma (1054).
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Pietro ricondusse con sé vari artigiani francesi, come aveva fatto di
ritorno dall’Inghilterra. Infatti tutte le nazioni che percorse si fecero un
onore di favorirlo nel suo progetto di trasferire in una nuova patria tutte le
arti e di contribuire a questa specie di creazione.
Sin d’allora aveva steso la minuta di un trattato di commercio con la
Francia che consegnò nelle mani dei suoi ministri in Olanda appena vi fece
ritorno. Tale trattato poté essere firmato dall’ambasciatore di Francia
Châteauneuf596 solo il 15 agosto 1717 a L’Aia. Il trattato non concerneva
soltanto il commercio ma riguardava la pace del Nord. Il re di Francia e
l’elettore di Brandeburgo accettarono il titolo di mediatori che dava loro lo
zar. In tal modo egli faceva sentire abbastanza chiaramente al re di
Inghilterra che non era soddisfatto di lui e adempiva i voti di Görtz il quale,
da quel momento, fece di tutto per riavvicinare Pietro e Carlo, per suscitare
a Giorgio nuovi nemici e per tendere la mano al cardinale Alberoni da un
capo all’altro dell’Europa. Allora il barone di Görtz si incontrò ufficialmente
con i ministri dello zar a L’Aia. A loro dichiarò che aveva pieni poteri per
concludere la pace con la Svezia.
Lo zar lasciava che Görtz preparasse tutte le batterie senza porvi mano,
si teneva pronto a concludere la pace con il re di Svezia ma anche a
continuare la guerra; inoltre manteneva sempre i rapporti con la Danimarca,
la Polonia, la Prussia e apparentemente persino con l’elettore di Hannover.
È evidente che il suo solo piano preciso era quello di approfittare delle
occasioni. Il suo scopo principale era quello di perfezionare tutte le nuove
istituzioni. Sapeva che i negoziati, gli interessi dei principi, le loro alleanze,
le loro amicizie, la loro diffidenza e le loro inimicizie sono soggetti quasi ogni
anno a nuove vicissitudini e che spesso di tanti tentativi politici non rimane
traccia. Spesso una sola fabbrica ben fatta giova a uno Stato più di venti
trattati.
Raggiunta la sua sposa che lo aspettava in Olanda, Pietro continuò con lei
il viaggio. Attraversata la Vestfalia giunsero a Berlino senza il minimo
apparato. Il nuovo re di Prussia597 era nemico della vanità del cerimoniale e
dello sfarzo almeno quanto il sovrano di Russia. Era uno spettacolo
istruttivo, per l’etichetta viennese e spagnola, per il puntiglio598 italiano e
per l’amore del lusso che trionfa in Francia, quello di vedere un re che non
si serviva se non di poltrone di legno, che si vestiva sempre come un
semplice soldato e che si era precluso tutte le delicatezze della tavola e
tutte le comodità della vita.
La vita che conducevano lo zar e la zarina era altrettanto semplice e rude
e se Carlo XII si fosse trovato con loro si sarebbero viste insieme quattro
teste coronate circondate da meno fasto che un vescovo tedesco o un
cardinale di Roma. Mai lusso e mollezza furono combattuti da così nobili
596 Pierre Antoine de Castagnères marchese di Châteauneuf (1644-1728) fu ambasciatore in
Turchia, Portogallo e Olanda e fu consigliere di Stato dal 1719. Era il fratello maggiore
dell’abate François de Châteauneuf che era stato padrino di Voltaire.
597 Federico Guglielmo I (1688-1740) incoronato re di Prussia il 25 febbraio 1713.
598 In italiano nel testo.
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esempi.
Bisogna riconoscere che uno qualsiasi dei nostri concittadini si sarebbe
guadagnato la nostra considerazione e passerebbe per un uomo fuori del
comune se avesse fatto una volta nella sua vita, per curiosità, la quinta
parte dei viaggi che Pietro fece per il bene del suo Stato. Da Berlino si reca
a Danzica con la sua sposa. A Mitau offre la sua protezione alla duchessa di
Curlandia, sua nipote, rimasta vedova; visita tutte le sue conquiste,
proclama da Pietroburgo nuovi regolamenti, si reca a Mosca, fa ricostruire le
case private cadute in rovina; di lì si trasferisce a Caricyn sul Volga599 per
interrompere le scorrerie dei Tatari del Kuban’; costruisce linee di
fortificazioni dal Volga al Tanais e fa costruire postazioni a distanze regolari
tra un fiume e l’altro. Frattanto fa stampare il codice militare che lui stesso
ha composto. Una camera di giustizia è insediata allo scopo di esaminare la
condotta dei suoi ministri e di rimettere ordine nelle sue finanze: ad alcuni
colpevoli egli perdona, altri ne punisce. Lo stesso principe Menšikov fu tra
quelli che ebbero bisogno della sua clemenza, ma un giudizio più severo che
si vide costretto a pronunciare contro il suo stesso figlio colmò di amarezza
una vita tanto gloriosa.
Capitolo X
CONDANNA DEL PRINCIPE ALESSIO PETROVIČ
Nel 1689, all’età di diciassette anni, Pietro aveva sposato Evdokija
Fëdorovna Lopuchina600, donna cresciuta con tutti i pregiudizi della sua
gente e incapace di sollevarsi al disopra di essi come aveva fatto il suo
sposo. Le più gravi opposizioni alle quali andò incontro allorché volle creare
un impero ed educare gli uomini venivano proprio dalla sua sposa: ella era
dominata dalla superstizione che così spesso si accompagna al suo sesso.
Ogni utile novità le sembrava un sacrilegio e tutti gli stranieri, di cui lo zar si
serviva per mandare a effetto i suoi vasti disegni, le apparivano dei
corruttori.
Le lamentele cui si abbandonava in pubblico incoraggiavano i faziosi e i
fautori delle antiche usanze. La sua condotta d’altronde non riparava certo a
dei fatti così gravi. Alla fine, nel 1696, lo zar si vide costretto a ripudiarla e
a rinchiuderla in un monastero a Suzdal’, dove le si fece prendere il velo con
il nome di Elena601.
599 Sull’originale Czarisin. È la città di Volgograd che si chiamò Caricyn fino al 1925.
600 Sull’originale è «Eudoxie-Théodore, ou Eudoxie Théodoruna Lapuchin», ma Fëdor
(Teodoro) era il nome del padre. Il nome avuto alla nascita era Praskov’ja Illarionovna poi
mutato in Evdokija alla salita al trono. Il matrimonio significò per Pietro il passaggio alla
maggiore età e il riconoscimento del trono.
601 Sulla condotta di Evdokija vi sono testimonianze scritte dei parenti. Il matrimonio di Pietro
finì intorno al 1692 quando egli cominciò la relazione con Anna Mons che durò fino al
1704 e che Voltaire cita negli Aneddoti sullo zar Pietro il Grande (cfr nota 51) ma che qui
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Disgraziatamente il figlio che ella gli aveva dato nel 1690 nacque con il
carattere della madre, carattere che fu rafforzato dalla prima educazione
che gli venne impartita. Le mie relazioni dicono che quest’educazione fu
affidata a dei superstiziosi che compromisero per sempre la sua
intelligenza: parlava e scriveva il tedesco, sapeva disegnare, aveva qualche
cognizione di matematica, ma queste stesse relazioni che mi sono state
affidate assicurano che ciò che lo rovinò fu la lettura delle opere a carattere
religioso. Il giovane Alessio credette di vedere in questi libri la condanna di
tutto ciò che faceva suo padre. A capo dei malcontenti c’erano dei preti, ed
egli si lasciò completamente dominare dai preti.
Essi cercavano di convincerlo che tutta la nazione inorridiva alle iniziative
di Pietro, che le frequenti malattie dello zar non lasciavano sperare in una
lunga vita, che suo figlio non poteva sperare di rendersi bene accetto alla
nazione se non manifestando la sua avversione per le novità. Queste
mormorazioni e questi consigli non costituivano apertamente una fazione,
una cospirazione, ma pareva che tutto tendesse a questo scopo e gli animi
erano accesi.
Il matrimonio di Pietro e Caterina celebrato nel 1707 e i figli che ella gli
diede finirono di inasprire l’animo del giovane principe. Pietro tentò in tutti i
modi di ricondurlo alla ragione, giunse a metterlo per un anno a capo della
reggenza, lo fece viaggiare; inoltre, come si è detto, al termine della
campagna del Prut, nel 1711, gli diede in moglie la principessa di
Wolfenbüttel. Questo matrimonio fu molto infelice. Alessio che aveva
ventidue anni si abbandonò a tutti gli eccessi della gioventù e a tutta la
rozzezza degli antichi costumi che gli erano tanto cari. Questa vita sregolata
lo abbrutì. La sua sposa trascurata, maltrattata, priva del necessario e di
ogni consolazione, languì nel dolore e alla fine morì di crepacuore nel 1715,
il 1° novembre602.
Ella lasciava al principe Alessio un figlio nato da poco; secondo la legge
naturale questo figlio avrebbe dovuto essere un giorno l’erede dell’impero.
Pietro prevedeva con dolore che dopo di lui il frutto di tutte le sue fatiche
sarebbe stato distrutto da gente del suo stesso sangue. Dopo la morte della
principessa, scrisse a suo figlio una lettera tanto patetica quanto
non ripete per non violare la promessa di non addentrarsi nella vita privata (cfr. note 7 e
31). Dopo la morte della madre di Pietro (1694) che aveva combinato il matrimonio, non
fu più necessario salvare le apparenze, perciò la situazione interna al palazzo, dove i
parenti di Evdokija coprivano alti incarichi di governo, divenne insostenibile. Pietro scoprì
un loro complotto con gli strel’cy contro di lui e nel 1698 ordinò di rinchiudere Evdokija
nel monastero dell’Intercessione di Suzdal’ (tradizionale luogo di esilio di regine) con le
sue due sorelle ed esiliò il loro padre e i due fratelli lontano da Mosca. Evdokija fu
tonsurata ma sei mesi dopo tornò allo stato laicale rimanendo a vivere nel monastero e
qualche anno dopo ebbe una relazione con il militare Stepan Glebov, coscritto a Suzdal’,
che per frequentarla si travestiva da monaco. Gli amanti furono scoperti nel 1718: Glebov
fu torturato e condannato a morte, Evdokija fu esiliata nel monastero della Dormizione
presso il lago Ladoga. Nel 1728, sotto lo zar Pietro II, ritornò a Mosca in monastero.
602 Secondo studi moderni, morì di peritonite dieci giorni dopo aver dato alla luce il futuro zar
Pietro II.
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minacciosa, la quale terminava con queste parole: «Attenderò ancora
qualche tempo per vedere se avete intenzione di correggervi, altrimenti,
sappiatelo, vi priverò della successione come si recide un membro inutile.
Non pensate che voglia intimorirvi e non contate sul titolo di mio unico
figlio: infatti, se non risparmio la mia stessa vita per la mia patria e per il
bene del mio popolo, come potrei risparmiare voi? Preferisco lasciare l’una e
l’altro a uno straniero che lo merita piuttosto che a un mio figlio che se ne
rende indegno».
Questa è la lettera di un padre ma ancor più di un legislatore. D’altronde
ne risulta chiaramente che in Russia l’ordine della successione non era
stabilito in modo irrevocabile da quelle leggi fondamentali che tolgono ai
padri il diritto di diseredare i figli, come invece avviene in altri regni, e lo zar
credeva che sua prima prerogativa fosse quella di disporre dell’impero che
aveva fondato. Proprio allora l’imperatrice Caterina dette alla luce un
principe che doveva morire nel 1719. Sia che a questa notizia Alessio si
perdesse d’animo, sia per imprudenza, sia per i cattivi consigli, egli scrisse a
suo padre che rinunciava alla corona e a ogni speranza di regnare. «Chiamo
Dio a testimonio e giuro sull’anima mia che non avanzerò mai pretese alla
successione. Metto nelle vostre mani i miei figli e non chiedo altro che il
mantenimento finché sono in vita».
Suo padre gli scrisse una seconda volta: «Noto – gli dice – che nella
vostra lettera parlate unicamente della successione, come se io avessi
bisogno del vostro consenso. Vi ho rinfacciato il dolore provocatomi dalla
vostra condotta per tanti anni e voi non ne parlate. Le esortazioni paterne
non vi toccano. Ho deciso di scrivervi ancora un’ultima volta. Se non tenete
nessun conto i miei ammonimenti mentre sono in vita, che cosa conteranno
per voi quando sarò morto? Quand’anche in questo momento aveste
l’intenzione di tener fede alle vostre promesse, quei barboni603 vi
raggireranno a loro piacimento e vi costringeranno a violarle… È gente che
conta soltanto su di voi. Non sentite riconoscenza alcuna per colui al quale
dovete la vita. Lo assistete forse nel suo lavoro, ora che siete giunto a
maturità? Non lo biasimate forse, non lo avversate qualunque cosa faccia
per il bene del popolo? Ho buone ragioni per credere che, se mi
sopravviverete, distruggerete la mia opera. Emendatevi, rendetevi degno
della successione oppure fatevi frate. Rispondete o per iscritto o a viva
voce, altrimenti procederò con voi come con un malfattore».
Era una lettera dura e non sarebbe stato difficile al principe rispondere
che avrebbe cambiato vita; egli invece si limitò a rispondere a suo padre in
quattro righe che voleva farsi frate.
Questa decisione non pareva naturale e sembra strano che lo zar abbia
603 Sia coloro che non approvavano le riforme di Pietro, sia i Raskol’niki (cfr. nota 139)
ostentavano abiti e barbe di foggia antiquata. Nello specifico, si sa che Alessio
frequentava persone ostili a Pietro, tra cui quattro principi Naryškin, cinque principi
Vjazemskij, il segretario Evarlakov, l’arcivescovo Ilarion Krutickij e diversi protopopi, tra
cui Jakov Ignat’ev che per dodici anni gli fu padre spirituale e alimentò il rancore verso
Pietro.
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voluto mettersi in viaggio lasciando nel suo Stato un figlio tanto scontento e
tanto ostinato. Perciò quello stesso viaggio è la prova che lo zar non credeva
di dover temere una cospirazione da parte di suo figlio.
Prima di partire alla volta della Germania e della Francia andò a fargli
visita; il principe che era malato, o fingeva di esserlo, lo accolse a letto e gli
confermò con i più solenni giuramenti la sua intenzione di ritirarsi in un
chiostro; lo zar gli dette sei mesi per decidere e partì con la sua sposa.
Appena giunto a Copenaghen seppe (come si poteva prevedere) che
Alessio si circondava unicamente di malcontenti che incoraggiavano le sue
lamentele, Gli scrisse che decidesse tra il convento e il trono e che, se
voleva un giorno succedergli, doveva raggiungerlo a Copenaghen.
I confidenti del principe lo convinsero che sarebbe stato pericoloso per lui
trovarsi, lontano da ogni consiglio, tra un padre irritato e una matrigna. Egli
dunque finse di partire per Copenaghen per raggiungere suo padre, ma
invece prese la strada di Vienna e andò a mettersi sotto la protezione
dell’imperatore Carlo VI, suo cognato, contando di restarvi fino alla morte
dello zar.
Press’a poco la stessa avventura era occorsa a Luigi XI allorché, ancora
delfino, aveva abbandonato la corte di Carlo VII suo padre e si era ritirato
presso il duca di Borgogna. Il delfino era assai più colpevole dello zarevič
poiché si era sposato contro la volontà del padre, aveva arruolato delle
truppe, si era ritirato presso un principe che era il nemico naturale di Carlo
VII e non tornò mai alla sua corte malgrado le pressanti richieste di suo
padre.
Alessio invece si era sposato solo per ordine del padre, non si era
ribellato, non aveva arruolato truppe, non si ritirava presso un principe
nemico e alla prima lettera che ricevette da suo padre tornò a gettarglisi ai
piedi. Infatti appena Pietro seppe che suo figlio era stato a Vienna, che s’era
rifugiato nel Tirolo e in seguito a Napoli, appartenente allora all’imperatore
Carlo VI, inviò il capitano delle guardie Romanzov604 e il consigliere privato
Tolstoj, latori di una lettera scritta di suo pugno e datata Spa, 21 luglio
1717. Trovarono il principe a Napoli, al castello di Sant’Elmo, e gli
consegnarono la lettera che era così concepita: «…Vi scrivo per l’ultima
volta, per dirvi che dovete eseguire la mia volontà che Tolstoj e Romanzov
vi notificheranno da parte mia. Se mi obbedirete, vi assicuro e prometto a
Dio di non punirvi, e se tornate vi amerò più che mai, ma se non lo farete,
in qualità di padre, in virtù del potere ricevuto da Dio, scaglio su di voi la
mia eterna maledizione e, in qualità di vostro sovrano, vi assicuro che saprò
trovare il modo di punirvi, nella qual cosa spero che Dio mi assista e che
prenda su di sé la mia giusta causa. Del resto tenete presente che non vi ho
costretto in nulla. Chi mi costringeva a lasciarvi libero di scegliere la strada
che avreste voluto prendere? Se avessi voluto obbligarvi, non avevo forse in
mano il potere? Non avevo che da comandare e sarei stato obbedito».
604 Non Romanzov, ma Aleksandr Ivanovič Rumjancev (1680-1749), generale e stretto
collaboratore di Pietro.
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Il viceré di Napoli non ebbe difficoltà a convincere Alessio a tornare da
suo padre. Era questa una prova incontestabile del fatto che l’imperatore
non voleva prendere con il giovane principe alcun impegno che potesse
contrariare lo zar. Alessio aveva viaggiato con la sua amante Efrosina605 e
tornò indietro con lei.
Lo si poteva considerare un giovane fuorviato dai cattivi consigli che era
andato a Vienna e a Napoli invece di andare a Copenaghen. Se non avesse
commesso altri sbagli che questo, comune a tanti altri giovani, sarebbe
stato facile perdonarlo. Suo padre chiamava Dio a testimone che non
soltanto lo avrebbe perdonato ma lo avrebbe avuto più caro che mai. Con
queste assicurazioni Alessio partì. Tuttavia in base alle istruzioni dei due
incaricati che lo riaccompagnarono e in base alla lettera stessa dello zar
sembra che il padre abbia preteso dal figlio che questi denunciasse chi lo
aveva consigliato e mandasse a effetto il suo giuramento di rinunciare alla
successione.
Sembra difficile conciliare questa diseredazione con il giuramento fatto
dallo zar nella sua lettera di amare il figlio più che mai. È possibile che il
padre, combattuto tra l’amor paterno e la ragione di Stato, si limitasse ad
amare un figlio rinchiuso nel chiostro; forse sperava ancora di ricondurlo al
dovere facendogli sentire che cosa significa la perdita della corona. In
circostanze così rare, difficili e penose, è facile supporre che né il cuore del
padre né quello del figlio, egualmente agitati, fossero d’accordo neppure con
se stessi.
Il 13 febbraio 1718 il principe arrivò a Mosca dove si trovava allora lo zar.
Quel giorno stesso si getta ai piedi del padre e ha con lui un lunghissimo
colloquio: immediatamente si sparge per la città la voce che padre e figlio si
sono riconciliati, che tutto è dimenticato. Tuttavia l’indomani i reggimenti
delle guardie sono chiamati in armi e si fa suonare la campana grande di
Mosca. I bojardi e i consiglieri privati sono convocati al palazzo, mentre i
vescovi, gli archimandriti e due preti di San Basilio che erano professori di
teologia si riuniscono nella cattedrale. Alessio, senza spada e legato come
un prigioniero, viene condotto al castello al cospetto del padre. Si prosterna
davanti a lui e gli consegna piangendo uno scritto nel quale riconosce i suoi
torti, si dichiara indegno di succedergli e chiede come unica grazia che gli
venga accordata salva la vita.
Lo zar lo risollevò e lo condusse in una stanza dove gli rivolse parecchie
domande. Gli disse che se nascondeva qualcosa riguardante la sua evasione
ne andava della vita, dopodiché il principe fu ricondotto nella sala dove era
riunito il consiglio; là si diede pubblica lettura alla dichiarazione dello zar che
era già pronta.
In questo documento il padre rimprovera al figlio tutto ciò che via via
abbiamo esposto, la sua poca premura nell’istruirsi, i suoi rapporti con i
fautori delle antiche usanze, la sua pessima condotta con la moglie. «Egli ha
605 Efrosina Fëdorova (o Evfrosina, o Afrosina) conobbe Alessio nel 1714 o nel 1715, quando
il principe era già sposato.
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violato – vi si legge – la fede coniugale, attaccandosi a una donna della più
bassa estrazione mentre viveva ancora la sua sposa». È vero che anche
Pietro aveva ripudiato la sua per una prigioniera, ma questa prigioniera era
una donna di meriti superiori ed egli aveva giuste lamentele da muovere
contro sua moglie che era una sua suddita. Alessio invece aveva trascurato
la sua sposa per una sconosciuta che non aveva altro merito che la bellezza.
Fin qui vediamo solo errori di gioventù che un padre deve correggere, ma
può perdonare.
Gli si rimprovera inoltre di essere andato a Vienna a mettersi sotto la
protezione dell’imperatore. Lo zar afferma che Alessio ha calunniato suo
padre lasciando intendere all’imperatore Carlo VI che lo si perseguitava e lo
si costringeva a rinunciare all’eredità e che, per finire, ha chiesto
all’imperatore di essere difeso a mano armata.
A prima vista non è ben chiaro come l’imperatore avrebbe potuto
dichiarar guerra allo zar per un motivo simile e come avrebbe potuto
interporre tra il padre irritato e il figlio disubbidiente altro che i suoi buoni
uffici. Pertanto Carlo VI si era limitato a dare asilo al principe e l’aveva
rimandato indietro appena lo zar, scoperto il suo rifugio, lo aveva
richiamato.
In questo terribile documento Pietro aggiunge che Alessio aveva fatto
credere all’imperatore che se faceva ritorno in Russia la sua vita era in
pericolo. Condannarlo a morte al suo ritorno, soprattutto dopo averlo
assicurato del perdono, significava in un certo senso giustificare le
lamentele di Alessio. Tuttavia vedremo quali motivi spinsero in seguito lo zar
a emettere questa memorabile sentenza606. Per finire in questa grande
assemblea si vide un sovrano assoluto fare l’avvocato accusatore contro il
proprio figlio.
«Ecco – egli disse – in che modo nostro figlio è tornato; e sebbene con la
sua evasione e le sue calunnie abbia meritato la morte, il nostro affetto di
padre gli perdona i suoi delitti. Tuttavia, considerando la sua indegnità e la
sua vita sregolata, non possiamo in coscienza lasciargli la successione al
trono, poiché prevediamo anche troppo bene che dopo di noi la sua
606 Ufficialmente Voltaire tenta di giustificare lo zar, ma dalle sue lettere private traspare una
certa perplessità: «La triste fine dello zarevič mi imbarazza alquanto. Non mi piace
parlare contro la mia coscienza. La sentenza capitale mi è sempre parsa troppo severa…
in molti Stati non sarebbe stato lecito comportarsi così… un figlio a mio avviso non è
degno di morte per aver viaggiato per proprio conto mentre suo padre faceva lo stesso.
Tenterò di cavarmela in questa situazione scabrosa facendo sì che nel cuore dello zar
l’amor di patria prevalga sulle paterne viscere». (Lettera a Šuvalov, 22 novembre 1759).
Né Voltaire poteva riferirsi a Ivan il Terribile, l’unico zar che uccise il figlio, perché come
ha scritto lo storico russo Kiprijan N. Jaroš nel libro Parallelo psicologico. Ivan il Terribile e
Pietro il Grande (1898): «Ivan uccise accidentalmente suo figlio, in uno scoppio d’ira e poi
si disperò, si ammalò, volle rinunciare al trono e ritirarsi in monastero per espiare, perché
la morte del figlio era la punizione di Dio per i suoi crimini passati, poi inviò diverse
migliaia di rubli in Palestina per la commemorazione dell’anima di Ivan. Al contrario,
Pietro si occupò del figlio per pochi anni, lo mise alla prova un paio di mesi e fu
responsabile della sua morte in maniera deliberata e consapevole. Impose il suo volere e
la sua rabbia al figlio per tutta la vita e non lo perdonò mai».
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condotta depravata offuscherebbe la gloria della nazione e provocherebbe la
perdita di tanti Stati riconquistati dalle nostre armi. Compiangeremmo
soprattutto i nostri sudditi se, con un tale successore, li rigettassimo in una
condizione molto peggiore di quella da cui sono usciti.
«Pertanto, in grazia della patria potestà, in virtù della quale, secondo le
leggi del nostro impero, ognuno dei nostri sudditi può diseredare un figlio a
suo piacimento, nella nostra qualità di principe sovrano e in considerazione
del bene del nostro Stato, priviamo nostro figlio Alessio del diritto di
succederci al trono di Russia, a causa dei suoi delitti e della sua indegnità,
anche se dopo di noi non sopravvivesse nessun membro della nostra
famiglia.
«Inoltre costituiamo e dichiariamo successore al detto trono il nostro
secondo figlio Pietro607, sebbene ancora in giovane età, non avendo altro
erede in età superiore alla sua.
«Scagliamo sul suddetto figlio Alessio la nostra paterna maledizione se
mai, in qualunque tempo, avanzi pretese alla suddetta successione o cerchi
di procacciarsela.
«Esigiamo anche dai nostri fedeli sudditi della classe ecclesiastica, di
quella secolare di qualunque altra classe e dall’intera nazione che, secondo
questa costituzione e conformemente alla nostra volontà, riconoscano e
considerino il suddetto Pietro, nostro figlio, da noi designato alla
successione, come legittimo successore; esigiamo inoltre che, in conformità
della presente costituzione, confermino il tutto con un giuramento davanti al
santo altare, sui santi Vangeli e baciando la Croce.
«E tutti coloro che in futuro, in qualsiasi momento, si opporranno alla
nostra volontà e oseranno considerare successore nostro figlio Alessio o
prestargli aiuto per lo stesso scopo, siano dichiarati traditori nostri e della
patria. Abbiamo disposto che la presente sia pubblicata dovunque, affinché
nessuno pretenda di ignorarla. Fatto a Mosca, il 14 febbraio 1718. Firmato
di nostro pugno e suggellato col nostro sigillo».
Si direbbe che tali atti siano stati predisposti o che siano stati preparati
con la massima celerità: infatti il principe Alessio era ritornato il 13 e il suo
diseredamento a vantaggio del figlio di Caterina avvenne il 14.
Da parte sua il principe sottoscrisse la rinuncia alla successione:
«Riconosco – egli dice – questa esclusione come giusta; l’ho meritata con la
mia indegnità e giuro davanti a Dio Onnipotente nella Trinità di
sottomettermi in tutto alla volontà paterna, ecc.».
Firmati questi atti, lo zar si recò a piedi alla cattedrale; qui furono letti
una seconda volta e tutti gli ecclesiastici apposero la loro approvazione e la
loro firma in calce a un’altra copia. In molti Stati un simile atto non avrebbe
alcun valore, ma in Russia, come presso gli antichi Romani, ogni padre
aveva il diritto di privare il figlio della successione e questo diritto era più
forte in un sovrano che in un suddito, soprattutto in un sovrano come
607 Si tratta di quello stesso figlio dell’imperatrice Caterina che morì il 15 aprile 1719. (Nota
dell’Autore)
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Pietro.
Tuttavia era da temere che un giorno le stesse persone che avevano
istigato il principe contro suo padre e gli avevano consigliato la fuga
avrebbero tentato di annullare una rinuncia imposta con la forza e di
restituire al figlio maggiore la corona che era stata trasmessa a un cadetto
di secondo letto. In tal caso si poteva prevedere una guerra civile e
l’inevitabile distruzione di tutto ciò che Pietro aveva fatto di grande e di
utile. Bisognava decidere fra l’interesse di quasi diciotto milioni di uomini,
quanti ne contava allora la Russia, e un solo uomo incapace di governarla.
Era dunque importante smascherare i malintenzionati: ancora una volta lo
zar minacciò di morte suo figlio se gli nascondeva qualche cosa. Di
conseguenza il principe fu sottoposto a interrogatorio da suo padre e
successivamente da alcuni commissari.
Una delle accuse che contribuirono alla sua condanna fu la lettera di un
residente dell’imperatore di nome Beyer, scritta dopo la fuga del principe da
Pietroburgo: da questa lettera risultava che nell’esercito russo di stanza nel
Meclemburgo serpeggiava la rivolta, che molti ufficiali parlavano di inviare la
nuova zarina Caterina e suo figlio nella prigione in cui si trovava la zarina
ripudiata e di mettere Alessio sul trono appena fosse stato ritrovato.
Effettivamente in quell’esercito dello zar era scoppiata una rivolta che fu in
breve repressa. Questi discorsi inconcludenti non ebbero alcun seguito,
Alessio non poteva averli incoraggiati: infatti uno straniero ne parlava come
di una novità; il principe Alessio non era il destinatario della missiva e ne
possedeva solo una copia inviatagli da Vienna.
Un capo di accusa più grave era costituito da una minuta scritta di suo
pugno, di una lettera inviata da Vienna ai senatori e agli arcivescovi di
Russia. I termini erano abbastanza forti: «I maltrattamenti continui che ho
dovuto subire senza averli meritati m’hanno costretto alla fuga: poco è
mancato che mi si rinchiudesse in un convento. Quelli che hanno rinchiuso
mia madre mi avrebbero voluto trattare allo stesso modo; in questo
momento mi trovo sotto la protezione di un grande principe e vi prego di
non abbandonarmi». Le parole «in questo momento», che potevano
apparire sediziose, erano cancellate, riscritte di sua mano e poi ancora una
volta cancellate, ciò che rivelava un giovane sconvolto che cede al
risentimento e allo stesso momento se ne pente. Di queste lettere non fu
trovata che la minuta; esse non giunsero mai a destinazione e la corte
viennese non le inoltrò, prova evidente che questa corte non voleva urtare
quella russa e sostenere a mano armata il figlio contro il padre.
Il principe fu messo a confronto con parecchi testimoni: uno di costoro, di
nome Afanas’ev608, sostenne di avergli sentito dire una volta: «Dirò una
cosa ai vescovi che la ripeteranno ai curati, i curati ai parrocchiani e io sarò
posto sul trono anche mio malgrado».
Persino la sua amante Efrosina depose contro di lui609. Non esisteva
608 Sull’originale Afanassief.
609 La testimonianza di Efrosina contro Alessio è certa e fu confermata davanti allo zarevič, ma
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un’accusa precisa, nessun progetto coerente, nessun intrigo completo,
nessuna cospirazione, nessuna associazione, tanto meno dei preparativi. Era
un figlio di famiglia insoddisfatto e vizioso che si lamentava di suo padre, lo
evitava e sperava la sua morte. Ma questo figlio di famiglia era l’erede del
regno più vasto del nostro emisfero: nella sua situazione e nella sua
posizione non esistono colpe lievi.
Accusato dalla sua amante, fu anche accusato a proposito dell’ex-zarina,
sua madre, e di sua sorella Marija. Fu incolpato di essersi consultato con
sua madre a proposito della fuga e di averne parlato alla principessa Marija.
Un vescovo di Rostov, confidente di tutti e tre, fu tratto in arresto e depose
che queste due principesse, prigioniere in un convento, avevano sperato in
un rivolgimento che rendesse loro la libertà e con i loro consigli avevano
istigato il principe alla fuga. Più il loro risentimento era naturale, più era
pericoloso. Vedremo alla fine del capitolo chi fosse questo vescovo e quale
fosse stata la sua condotta.
Dapprima Alessio negò molti fatti di questo tipo; così facendo si esponeva
alla morte minacciatagli da suo padre nel caso che non avesse rilasciato una
confessione sincera e completa.
Alla fine ammise di aver proferito alcuni dei discorsi poco rispettosi nei
confronti del padre che gli venivano rimproverati e si scusò adducendo l’ira
e l’ubriachezza.
Lo zar redasse di sua mano nuovi capi d’interrogatorio. Il quarto era così
concepito: «Quando avete saputo dalla lettera di Beyer che c’era una rivolta
nell’esercito del Meclemburgo, siete stato contento. Credo che aveste
qualche progetto e che vi sareste dichiarato per i ribelli anche mentre ero in
vita».
Ciò equivaleva a interrogare il principe sui suoi sentimenti più riposti. Si
può confessarli a un padre che li corregge con i suoi consigli, ma è lecito
nasconderli a un giudice che si pronuncia solo su fatti accertati. I sentimenti
nascosti del cuore non vanno soggetti ai processi penali. Alessio avrebbe
potuto facilmente negarli o dissimularli, nessuno lo costringeva ad aprire il
suo animo; eppure rispose per iscritto: «Se i ribelli mi avessero chiamato
durante la vostra vita, probabilmente sarei andato da loro purché fossero
stati forti abbastanza».
È incredibile che abbia rilasciato spontaneamente questa risposta e
altrettanto straordinario sarebbe, almeno secondo le abitudini europee, che
ne sono oscuri i motivi. Tante sono state le ipotesi; per esempio, da una lettera si sa che,
quand’era in viaggio verso Vienna, Efrosina si accorse di essere incinta, ma del bambino
non esiste altra traccia, poi si è supposto che fosse sotto minaccia di tortura oppure fosse
stata corrotta (c’è un ordine di versamento a suo favore, ma non documenti che provino la
riscossione). Secondo studi posteriori, le dichiarazioni di Efrosina non aggiungevano nulla a
quanto era allora noto a tutti, eccetto forse l’esistenza della lettera di Alessio citata da
Voltaire, ma la lettera, mai spedita, fu trovata a Vienna dopo la morte del principe. È
possibile che Alessio avesse confermato questa circostanza sperando ancora di salvarsi con
la reclusione in qualche monastero, perché non aveva possibilità di fuga: Pëtr Tolstoj aveva
già corrotto gli Austriaci per un eventuale arresto e aveva intercettato una lettera di Alessio
indirizzata al re di Svezia, nemico di Pietro, in cui gli chiedeva appoggio.
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lo si fosse condannato sulla base della confessione di un’idea che avrebbe
potuto venirgli un giorno, in una circostanza che non si è verificata.
A questa insolita confessione dei suoi pensieri più riposti che non erano
usciti dal profondo della sua anima, si aggiunsero delle prove che in più di
un Paese non sono valide davanti al tribunale della giustizia umana. Il
principe, affranto e fuori di sé, ricercava in se stesso, con l’ingenuità della
paura, tutto ciò che potesse servire alla sua rovina. Alfine ammise che in
confessione si era accusato davanti a Dio all’arciprete Jakov di aver
desiderato la morte di suo padre, e che il confessore Jakov gli aveva
risposto: «Dio vi perdonerà, noi gli auguriamo la stessa cosa».
Tutte le prove che si possono ricavare dalla confessione non sono
ammesse dalle regole della nostra Chiesa: sono segreti fra il penitente e
Dio. Anche la Chiesa greca, come quella latina, non crede che questa
corrispondenza intima e sacra fra un peccatore e la divinità sia sottoposta
alla giustizia umana, ma si trattava dello Stato e di un sovrano. Il prete
Jakov, messo alla tortura, confermò le rivelazioni del principe. In quel
processo si assisteva all’insolito spettacolo di un confessore accusato dal
suo penitente e di un penitente accusato dalla propria amante. Si può
ancora aggiungere alla singolarità di questo episodio il seguente fatto:
l’arcivescovo di Kazan’610 era stato coinvolto nell’accusa perché in passato,
nel primo bollore del risentimento che lo zar provava contro suo figlio,
aveva pronunciato un sermone troppo favorevole al giovane zarevič; il
principe, nel corso dell’interrogatorio, ammise di aver contato sul prelato,
mentre, come vedremo tra breve, questo stesso arcivescovo di Kazan’ era a
capo dei giudici ecclesiastici consultati dallo zar per il processo criminale.
Bisogna fare un’osservazione fondamentale a proposito di questo strano
processo, assai mal digerito nella grossolana Storia di Pietro I scritta dal
sedicente bojardo Nestesuranoy611; l’osservazione è la seguente.
Tra le altre risposte al primo interrogatorio di suo padre, Alessio ammette
che quando si trovava a Vienna, dove non incontrò l’imperatore, si era
rivolto al ciambellano conte di Schönborn612, il quale gli aveva detto:
«L’imperatore non vi abbandonerà e quando sarà giunto il momento, dopo
la morte di vostro padre, vi aiuterà a salire sul trono con le armi in pugno.
Gli risposi – aggiunge l’accusato: – non aspiro a tanto, che l’imperatore mi
accordi la sua protezione, non desidero altro». Questa deposizione è
semplice, naturale, e ha tutte le apparenze della verità: infatti, chiedere
truppe all’imperatore per tentare di detronizzare il proprio padre, sarebbe
stato il colmo della follia, e nessuno avrebbe osato fare una proposta così
assurda né al principe Eugenio né al consiglio né tanto meno all’imperatore.
Questa deposizione risale al mese di febbraio: quattro mesi dopo, il 1°
luglio, nel corso e verso la conclusione della procedura, nelle ultime risposte
610 Sull’originale Résan. Cfr. nota 115.
611 Cfr. nota 8.
612 Friedrich Karl Schönborn (1674-1746) vice-cancelliere dell’impero asburgico fino al 1734 e
vescovo di Bamberga e di Würzburg.
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per iscritto si fa dire allo zarevič quanto segue:
«Non volendo imitare in nulla mio padre, cercavo di giungere alla
successione in qualunque modo tranne che in quello giusto. Volevo ottenerla
con l’appoggio straniero e, qualora vi fossi riuscito e l’imperatore avesse
attuato ciò che mi aveva promesso, cioè di procurarmi la corona di Russia
anche a mano armata, non avrei tralasciato nulla per impossessarmi della
successione. Per esempio, se l’imperatore avesse chiesto in cambio truppe
del mio Paese per il suo servizio contro uno qualunque dei suoi nemici
oppure grosse somme di denaro, avrei fatto tutto ciò che voleva e avrei
elargito doni cospicui ai suoi ministri e ai suoi generali. Avrei mantenuto a
mie spese le truppe ausiliarie che egli mi avesse dato per entrare in
possesso della corona di Russia; in una parola nessun prezzo mi sarebbe
parso troppo alto purché si adempisse la mia volontà».
Quest’ultima deposizione del principe è chiaramente estorta: si direbbe
che egli faccia del suo meglio per farsi credere colpevole; ciò che egli dice è
persino contrario alla verità su un punto capitale. Egli afferma che
l’imperatore gli aveva promesso di procurargli la corona con le armi alla
mano: ciò è falso. Il conte di Schönborn gli aveva lasciato sperare che un
giorno, dopo la morte dello zar, l’imperatore lo avrebbe aiutato a rivendicare
i diritti ereditari, ma l’imperatore non aveva promesso nulla. Per giunta, ciò
non significava ribellarsi al proprio padre ma succedergli dopo la sua morte.
In quest’ultimo interrogatorio egli dice ciò che supponeva che avrebbe
fatto nel caso avesse dovuto disputare l’eredità, eredità alla quale non
aveva giuridicamente rinunciato prima del viaggio a Napoli e a Vienna.
Vediamo dunque per la seconda volta che egli confessa non già ciò che ha
fatto e che incorre nei rigori della legge, ma ciò che immagina di poter fare
un giorno e che, di conseguenza, non sembra rientrare nella giurisdizione di
nessun tribunale. Eccolo accusarsi per ben due volte dei segreti pensieri che
ha potuto architettare per l’avvenire. Nel mondo intero non si era mai visto
prima di allora un solo uomo giudicato e condannato sulla scorta delle vane
idee che gli sono venute in mente e di cui non ha fatto parte a nessuno. Non
c’è in Europa nessun tribunale nel quale si ascolti un uomo che si accusa di
un pensiero delittuoso e si dice che persino Dio non li punisca se non
quando sono accompagnati da una volontà ben precisa.
A queste considerazioni così naturali si potrà opporre che Alessio aveva
dato a suo padre il diritto di punirlo con le sue reticenze a proposito di vari
complici della fuga: la sua grazia infatti dipendeva dalla confessione
generale ed egli la fece solo quand’era troppo tardi. Per giunta, dopo un tale
scandalo, non sembrava umanamente possibile che Alessio perdonasse mai
al fratello a favore del quale era stato diseredato. E, si disse, era meglio
punire un colpevole che mettere a repentaglio tutto l’impero. Il rigore della
giustizia si accordava con la ragione di Stato.
Le leggi e i costumi di una nazione non devono essere giudicati sul metro
di quelli di un’altra: lo zar aveva il diritto fatale ma reale di punire con la
morte suo figlio per la sua sola fuga. Nella sua dichiarazione ai giudici e ai
vescovi, egli si esprime così:
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«Sebbene tutte le leggi umane e divine e soprattutto quelle russe che tra
privati escludono ogni giurisdizione tra padre e figlio, ci conferiscano il
potere sufficiente e assoluto che ci consente di giudicare nostro figlio sulla
base dei suoi delitti secondo la nostra volontà e senza chiedere il parere di
nessuno, malgrado tutto questo, poiché nessuno è chiaroveggente nei suoi
propri affari come in quelli altrui, così come i medici, anche i più esperti,
non si arrischiano a curare sé stessi quando sono ammalati, e ne chiamano
altri, così, temendo di gravare la mia coscienza di qualche peccato, vi
espongo la mia situazione e vi chiedo un rimedio: infatti paventerei la morte
eterna se, ignaro forse della natura del mio male, volessi guarire da solo,
soprattutto in considerazione del fatto che ho giurato sul giudizio di Dio e ho
promesso per iscritto di perdonare a mio figlio qualora egli mi dica la verità
e in seguito l’ho riconfermato a voce.
«Benché mio figlio abbia violato la sua promessa, tuttavia, per non
discostarmi in nulla dai miei doveri, vi prego di riflettere su questo caso e di
esaminarlo con la massima attenzione per vedere ciò che egli merita. Non
adulatemi, non temete che se merita solo una lieve punizione e voi
giudicate in questo senso, io ne sia contrariato: giuro per il gran Dio e per il
suo giudizio che non avete assolutamente nulla da temere.
«Non vi preoccupi il fatto di dover giudicare il figlio del vostro sovrano,
ma, senza riguardo alla persona, fate giustizia e non perdete la vostra
anima e la mia. Infine fate che la nostra coscienza non debba rimproverarci
nulla nel giorno terribile del Giudizio e che la nostra patria non abbia a
soffrire».
Al clero lo zar rilasciò una dichiarazione quasi uguale: così tutto si svolse
con la massima autenticità e Pietro in tutti i suoi provvedimenti, adottò una
forma ufficiale che palesava la sua intima persuasione di essere nel giusto.
Questo processo criminale dell’erede di un così grande impero durò dalla
fine di febbraio al 5 luglio613. Il principe fu interrogato varie volte e rilasciò le
confessioni che gli venivano richieste: abbiamo riferito solo quelle essenziali.
Il 1° luglio il clero rilasciò per iscritto il suo parere. In realtà lo zar non gli
chiedeva che un parere e non una sentenza. L’inizio merita l’attenzione
dell’Europa.
«Questo caso – dicono i vescovi e gli archimandriti – non è di competenza
della giurisdizione ecclesiastica e il potere assoluto che regna nell’impero
russo non è soggetto all’approvazione dei sudditi, anzi al sovrano compete
l’autorità di agire secondo il suo beneplacito senza l’intervento dei suoi
subordinati».
Dopo questo preambolo è citato il Levitico, in cui è detto che chi avrà
maledetto suo padre o sua madre sarà punito con la morte614, e il Vangelo
613 Riassumendo: il 31 gennaio (11 febbraio) 1718 Alessio arrivò a Mosca, il 13/24 giugno si
riunì il consiglio, formato da 126 senatori più prelati, ministri e altri dignitari, che emise la
condanna a morte di Alessio il 24 giugno (5 luglio) 1718. Negli Aneddoti (cfr. nota 51)
Voltaire dice che i giudici secolari erano 124, mentre più avanti nel testo diventano 144.
614 Lv 20,9.
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secondo San Matteo che cita questa severa legge del Levitico615. Dopo varie
citazioni si conclude con queste parole veramente degne di nota:
«Se Sua Maestà vuole punire colui che è caduto secondo le sue azioni e
conformemente alla gravità dei suoi delitti, ha davanti a sé gli esempi
dell’Antico Testamento; se vuole usare misericordia, ha l’esempio dello
stesso Gesù Cristo che accoglie il figliol prodigo quando ritorna pentito, che
lascia libera la donna sorpresa in adulterio, la quale, secondo la legge,
meritava la lapidazione, che preferisce la misericordia al sacrificio; ha
l’esempio di David che vuole risparmiare Assalonne suo figlio e persecutore
e che disse ai capitani che andavano ad affrontarlo: risparmiate mio figlio
Assalonne; finanche il padre volle risparmiarlo, ma la giustizia divina non lo
risparmiò. Il cuore dello zar è nelle mani di Dio: scelga il partito al quale lo
indirizzerà la mano di Dio».
Questo parere porta la firma di otto vescovi, quattro archimandriti e due
professori, e, come si è già detto, il metropolita di Kazan’, con cui il principe
era stato in contatto, fu il primo a firmare.
Questo parere del clero fu immediatamente presentato allo zar. Non è
difficile accorgersi che il clero voleva spingerlo alla clemenza, e forse nulla è
più bello che questa contrapposizione fra la dolcezza di Gesù Cristo e il
rigore della legge giudaica posto sotto gli occhi di un padre che processava
il figlio.
Lo stesso giorno Alessio fu interrogato per l’ultima volta e mise per
iscritto la sua ultima confessione: è questa la confessione in cui si accusa
«di esser stato in gioventù un bigotto, di aver frequentato preti e monaci, di
aver bevuto con loro, di aver preso da loro le impressioni che gli ispirarono
orrore per i doveri della sua condizione e persino per la persona di suo
padre».
Se egli rilasciò questa confessione di sua propria volontà, ciò dimostra
che era all’oscuro del consiglio di clemenza appena rilasciato da quello
stesso clero che egli accusava e ciò prova, in modo ancor più valido, quanto
lo zar avesse trasformato le abitudini del clero del suo Paese il quale, dalla
grossolanità e dall’ignoranza, era giunto in così poco tempo alla capacità di
redigere uno scritto di cui i più illustri padri della Chiesa non avrebbero
sconfessato né la saggezza né l’eloquenza.
È proprio in quest’ultima confessione che Alessio dichiara ciò che si è già
riferito, cioè che egli voleva arrivare alla successione, «in qualunque modo
tranne che in quello giusto».
Da quest’ultima confessione parrebbe che egli temesse di non essersi
abbastanza compromesso, abbastanza confessato colpevole nelle precedenti
e che, dando a se stesso i titoli di pessimo carattere e cattivo soggetto,
immaginando ciò che avrebbe fatto se fosse stato il padrone, cercasse
penosamente di giustificare la sentenza di morte che si stava per
pronunciare contro di lui. Questa sentenza fu effettivamente pronunciata il 5
luglio. La si troverà per esteso alla fine dell’opera. Qui ci limiteremo a
615 Mt 15,4.
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rilevare che, come il parere del clero, essa comincia con la dichiarazione che
un simile giudizio non spettò mai a dei sudditi ma solo al sovrano il cui
potere dipende unicamente da Dio. Poi, dopo aver esposto tutti i capi
d’accusa contro il principe, i giudici si esprimono così: «Che cosa pensare
del suo piano di ribellione, tale che non ci fu mai al mondo l’uguale, unito a
quello di un atroce doppio parricidio contro il sovrano, come padre della
patria e padre secondo natura?».
Forse queste parole sono state mal tradotte dal processo criminale
stampato per ordine dello zar; infatti ci sono state indubbiamente nel
mondo ribellioni più grandi e non risulta dagli atti che lo zarevič avesse mai
concepito il piano di uccidere suo padre. Forse il termine parricidio alludeva
alla confessione che il principe aveva rilasciato secondo la quale si era un
giorno confessato per aver augurato la morte a suo padre e al suo sovrano,
ma il segreto riconoscimento, in confessione, di un pensiero segreto non
costituisce un doppio parricidio.
Come che sia, fu condannato a morte all’unanimità senza che la sentenza
contemplasse la scelta del supplizio. Di 144 giudici non ce ne fu uno solo
che riuscisse anche solo a immaginare una pena più lieve della morte. Uno
scritto inglese che in quei tempi fece molto scalpore riferisce che se quel
processo fosse stato celebrato presso il Parlamento inglese, non uno dei 144
giudici avrebbe sentenziato una pena, sia pure la più lieve.
Ciò prova meglio di ogni altra cosa la differenza dei luoghi e dei tempi.
Manlio616 avrebbe potuto essere condannato a morte dalle leggi inglesi per
aver causato la morte di suo figlio, ma fu rispettato dagli austeri Romani. Le
leggi d’Inghilterra non puniscono l’evasione di un principe di Galles che, in
quanto Pari del regno, è padrone di andare dove vuole. Le leggi russe non
permettono al figlio di un sovrano di uscire dalla patria contro il volere del
padre. Un pensiero criminale senza conseguenze non può essere punito né
in Francia né in Inghilterra, ma può esserlo in Russia. Una disubbidienza
lunga, formale e reiterata, non è fra noi che una condotta scorretta che va
corretta, ma nella persona dell’erede di un vasto impero che questa stessa
disubbidienza avrebbe portato alla rovina era un delitto capitale. Per finire,
lo zarevič era colpevole nei confronti di tutta la nazione di volerla ripiombare
nelle tenebre da cui suo padre l’aveva tratta.
Tale era il potere riconosciuto dello zar che avrebbe potuto mandare a
morte il proprio figlio colpevole di disubbidienza senza consultarsi con
alcuno. Pure si rimise al parere di tutti i rappresentanti della nazione: così fu
la nazione stessa a condannare il principe e Pietro ebbe tale fiducia
nell’equità della propria condotta che, facendo stampare e tradurre il
processo, si espose lui stesso al giudizio di tutti i popoli della terra.
La legge della storia non ci ha permesso di nulla mascherare, di nulla
attenuare nel riferire questo tragico avvenimento. L’Europa non sapeva chi
616 Tito Manlio Torquato (IV secolo a.C.). La leggenda narra che, quand’era console durante la
guerra latina, condannò a morte il figlio reo di essere uscito dai ranghi per affrontare un
avversario.
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fosse più da compiangere, se il giovane principe accusato da suo padre e
condannato a morte da quelli che avrebbero dovuto essere un giorno suoi
sudditi o il padre che si credeva costretto a sacrificare suo figlio alla
salvezza dell’impero.
In vari libri si è scritto che lo zar aveva fatto venire dalla Spagna il
processo di Don Carlos condannato a morte da Filippo II, ma non è vero che
si sia mai fatto un processo a Don Carlos. La condotta di Pietro differisce
totalmente da quella di Filippo II. Lo spagnolo non rese mai pubblica la
ragione per cui aveva fatto arrestare il proprio figlio né il modo in cui quel
principe era morto617. A questo proposito scrisse al papa e all’imperatrice
lettere assolutamente contraddittorie. Il principe Guglielmo d’Orange accusò
pubblicamente Filippo di aver sacrificato il figlio e la moglie alla propria
gelosia e di essere stato, più che un giudice severo, un marito geloso e
crudele e un padre snaturato e parricida. Filippo si lasciò accusare e
mantenne il silenzio. Pietro invece non fece nulla se non pubblicamente,
dichiarò altamente di preferire la nazione a suo figlio, si rimise al giudice del
clero e dei grandi e rese il mondo intero giudice degli uni, degli altri e di se
stesso.
Un’altra cosa straordinaria in questa fatalità è che la zarina Caterina,
odiata dallo zarevič e apertamente minacciata della sorte peggiore se mai
questo principe fosse giunto al trono, non ebbe alcuna parte nella sua
disgrazia e non fu accusata né sospettata da nessun ministro straniero
residente a corte di aver fatto sia pure il minimo passo contro un figliastro
da cui aveva tutto da temere. Veramente non risulta neppure che abbia
interceduto per lui, ma tutte le memorie del tempo e soprattutto quelle del
conte di Bassewitz sono unanimi nell’assicurare che ella lo commiserava per
la sua disgrazia.
Ho sottomano le memorie di un pubblico ministro in cui trovo queste
esatte parole: «Mi trovavo presente quando lo zar disse al duca di Holstein
che Caterina l’aveva pregato affinché impedisse che fosse pronunciata la
condanna dello zarevič. Contentatevi, ella mi disse, di fargli prendere il saio,
poiché l’infamia di una sentenza capitale ricadrà su vostro nipote».
Lo zar non volle cedere alle preghiere della sposa. Gli pareva importante
che la sentenza fosse pronunciata pubblicamente davanti al principe
affinché, dopo questo atto solenne, non potesse mai tornare su una
decisione cui egli stesso aveva dato il proprio consenso e che, dandogli la
morte civile, lo avrebbe messo per sempre nell’impossibilità di aspirare alla
corona.
Ciononostante, se dopo la morte di Pietro un potente partito si fosse
levato in favore di Alessio, questa morte civile gli avrebbe forse impedito di
regnare?
617 Don Carlos, principe delle Asturie ed erede del trono di Spagna, morì nel 1568, a 23 anni.
Le notizie sul processo sono discordanti: alcuni affermano non sia mai esistito perché
nessun atto fu scritto, altri che fu tenuto e presieduto dal cardinale e Grande Inquisitore
Diego de Espinosa Arevalo, amico fraterno di Filippo II.
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La sentenza fu notificata al principe. Le stesse memorie, dicono che egli
fu colto da convulsioni alle seguenti parole: «Le leggi divine e ecclesiastiche,
civili e militari condannano a morte senza remissione coloro di cui sia
manifesto l’attentato contro il proprio padre e il proprio sovrano». Le
convulsioni, a quanto si dice, si trasformarono in apoplessia: si faticò a farlo
ritornare in sé. Appena ebbe ripreso un poco i sensi, in quest’intervallo fra
la vita e la morte, fece pregare suo padre che venisse a fargli visita. Lo zar
venne, le lacrime sgorgarono dagli occhi del padre e del figlio infelice; il
condannato chiese perdono, il padre perdonò pubblicamente. L’estrema
unzione fu solennemente amministrata al malato agonizzante. L’indomani
della funesta sentenza egli morì al cospetto di tutta la corte 618. La salma fu
portata dapprima nella cattedrale e deposta in un catafalco aperto. Quivi
rimase quattro giorni esposta a tutti gli sguardi e infine fu inumata nella
chiesa della cittadella accanto alla sposa. Lo zar e la zarina assistettero alla
cerimonia.
A questo punto ci sentiamo assolutamente costretti a imitare la condotta
dello zar, se così è lecito esprimersi, e cioè a sottomettere al giudizio del
pubblico tutti i fatti che abbiamo appena finito di raccontare con la più
scrupolosa fedeltà e non soltanto questi fatti, ma anche le voci che corsero
e ciò che fu stampato su questo penoso argomento dagli autori più
accreditati. Lamberti619 che di tutti è il più imparziale e il più esatto e che si
è limitato a riportare i documenti originali e autentici concernenti gli affari
europei, sembra a questo proposito discostarsi dall’imparzialità e dal
discernimento che lo contraddistinguono. Egli si esprime in questi termini:
«La zarina, temendo sempre per suo figlio, non ebbe pace finché non ebbe
convinto lo zar a intentare un processo contro il figlio maggiore e a
condannarlo a morte. Quello che è più strano è che lo zar, dopo avergli
somministrato personalmente il knut, che è una tortura, gli tagliò
personalmente la testa. La salma fu esposta al pubblico e la testa fu così
ben adattata al corpo che non sembrava che ne fosse stata mai separata.
Qualche tempo dopo accadde che il figlio della zarina venne a morire con
grande dolore di questa ultima e dello zar. Questi, che aveva decapitato con
le proprie mani il figlio maggiore, pensando di non avere più un successore,
diventò di cattivo umore. Contemporaneamente gli giunse voce che la
zarina aveva relazioni segrete e illegittime con il principe Menšikov. Questo
fatto, aggiunto alla riflessione che per colpa della zarina egli aveva
sacrificato personalmente il figlio maggiore, fece sì che meditasse di far
tonsurare la zarina e farla rinchiudere in un convento come aveva fatto con
618 Alessio morì due giorni dopo la sentenza, il 26 giugno (7 luglio) 1718 nel bastione
Trubeckoj della fortezza dei Ss. Pietro e Paolo.
619 Giovanni Gerolamo Arconati Lamberti fu un avventuriero e uno storico milanese del XVII
secolo. Accusato di un attentato al patriarca di Alessandria (1672), si rifugiò in Svizzera
dove visse pubblicando libelli anticattolici e servendo a un tempo, come spia segreta, due
nazioni nemiche (Francia e Spagna) e per un certo periodo come segretario dell’inglese
conte di Portland. Tra le sue opere è Mémoires pour servir à l’histoire du XVIII siècle
(Memorie per servire alla storia del XVIII secolo), in 14 volumi, del 1724-1740.
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la prima moglie che ancora vi si trovava. Lo zar aveva l’abitudine di scrivere
i suoi pensieri quotidiani su delle tavolette: egli vi aveva scritto il progetto
che si è detto a proposito della zarina. Ella si era comprata la complicità dei
paggi che entravano nella camera dello zar. Uno di costoro, che aveva
l’abitudine di prendere le tavolette sotto la toletta per mostrarle alla zarina,
prese quelle dove c’era il progetto dello zar. Appena la principessa l’ebbe
scorsa, ne mise al corrente Menšikov e dopo uno o due giorni lo zar fu colto
da una malattia sconosciuta e violenta che lo portò alla tomba. Questa
malattia fu attribuita al veleno: infatti fu chiaro che se era così violenta e
così improvvisa non poteva venire da altra causa che da quella, che pare
abbastanza comune in Russia».
Queste accuse consegnate nelle Memorie di Lamberti, fecero il giro
dell’Europa. Resta ancora un gran numero di libri e manoscritti che
potrebbero trasmettere queste opinioni fino agli ultimi discendenti.
A questo punto ritengo mio dovere dire quello che giunse a mia
conoscenza. Prima di tutto attesto che colui che riportò a Lamberti lo strano
aneddoto che egli riferisce era in verità nato in Russia, ma la sua famiglia
non era di quel Paese. Al tempo della catastrofe dello zarevič egli non
risiedeva nell’impero, anzi ne mancava da vari anni. In passato lo conobbi:
aveva incontrato Lamberti nella cittadina di Nyon dove questo scrittore si
era ritirato e dove anch’io mi sono recato spesso. Questo stesso individuo
mi ha confessato che aveva parlato a Lamberti soltanto di voci che
correvano a quel tempo.
Si veda da questo esempio quanto in passato fosse facile a un solo uomo
calunniare un altro nella memoria delle nazioni allorché, prima della stampa,
le storie manoscritte, conservate nelle mani di pochi, non erano né esposte
alla luce del sole, né contraddette dai contemporanei, né alla portata della
critica universale come avviene al giorno d’oggi. Bastava una riga di Tacito,
di Svetonio e persino degli autori di leggende per rendere un principe odioso
al mondo intero e perpetuare la sua infamia di secolo in secolo.
Com’era possibile che lo zar avesse tagliato di sua mano la testa del figlio
al quale fu somministrata l’estrema unzione al cospetto di tutta la corte? Era
forse senza testa quando su quello stesso capo fu sparso l’olio santo? E
quando si sarebbe potuto ricucire la testa al corpo? Il principe non fu
lasciato un solo istante dalla lettura della sentenza fino alla morte.
L’aneddoto, secondo il quale suo padre ricorse al ferro, smentisce quello
secondo il quale egli si servì del veleno. È vero che è rarissimo che un
giovane soccomba all’improvviso sconvolgimento provocato dalla lettura di
una sentenza di morte, soprattutto di una sentenza che si aspettava; ma
infine i medici ammettono che la cosa è possibile620.
620 Nella lettera a Šuvalov del 9 novembre 1761 Voltaire scrisse: «Potete esser certo, signore,
che nessuno in Europa crede lo zarevič morto di morte naturale. La gente alza le spalle
quando sente dire che un principe di 23 anni è morto di un colpo apoplettico alla lettura di
una sentenza che sperava non sarebbe stata eseguita». La versione della morte
improvvisa risulta da un avviso ufficiale emesso da Pietro il Grande, ma esistono forti
indizi sull’uccisione di Alessio. Voltaire stesso usa l’artificio di far raccontare ad altri gli
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Se lo zar avesse veramente avvelenato suo figlio come tanti altri scrittori
hanno sostenuto, ciò avrebbe reso inutile tutto quello che aveva fatto
durante quel fatale processo per convincere l’Europa del suo diritto a
punirlo: tutti i motivi della condanna sarebbero diventati sospetti e lo zar si
sarebbe condannato con le sue stesse mani. Se avesse voluto la morte di
Alessio, avrebbe fatto eseguire la sentenza: non era forse lui il padrone
assoluto? Un uomo prudente, un monarca cui si appuntano gli occhi della
terra, si può risolvere a far vilmente avvelenare colui che potrebbe far perire
mediante la spada della giustizia? Ci si diffama presso i posteri col titolo di
avvelenatore e parricida quando è tanto facile conferirsi unicamente quello
di giudice severo?621
Da tutto ciò che ho detto risulterebbe evidente che Pietro fu più re che
padre, che egli sacrificò suo figlio agli interessi del fondatore e del
legislatore e a quelli del suo Stato il quale senza questa malaugurata
severità, sarebbe ricaduto nelle condizioni da cui l’aveva tratto. È evidente
che egli non immolò suo figlio a una matrigna e al figlio maschio che ella gli
aveva dato, poiché minacciò spesso di diseredarlo ancor prima che Caterina
gli avesse dato quel figlio la cui debole infanzia era minacciata di prossima
morte e che in realtà morì qualche tempo dopo. Se Pietro avesse fatto un
grande scandalo unicamente per compiacere la sua sposa, sarebbe stato un
debole, un insensato e un vile, e certamente non lo era. Prevedeva ciò che
eventi: delle parole di Lamberti, per esempio, smentisce la decapitazione di Alessio ma
non le frustate col knut (25 colpi il 19/30 giugno e 15 colpi il 24 giugno/5 luglio) che
furono in numero insufficiente a uccidere, ma abbastanza per ridurre allo stremo un uomo
gracile e molto provato. Sessant’anni dopo Voltaire, Aleksandr Puškin scrisse in Storia di
Pietro che il principe morì avvelenato, mentre una serie di lettere trovate tra la fine del
Settecento e l’inizio dell’Ottocento testimoniavano la morte per strangolamento, versione
che gli storici sovietici assunsero come vera ma che fu poi contestata quando si scoperse
che quelle lettere erano false.
621 Negli Aneddoti sullo zar Pietro il Grande (cfr. nota 51) Voltaire scrisse: «Quel che è certo è
che il principe morì nel suo letto il giorno dopo la sentenza e che lo zar ospitava a Mosca
una delle più belle speziali d’Europa». Circa vent’anni dopo la Storia di Voltaire, la vedova
del capitano Peter Henry Bruce (1692-1757) pubblicò il libro di memorie del marito che
era stato al servizio di varie nazioni, tra cui la Russia dal 1711 al 1724. In esse è
raccontata la morte di Alessio: Bruce era negli appartamenti dello zarevič quando «il
maresciallo Weyde uscì e mi ordinò di andare nel negozio di Mr. Bear, il farmacista, e di
dirgli di fare quella pozione forte di cui lui sapeva perché il principe era molto malato.
Quando riferii il messaggio a Mr. Bear, questi impallidì, si agitò, tremava e appariva in
preda a una gran confusione. Sorpreso, gli chiesi quale fosse il problema, ma lui non
riuscì a darmi risposta. Nel frattempo, lo stesso maresciallo entrò, anche lui confuso come
il farmacista, dicendo di fare molto in fretta perché il principe era molto malato per un
colpo apoplettico. Il farmacista consegnò una tazza d’argento con il coperchio, che il
maresciallo portò personalmente negli appartamenti del principe, barcollando per tutta la
strada come fosse ubriaco. Circa mezz’ora dopo, lo zar con tutti i suoi assistenti si ritirò
con il volto molto triste e, appena usciti, il maresciallo mi ordinò di stare
nell’appartamento del principe e di informarlo immediatamente in caso di qualsiasi
cambiamento. Là c’erano, in attesa, due medici, due chirurghi e l’ufficiale di guardia.
Mangiai quello che era stato apparecchiato per la cena del principe. Subito dopo i medici
furono chiamati a entrare dal principe, che stava lottando in preda alle convulsioni e, dopo
una penosa agonia, morì alle cinque pomeridiane» (in Memoirs, London 1782, libro VIII).
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ne sarebbe stato delle sue innovazioni e della sua nazione se dopo di lui si
continuava il suo indirizzo. Tutte le sue imprese sono state perfezionate
secondo le sue previsioni, la sua nazione è diventata celebre e rispettata in
quell’Europa da cui era prima divisa, mentre se Alessio avesse regnato,
tutto sarebbe stato perduto. Alla fine, quando si considera questa
catastrofe, i cuori sensibili fremono e quelli severi approvano.
Questo grande e terribile evento è ancora così vivo nel ricordo degli
uomini, e così spesso se ne parla con stupore, che è assolutamente
necessario esaminare ciò che ne dissero gli scrittori contemporanei. Uno di
quei famelici scrittori che prendono sfrontatamente il nome di storici, nel
suo libro dedicato al conte di Bruhl622, primo ministro del re di Polonia, il cui
nome può dare un certo peso a quanto egli afferma, si esprime come
segue: «Tutta la Russia è convinta che lo zarevič perì unicamente per il
veleno preparato di sua mano dalla matrigna». Quest’accusa è smentita
dalla confessione che fece lo zar al duca di Holstein, secondo la quale la
zarina Caterina gli aveva consigliato di rinchiudere in un chiostro il figlio
condannato.
A proposito del veleno che l’imperatrice in seguito propinò persino a
Pietro, suo sposo, questa leggenda si smentisce da sé semplicemente col
racconto dell’episodio del paggio e delle tavolette. È mai possibile che a un
uomo venga in mente di scrivere su una tavoletta: «Devo ricordarmi di far
rinchiudere mia moglie?» Sono questi dei dettagli che si possano
dimenticare e di cui si sia costretti a prender nota? Se Caterina avesse
veramente avvelenato il marito e il figliastro, avrebbe commesso anche altri
delitti. Ora, non solo non le si è mai rimproverato una crudeltà, ma fu
conosciuta unicamente per la sua dolcezza e per la sua indulgenza.
Occorre a questo punto mostrare quale fu la causa prima della condotta
di Alessio, della sua fuga, della sua morte e di quella dei suoi complici che
perirono per mano del boia. Fu l’abuso della religione, furono i preti e i frati,
e questa fonte di tanti mali è chiaramente indicata in alcune delle
confessioni di Alessio che abbiamo riferito e soprattutto in questa
espressione di cui lo zar Pietro si servì in una lettera a suo figlio: «Quelle
lunghe barbe potranno rigirarvi a loro piacimento»623.
Ecco quasi parola per parola, come le memorie di un ambasciatore a
Pietroburgo spiegano questa espressione:
«Parecchi ecclesiastici – egli dice – attaccati alla loro antica barbarie e
ancor più al potere che perdevano man mano che la nazione si faceva più
illuminata, languivano nell’attesa dell’avvento al trono di Alessio che
prometteva loro di farli cadere di nuovo in questa barbarie tanto agognata.
Di questo gruppo faceva parte Dosifej vescovo di Rostov624. Egli simulò una
622 Eléazar de Mauvillon (1712-1779) scrisse Histoire de Pierre Ier surnommé le grand,
empereur de toutes les Russies, libro pubblicato nel 1742 e dedicato a Heinrich conte di
Brühl (1700-1763), primo ministro del re Augusto III di Polonia.
623 Cfr. nota 603.
624 Dosifej Glebov (al secolo Diomid) fu consacrato archimandrita del monastero di S. Eutimio
di Suzdal’ nel 1710 e l’anno successivo vescovo di Rostov. Fermamente contrario alle
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rivelazione da parte di san Demetrio. Questo santo gli era apparso e gli
aveva assicurato a nome di Dio che a Pietro non restavano tre mesi da
vivere, che Evdokija, rinchiusa nel convento di Suzdal’ e monaca con il
nome di Elena, e con lei la principessa Marija, sorella del zar, dovevano
salire sul trono e regnare assieme a suo figlio Alessio. Evdokija e Marija
ebbero la debolezza di credere a questa impostura, anzi ne erano persuase
al punto che Elena nel suo convento, smise l’abito monacale, riprese il nome
di Evdokija, si fece dare della maestà e fece cancellare dalle pubbliche
preghiere il nome della sua rivale Caterina; ormai si mostrava in pubblico
soltanto rivestita dell’antico abito da cerimonia che portavano le zarine. La
tesoriera del convento si dichiarò contraria a questa iniziativa. Evdokija
rispose altezzosamente: “Pietro ha punito gli strel’cy che avevano
oltraggiato sua madre; mio figlio Alessio punirà chiunque insulti la sua”.
Essa fece rinchiudere la tesoriera nella sua cella. Un ufficiale, tale Stepan
Glebov625, fu introdotto nel convento, Evdokija ne fece lo strumento dei suoi
piani e lo legò a sé con dei benefici. Glebov diffuse la predizione di Dosifej
nella cittadina di Suzdal’ e dintorni. Frattanto trascorsero i tre mesi.
Evdokija rinfacciò al vescovo che lo zar era ancora in vita. “La colpa è dei
peccati di mio padre,” rispose Dosifej; “egli si trova in Purgatorio e mi ha
avvertito”. Subito Evdokija fa dire mille messe dei morti; Dosifej assicura
che sono efficaci. In capo a un mese viene ad annunciarle che suo padre ha
già la testa fuori del Purgatorio; un mese dopo il defunto sta dentro soltanto
fino alla cintola; alla fine egli ha nel Purgatorio soltanto i piedi, e quando
anche i piedi saranno liberati, che è la cosa più difficile, lo zar morrà senza
fallo.
«La principessa Marija, convinta da Dosifej, gli si concesse a condizione
che il padre del profeta uscisse immediatamente dal Purgatorio e che la
predizione si avverasse e Glebov continuò la sua relazione con l’ex-zarina.
«Fu principalmente sulla scorta di queste predizioni che lo zarevič
organizzò la propria fuga e si recò in terra straniera ad aspettare la morte di
suo padre. Ben presto tutto ciò fu scoperto. Dosifej e Glebov furono
arrestati; le lettere della principessa Marija a Dosifej e quelle di Elena a
Glebov furono lette in pieno senato. La principessa Marija fu rinchiusa a
Schlusselburg, l’ex-zarina fu trasferita in un altro convento nel quale fu
tenuta prigioniera. Dosifej, Glebov e tutti i complici di questa cabala inutile e
superstiziosa furono torturati come complici della fuga di Alessio. Il suo
confessore, il suo tutore e il suo maresciallo di corte perirono tutti tra i
supplizi».
Si vede dunque quale alto e funesto prezzo Pietro dovette pagare per la
felicità procurata al suo popolo, quanti ostacoli palesi e segreti dovette
riforme di Pietro I, aderì alla setta dei Raskol’niki (o Vecchi Credenti) e partecipò al
complotto per mettere sul trono Alessio (di cui aveva profetizzato l’ascesa come detto da
Voltaire). Fu arrestato subito dopo il processo allo zarevič e giustiziato il 17 marzo 1718.
Si racconta che fu torturato con la ruota e, quand’era morente, lo zar gli sputò in faccia. Il
suo corpo fu gettato nel fuoco e la testa fissata su un palo.
625 Cfr. nota 601.
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sormontare nel corso di una guerra lunga e difficile, di nemici all’estero e di
ribelli all’interno, mentre la metà della sua famiglia era aizzata contro di lui,
la maggioranza dei preti ostinatamente contraria alle sue iniziative, quasi
tutta la nazione da lungo tempo mal disposta contro la propria felicità di cui
ancora non si rendeva conto. Pregiudizi da distruggere nei cervelli,
malcontento da placare nei cuori. Bisognava che una nuova generazione,
formata dalle sue premure, si convertisse alfine all’idea di gloria e di felicità
che i suoi padri non avevano potuto sopportare.
Capitolo XI
LAVORI E INNOVAZIONI DEL 1718 E ANNI SUCCESSIVI
Durante questa terribile catastrofe fu chiaro che Pietro era il padre della
sua patria e considerava la nazione come la propria famiglia. I supplizi, con
cui era stato costretto a punire quella parte della nazione che voleva
impedire all’altra di essere felice, erano sacrifici a nome del pubblico per una
dolorosa necessità.
Fu nel 1718, epoca del diseredamento e della morte del suo figlio
maggiore, che egli procurò ai suoi sudditi il maggior numero di vantaggi con
la legislazione generale fino a quel momento sconosciuta, con le manifatture
e le fabbriche di ogni genere create o perfezionate, con i nuovi sviluppi di un
commercio che cominciava a diventare fiorente e con quei canali che
univano fiumi, mari e popoli che la natura ha separato. Non sono di quegli
eventi straordinari che affascinano il lettore comune, di quegli intrighi di
corte che solleticano la malignità, di quei grandi rivolgimenti che
interessano l’ordinaria curiosità degli uomini, ma sono i veri fattori della
pubblica felicità, che le menti filosofiche amano considerare.
Ci fu dunque un luogotenente generale della polizia di tutto l’impero
insediato a Pietroburgo a capo di un tribunale che svegliava al
mantenimento dell’ordine da un estremo all’altro della Russia. Lo sfarzo nel
vestire e i giochi d’azzardo, ancor più pericolosi del lusso, furono proibiti
severamente. Furono create scuole di aritmetica, che nel 1716 erano state
istituite in tutte le città dell’impero. Gli istituti per gli orfani e i trovatelli, già
cominciati, furono finiti, dotati e popolati.
Aggiungeremo qui tutte le utili iniziative già precedentemente progettate
e completate qualche anno dopo. Tutte le grandi città furono ripulite di
quell’odiosa moltitudine di mendicanti che pretendono di esercitare come
unico mestiere quello di importunare coloro che ne hanno uno e di
trascinare una vita miserabile e vergognosa alle spalle degli altri uomini,
abuso che altri Stati permettono anche troppo.
I ricchi furono costretti a costruire case regolari in Pietroburgo a seconda
della loro fortuna. Un provvedimento eccellente fu quello di far venire gratis
a Pietroburgo tutti i materiali per mezzo delle barche e dei carri che
tornavano vuoti dalle province vicine.
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Pesi e misure furono stabiliti e resi uniformi, come le leggi. Tale
uniformità, tanto e così inutilmente desiderata in Stati già da lungo tempo
civilizzati, fu introdotta in Russia senza difficoltà e senza malcontento,
mentre, a nostro avviso tutte queste utili iniziative sarebbero impossibili a
realizzarsi tra noi. Fu imposto un prezzo alle derrate di prima necessità: i
fanali che Luigi XIV era stato il primo a introdurre a Parigi, ignoti ancora
persino a Roma, illuminavano nottetempo la città di Pietroburgo626. Le
pompe contro gli incendi, le barriere nelle strade solidamente pavimentate,
tutto ciò che concerne la sicurezza, la pulizia e l’ordine, le facilitazioni per il
commercio interno, i privilegi concessi agli stranieri e la legislazione che
impediva l’abuso di tali privilegi, tutto fece sì che Mosca e Pietroburgo
prendessero un nuovo volto.
Furono migliorate più che mai le fabbriche d’armi e soprattutto quella
fondata dallo zar a dieci miglia da Pietroburgo; egli ne era il primo
intendente e sotto i suoi occhi lavoravano fino a mille operai. Egli andava a
impartire gli ordini personalmente a tutti gli imprenditori di mulini per
cereali, per polveri, per legna; ai direttori delle fabbriche di vele e cordami,
di mattoni, di ardesia; alle manifatture di tela. Dalla Francia gli giunsero
molti operai di ogni tipo: era il frutto del suo viaggio.
Egli creò un tribunale di commercio i cui membri erano per metà russi e
per metà stranieri, affinché tutti i fabbricanti e tutti gli artisti godessero
della stessa benevolenza. Un francese, con l’aiuto del principe Menšikov,
fondò a Pietroburgo una manifattura di splendide vetrerie. Un altro fece
eseguire degli arazzi di alta qualità sul modello di quelli dei Gobelins e ancor
oggi questa manifattura viene molto favorita. Un terzo riuscì nelle filature
d’oro e d’argento e lo zar dispose che sarebbero stati investiti in questa
manifattura non più di 4.000 marchi l’anno, sia d’oro che d’argento, affinché
il suo Stato non fosse troppo impoverito.
Egli concesse 30.000 rubli, cioè 150.000 lire francesi con tutto il
materiale e gli strumenti necessari, a chiunque apriva una manifattura di
panno e altre stoffe di lana. Questa utile liberalità gli consentì di vestire le
sue truppe con panno fatto nel suo Paese, mentre in precedenza lo si faceva
venire da Berlino e da altri Paesi stranieri.
A Mosca si fabbricavano tele belle come quelle d’Olanda e alla sua morte
c’erano già a Mosca e a Jaroslavl’ quattordici fabbriche di tela di lino e di
canapa.
In passato, allorché la seta si vendeva in Europa a peso d’oro, nessuno
avrebbe potuto immaginare che un giorno al di là del lago Ladoga, in un
clima freddissimo e in paludi sconosciute, sarebbe sorta una città opulenta e
magnifica, nella quale la seta persiana sarebbe stata lavorata come a
Ispahan. Pietro vi si provò e vi riuscì627. I giacimenti di ferro furono sfruttati
626 Nel 1718 Pietro il Grande approvò il progetto di illuminazione della nuova capitale e lo
stesso anno davanti al Palazzo reale furono accesi i primi quattro lampioni.
627 Mentre la seta era lavorata principalmente in Ucraina, il lino prevaleva al Nord e per il suo
colore bianco naturale e brillante era chiamato «la seta del Nord».
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meglio che mai. Si scoprirono alcune miniere d’oro e d’argento e fu creato
un consiglio delle miniere per controllare se lo sfruttamento dava più
profitto che spesa.
Per far prosperare tante manifatture, tante arti differenti e tante
iniziative, non era sufficiente concedere delle patenti e nominare degli
ispettori: bisognava che all’inizio lo zar vedesse tutto con i suoi occhi e
lavorasse persino con le sue mani, come in passato lo si era visto costruire
dei vascelli, equipaggiarli e guidarli. Quando si trattava di scavare dei canali
in terreni acquitrinosi e quasi impraticabili, lo si vedeva a volte mettersi a
capo dei lavoratori, scavare la terra e trasportarla lui stesso.
In quell’anno 1718 fece il progetto del canale e delle chiuse del Ladoga. Il
problema era di far comunicare la Neva con un altro fiume navigabile per
trasportare facilmente le mercanzie a Pietroburgo senza fare un largo giro
per il lago Ladoga dove erano troppo frequenti le tempeste e che spesso era
impraticabile alle barche628. Egli livellò personalmente il terreno: si
conservano ancora gli strumenti di cui si servì per rompere la terra e
trasportarla. Il suo esempio fu seguito da tutta la corte e accelerò un lavoro
che veniva considerato irrealizzabile. L’opera fu compiuta dopo la sua
morte: infatti nessuna delle sue imprese ritenuta possibile è stata
abbandonata.
Il grande canale di Kronštadt, che si può prosciugare senza difficoltà e nel
quale vengono carenati e riparati i vascelli da guerra, fu anch’esso
cominciato nel periodo delle procedure penali contro suo figlio.
Quello stesso anno costruì la nuova città di Ladoga. Ben presto tracciò
quel canale che unisce il mar Caspio con il golfo di Finlandia e con l’Oceano.
Le barche che hanno risalito il Volga cominciano con l’entrare nel corso di
questi due fiumi che Pietro mise in comunicazione: da questi fiumi,
attraverso un altro canale, si passa sul lago di Il’men’, successivamente si
entra nel canale di Ladoga, dove le mercanzie possono essere trasportate
via mare in tutte le parti del mondo.
Impegnato in questi lavori che venivano eseguiti sotto i suoi occhi, Pietro
estendeva le sue cure fino alla Kamčatka, all’estremità orientale del regno, e
fece costruire due fortezze in quel Paese che era stato per tanto tempo
ignorato dal resto del mondo. Nel frattempo degli ingegneri provenienti dalla
sua Accademia di marina fondata nel 1715 percorrevano già tutto l’impero
per rilevarne le carte esatte e per mettere sotto gli occhi di tutti gli uomini
quella vasta distesa di terre che egli aveva civilizzato e arricchito.
628 Particolarmente nei mesi autunnali, sia i laghi Ladoga e Onega sono spazzati dai venti da
ovest che possono provocare corte onde alte fino a 5 metri. La pericolosità per le navi era
dovuta anche ai fondali sabbiosi e alla presenza di detriti alle foci dei fiumi.
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Capitolo XII
COMMERCIO
Prima di lui il commercio con l’estero languiva quasi del tutto: egli lo fece
rivivere. È noto che il commercio ha mutato varie volte il suo percorso nel
mondo. Prima di Tamerlano, la Russia meridionale era l’emporio della Grecia
e persino delle Indie: i principali corrieri erano i Genovesi. Il Tanais e il
Boristene trasportavano i prodotti dell’Asia. Ma allorché Tamerlano, sul finire
del XIV secolo, conquistò il Chersoneso taurico, detto in seguito Crimea, e i
Turchi si furono impadroniti di Azov, questo ramo del commercio mondiale
fu distrutto. Pietro volle risuscitarlo impadronendosi di Azov. La sfortunata
campagna del Prut gli aveva fatto perdere questa città e con essa ogni
speranza di commerciare attraverso il Mar Nero: non gli restava che aprirsi
la strada per un commercio non meno vasto attraverso il Caspio. Già nel
XVI secolo e all’inizio del XVII, gli Inglesi, che avevano dato avvio al
commercio di Archangel’sk, avevano tentato la via del mar Caspio, ma tutti
questi tentativi erano stati vani.
Si è già detto che il padre di Pietro il Grande aveva fatto costruire da un
olandese un vascello per andare a trafficare da Astrachan’ fin sulle coste
della Persia: il vascello fu bruciato dal ribelle Sten’ka Rasin. Allora ogni
speranza di commerciare direttamente con i Persiani sfumò. Gli Armeni, che
sono i corrieri di questa parte dell’Asia, furono accolti in Astrachan’ da Pietro
il Grande e si fu costretti a passare per le loro mani lasciando loro tutto il
profitto del commercio; così avviene in India con i Baniani629; così si usa in
Turchia e in molti altri stati cristiani con gli Ebrei. Infatti, coloro che hanno
una sola risorsa diventano sempre molto abili nell’arte che è loro
necessaria, e gli altri popoli diventano spontaneamente tributari di un’abilità
di cui sono privi.
Pietro aveva già ovviato a questo inconveniente concludendo con
l’imperatore di Persia un trattato in virtù del quale tutta la seta non
assorbita dalle manifatture persiane sarebbe stata consegnata agli Armeni
di Astrachan’ per essere da questi trasportata in Russia.
I torbidi sopraggiunti in Persia distrussero ben presto questo accordo.
Vedremo in che modo lo scià o imperatore persiano Husayn, perseguitato
dai ribelli, implorò l’appoggio di Pietro e come Pietro, dopo aver sostenuto
guerre tanto dure contro i Turchi e gli Svedesi, andò a conquistare tre
province della Persia: ma qui parliamo soltanto del commercio.
COMMERCIO CON LA CINA
Pareva che l’iniziativa di commerciare con la Cina dovesse essere la più
vantaggiosa. Due immensi Stati confinanti, di cui ciascuno possiede ciò che
manca all’altro, sembrano trovarsi tutti e due nella felice necessità di
629 Casta indiana di commercianti che regolava il traffico delle merci nell’Oceano Indiano.
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stringere un utile legame, soprattutto dopo la pace solennemente giurata
tra l’impero russo e l’impero cinese nel 1619, secondo il nostro modo di
contare il tempo.
Le prime basi di questo commercio erano state gettate fin dal 1653. A
Tobol’sk si erano insediate delle compagnie di siberiani e delle famiglie di
Bukari stabilitisi in Siberia. Queste carovane passavano per le pianure dei
Calmucchi attraversavano successivamente i deserti fino alla Tartaria cinese
e realizzavano considerevoli guadagni. Tuttavia i disordini sopraggiunti nel
Paese dei Calmucchi e le controversie tra Russi e Cinesi per le questioni di
frontiera mandarono all’aria quest’impresa.
Dopo la pace del 1689 era naturale che le due nazioni si accordassero su
una località neutrale dove trasportare le mercanzie. I Siberiani, come del
resto tutti gli altri popoli, avevano più bisogno dei Cinesi di quanto i Cinesi
non ne avessero di loro, così fu chiesta all’imperatore di Cina
l’autorizzazione di inviare delle carovane a Pechino, autorizzazione che fu
ottenuta senza difficoltà all’inizio del nostro secolo.
È molto importante che l’imperatore K’hang-hsi avesse già permesso che
si insediasse in un sobborgo di Pechino una chiesa russa servita da qualche
prete siberiano, a carico dello stesso tesoro imperiale. K’hang-hsi aveva
avuto l’indulgenza di costruire questa chiesa a vantaggio di parecchie
famiglie della Siberia orientale, alcune delle quali erano state fatte
prigioniere prima della pace del 1689, altre erano famiglie di profughi.
Nessuna di queste famiglie aveva acconsentito a far ritorno in patria dopo la
pace di Nipchou630: il clima di Pechino, la mitezza delle abitudini cinesi, la
facilità di procurarsi con poco lavoro una vita comoda avevano fatto sì che si
attaccassero tutte alla Cina. La loro piccola chiesa greca non metteva a
repentaglio la tranquillità dell’impero come hanno fatto le chiese dei gesuiti.
D’altronde, l’imperatore K’hang-hsi favoriva la libertà di coscienza: questa
tolleranza fu sempre osservata in tutta l’Asia, come lo era stata in passato
in tutto il mondo fino ai tempi dell’imperatore romano Teodosio I. Queste
famiglie russe, essendosi in seguito mescolate alle famiglie cinesi, hanno
abbandonato il cristianesimo, ma la chiesa rimane ancora.
Fu stabilito che le carovane di Siberia avrebbero potuto usufruire di
questa chiesa quando fossero venute a portare a Pechino pellicce o altri
articoli di commercio. Il viaggio, il soggiorno e il ritorno richiedevano tre
anni. Il principe Gagarin, governatore di Siberia, fu per vent’anni a capo di
questo commercio631. A volte le carovane erano molto numerose ed era
630 Cfr. nota 229.
631 Il principe Matvej Petrovich Gagarin (1659?-1721) fu governatore di Nerčinsk (1693-95)
poi, sospettato di frode, fu mandato da Pietro I, nel 1701, a sorvegliare la costruzione del
canale di collegamento tra i fiumi Volga e Don. Nel 1707 fu nominato comandante e
destinato a rafforzare le difese di Mosca contro gli Svedesi e nel 1708, con l’introduzione
delle province, fu nominato governatore della Siberia (incarico ufficializzato nel 1711)
dove fece costruire la città di Tobol’sk. Con questi incarichi egli diventò uno degli uomini
più ricchi del Paese, finché fu arrestato per abusi contro lo Stato, appropriazione di fondi
pubblici, concussione, corruzione, minacce, furto di merce… Tutti i suoi beni furono
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difficile tenere a freno la gentaglia di cui erano in gran parte composte.
Bisognava passare per le terre di un Lama, una specie di sovrano la cui
residenza si trova sul fiume Orkhon, e che viene chiamato il Koutoukas632: è
un vicario del Dalai Lama resosi indipendente mutando in alcuni particolari
la religione nazionale nella quale l’idea dominante è l’antica idea indiana
della metempsicosi633. Questo prete si può paragonare ai vescovi luterani di
Lubecca e di Osnabrück che hanno scrollato il giogo del vescovo di Roma. Il
prelato tartaro fu offeso dalle carovane e lo furono anche i Cinesi. Il
commercio fu nuovamente turbato da questa condotta scorretta e i Cinesi
minacciarono di precludere alle carovane l’ingresso nel loro impero se non si
metteva fine ai disordini. Il commercio con la Cina era a quel tempo molto
vantaggioso per i Russi: essi portavano indietro oro, argento e pietre
preziose. Il più grosso rubino che si conosca fu portato dalla Cina al principe
Gagarin, passò quindi nelle mani di Menšikov e costituisce attualmente un
ornamento della corona imperiale.
Le vessazioni del principe Gagarin nocquero molto al commercio che lo
aveva arricchito e alla fine furono la sua rovina: egli fu messo in stato
d’accusa davanti alla camera di giustizia istituita dallo zar e gli fu tagliata la
testa un anno dopo la condanna dello zarevič e l’esecuzione di quasi tutti
quelli che erano in rapporto con il principe.
Contemporaneamente l’imperatore K’hang-hsi, sentendo che le forze lo
abbandonavano e avendo sperimentato che i matematici europei erano più
sapienti di quelli cinesi, pensò che anche i medici europei valessero più dei
suoi e fece pregare lo zar, tramite gli ambasciatori che tornavano da Pechino
a Pietroburgo, di mandargli un medico. Si trovò a Pietroburgo un chirurgo
inglese che si offrì di accettare l’incarico: egli partì con un nuovo
ambasciatore e con Lorenz Lange che ci ha lasciato una descrizione del
viaggio. L’ambasciata fu magnificamente ricevuta e ospitata. Il chirurgo
inglese trovò l’imperatore in buona salute e si fece la fama di medico
abilissimo. La carovana al seguito di questa ambasceria guadagnò molto,
ma nuovi eccessi commessi da questa stessa carovana indisposero a tal
punto i Cinesi che Lange, allora residente dello zar presso l’imperatore di
Cina, fu licenziato e con lui furono licenziati tutti i commercianti russi.
L’imperatore K’hang-hsi morì, gli succedette suo figlio YungCheng 634, che
era saggio come suo padre ma più deciso – fu lo stesso che cacciò i gesuiti
dall’impero come aveva fatto lo zar nel 1718 – e che concluse con Pietro un
confiscati; Gagarin fu torturato e impiccato e il suo corpo lasciato appeso per gli uccelli.
632 Koutoukas potrebbe essere il nome e non un titolo, poiché nel 1777 l’imperatore Qianlong
(nipote di K’hang-hsi, cfr. nota 58) ordinò a Kutuku Fu (Huthok-thu in tibetano), alto
Lama tibetano, un’immagine in seta del Buddha per scopi rituali.
633 Si tratta della dea Mais, preposta alla cura dei morti e alla loro purificazione mediante il
trapasso in corpi via via migliori che Vishnu raccoglie poi nel numero degli eletti. Non è
escluso però che Voltaire si riferisse alla più famosa dea Kali, le cui quattro braccia
reggono strumenti di distruzione e purificazione in quanto considerata una dea che, dando
la morte, porta a una nuova forma di vita.
634 È Yongzheng (1678-1735) che prima di salire al trono nel 1723 si chiamata Yinzhen, era il
quarto figlio di K’hang-hsi.
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trattato in base al quale le carovane russe avrebbero commerciato
unicamente sulle frontiere dei due imperi. Soltanto i corrieri spediti in nome
del sovrano o della sovrana di Russia avevano il permesso di entrare a
Pechino, dove venivano alloggiati in un vasto edificio che l’imperatore
K’hang-hsi aveva assegnato in passato agli inviati della Corea. Da tempo
non sono partiti né carovane né corrieri per la città di Pechino. Il commercio
languisce ma è pronto a risorgere.
COMMERCI DI PIETROBURGO E DEGLI ALTRI PORTI EUROPEI
Già da allora si vedevano approdare nella nuova città imperiale più di
duecento navi straniere all’anno. Questo commercio si è incrementato di
giorno in giorno, e spesso ha fruttato alla corona più di cinque milioni
(moneta francese). Era una cifra molto superiore all’interesse dei fondi che
questa fondazione era costata. Quest’attività commerciale ridusse di molto
quella di Archangel’sk ed è esattamente quello che il suo fondatore voleva,
dato che Archangel’sk è troppo impraticabile, troppo lontana da tutte le
nazioni, e anche perché un commercio che si svolge sotto gli occhi attenti di
un sovrano è sempre più vantaggioso. Quello della Livonia rimase sempre
allo stesso punto. In generale, la Russia ha commerciato con successo: ogni
anno sono entrati nei suoi porti da mille a milleduecento navi, e Pietro ha
saputo conciliare l’utilità con la gloria.
Capitolo XIII
LEGGI
Come tutti sanno, le buone leggi sono rare ma la loro esecuzione lo è
ancora di più. Più uno Stato è vasto e comprende varie nazionalità, più è
difficile riunirle sotto una stessa legislazione. Lo zar Pietro aveva fatto
redigere un codice con titolo Uloženie635, che era stato anche stampato ma
era ben lontano dall’essere sufficiente.
Nei suoi viaggi, Pietro aveva raccolto il materiale per ricostruire quel
grande edificio che cedeva da tutte le parti: trasse degli insegnamenti dalla
Danimarca, dalla Svezia, dall’Inghilterra, dalla Germania, dalla Francia, e da
queste nazioni diverse prese quello che gli parve convenire alla sua.
Esisteva una corte di bojardi che giudicava in ultima istanza le questioni
contenziose. A essa davano accesso il rango e la nascita, mentre avrebbe
dovuto darlo la sapienza. Quella corte fu sciolta.
Egli creò un procuratore generale al quale affiancò quattro assessori in
ognuno dei governatorati dell’impero. Questi funzionari ebbero l’incarico di
vegliare sulla condotta dei giudici, le cui sentenze furono sottoposte al
controllo di un senato istituito dallo zar. Ognuno dei giudici fu dotato di una
635 Sull’originale Oulogénie. Uloženie significa “codice” in russo.
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copia dell’Uloženie con le aggiunte e i cambiamenti necessari, in attesa che
si potesse redigere un corpo completo di leggi.
Lo zar proibì a tutti i giudici, pena la morte, di accettare ciò che noi
chiamiamo propine636. Da noi non sono rilevanti, ma sarebbe bene che non
ce ne fossero affatto. Le maggiori spese della nostra giustizia sono
rappresentate dal salario dei subalterni, dalla congerie delle scritture e
soprattutto dalla gravosa usanza, invalsa nelle nostre procedure, di
comporre righe di tre parole ognuna, sommergendo così sotto un enorme
cumulo di carta la fortuna dei cittadini. Lo zar ebbe cura che fossero limitate
le spese e fosse snellita la giustizia. Giudici e cancellieri riscuotevano un
salario dall’erario pubblico e fu loro impossibile comprare le cariche.
Fu soprattutto nell’anno 1718, mentre celebrava solennemente il
processo di suo figlio, che egli istituì queste regole. La maggior parte delle
leggi che egli fissò erano ricavate da quelle svedesi, e lo zar non ebbe
alcuna difficoltà ad ammettere nei tribunali i prigionieri svedesi che
conoscevano la giurisprudenza del loro Paese e che, avendo imparato la
lingua dell’impero, acconsentirono a rimanere in Russia.
Le cause dei privati furono dichiarate di competenza del governo della
provincia e dei suoi assessori, successivamente ci si poteva appellare al
senato, e se qualcuno, dopo la condanna del senato, si appellava allo zar in
persona, veniva dichiarato degno di morte nel caso l’appello fosse ingiusto.
Tuttavia, per moderare il rigore di questa legge, egli creò un maestro
generale delle istanze con l’incarico di ricevere le petizioni di tutti coloro che
avevano in pendenza, sia presso il senato che presso le corti inferiori, delle
questioni a proposito delle quali la legge non si era ancora pronunciata.
Infine, nel 1722, lo zar completò il suo nuovo codice e proibì ai giudici,
pena la morte, di allontanarsene sostituendo la loro privata opinione alla
legge generale. Questa legge terribile fu affissa nei tribunali dell’impero,
dove rimane tuttora.
Lo zar provvedeva a creare tutto. Persino la società era opera sua. Egli
regolò il rango tra gli uomini a seconda del loro funzioni, dagli ammiragli e
dai marescialli fino ai semplici portinsegna, senza alcun riguardo per i natali.
Anzi teneva sempre presente, con lo scopo costante di insegnarlo alla
nazione, che le benemerenze erano da preferirsi ai nobili natali. Anche per
le donne fu stabilito il rango e chiunque in un’assemblea prendesse il posto
che non gli spettava pagava un’ammenda.
Secondo una disposizione più utile, ogni soldato nominato ufficiale
diventava anche gentiluomo e ogni bojardo incorso nei rigori della giustizia
diventava plebeo.
Dopo la redazione di queste leggi e di questi regolamenti, avvenne che
l’aumento del commercio, l’incremento di città e ricchezze, la popolazione
dell’impero, le nuove iniziative, la creazione di nuove cariche ebbero come
636 Il termine francese è «épices», spezie. La propina, o sportula, era un compenso
anticamente corrisposto ai giudici, poi fu elargito anche ai professionisti senza clienti o
che compivano uffici non specificamente pagati.
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necessaria conseguenza una quantità di nuove questioni e di casi imprevisti
che erano la conseguenza del successo stesso di Pietro nella riforma
generale del suo Stato.
L’imperatrice Elisabetta completò il corpo di leggi cominciato dal padre e
tali leggi risentono della dolcezza del suo regno.
Capitolo XIV
RELIGIONE
Nello stesso periodo Pietro si impegnava più che mai a riformare il clero.
Aveva abolito il patriarcato, e quest’atto di autorità non era certo valso ad
attirargli le simpatie del clero. Egli voleva che l’amministrazione imperiale
fosse onnipotente e quella ecclesiastica rispettata e sottomessa. Il suo piano
era di stabilire un consiglio ecclesiastico riunito in permanenza, dipendente
dal sovrano, che non promulgasse per la Chiesa altre leggi se non quelle
approvate dal signore di tutto lo Stato, cui anche la Chiesa fa parte. In
quest’impresa fu coadiuvato da un arcivescovo di Novgorod chiamato Feofan
Prokopovič637, ossia figlio di Procopio.
Questo prelato era un sapiente e un saggio. I viaggi compiuti in varie
parti d’Europa lo avevano messo in guardia contro gli abusi che vi si
commettono. Lo zar, che ne era stato anch’egli spettatore, aveva in
qualunque iniziativa il grande vantaggio di poter liberamente scegliere l’utile
evitando il rischioso. Nel 1718 e nel 1719 collaborò personalmente con
l’arcivescovo. Fu insediato un sinodo permanente composto di dodici
membri, vescovi o archimandriti, tutti designati dal sovrano. In seguito, il
collegio salì fino a quattordici membri.
Le ragioni di questa istituzione furono esposte dallo zar in un discorso
preliminare. Ecco, tra i suoi motivi, il più degno di nota e il più grande: «Che
sotto l’amministrazione di un collegio ecclesiastico non sono da paventare i
torbidi e le sollevazioni che potrebbero verificarsi sotto la guida di un unico
capo ecclesiastico. Che inoltre il popolo, sempre incline a superstizione,
vedendo da un lato il capo dello Stato e dall’altro il capo della Chiesa,
potrebbe pensare che esistano effettivamente due poteri». A proposito di
questo punto fondamentale egli cita le annose divisioni tra Stato e Chiesa
che hanno insanguinato tanti regni.
Lo zar pensava e diceva pubblicamente che il principio dei due poteri
fondato sull’allegoria delle due spade, che si trova negli Apostoli, è un’idea
637 Sull’originale «Théofane Procop, ou Procopvitz». Feofan Prokopovič (al secolo Elisij; 16811736) fu un celebre predicatore e teologo di origini ucraine che aiutò Pietro I nella
sostituzione del patriarcato con il santo sinodo e a riformare l’istruzione ecclesiastica. Fu
consacrato vescovo nel 1718, poi arcivescovo di Pskov nel 1720 e di Novgorod nel 1725.
Con lo zar scrisse il Duchovnyj regljament (Regolamento spirituale, 1721) e in favore
dell’autocrazia russa Pravda voli monaršej (La legge della volontà del monarca, 1722), ma
lasciò anche scritti di poetica e retorica.
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assurda638.
A questo tribunale lo zar conferì il potere di regolare tutta la disciplina
ecclesiastica, di esaminare i costumi e l’idoneità di coloro che il sovrano
nomina alla carica episcopale, di giudicare in ultima istanza le cause
religiose per le quali in passato ci si appellava al patriarca, di controllare gli
introiti dei monasteri e la distribuzione delle elemosine.
Quest’assemblea ebbe il nome di santissimo sinodo, titolo che in origine
spettava al patriarca. Lo zar in pratica istituì di nuovo la dignità patriarcale,
ma divisa tra quattordici membri tutti dipendenti dal sovrano e che
prestavano tutti il giuramento di obbedienza, giuramento che non prestava
il patriarca. I membri di questo santo sinodo, riuniti, avevano grado pari a
quello dei senatori e, come il senato, dipendevano dal sovrano.
La nuova amministrazione e il codice ecclesiastico entrarono in vigore ed
ebbero forma definitiva solo quattro anni dopo, nel 1722. Pietro volle che il
sinodo gli presentasse prima coloro che giudicava più degni della carica.
L’imperatore sceglieva il vescovo e il sinodo lo consacrava. Spesso Pietro
presiedeva l’assemblea639. Un giorno che bisognava proporre un vescovo, il
sinodo fece notare che ancora non c’erano da presentare allo zar che degli
ignoranti. «Ebbene, – disse questi, – non resta che scegliere il più
galantuomo; varrà quanto un sapiente».
Si noti che nella Chiesa greca non esistono quelli che da noi si chiamano
abati secolari. Il collarino da prete è noto unicamente come fonte di ridicolo,
ma in virtù di un altro abuso, poiché è detto che tutto sia abuso a questo
mondo, i prelati provengono dall’ordine monastico. I primi monaci non
erano altro che dei laici, devoti gli uni, fanatici gli altri, che si ritiravano in
solitudine. A un certo punto furono riuniti e dotati di una regola da San
Basilio, pronunciarono dei voti, furono considerati come l’ultimo gradino
della gerarchia, dal quale bisogna passare per ascendere alle alte cariche.
Ciò fece sì che la Grecia e l’Asia pullulassero di monaci. La Russia ne era
invasa: erano ricchi, potenti e, sebbene molto ignoranti, all’avvento di Pietro
erano quasi gli unici che sapessero scrivere. Nei primi tempi, stupefatti e
scandalizzati dalle innovazioni che Pietro introduceva in tutti i campi, ne
avevano abusato. Nel 1703 lo zar si era visto costretto a proibire ai monaci
l’uso dell’inchiostro e della penna: occorreva un permesso esplicito
dell’archimandrita, che doveva rispondere di coloro ai quali lo concedeva.
638 Si allude ai versetti Lc 22,35-38 tuttora oggetto di discussioni teologiche: «[Cristo] Poi
disse: “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato
qualcosa?”. Risposero: “Nulla”. Ed egli soggiunse: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e
così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico:
deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti
tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due
spade”. Ma egli rispose “Basta!”» Alcuni interpretano le due spade degli apostoli come i
due poteri, temporale e spirituale, della Chiesa, altri come le tavole della Legge ricevute
da Mosè, altri ancora non accettano che in esse vi si veda un’allegoria.
639 È questa un’informazione non veritiera che Voltaire aveva dato negli Aneddoti sullo zar
Pietro il Grande e che ha corretto nella Prefazione (cfr. testo e nota 51): Pietro non
partecipò mai al sinodo, limitandosi a eleggere un suo rappresentante.
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Pietro volle che tale disposizione fosse mantenuta. Dapprima fissò che si
potesse entrare nell’ordine monastico all’età di cinquant’anni; ma era troppo
tardi, la vita umana è troppo corta, non c’era tempo di arrivare alla carica
episcopale. Lo zar decise, assieme al suo sinodo, che sarebbe stato lecito
farsi monaco passati i trent’anni, ma mai prima, e vietò ai militari e ai
contadini di ritirarsi in un convento, tranne che nel caso di un ordine
espresso dell’imperatore o del sinodo. In nessun caso un uomo sposato può
essere accolto in un monastero, neppure dopo il divorzio, a meno che anche
la sua sposa non prenda il velo con pieno consenso e che non ci siano figli.
Chiunque sia al servizio dello Stato non può farsi monaco se non con
esplicito permesso. Ogni monaco deve esercitare qualche mestiere con le
proprie mani. Le religiose non debbono mai lasciare il monastero: sono
tonsurate all’età di cinquant’anni come le diaconesse della Chiesa primitiva
e se, prima di aver ricevuto la tonsura, vogliono sposarsi, non solo ne hanno
il permesso ma vengono incoraggiate, regola mirabile in un Paese dove la
popolazione è molto più necessaria dei monasteri.
Pietro volle che le sfortunate fanciulle che Dio ha fatto nascere per
popolare lo Stato e che, per un malinteso senso di devozione, seppelliscono
in un chiostro le generazioni di cui dovrebbero esser madri, fossero almeno
di qualche utilità alla società che hanno tradito: ordinò che fossero tutte
occupate in lavori manuali convenienti al loro sesso, L’imperatrice Caterina
si assunse l’incarico di far venire delle operaie dal Brabante640 e dall’Olanda,
le distribuì nei monasteri e ben presto vi si fecero dei lavori di cui si
adornarono Caterina e le dame di corte.
Non c’è forse nulla al mondo che sia più saggio di tutte queste istituzioni,
ma ciò che merita attenzione nei secoli è il regolamento che Pietro sostenne
personalmente e presentò al sinodo nel 1724. Lo assistette in ciò Feofan
Prokopovič. In questo scritto si fa una dotta esposizione dell’antica
istituzione ecclesiastica: l’ozio monastico è combattuto con vigore, il lavoro
non è soltanto raccomandato ma reso obbligatorio e la principale
occupazione dev’essere quella di dedicarsi ai poveri. Vi si ordina che i soldati
invalidi siano distribuiti nei monasteri, che ci siano dei religiosi incaricati di
aver cura di loro, che i più robusti coltivino le terre di proprietà del
convento. La stessa cosa ordina per i monasteri femminili: le più robuste
debbono aver cura del giardino, le altre debbono assistere donne e fanciulle
malate che sono portate nel monastero dalle zone circostanti. Lo zar si
addentra fin nei minimi dettagli dei vari servizi: destina alcuni monasteri
dell’uno e dell’altro sesso ad accogliere gli orfani e a educarli.
Chi legge questa ordinanza di Pietro il Grande del 31 gennaio 1724 ha
l’impressione che sia stata composta a un tempo da un ministro di Stato e
da un padre della Chiesa.
Quasi tutte le usanze della Chiesa russa differiscono dalle nostre. Tra noi,
appena un uomo è suddiacono, gli è vietato il matrimonio ed è per lui un
sacrilegio accrescere la popolazione della sua patria. In Russia, al contrario,
640 Regione storica dei Paesi Bassi, all’incirca corrispondente al Belgio.
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appena un uomo è ordinato suddiacono ha l’obbligo di prendere moglie; può
diventare prete e arciprete, ma per diventare vescovo occorre essere
vedovo o monaco.
Pietro proibì a tutti i curati di consacrare al servizio della Chiesa più d’uno
dei loro figli, nel timore che una famiglia troppo numerosa tiranneggiasse la
parrocchia: anzi fu permesso di usare non più di un figlio solo quando la
parrocchia stessa lo richiedeva. È evidente che, sino nei minimi dettagli di
queste ordinanze ecclesiastiche, tutto è destinato al bene dello Stato e vi si
prendono tutte le misure possibili affinché i preti siano rispettati senza
essere pericolosi e non siano né umiliati né potenti.
In un curioso memoriale redatto da un ufficiale molto amato da Pietro il
Grande, trovo scritto che un giorno si stava leggendo al principe un capitolo
de The Spectator inglese641 in cui si tracciava un parallelo tra lui e Luigi XIV:
dopo averlo ascoltato lo zar disse: «Non credo di meritare la preferenza che
mi viene accordata su quel monarca, ma ho la fortuna di essergli superiore
in un punto essenziale: ho costretto il mio clero all’obbedienza e alla pace,
mentre Luigi XIV si è lasciato sottomettere dal suo».
Un principe che trascorreva le sue giornate fra le fatiche della guerra e le
notti a redigere tante leggi, a civilizzare un così vasto impero, a portare
avanti tante immense fatiche nello spazio di duemila leghe, aveva bisogno
di distrazioni. I divertimenti di quei tempi non potevano essere né così nobili
né così raffinati come sono diventati in seguito. Non ci si deve stupire che
Pietro si divertisse con la festa dei cardinali di cui abbiamo già parlato e con
qualche altro svago dello stesso genere. Talora ne faceva le spese la Chiesa
romana, per la quale egli aveva un’avversione comprensibile in un principe
di rito greco che aspira a essere padrone nel suo Stato. Spettacoli analoghi
egli dette a spese dei monaci della sua patria, ma solo di quelli antichi che
voleva coprire di ridicolo mentre riformava quelli nuovi.
Si è già visto che prima della promulgazione delle leggi ecclesiastiche,
aveva fatto papa uno dei suoi buffoni e aveva celebrato la festa del
conclave. Questo buffone che rispondeva al nome di Šotov, aveva
ottant’anni. Lo zar architettò di fargli sposare una vedova sua coetanea e di
celebrare solennemente le nozze. Fece fare l’invito da quattro balbuzienti,
dei vecchi decrepiti accompagnavano la sposa, quattro fra gli uomini più
grassi della Russia fungevano da lacchè, l’orchestra aveva preso posto su un
carro tirato da alcuni orsi che venivano pungolati con delle punte di ferro e
che con i loro mugolii facevano un accompagnamento degno della musica
che si suonava sul carro. Gli sposi furono benedetti nella cattedrale da un
prete sordo e cieco cui avevano fatto inforcare un paio di occhiali. La
processione, il matrimonio, il banchetto di nozze, la cerimonia con cui gli
sposi furono svestiti per la notte e messi a letto, tutto era in armonia col
tono buffonesco di quello svago.
641 Quotidiano inglese uscito dal marzo 1711 al dicembre 1712. Le sue ristampe, tradotte
anche in francese con il titolo Spectateur anglais, circolarono per molti anni dopo la
chiusura.
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Una festa come questa potrà sembrare molto strana, ma lo è più dei
nostri passatempi di carnevale? Sono forse più belle da vedere cinquecento
persone con maschere orribili sul volto e vestiti ridicoli sul corpo che
saltellano tutta la notte in una sala senza scambiare parola?
Le nostre antiche feste quella dei pazzi, quella dell’asino, quella dell’abate
dei becchi che si celebrava in chiesa, erano forse più dignitose? E dalle
nostre commedie della Mère sotte642 traspare forse un genio superiore?
Capitolo XV
NEGOZIATI DI ÅLAND. MORTE DI CARLO XII. PACE DI NEUSTADT
Le grandiose imprese dello zar, la cura minuziosa dell’impero e l’infelice
processo del principe Alessio non erano i soli affari che lo tenessero
occupato: mentre badava alle questioni interne della nazione, bisognava
premunirsi all’esterno. La guerra con la Svezia continuava sempre ma
fiaccamente, rallentata dalla speranza di una prossima pace.
È opinione comune che nel 1717 il cardinale Alberoni, primo ministro di
Filippo V re di Spagna, e il barone di Görtz, che ormai dominava Carlo XII,
ambissero a mutare il volto dell’Europa avvicinando Pietro e Carlo,
detronizzando Giorgio I re d’Inghilterra e rimettendo Stanislao sul trono di
Polonia mentre l’Alberoni avrebbe conferito a Filippo, suo sovrano, la
reggenza della Francia. Come abbiamo visto, Görtz aveva messo a parte dei
suoi progetti lo zar in persona; quanto all’Alberoni, aveva intavolato
negoziati col principe Kurakin, ambasciatore dello zar a Leida, tramite
l’ambasciatore di Spagna Beretti Landi che era, come il cardinale stesso, un
mantovano trapiantato in Spagna643.
Costoro erano stranieri che volevano sconvolgere tutto a vantaggio di
sovrani di cui non erano nati sudditi, o meglio a proprio vantaggio. Carlo XII
si lasciò tentare da tutte queste proposte mentre lo zar si limitò a
esaminarle. Sin dal 1716 Pietro si era solo moderatamente impegnato
contro la Svezia, più per costringerla a ottenere la pace mediante la
cessione delle province conquistate che per schiacciarla definitivamente.
Grazie alla sua instancabile attività, il barone di Görtz aveva già ottenuto
dallo zar che inviasse dei plenipotenziari nell’isola di Åland allo scopo di
trattare la pace. Lo scozzese Bruce, gran maestro d’artiglieria in Russia644, e
642 Le jeu du Prince des Sots et Mère Sotte (La rappresentazione del Principe dei Matti e
Mamma Matta) è un’opera teatrale satirica del poeta Pierre Gringore (1475?-1538?) in cui
viene preso di mira papa Giulio II, avversario del re di Francia.
643 Sull’originale Baretti Landi. Lorenzo Verzuso Beretti Landi, marchese di Castelletto
Scazzoso (1651-1725) era un diplomatico nato a Piacenza che diventò segretario di Stato
e poi primo ministro dei Gonzaga di Mantova, per i quali fu a Venezia, in Polonia, in
Germania e a Roma. Dal 1702 fu ministro plenipotenziario del re Filippo V di Spagna e per
lui nel 1716 si recò in Olanda a firmare la pace dell’Aia (1720).
644 James Bruce (o, in russo, Jakov Vilinovič Brjus; 1669-1735) fu un feldmaresciallo russo,
di lontane origini scozzesi e fratello di Robert Bruce, primo governatore militare di San
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il celebre Osterman645, che doveva essere poi a capo dei negoziati, giunsero
alla conferenza nel periodo in cui lo zarevič veniva arrestato a Mosca. Görtz
e Gyllenborg, rappresentanti di Carlo XII, si trovavano già alla conferenza
ed erano entrambi impazienti di riavvicinare questo principe a Pietro e di
vendicarsi del re d’Inghilterra. La cosa più strana è che esisteva una
conferenza ma non un armistizio. La flotta dello zar continuava a incrociare
lungo le coste del Svezia e faceva degli sbarchi: con queste ostilità lo zar
intendeva affrettare la conclusione di una pace tanto necessaria alla Svezia
e che doveva fruttare al suo vincitore tanta gloria.
Malgrado le piccole ostilità che ancora duravano, già erano manifesti tutti
i segni della prossima pace. I preliminari erano quegli atti di generosità che
sono più efficaci delle firme. Lo zar lasciò libero senza riscatto il maresciallo
Rehnskiöld che aveva preso prigioniero personalmente, e il re di Svezia
restituì nello stesso modo i generali Trubeckoj e Golovin prigionieri in Svezia
sin dalla giornata di Narva.
I negoziati progredivano: nel nord Europa tutto stava per cambiare, Görtz
proponeva allo zar l’annessione del Meclemburgo, Il duca Carlo che
possedeva quel ducato aveva sposato una figlia dello zar Ivan, fratello
maggiore di Pietro. La nobiltà del suo Paese s’era sollevata contro di lui.
Pietro disponeva di un esercito nel Meclemburgo e prendeva le parti di quel
principe, che considerava suo genero. Il re d’Inghilterra ed elettore di
Hannover si dichiarava dalla parte dei nobili. Assicurare il Meclemburgo a
Pietro, già padrone della Livonia e che sarebbe diventato il più potente
elettore di Germania, era un altro modo di umiliare il re d’Inghilterra. Al
duca di Meclemburgo veniva offerto in cambio il ducato di Curlandia e una
parte della Prussia tolta alla Polonia, dove sarebbe tornato il re Stanislao.
Brema e Verden sarebbero dovute spettare alla Svezia, ma l’unico modo di
toglierle al re Giorgio I era la forza delle armi. Il progetto di Görtz era
dunque che Pietro e Carlo, uniti non solo da una pace ma da un’alleanza
offensiva, inviassero un esercito in Scozia. Carlo XII dopo la conquista della
Norvegia avrebbe dovuto invadere personalmente la Gran Bretagna, dove si
illudeva di eleggere un nuovo re dopo averne fatto uno in Polonia. Il
cardinale Alberoni prometteva sussidi a Pietro e a Carlo. Il re Giorgio,
cadendo, avrebbe trascinato probabilmente nella caduta il reggente di
Francia suo alleato il quale, rimanendo senza appoggio, restava in balia
Pietroburgo. Partecipò alle campagne militari di Pietro contro gli Ottomani e contro gli
Svedesi. Bruce era molto considerato anche come naturalista, astronomo (fu lui a fondare
il primo osservatorio russo a Mosca nel 1702) e alchimista.
645 Heinrich Johann Friedrich Ostermann (in russo: Andrej Ivanovič Osterman; 1686-1747) fu
un diplomatico russo di nascita tedesca che servì quattro zar (Pietro I, Caterina I, Pietro
II, Anna). Diventato segretario dell’ammiraglio olandese Cornelis Kruse, emigrò in Russia
e, grazie alle conoscenze delle lingue e all’abilità diplomatica, fu presto nominato da Pietro
I intendente di Boris Šeremetev e poi segretario di Pëtr Šafirov, coi quali e con von Görtz
concluse la pace del Prut (1711). Fu artefice della pace di Neustadt/Nystad (1721) e in
seguito ebbe numerosi incarichi, sia in politica interna che in diplomazia, e rafforzò
insieme al conte James Bruce e a Peter Lacy le fortificazioni costiere del nord della Russia.
Coinvolto nel colpo di Stato di Elisabetta di Russa (1741) fu esiliato in Siberia.
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della Spagna vittoriosa e della Francia che si sarebbe sollevata.
Alberoni e Görtz si credevano sul punto di sconvolgere l’Europa da un
capo all’altro. Una palla di colubrina sparata a caso dai bastioni di
Fredrikshald646 in Norvegia, mandò all’aria tutti questi piani: Carlo XII fu
ucciso647, la flotta spagnola fu sconfitta dagli Inglesi; la congiura suscitata in
Francia fu scoperta e sventata; Alberoni fu cacciato dalla Spagna, Görtz fu
decapitato a Stoccolma e di tutta la terribile congiura appena cominciata il
solo potente superstite fu lo zar il quale, non essendosi compromesso con
nessuno, dettò legge a tutti i vicini.
Dopo la morte di Carlo XII, in Svezia cambiò tutto. Egli era stato
dispotico, sua sorella Ulrica fu eletta regina solo a condizione di rinunciare al
dispotismo. Egli aveva progettato di unirsi con lo zar contro l’Inghilterra e i
suoi alleati, il nuovo governo svedese si associò con questi alleati contro lo
zar.
In realtà la conferenza di Åland non fu sciolta, ma la Svezia, alleata
dell’Inghilterra, sperò che le flotte inglesi inviate nel Baltico le avrebbero
procurato una pace più vantaggiosa. Le truppe dello Hannover invasero i
domini del duca di Meclemburgo648, ma le truppe dello zar le ricacciarono.
Egli manteneva altre truppe in Polonia, teneva a bada nello stesso tempo
i fautori di Augusto e quelli di Stanislao, e nei confronti della Svezia teneva
pronta una flotta destinata a fare uno sbarco sulle coste o a costringere il
governo svedese a non far languire la conferenza di Åland. Componevano
questa flotta dodici grandi vascelli di linea, altri di secondo ordine, fregate e
galere; lo zar era vice-ammiraglio e comandava sempre agli ordini
dell’ammiraglio Apraksin.
Una squadra di quella flotta si segnalò una prima volta contro una
squadra svedese e dopo un accanito combattimento catturò un vascello e
due fregate. Pietro, che incoraggiava in tutti i modi la marina da lui creata,
dette agli ufficiali della squadra 60.000 lire in denaro francese, medaglie
d’oro e soprattutto onorificenze.
Proprio in quel tempo la flotta inglese al comando dell’ammiraglio
Norris649 entrò nel mar Baltico per appoggiare gli Svedesi. Pietro riponeva
tanta fiducia nella sua nuova marina che non si lasciò intimidire dagli
Inglesi: tenne coraggiosamente il mare e mandò a chiedere all’ammiraglio
inglese se veniva semplicemente come amico degli Svedesi o come nemico
della Russia. L’ammiraglio rispose che non aveva ancora ricevuto un ordine
preciso. Nonostante questa risposta ambigua, Pietro continuò a tenere il
mare.
In effetti gli Inglesi erano venuti unicamente con l’intenzione di mostrarsi
e mediante questa dimostrazione indurre lo zar ad accordare agli Svedesi
646 Odierna Halden.
647 Il 30 novembre 1718.
648 Febbraio 1719. (Nota dell’Autore)
649 John Norris (1670?-1749) conosceva Pietro I dal 1715 quando pattugliava il mar Baltico
contro gli Svedesi e Pietro gli offrì il comando della marina russa, ma Norris rifiutò. Fu
nominato ammiraglio della flotta inglese nel 1739.
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condizioni di pace accettabili. L’ammiraglio Norris andò a Copenaghen e i
Russi fecero qualche scorreria in Svezia, nei dintorni di Stoccolma. Essi
danneggiarono delle fucine dove si lavorava il rame, bruciarono quasi
15.000 case650 e fecero tali danni da far desiderare agli Svedesi che la pace
fosse conclusa immediatamente.
La nuova regina di Svezia sollecitò effettivamente la ripresa dei negoziati;
lo stesso Osterman fu inviato a Stoccolma. Per tutto il 1719 gli affari
rimasero a questo punto.
L’anno seguente il principe di Hesse e consorte della regina di Svezia, che
era salito al trono grazie alla rinuncia della sposa, inaugurò il regno con
l’invio di un ministro a Pietroburgo per sollecitare questa pace tanto
desiderata; tuttavia nel mezzo dei negoziati la guerra durava sempre.
La flotta inglese si unì a quella svedese, ma senza aprire ancora le
ostilità, tra Russia e Inghilterra non c’era rottura dichiarata: l’ammiraglio
Norris offriva la mediazione del suo signore, ma la offriva a mano armata e
questo bastava a ostacolare i negoziati. Le coste svedesi e quelle delle
nuove province russe sul mar Baltico sono situate in modo tale che quelle
svedesi sono vulnerabili mentre quelle russe sono di difficile accesso. Ciò
apparve chiaro allorché l’ammiraglio Norris, gettata la maschera, fece un
altro sbarco unitamente agli Svedesi su un’isoletta dell’Estonia chiamata
Nargö, appartenente allo zar. Essi bruciarono una capanna651, ma
contemporaneamente i Russi, sbarcati nei dintorni di Vaga, bruciarono
quaranta villaggi e più di mille case e provocarono danni incalcolabili in tutta
la regione. Il principe Golicyn abbordò e catturò quattro fregate svedesi:
pareva che l’ammiraglio inglese fosse venuto unicamente per constatare con
i suoi stessi occhi fino a che punto lo zar avesse reso formidabile la propria
marina. Norris si limitò quasi esclusivamente a mostrarsi su quello stesso
specchio d’acqua sul quale le quattro fregate svedesi erano scortate
trionfalmente fino al porto di Kronštadt che fronteggia Pietroburgo. Sembra
che gli Inglesi abbiano fatto troppo per essere dei mediatori e troppo poco
per essere dei nemici.
Infine652 il nuovo re di Svezia653 domandò una tregua d’armi e, non
avendo ottenuto nulla fino a quel momento con la minaccia inglese, si servì
della mediazione del duca d’Orléans e reggente di Francia654. Questo
principe, alleato della Russia e della Svezia, ebbe l’onore della mediazione:
inviò a Pietroburgo e di lì a Stoccolma il plenipotenziario Campredon655. Il
congresso si riunì a Neustadt, cittadina della Finlandia, ma lo zar non volle
650 Luglio 1719. (Nota dell’Autore)
651 Giugno 1720. (Nota dell’Autore) – Sull’originale l’isoletta è chiamata Narguen.
652 Novembre 1720. (Nota dell’Autore)
653 Federico I di Svezia (1676-1751) re dal 1720.
654 Filippo II d’Orléans, cfr. nota 571.
655 Febbraio 1721. (Nota dell’Autore) – Jacques de Campredon (1672-1749) fu il primo
rappresentante diplomatico francese in Russia. Dal 1693 fu a Copenaghen, L’Aia, Riga e
Stoccolma (dal 1701), dal 1721 fu ministro plenipotenziario a San Pietroburgo e dal 1726
a Genova.
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acconsentire all’armistizio fino a che non si fu giunti al punto di concludere e
di firmare. Egli aveva in Finlandia un esercito pronto a sottomettere il resto
della provincia; le sue truppe tenevano la Svezia sotto una continua
minaccia: bisognava che la pace fosse conclusa secondo il suo volere. Alla
fine si sottoscrisse tutto ciò che volle: gli furono definitivamente cedute
tutte le sue conquiste dalle frontiere della Curlandia fino all’estremità del
golfo di Finlandia e oltre, lungo la regione di Kexholm e quella striscia della
Finlandia stessa che si estende dai dintorni di Kexholm verso il nord; così
egli restò padrone riconosciuto della Livonia, dell’Estonia, dell’Ingria, della
Carelia, della regione di Vyborg e delle isole vicine che gli assicuravano
anche il dominio sul mare, come le isole di Ösel, Dagö, Mön656 e molte altre.
Il tutto formava una estensione di 300 leghe comuni di varia larghezza e
costituiva un vasto regno, premio di vent’anni di fatiche.
Il 10 settembre 1721 questa pace di Neustadt fu firmata dal suo ministro
Osterman e dal generale Bruce.
L’esultanza di Pietro fu tanto più grande in quanto, vedendosi liberato
dalla necessità di mantenere un grande esercito verso la Svezia, libero da
ogni inquietudine contro l’Inghilterra e i suoi vicini, si vedeva in grado di
consacrarsi interamente alla riforma dell’impero già così bene avviata e di
far fiorire in pace le arti e il commercio, introdotti con tanta fatica per opera
sua.
Nel primo trasporto della felicità scrisse ai suoi plenipotenziari: «Avete
redatto il trattato come se lo avessimo steso noi stessi e ve lo avessimo
inviato per farlo firmare agli Svedesi; questo evento glorioso sarà sempre
presente alla nostra mente».
Festeggiamenti di ogni tipo espressero la soddisfazione del popolo in tutto
l’impero e soprattutto a Pietroburgo. La pompa trionfale ostentata dallo zar
in tempo di guerra non si avvicinava neppure lontanamente ai pacifici
festeggiamenti ai quali tutti i cittadini partecipavano con entusiasmo: questa
pace era il più splendido dei suoi trionfi e, ancor più gradite di tutti i ricchi
festeggiamenti, furono l’amnistia totale per tutti i colpevoli detenuti nelle
prigioni e l’abolizione di tutte le imposte dovute al tesoro dello zar in tutto il
territorio dell’impero fino al giorno della pubblicazione della pace. Caddero
le catene di una moltitudine di infelici: i ladri pubblici, gli assassini, i
criminali di lesa maestà furono i soli a esserne esclusi.
Fu in quell’occasione che il senato e il sinodo decretarono a Pietro i titoli
di grande, imperatore e padre della patria. Il cancelliere Golovkin657 prese la
parola nella cattedrale a nome di tutte le classi dello Stato; poi i senatori
gridarono tre volte «Viva il nostro imperatore e nostro padre!» a queste
acclamazioni fecero eco quelle del popolo. I ministri di Francia, Germania,
Polonia, Danimarca e Olanda si congratularono con lui quel giorno stesso, gli
656 Ösel (Saaremaa) e Dagö (Hiiumaa) sono isole estoni, Mön è oggi danese.
657 Il conte Gavriil Ivanovič Golovkin (1660-1734) fu ministro degli Affari esteri, gran
cancelliere imperiale dal 1709 (succedendo a Golovin, cfr. nota 227), presidente del
Consiglio degli Affari esteri dal 1717 e sotto i regni di Pietro I, Caterina I, Pietro II e Anna.
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diedero i titoli che gli erano stati appena attribuiti e riconobbero imperatore
colui che in Olanda, dopo la battaglia di Poltava, era già stato designato
pubblicamente con quel titolo. I titoli di padre e di grande erano nomi
gloriosi che nessuno in Europa poteva contestargli, quello di imperatore era
solo un titolo onorifico concesso per tradizione all’imperatore di Germania
come re titolare dei Romani. Tali appellativi richiedono tempo prima di
essere formalmente accettati nelle cancellerie delle corti, dove l’etichetta è
così diversa dalla gloria. Ben presto Pietro fu riconosciuto imperatore in
tutta l’Europa salvo che in Polonia, sempre divisa dalle discordie, e presso il
Papa, il cui appoggio è diventato del tutto superfluo da quando la corte di
Roma ha perso il credito di cui godeva, via via che le nazioni si sono venute
illuminando.
Capitolo XVI
CONQUISTE IN PERSIA
La posizione della Russia è tale che necessariamente essa ha degli
interessi da salvaguardare con tutti i popoli che abitano verso il
cinquantesimo grado di latitudine. Nei periodi di malgoverno, fu soggetta di
volta in volta ai Tatari, agli Svedesi, ai Polacchi; sotto un governo forte e
vigoroso, si impose al rispetto di tutte le nazioni. Pietro aveva inaugurato il
suo regno con un vantaggioso trattato con la Cina. Egli aveva combattuto a
un tempo gli Svedesi e i Turchi. Finì per condurre il suo esercito in Persia.
La Persia cominciava allora a ridursi nelle miserevoli condizioni in cui si
trova tuttora. Ci si figuri la guerra dei Trent’anni in Germania, i tempi della
Fronda, i tempi di San Bartolomeo, di Carlo VI e del re Giovanni in Francia,
le guerre civili dell’Inghilterra, la lunga devastazione dell’intera Russia da
parte dei Tatari, oppure questi stessi Tatari che invadono la Cina e ci si farà
una pallida idea dei flagelli che desolarono la Persia.
Bastano un principe debole e trascurato e un suddito potente e
intraprendente per gettare un intero regno in quest’abisso di sventure.
Regnava allora lo scià o shah o sofi di Persia, Husayn, discendente dal
grande scià Abbas. Egli si abbandonava alle mollezze; il suo primo ministro
commise delle ingiustizie e del!e crudeltà che Husayn fu tanto debole da
tollerare: ecco l’origine prima di quarant’anni di carneficina.
Come la Turchia, la Persia ha delle province governate in modo diverso:
essa ha dei sudditi diretti, dei vassalli, dei principi tributari e persino delle
popolazioni alle quali la corte corrispondeva un tributo chiamato pensione o
sussidio. Tali erano, per esempio, i popoli del Daghestan che vivono sui
contrafforti del Caucaso a ovest del mar Caspio. In passato, queste
popolazioni facevano parte dell’antica Albania: infatti tutti i popoli hanno
cambiato nome e confine. Questi popoli oggi si chiamano Lesghi: sono
montanari più protetti che dominati dalla Persia: si pagava loro un sussidio
affinché difendessero le frontiere.
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All’altra estremità dell’impero, verso le Indie, risiedeva il principe di
Kandahar, il quale comandava le milizie degli Afgani. Questo principe era
vassallo della Persia come gli ospodari di Moldavia e di Valacchia sono
vassalli dell’impero turco. Tale vassallaggio non è ereditario, e somiglia
perfettamente agli antichi feudi insediati in Europa da quelle razze di Tatari
che rovesciarono l’impero romano. La milizia degli Afgani comandata dal
principe di Kandahar era costituita da quegli stessi Albanesi delle rive del
mar Caspio, vicini al Daghestan, che sono una mescolanza di Circassi e
Georgiani, simili agli antichi Mamelucchi che sottomisero l’Egitto; il loro
nome fu trasformato in quello di Afgani. Timur, che noi chiamiamo
Tamerlano, aveva condotto in India quest’esercito che si era stabilito nella
provincia di Kandahar appartenuta ora all’India, ora alla Persia. Fu a causa
di questi Afgani e Lesghi che cominciò la rivoluzione.
Mir Wais ovvero Mirivitz658, intendente della provincia e unico responsabile
della riscossione dei tributi, assassinò il principe di Kandahar, fece sollevare
le truppe e rimase padrone del Kandahar fino alla sua morte sopraggiunta
nel 1717. Suo fratello659 gli succedette senza spargimento di sangue,
pagando un piccolo tributo alla Porta persiana. Il figlio di Mir Wais, però,
nato con la stessa ambizione di suo padre, assassinò lo zio e volle divenire
un conquistatore. Questo giovane si chiamava Mir Mahmud660, ma fu
conosciuto in Europa con il nome di suo padre che aveva dato il segno della
rivolta. Mahmud aggiunse ai suoi Afgani tutti i Ghebri che poté trovare: si
tratta di antichi Persiani, dispersi in passato dal califfo Omar, sempre fedeli
alla religione dei Magi che, al tempo del re Ciro, era così diffusa, e sempre
segretamente avversi ai nuovi Persiani. Egli marciò alfine verso il cuore della
Persia a capo di centomila soldati.
Contemporaneamente i Lesghi o Albanesi, ai quali le difficoltà del tempo
non avevano permesso che si pagasse il sussidio, scesero in armi dalle loro
montagne, cosicché l’incendio divampò dai due capi dell’impero fino alla
capitale. I Lesghi devastarono tutta la regione che si estende lungo le coste
occidentali del mar Caspio fino a Derbent, detta Porta di ferro661. Nella
contrada che essi devastarono si trova la città di Shamchal662, a quindici
leghe dal mare. Si vuole che sia l’antica dimora di Ciro cui i Greci dettero il
nome di Kyropolis663: infatti la posizione e il nome di questo paese ci sono
noti unicamente grazie ai Greci, e come i Persiani non ebbero mai un
658 Il khan Mir Wais Hotak (o Mir Vais Ghilzai, o Mirwais; 1673-1715) guidò una rivolta in
Kandahan contro Gurgin Khan, prese il potere e sconfisse l’esercito persiano accorso a
sedare la ribellione. Regnò fino alla morte (nel novembre 1715, non nel 1717 come detto
da Voltaire) sulla regione del Grande Kandahar, corrispondente all’attuale Afghanistan
sud-occidentale e a parte del Belucistan (Pakistan). Mir (da Amir) è un titolo che i Persiani
riservavano ai discendenti di Maometto e a coloro che avevano incarichi elevati.
659 Abdul Aziz.
660 Mahmud Hotaki (o Mahmud Ghilzai; 1697-1725?), scià di Persia dal 1722.
661 Derbent deriva dal nome persiano Darband che significa “Porta chiusa”, ma era nota agli
Arabi come Bāb al-abwāb (Porta delle porte) e ai Turchi come Demir kapu (Porta di ferro).
662 Sull’originale Shamachie.
663 Forse l’attuale Ura-Tjube in Tagikistan.
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principe chiamato Ciro, allo stesso modo non ebbero mai una città che si
chiamasse Kyropolis. È così che gli Ebrei, i quali, appena insediati ad
Alessandria ebbero la pretesa di scrivere, immaginarono una città chiamata
Scytopolis, costruita, essi dicevano, dagli Sciti in vicinanza della Giudea,
come se gli Sciti e gli antichi Giudei avessero potuto dare a una città un
nome greco664.
Questa città di Shamchal era ricca. Gli Armeni, vicini a questa regione
della Persia, vi svolgevano un fiorente commercio e Pietro vi aveva da poco
insediato a sue spese una compagnia di mercanti russi che cominciava a
diventare florida. I Lesghi assalirono la città di sorpresa, la saccheggiarono,
sgozzarono tutti i Russi che trafficavano sotto la protezione dello scià
Husayn, e derubarono i loro magazzini: i danni si fecero ammontare a quasi
quattro milioni di rubli.
Pietro mandò a chiedere soddisfazione all’imperatore Husayn che
combatteva ancora per la sua corona. Husayn non poté fargli giustizia e
Mahmud non volle. Pietro decise di farsi giustizia da solo e di approfittare
dei disordini in Persia.
Mir Mahmud continuava le sue conquiste in Persia. Il sofi, venuto a
sapere che l’imperatore di Russia si preparava a entrare nel mar Caspio per
vendicare l’uccisione dei suoi sudditi sgozzati a Shamchal, lo pregò
segretamente, per mezzo di un armeno, di venire contemporaneamente in
aiuto alla Persia.
Da molto tempo Pietro meditava il progetto di acquistare il predominio sul
mar Caspio grazie alla potenza marinara e di dirottare attraverso il suo
Stato il commercio della Persia e di una parte dell’India. Egli aveva fatto
sondare la profondità del mare, esaminare le coste e tracciare delle carte
esatte. Il 15 maggio 1722 partì dunque per la Persia. In questo viaggio,
come negli altri, fu accompagnato dalla sua sposa. Ridiscesero il Volga fino
alla città di Astrachan’. Di lì Pietro corse a far riattare i canali che dovevano
unire il mar Caspio, il mar Baltico e il mar Bianco, opera che è stata in parte
completata da suo nipote.
Mentre dirigeva questi lavori, la sua fanteria e le munizioni si trovavano
già sul mar Caspio. Lo zar disponeva di 22.000 fanti, 9.000 dragoni e
15.000 cosacchi. Tremila marinai manovravano e potevano fungere da
soldati negli sbarchi. La cavalleria si avviò per terra attraverso deserti in cui
spesso manca l’acqua; dopo aver passato questi deserti bisogna superare le
montagne del Caucaso, dove trecento uomini basterebbero a fermare un
esercito, ma nello stato di anarchia in cui si trovava allora la Persia, si
poteva tentare tutto.
Lo zar navigò per circa cento leghe a sud di Astrachan’ fino alla piccola
città di Andrehof. Ci si stupirà di vedere il nome di Andrea sulle sponde del
mar d’Ircania, ma alcuni Georgiani, che in passato erano una specie di
cristiani, avevano costruito quella città, e i Persiani l’avevano fortificata: fu
664 Fu chiamata Scytopolis l’odierna città di Beit She’an, in Israele, quando durante il periodo
ellenistico ebbe una popolazione di mercenari sciti.
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conquistata senza sforzo. Di là si avanzò, sempre per via di terra, nel
Daghestan: si pubblicarono dei manifesti in persiano e in turco: era
necessario non urtare la suscettibilità della Porta ottomana, che contava fra
i suoi sudditi non soltanto i Circassi e i Georgiani, vicini di quel Paese, ma
anche alcuni grandi vassalli che si erano messi da poco sotto la protezione
della Turchia.
Ce n’era fra gli altri uno potentissimo chiamato Mahmud Hotaki665, che si
faceva chiamare sultano e che osò attaccare le truppe dell’imperatore di
Russia. Fu sconfitto completamente e la relazione riferisce che il suo Paese
fu trasformato in un fuoco di gioia.
Ben presto Pietro giunse a Derbent 666, che i Persiani e i Turchi chiamano
Demir-kapu, ossia Porta di ferro: questa città è così chiamata perché dalla
parte meridionale c’era effettivamente una porta di ferro. È una città lunga
e stretta, che da una parte tocca un ripido contrafforte del Caucaso mentre
dall’altra parte le sue mura sono bagnate dalle onde del mare che spesso,
durante le mareggiate, le superano. Questi muri potevano passare per una
delle meraviglie dell’antichità, alti quaranta piedi e larghi sei, fiancheggiati
da torri quadrate a cinquanta piedi l’una dall’altra. Tutta quest’opera pareva
in un sol pezzo: è costruita con arenaria e conchiglie schiacciate che hanno
servito da malta: il tutto forma una massa più dura del marmo. Vi si può
entrare dalla parte del mare, ma la città da parte di terra pare
inespugnabile. Rimangono ancora i resti di un’antica muraglia simile a quella
della Cina, costruita nella più remota antichità. Essa si estendeva dalle rive
del mar Caspio a quelle del mar Nero ed era probabilmente un baluardo
innalzato dagli antichi sovrani di Persia contro tutte le orde di barbari che
abitano fra i due mari.
La tradizione persiana riferisce che la città di Derbent fu in parte riparata
e fortificata da Alessandro. Arriano e Quinto Curzio667 dicono che Alessandro
fece effettivamente ricostruire questa città; veramente pretendono che si
trovasse sulle rive del Tanais, ma bisogna tener presente che i Greci, ai
tempi loro, chiamavano Tanais il fiume Cyrus che scorre nei dintorni della
città. Sarebbe contraddittorio che Alessandro avesse costruito la porta del
Caspio su un fiume che sfocia nel Porto Eusino.
In passato c’erano tre o quattro porte caspie, in punti diversi, e
verosimilmente costruite tutte con lo stesso scopo. Infatti tutti i popoli che
abitano a occidente, a oriente, e a settentrione di questo mare, sono
sempre stati dei barbari temibili per il resto del mondo ed è principalmente
da lì che sono partite tutte quelle orde di conquistatori che hanno
soggiogato l’Asia e l’Europa.
Mi sia consentito qui ricordare quanto gli autori si siano sempre dilettati a
665 Sull’originale è Mahmoud d’Utmich. Si tratta del già citato (cfr. nota 660) scià afgano
Mahmud Hotaki (1697?-1725), che nel 1722 conquistò la Persia, ma ai confini perse
alcune battaglie contro gli Ottomani e i Russi.
666 14 settembre 1722. (Nota dell’Autore)
667 Lucio Flavio Arriano (I-II secolo a.C) fu uno storico greco antico e Quinto Curzio Rufo (IIIV secolo d.C.) uno storico romano.
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ingannare gli uomini e quanto abbiano preferito una vana eloquenza alla
verità. Quinto Curzio mette in bocca a non so quale scita un discorso
ammirevole, colmo di moderazione e di filosofia, come se i Tatari di quella
regione fossero stati tutti sapienti e Alessandro non fosse stato il generale
eletto dai Greci contro il re di Persia, signore di una gran parte della Scizia
meridionale e delle Indie. I rètori che hanno voluto imitare Quinto Curzio si
sono sforzati di farci apparire questi selvaggi del Caucaso e del deserto,
avidi di rapina e di strage, come gli uomini più giusti del mondo e hanno
rappresentato Alessandro, vendicatore della Grecia e vincitore di colui che
avrebbe voluto asservirla, come un brigante che correva il mondo senza
motivo e senza giustizia. Non si pensa mai che questi Tatari non furono mai
altro che distruttori e che Alessandro costruì delle città fin nel loro Paese; in
questo io oserei paragonare Pietro il Grande ad Alessandro: altrettanto
attivo, altrettanto amico delle arti utili, più preoccupato della legislazione,
come lui egli volle cambiare il commercio del mondo e fondò o ricostruì
tante città quante ne aveva fondate o ricostruite Alessandro.
All’approssimarsi dell’esercito russo il governatore di Derbent, sia che non
si ritenesse in grado di difendersi, sia che preferisse la protezione
dell’imperatore Pietro a quella del tiranno Mahmud, non volle sostenere
l’assedio. Egli consegnò le chiavi d’argento della città e del castello:
l’esercito entrò a Derbent senza spargimento di sangue e andò ad
accamparsi sulla riva del mare.
L’usurpatore Mahmud, già padrone di una gran parte della Persia, invano
volle prevenire lo zar e impedirgli di entrare a Derbent. Egli istigò i Tatari
vicini, accorse personalmente ma Derbent si era già arresa.
Pietro allora non poté spingersi oltre con le conquiste. I bastimenti che
portavano nuove provviste, reclute e cavalli erano andati perduti nei dintorni
di Astrachan’, la stagione era già avanzata668. Egli tornò a Mosca669 e vi fece
un ingresso trionfale: qui giunto, secondo la sua abitudine, rese conto della
spedizione al vice zar Romodanovskij, continuando fino all’ultimo questa
strana commedia la quale, stando a ciò che è detto nel suo elogio
pronunciato a Parigi presso l’Accademia delle scienze670, avrebbe dovuto
essere recitata davanti a tutti i monarchi della terra.
La Persia era tuttora divisa fra Husayn e l’usurpatore Mahmud: il primo
cercava di guadagnarsi l’appoggio dell’imperatore di Russia, il secondo lo
temeva come un vendicatore in grado di strappargli il frutto della sua
ribellione. Mahmud fece il possibile per sollevare la Porta ottomana contro
Pietro e inviò un’ambasciata a Costantinopoli; i principi del Daghestan posti
sotto la protezione del Gran signore, spogliati dall’esercito russo, chiesero
vendetta. Il divan temeva per la Georgia, che i Turchi annoveravano fra i
loro possedimenti.
668 Più della metà dell’esercito morì di fame e di fatica e la flotta non aveva né bussole, né
piloti.
669 Gennaio 1723. (Nota dell’Autore)
670 Il relatore fu Fontenelle: cfr. nota 98.
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Il Gran signore fu sul punto di dichiarare guerra. La corti di Vienna e
quella di Parigi glielo impedirono. L’imperatore di Germania notificò che, se i
Turchi avessero attaccato la Russia, si sarebbe visto costretto a difenderla.
Il marchese di Bonnac, ambasciatore di Francia a Costantinopoli671, fu abile
nell’appoggiare con le sue argomentazioni le minacce dei Tedeschi: lasciò
intendere che era nell’interesse stesso della Porta non tollerare che un
ribelle usurpatore della Persia insegnasse a sbalzare dal trono i sovrani, e
che l’imperatore russo aveva fatto unicamente quello che il Gran signore
avrebbe dovuto fare.
Nel corso di questi delicati negoziati, il ribelle Mir Mahmud si era spinto
fin sotto le porte di Derbent. Egli devastò la regione circostante affinché i
Russi non avessero di che vivere. Quella parte dell’antica Ircania chiamata
oggi Gilan fu saccheggiata, e i popoli disperati si misero spontaneamente
sotto la protezione dei Russi che apparvero come loro liberatori.
Essi seguivano in ciò l’esempio dello stesso sofi. Quello sventurato
monarca aveva inviato un ambasciatore a Pietro il Grande per implorare
solennemente il suo aiuto. L’ambasciatore si era appena messo in cammino
che il ribelle Mir Mahmud si era impadronito di Ispahan e della persona del
sovrano.
Il figlio del sofi deposto, chiamato Tahmasp672, riuscì a sfuggire al tiranno
e riunite delle truppe affrontò l’usurpatore. Non fu meno veemente di suo
padre nel sollecitare Pietro il Grande affinché lo proteggesse, e mandò
all’ambasciatore le stesse istruzioni inviate dallo scià Husayn.
Quest’ambasciatore persiano, chiamato Ismael Beg673 non era ancora
arrivato e già la sua missione era riuscita. Sbarcando ad Astrachan’, seppe
che il generale Matjuškin674 stava per partire con rinforzi per l’esercito del
Daghestan. La città di Baku, che per i Persiani dà al mar Caspio il nome di
mare di Baku, non era ancora stata conquistata. Egli consegnò al generale
russo una lettera indirizzata agli abitanti, nella quale li esortava a nome del
suo signore a sottomettersi all’imperatore di Russia. L’ambasciatore
proseguì il cammino per Pietroburgo e il generale Matjuškin si recò a
stringere d’assedio la città di Baku. L’imperatore giunse a corte675 insieme
671 Sull’originale Bonac. Jean-Louis d’Usson marchese di Bonnac (1672-1738) fu
ambasciatore di Francia presso l’impero ottomano dal 1716 al 1724. Era già stato
ambasciatore in Svezia, in Polonia, in Spagna e, dopo la Turchia, lo fu in Svizzera fino al
1733.
672 Sull’originale Thamaseb. Tahmasp II (?-1739) era figlio dello scià persiano Husayn (cfr.
nota 547) e suo erede. Avendo il regno invaso dagli Afgani, chiese aiuto a Pietro il
Grande, ma fu tradito da un suo generale, l’afsharide Nadir (che diventò scià nel 1736), e
quindi deposto, imprigionato (1732) e più tardi ucciso.
673 Ismael Beg, ambasciatore per conto di Tahmasp II, firmò un trattato con Pietro I il 12/23
settembre 1723 che, come detto in seguito, stabiliva che la Russia avrebbe aiutato la
Persia contro i ribelli afgani e contro i Turchi, in cambio delle città e dei territori di Derbent
e Baku e delle province del Caspio di Gilan, di Mazandaran e di Astrabad (che tornarono
alla Persia nel 1732).
674 Il generale Michajl Afanasevič Matjuškin (1676-1737) – cugino di secondo grado di Pietro
il Grande – fu poi nominato governatore di Baku.
675 Agosto 1723. (Nota dell’Autore)
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alla notizia della presa della città.
Questa città è situata accanto a Shamchal, dove erano stati sgozzati i
mercanti russi: non è ricca e popolata come Shamchal, ma è famosa per la
nafta di cui rifornisce tutta la Persia. Nessun trattato fu mai concluso più in
fretta di quello di Ismael Beg676. L’imperatore Pietro, per vendicare la morte
dei suoi sudditi e per aiutare il sofi Tahmasp contro l’usurpatore, prometteva
di avanzare in Persia con un esercito; il nuovo sofi da parte sua gli cedeva
non soltanto le città di Baku e Derbent, ma le province di Gilan, di
Mazandaran e di Astrabad677.
Come abbiamo già detto, il Gilan è l’Ircania meridionale, il Mazandaran
che confina con esso è il Paese dei Mardi, Astrabad confina con il
Mazanderan: erano queste le tre principali province degli antichi re Medi,
cosicché Pietro, grazie ai suoi eserciti e ai trattati, si trovava a essere
padrone del primo regno di Ciro.
Non sarà del tutto inutile dire che negli articoli di questa convenzione fu
fissato il prezzo delle derrate che si dovevano fornire all’esercito. Un
cammello doveva costare solo 60 franchi francesi (12 rubli); una libbra di
pane non doveva arrivare a 15 denari, una libbra di carne di bue a circa 18;
questi prezzi erano una prova lampante dell’abbondanza di autentici beni,
che sono quelli della terra, e della mancanza di denaro, che è un bene
convenzionale, che si riscontravano in questo Paese.
Tale era la miserevole sorte della Persia, che l’infelice sofi Tahmasp,
errante nel suo regno e incalzato dal ribelle Mahmud, assassino di suo padre
e dei suoi fratelli, si vedeva costretto a scongiurare a un tempo la Russia e
la Turchia affinché accettassero di prendere una parte del suo regno per
conservargli l’altra.
L’imperatore Pietro, il sultano Ahmed III e il sofi Tahmasp si accordarono
dunque che la Russia avrebbe conservato le tre province di cui si è detto
mentre alla Porta ottomana sarebbero andate Kasbin, Tabriz ed Erevan,
oltre ai territori che la Porta stessa stava strappando all’usurpatore della
Persia. Così quel bel regno era smembrato a un tempo dai Russi, dai Turchi
e dagli stessi Persiani678.
Così l’imperatore Pietro regnò fino alla sua morte dal fondo del mar
Baltico fin oltre i confini meridionali del mar Caspio. La Persia continuò a
essere vittima di rivoluzioni e stragi. I Persiani, in passato ricchi e civili,
caddero nella miseria e nella barbarie mentre la Russia dalla povertà e dalla
rozzezza giungeva alla ricchezza e alla civiltà. Un solo uomo, che aveva un
genio attivo e tenace, innalzò la sua patria; un solo uomo, che era debole e
indolente, fece precipitare la sua.
Siamo ancora assai male informati sui particolari di tutte le calamità che
hanno desolato la Persia per tanto tempo; si è affermato che l’infelice scià
Husayn fu tanto vile da mettere con le sue stesse mani, la sua mitria
676 Settembre 1723. (Nota dell’Autore)
677 Sull’originale rispettivamente Guilan, Mazanderan e Asterabath.
678 Trattato di Costantinopoli del 12 giugno 1724.
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persiana, ciò che per noi è la corona, sulla testa dell’usurpatore Mahmud. Si
dice che questo Mahmud in seguito divenne pazzo: così un imbecille e un
pazzo decisero la sorte di tante migliaia di uomini. Si dice anche che
Mahmud, in un accesso di follia, uccise di sua mano tutti i figli e i nipoti
dello scia Husayn, che erano cento, e che fece recitare sul suo capo il
Vangelo secondo San Giovanni per purificarsi e guarire. Queste favole
persiane sono state raccontate dai nostri monaci e stampate a Parigi.
Quel tiranno che aveva assassinato il proprio zio fu alla fine assassinato a
sua volta da suo nipote Ashraf679, il quale fu altrettanto crudele e tirannico di
Mahmud.
Lo scià Tahmasp continuò a implorare l’aiuto della Russia: si tratta di
quello stesso Tahmasp o Tamas che in seguito fu aiutato e rimesso sul trono
dal celebre Kuli-khan, e successivamente detronizzato dallo stesso Kulikhan680.
Queste rivoluzioni e le guerre vittoriose che la Russia dovette sostenere
in seguito contro i Turchi, l’evacuazione delle tre province persiane, che
costavano alla Russia molto più di quanto non rendessero, non sono
avvenimenti che riguardano Pietro il Grande. Si verificarono soltanto vari
anni dopo la sua morte: basti dire che egli concluse la sua carriera militare
aggiungendo al suo impero tre province verso la Persia, dopo averne da
poco aggiunte altre tre verso le frontiere della Svezia.
Capitolo XVII
INCORONAZIONE E CONSACRAZIONE DELL’IMPERATRICE CATERINA I.
MORTE DI PIETRO IL GRANDE
Di ritorno dalla sua spedizione in Persia, Pietro si vide più che mai arbitro
del Nord. Si proclamò protettore della famiglia di quello stesso Carlo XII di
cui era stato rivale per diciotto anni.
Fece venire a corte il duca di Holstein, nipote del monarca, gli destinò in
sposa la figlia maggiore681 e si preparò sin da allora a sostenere i propri
diritti sul ducato di Schleswig-Holstein; anzi si impegnò persino in un
679 Sull’originale Eshreff. Il khan Ashraf Hotaki (?-1730) era cugino di Mahmud e fu scià dal
1725 al 1729 quando fu sconfitto da Nadir e ucciso poco dopo. Sulla morte di Mahmud
non si sa con certezza se sia stato ucciso e se morì per cause naturali.
680 Tahmasp II era lo scià deposto (cfr. nota 672) dal suo subalterno Nadir, il quale, entrando
al servizio di Tahmasp, aveva preso il nome di Tahmasp Kuli Khan, che significa “schiavo
di Tahmasp”, e con questo nome vinse diverse battaglie contro gli Afgani. In seguito a una
serie di lotte interne Nadir depose Tahmasp II (1732) e salì sul trono assieme al figlioletto
di Abbas III che si chiamava anch’egli Tahmasp. La storia non dice più nulla di questo
bambino, ma è certo che nel 1736 Nadir diventò unico scià (o shah) ponendo fine alla
dinastia safavide.
681 Il primo incontro tra Anna Petrona Romanova (1708-1728) e Carlo Federico di HolsteinGottorp (1700-1739) avvenne nel 1721, si fidanzarono nel 1724 e si sposarono nel 1725,
pochi mesi dopo la morte di Pietro il Grande.
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trattato di alleanza che concluse con la Svezia682.
Egli proseguiva i lavori cominciati per tutta l’estensione del suo Stato fino
alla Kamčatka e per meglio dirigere quei lavori fondò a Pietroburgo
l’Accademia delle scienze683. Le arti fiorivano da ogni parte, le manifatture
erano incoraggiate, la marina prosperava, l’esercito era ben mantenuto, le
leggi osservate. Egli godeva in pace della sua gloria e volle dividerla in un
modo nuovo con colei che, ponendo riparo al rovescio della campagna del
Prut, aveva, come egli diceva, contribuito a quella stessa gloria.
Fu a Mosca che egli fece incoronare e consacrare sua moglie Caterina 684,
alla presenza della duchessa di Curlandia, figlia di suo fratello maggiore e
del duca di Holstein che stava per diventare suo genero. La dichiarazione
che pubblicò merita la nostra attenzione: vi si fa richiamo all’usanza di far
coronare le spose adottata da parecchi re cristiani, vi si ricorda l’esempio
degli imperatori Basilide, Giustiniano, Eraclio e Leone il Filosofo685.
L’imperatore ricorda per esteso i servigi resi allo Stato da Caterina
soprattutto nella guerra contro i Turchi allorché il suo esercito, ridotto a
22.000 uomini, ne aveva di fronte più di 200.000. Non è detto in questa
ordinanza che l’imperatrice dovesse regnare dopo di lui, ma egli preparava a
ciò gli animi per mezzo di questa cerimonia insolita nel suo Stato.
Un altro elemento che poteva forse far considerare Caterina destinata a
succedere allo sposo è il fatto che egli stesso marciò a piedi davanti a lei,
nel giorno dell’incoronazione, in qualità di capitano di una nuova compagnia
che costituì col nome di cavalieri dell’imperatrice.
Giunti in chiesa, Pietro le posò sul capo la corona; ella tentò di
abbracciargli le ginocchia ma lo zar glielo impedì e all’uscita dalla cattedrale
fece portare davanti a lei lo scettro e il globo. La festa fu degna in tutto e
per tutto di un imperatore. Nelle occasioni ufficiali, Pietro mostrava una
magnificenza pari alla semplicità che adottava nella vita privata.
Avendo incoronato la sposa, si decise alfine a concedere la mano della
figlia maggiore Anna Petrovna al duca di Holstein. Questa principessa aveva
molti punti in comune con suo padre: era di statura imponente e di grande
bellezza. Fu fidanzata al duca di Holstein686 senza grande pompa. Già Pietro
sentiva declinare la sua salute e una pena familiare, che forse inasprì anche
il male di cui doveva morire, rese gli ultimi tempi della sua vita poco
convenienti allo sfarzo dei festeggiamenti.
Caterina aveva un giovane ciambellano687 di nome Moëns de la Croix,
nato in Russia da famiglia fiamminga688. Egli era di nobile aspetto, sua
682 Febbraio 1724. (Nota dell’Autore)
683 Febbraio 1724. (Nota dell’Autore)
684 18 maggio 1724. (Nota dell’Autore)
685 Si vedrà nell’ultimo documento allegato che gli imperatori erano Odenato, Giustino,
Eraclio e Leone Isaurico.
686 24 novembre 1724. (Nota dell’Autore)
687 Memorie del conte di Bassewitz. (Nota dell’Autore)
688 Si tratta di Willem Mons (1688-1724), che nacque in Vestalia, studiò a Worms (Germania)
e poi si trasferì con i genitori e i fratelli (tra cui Anna Mons che fu l’amante di Pietro, cfr.
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sorella, Madame de Balk, era dama di compagnia dell’imperatrice; tutti e
due comandavano nella sua casa. Furono accusati entrambi davanti
all’imperatore, messi in prigione e processati per aver accettato dei doni. Fin
dal 1714 era stato proibito a chiunque ricoprisse una carica pubblica di
riceverne, sotto pena di infamia e di morte, e questo divieto era stato
rinnovato varie volte.
Fratello e sorella furono convinti della loro colpa e tutti quelli che avevano
comprato o ricompensato i loro servigi furono citati nella sentenza a
eccezione del duca di Holstein e del suo ministro conte di Bassewitz: anzi è
probabile che i doni fatti dal principe a coloro che avevano contribuito a far
concludere il suo matrimonio non fossero considerati come un’azione
criminosa.
Moëns fu condannato alla pena capitale689 e sua sorella, favorita
dell’imperatrice, a ricevere undici colpi di knut. I due figli di questa dama,
uno ciambellano e l’altro paggio, furono degradati e inviati nell’esercito di
Persia in qualità di soldati semplici.
Questa severità, che è eccessiva per le nostre abitudini, era forse
necessaria in un Paese in cui il rispetto delle leggi sembrava esigere un
tremendo rigore. L’imperatrice chiese grazia per la sua dama di compagnia
e lo sposo irritato gliela rifiutò. In un trasporto di collera, ruppe uno
specchio veneziano e disse alla sposa: «Come vedi basta un colpo della mia
mano per far tornare questo specchio alla polvere da cui proviene».
Caterina lo guardò con una commovente espressione di dolore e rispose:
«Ebbene, avete rotto ciò che faceva l’ornamento del vostro palazzo; credete
che per questo sia diventato più bello?». Queste parole placarono
l’imperatore, ma la sposa ottenne come unica grazia che la sua dama di
compagnia ricevesse solo cinque colpi di knut anziché undici.
Non riferirei questo episodio se non fosse attestato da un ministro che ne
fu testimone oculare e che, avendo fatto lui stesso dei doni al fratello e alla
sorella, fu forse una delle cause principali della loro disgrazia. Proprio
questa avventura ha incoraggiato chi giudica tutto con malignità a insinuare
che Caterina abbreviò la vita di un marito che le ispirava più timore con le
sue collere che riconoscenza con i suoi benefici.
Questi crudeli sospetti furono confermati dalla premura mostrata da
Caterina nel richiamare la dama di compagnia immediatamente dopo la
morte del suo sposo e nel concederle tutto il suo favore. È dovere di uno
storico riferire queste pubbliche dicerie che corsero in ogni tempo e in ogni
nazione alla morte dei principi rapiti da morte prematura, come se non
bastasse la natura a ucciderci. Tuttavia lo stesso dovere ci impone di far
nota 601). A Mosca percorse la carriera militare e nel 1724 diventò ciambellano di
Caterina, la quale aveva la sorella Matrëna (o Modesta) come dama di compagnia.
689 L’accusa di peculato e di abuso di fiducia fu formulata da Pëtr Tolstoj e la condanna a
morte fu eseguita il 16 novembre 1724. Tuttavia non per questo fu in realtà decapitato
Mons ma perché sospettato di essere l’amante della zarina, la quale fu portata da Pietro
stesso a vedere l’esecuzione. Voltaire non poteva ovviamente dirlo per non infierire contro
lo zar e per mantenere la promessa a Šuvalov (cfr. nota 31).
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vedere quanto queste dicerie fossero temerarie e ingiuste.
C’è un’enorme differenza fra il risentimento passeggero che può
provocare un marito severo e l’estrema decisione di avvelenare uno sposo e
un signore al quale si è debitori di tutto. I pericoli insiti in una tale impresa
sarebbero stati grandi quanto il delitto. A quel tempo esisteva un potente
partito contrario a Caterina e favorevole al figlio della sventurato zarevič.
Tuttavia né questa fazione né altro membro della corte sospettò Caterina e
le voci che corsero rappresentarono soltanto l’opinione di qualche straniero
poco informato, il quale si abbandonò senza alcuna giustificazione al
malaugurato piacere di sospettare di gravi delitti chi si ritiene interessato a
commetterli. Questo stesso interesse era molto discutibile in Caterina:
infatti non era sicuro che dovesse succedere al trono; era stata incoronata
ma unicamente in qualità di consorte del sovrano e non come colei che è
destinata a succedergli nel regno.
La dichiarazione di Pietro aveva voluto fare di quella solennità solo una
cerimonia e non un’investitura al regno; richiamava l’esempio degli
imperatori romani, che avevano fatto incoronare le proprie spose senza che
nessuna giungesse mai a governare l’impero. Per finire, durante la malattia
stessa di Pietro, più di uno credette che la principessa Anna Petrovna gli
sarebbe succeduta unitamente al duca di Holstein suo consorte690, oppure
che l’imperatore avrebbe designato come successore il nipote; così
Caterina, ben lungi dall’aver interesse alla morte dell’imperatore, aveva
bisogno che restasse in vita.
È accertato che Pietro soffriva da lungo tempo di un ascesso e di una
ritenzione di urina che gli causavano atroci dolori691. Le acque minerali di
Olonec e le altre alle quali ricorse furono solo inutili palliativi. Dopo l’inizio
del 1724, lo si vide declinare sensibilmente. Le fatiche cui si sottoponeva
senza tregua aggravarono il male e accelerarono la fine692. Ben presto le sue
condizioni parvero disperate: sentiva dei bruciori terribili che gli
provocavano un delirio quasi continuo. In un momento di requie concessogli
dai suoi dolori, tentò di scrivere693, ma la sua mano tracciò soltanto dei
caratteri illeggibili di cui si poté decifrare solo questa frase in russo: Date
tutto a…
Gridò che fosse chiamata la principessa Anna Petrovna alla quale voleva
dettare, ma quando comparve davanti al suo letto aveva già perso l’uso
della parola e cadde in un’agonia che durò sedici ore. Per tre notti
l’imperatrice Caterina non lasciò il suo capezzale; alla fine, il 28 gennaio,
verso le quattro del mattino, lo zar spirò tra le sue braccia.
Il corpo fu trasportato nella sala grande del palazzo; lo seguivano tutta la
690 Quando morì Pietro, Anna non era ancora duchessa di Holstein (cfr. nota 681), ma l’anno
prima lei e il futuro sposo avevano sottoscritto un contratto matrimoniale che escludeva
esplicitamente per entrambi ogni diritto alla successione sul trono di Russia.
691 Due sono le voci riguardo la sua morte: quella ufficiale parla di nefrolitiasi aggravata da
una uremia, quella ufficiosa di una malattia venerea.
692 Gennaio 1725. (Nota dell’Autore)
693 Memorie manoscritte del conte di Bassewitz. (Nota dell’Autore)
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famiglia imperiale, il senato, tutte le persone più in vista e una marea di
popolo. Fu esposto su un letto addobbato e tutti furono liberi di avvicinarlo e
di baciargli la mano fino al giorno della sepoltura che fu fatta il 10/21 marzo
1725.
Si credette e si stampò che nel testamento avesse nominato erede
dell’impero la consorte Caterina; in realtà non aveva fatto testamento o
almeno non risultò mai694, negligenza strana in un legislatore e che dimostra
come egli non avesse creduto mortale la sua malattia.
Al momento della morte, non si sapeva chi avrebbe occupato il trono:
lasciava Pietro, suo nipote, nato dallo sventurato Alessio; lasciava la sua
figlia maggiore, duchessa di Holstein. C’era un partito abbastanza potente
favorevole al giovane Pietro. Il principe Menšikov, che era stato sempre
legato all’imperatrice Caterina, prevenne tutti i partiti e tutti i progetti.
Pietro era sul punto di spirare quando Menšikov fece entrare l’imperatrice in
un salone dove erano già riuniti gli altri amici: il tesoro viene trasportato
alla fortezza, ci si assicura la fedeltà delle guardie; il principe Menšikov
riuscì a tirare dalla sua l’arcivescovo di Novgorod; Caterina assieme a loro e
a un segretario particolare chiamato Makarov695, tenne una riunione
segreta, cui assistette il ministro del duca di Holstein.
Uscendo da questa riunione, l’imperatrice tornò presso lo sposo morente
che rese fra le sue braccia l’ultimo respiro. Subito i senatori e gli ufficiali
generali accorsero alla reggia; l’imperatrice parlò a costoro, Menšikov
rispose a loro nome; per formalità, la decisione non fu presa in presenza
dell’imperatrice. L’arcivescovo di Pskov Feofan dichiarò che alla vigilia
dell’incoronazione di Caterina, l’imperatore gli aveva confidato che la
incoronava soltanto per farla regnare dopo di lui; tutta l’assemblea
sottoscrisse la proclamazione e Caterina succedette allo sposo il giorno
stesso della sua morte.
In Russia Pietro il Grande fu rimpianto da tutti coloro che aveva istruito, e
ben presto la generazione successiva a quella dei fautori degli antichi
costumi lo considerò un padre. Quando gli stranieri constatarono che tutte
le sue innovazioni resistevano, ebbero per lui un’ammirazione costante e
riconobbero che era stato ispirato da una straordinaria saggezza piuttosto
che dal desiderio di fare cose strabilianti. L’Europa riconobbe che era stato
amante della gloria, ma che l’aveva impiegata a fin di bene, che i suoi difetti
non avevano mai oscurato le sue grandi qualità, che in lui, anche se l’uomo
ebbe qualche macchia, il monarca fu sempre grande. In ogni cosa egli ha
trionfato sulla natura: nei suoi sudditi, in se stesso, sulla terra e sulle acque,
ma l’ha dominata per abbellirla. Le arti che trapiantò di sua mano in quelle
694 A questo proposito, si è ipotizzato che Caterina rimase sola tutto quel tempo con lo zar
morente proprio per cercare il testamento: se non si fosse trovato sarebbe stata
sicuramente lei l’erede al trono.
695 Sull’originale Macarof. Aleksej Vasil’evič Makarov (1674?-1740), segretario di gabinetto di
Pietro I e, poi, capo del senato. Amministratore e consigliere fidato, seguì Pietro nei suoi
viaggi. Contribuì all’elezione di Caterina I, ma dopo la sua morte fu falsamente accusato
di corruzione e occultamento di documenti segreti e allontanato dalla corte.
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regioni, alcune delle quali erano allora selvagge, fruttificando hanno reso
testimonianza del suo genio e hanno immortalato la sua memoria; oggi
sembrano originarie di quegli stessi Paesi in cui le introdusse. Leggi, civiltà,
politica, disciplina militare, marina, commercio, manifatture, scienze e belle
arti, tutto si è perfezionato secondo le sue intenzioni, e per una singolarità
mai vista prima di allora, furono quattro donne, salite successivamente al
trono dopo di lui, a mantenere tutto quello che egli aveva compiuto e a
perfezionare tutto quello che aveva intrapreso696.
Dopo la sua morte, il palazzo è andato soggetto a rivolgimenti, lo Stato
mai. Lo splendore dell’impero si è accresciuto sotto Caterina I, ha trionfato
sui Turchi e sugli Svedesi sotto Anna Petrovna, ha conquistato la Prussia e
una parte della Pomerania sotto Elisabetta; ha goduto per la prima volta i
frutti della pace e ha visto prosperare le arti sotto Caterina II. Spetta agli
storici nazionali precisare in tutti i dettagli le istituzioni, le leggi, le guerre e
le imprese di Pietro il Grande; celebrando tutti coloro che hanno coadiuvato
il monarca nelle sue imprese politiche e guerriere, essi incoraggiano i propri
compatrioti. A uno straniero, ammiratore disinteressato del merito, basta
aver tentato di mostrare chi fu questo grand’uomo che imparò da Carlo XII
a vincerlo, che per due volte abbandonò la patria per governarla meglio, che
con le sue stesse mani lavorò a quasi tutte le arti necessarie per dare
l’esempio al suo popolo e che fu il fondatore e il padre del suo impero.
I sovrani degli Stati da tempo civilizzati diranno a se stessi: «Se nel
gelido clima dell’antica Scizia un uomo, con l’aiuto del suo solo genio, ha
fatto cose così grandi, che dovremmo fare noi nei nostri regni in cui le opere
accumulate da molti secoli ci hanno reso tutto facile?».
FINE DELLA STORIA DI RUSSIA
696 Volutamente Voltaire ignora Pietro II, che regnò dal 1727 al 1730, in quanto considerato
dai suoi stessi contemporanei un incapace, arrogante e crudele. Egli lasciò la gestione e
della politica estera a Osterman e di quella interna prima a Menšikov e poi a Dolgorukij,
impedendo però di fatto il proseguimento delle opere di Pietro il Grande: per esempio,
fece chiudere i cantieri navali.
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DOCUMENTI ORIGINALI
secondo le traduzioni fatte all’epoca per ordine di Pietro I
CONDANNA DI ALESSIO
24 GIUGNO 1718697
Ai sensi dell’urgente ordinanza emanata da Sua Maestà lo zar, e
sottoscritta di sua propria mano il 13 giugno scorso, per il giudizio dello
zarevič Alessio Petrovič, sulle sue trasgressioni e i suoi crimini contro suo
padre e suo signore, i sottoscritti, ministri, senatori, stati militare e civile,
dopo essersi riuniti molte volte nella camera della reggenza del senato, a
Pietroburgo; avendo ascoltato più volte la lettura che è stata fatta degli
originali e degli estratti delle testimonianze che sono state rese contro di lui,
così come delle lettere di esortazione di Sua Maestà lo zar allo zarevič, e
delle risposte da lui date e scritte di sua mano, e degli altri atti riguardanti il
processo, così come delle informazioni criminose e delle confessioni, e delle
dichiarazioni dello zarevič, tanto scritte di sua mano che dette a voce al suo
signore e padre, e dinanzi ai sottoscritti investiti dell’autorità di Sua Maestà
lo zar agli effetti del presente giudizio: essi hanno dichiarato e riconosciuto
che secondo le leggi dell’impero russo non era di loro spettanza, essendo
sudditi naturali del sovrano dominio di Sua Maestà lo zar, giudicare un affare
di questa natura, che, per la sua importanza, dipende unicamente dalla
volontà assoluta del sovrano, il cui potere non dipende che da Dio solo e
non è limitato da legge alcuna; si sottomettono tuttavia alla suddetta
ordinanza di Sua Maestà lo zar loro sovrano, che dà loro questa libertà e,
dopo mature riflessioni e in coscienza cristiana senza timore né adulazione e
senza avere riguardo alla persona, non avendo dinanzi agli occhi che le leggi
divine applicabili al caso presente, tanto dell’Antico che del Nuovo
Testamento, le sacre scritture del Vangelo e degli apostoli, come pure i
canoni e le costituzioni dei concili, l’autorità dei santi padri e dei dottori della
Chiesa; prendendo anche visione delle considerazioni degli arcivescovi e del
clero riuniti a Pietroburgo per ordine di Sua Maestà lo zar, che sono
trascritte qui sopra; e conformandosi alle leggi di tutta la Russia, e in
particolare alle costituzioni di questo impero, alle leggi militari e agli statuti
che sono conformi alle leggi di molti altri Stati, soprattutto a quelli degli
antichi imperatori romani e greci e di altri principi cristiani; i sottoscritti
697 Cfr. seconda parte, capitolo X. (Nota dell’autore) – 24 giugno (calendario giuliano) o 5
luglio (calendario gregoriano).
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essendo stati agli avvisi, hanno convenuto all’unanimità e senza discordia, e
hanno pronunciato che lo zarevič Alessio Petrovič è degno di morte per i
suddetti suoi crimini, e per le sue trasgressioni capitali contro suo padre e il
suo sovrano, essendo figlio e suddito di Sua Maestà lo zar; in quanto,
sebbene Sua Maestà lo zar avesse promesso allo zarevič, con la lettera
inviatagli tramite il signor Tolstoj, consigliere privato, e il capitano
Romanzov, datata a Spa il 10 luglio 1717, di perdonargli la sua fuga se
ritornava di suo buon grado e volontariamente, così come lo zarevič stesso
lo riconobbe ringraziando nella sua risposta a questa lettera, scritta a Napoli
il 4 ottobre 1747, dove sottolineava che ringraziava Sua Maestà lo zar per il
perdono che gli era accordato soltanto per la sua evasione volontaria: egli
se ne rese indegno con le sue opposizioni alle volontà di suo padre, e con le
sue altre trasgressioni che rinnovò e continuò, come è ampiamente esposto
nel manifesto pubblicato da Sua Maestà lo zar il 3 febbraio del presente
anno, e perché tra le altre cose non è ritornato di suo buon grado.
E sebbene Sua Maestà lo zar, all’arrivo dello zarevič a Mosca, con il suo
scritto di confessione dei suoi crimini, dove ne chiedeva perdono, ebbe pietà
di lui, come è naturale a un padre averne per i suoi figli; e sebbene
all’udienza che gli diede nella sala del castello, lo stesso giorno 3 febbraio,
gli promettesse il perdono di tutte le sue colpe, Sua Maestà lo zar gli fece
nondimeno questa promessa soltanto alla esplicita condizione che espresse
in presenza di tutti gli astanti, cioè: che lo zarevič dichiarasse, senza alcuna
restrizione né riserva, tutto ciò che aveva commesso e tramato fino a quel
giorno contro Sua Maestà lo zar, e rivelasse il nome di tutte le persone che
gli diedero consigli, i suoi complici, e in generale di tutti coloro che seppero
qualcosa delle sue intenzioni e delle sue trame; ma che, se nascondeva
qualcuno o qualcosa, il perdono promesso sarebbe stato nullo e così
revocato; cosa che lo zarevič intese allora e accettò, almeno in apparenza,
con lacrime di riconoscenza, e promise con giuramento di dichiarare tutto
senza riserva. In conferma di ciò egli baciò la santa Croce e le sacre
Scritture nella chiesa cattedrale.
Sua Maestà lo zar gli confermò ancora la stessa cosa di sua propria mano
l’indomani, negli articoli dell’interrogatorio sopra inseriti, che gli fece
consegnare, all’inizio dei quali era scritto ciò che segue:
«Siccome avete ricevuto ieri il perdono, a condizione che dichiariate tutte
le circostanze della vostra fuga e ciò che vi abbia relazione; ma che, se
nasconderete qualcosa, sarete privato della vita; e siccome avete già
esposto a voce alcune dichiarazioni, voi dovete, per una più ampia
soddisfazione, e a vostra discolpa, metterle per iscritto secondo i punti
segnati qui sotto…»
E, nella conclusione, era ancora scritto per mano di Sua Maestà lo zar nel
settimo articolo:
«Dichiarate tutto ciò che ha relazione con questo affare, quand’anche ciò
non fosse qui precisato, e ditelo lealmente come in una santa confessione;
ma se voi nascondete o celate qualcosa che si scoprirà in seguito, non mi
imputate di nulla: perché vi fu dichiarato ieri dinanzi a tutti che, in tal caso,
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il perdono che avete ricevuto sarebbe nullo e revocato».
Ciononostante lo zarevič ha parlato nelle sue risposte e nelle sue
confessioni senza alcuna sincerità; egli ha celato e nascosto non soltanto
molte persone, ma anche cose capitali, e le sue trasgressioni e in particolare
i suoi disegni di ribellione contro suo padre e il suo signore, e le sue
malvagie pratiche che egli tramò e mantenne a lungo per provare a
usurpare il trono di suo padre, ancor lui vivente, con male arti e cattivi
pretesti, fondando la sua speranza e i voti che faceva per la morte di suo
padre e signore sulla dichiarazione, di cui si lusingava, del popolo minuto in
suo favore.
Tutto ciò fu scoperto in seguito a informazioni criminose, dopo che rifiutò
di dichiararlo lui stesso, come si vide sopra.
Così è evidente che per tutti questi portamenti dello zarevič, e per le
dichiarazioni che egli diede per iscritto e a voce, e infine per quella del 22
giugno del corrente anno, che egli non volle affatto che la successione alla
corona gli venisse dopo la morte di suo padre, nel modo in cui suo padre
pensava di lasciargliela, secondo l’ordine dell’equità, e per le strade e i
mezzi che da Dio sono prescritti; ma che egli l’ha desiderata e ha avuto
intenzione di giungervi, anche vivente suo padre e suo signore, contro la
volontà di Sua Maestà lo zar, e opponendosi a tutto ciò che suo padre
voleva, e non soltanto con rivolte e sollevazioni di ribelli, che egli sperava,
ma ancora per l’assistenza dell’imperatore, e con un esercito straniero, che
si illudeva di avere a sua disposizione, anche a prezzo di rovesciare l’impero
e di alienare tutto ciò che si sarebbe potuto domandargli per questa
assistenza.
La relazione che si è appena fatta dimostra dunque che lo zarevič,
nascondendo tutte queste perniciose intenzioni, e tenendo segrete molte
persone che furono d’accordo con lui, come fece fino all’ultimo esame, e fino
a che fu pienamente convinto di tutte le sue macchinazioni, ebbe in animo
di riservarsi le risorse per l’avvenire, quando si fosse presentata l’occasione
di riprendere i suoi disegni, e di condurre a termine l’esecuzione di tale
orribile impresa contro suo padre e il suo signore, e contro tutto questo
impero.
Egli si è reso con ciò indegno della clemenza e del perdono che gli fu
promesso dal suo signore e padre; lo riconobbe anche lui stesso, tanto
dinanzi a Sua Maestà lo zar che in presenza di tutti gli stati ecclesiastici e
secolari, e pubblicamente dinanzi a tutta l’assemblea; e ha persino
dichiarato a voce e per iscritto davanti ai giudici sottoscritti, stabiliti da Sua
Maestà lo zar, che tutto quanto suddetto era vero e manifesto per gli effetti
che se ne erano visti.
Così, poiché le suddette leggi divine ed ecclesiastiche, civili e militari, e
particolarmente le ultime due, condannano a morte senza misericordia, non
soltanto coloro i cui attentati contro il loro padre e signore siano stati
manifestati da evidenze o provati da scritti, ma anche coloro i cui attentati
non sono rimasti che piani di ribellione, o formati da semplici intenzioni di
uccidere il loro sovrano o di usurpare l’impero; che cosa pensare di
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un’intenzione di ribellione, tale che non si è mai sentito parlare di cosa
simile nel mondo, unita a quella orribile di un doppio parricidio contro il
proprio sovrano? in primo luogo perché padre della patria, e ancora come
suo padre secondo natura (un padre clementissimo, che fece allevare lo
zarevič dalla culla in poi con cure più che paterne, con una tenerezza e una
bontà che si sono manifestati in ogni incontro, un padre che ha procurato a
formarlo per il governo, e a istruirlo con pene incredibili e applicazione
instancabile nell’arte militare, per renderlo capace e degno della successione
di un così grande impero); quanto più, per queste ragioni, un tale disegno
ha meritato una condanna di morte?
È con un cuore afflitto e occhi colmi di lacrime che noi, come servitori e
sudditi, pronunciamo questa sentenza, considerando che non ci spetta
affatto, in tale qualità, entrare in un giudizio di così grande importanza, e
particolarmente di pronunciare una decisiva sentenza contro il figlio del
potententissimo e clementissimo zar nostro signore. Tuttavia essendo sua
volontà che noi giudicassimo, dichiariamo con la presente la nostra vera
opinione, e pronunciamo questa condanna con una coscienza così pura e
così cristiana che crediamo di poterla sostenere dinanzi al terribile, giusto e
imparziale giudizio del grande Dio.
Sottoponendo del resto questa sentenza che noi emettiamo, e questa
condanna che facciamo, alla potenza sovrana, alla volontà e alla clemente
revisione di Sua Maestà lo zar, nostro clementissimo monarca.
PACE DI NEUSTADT
IN NOME DELLA SANTISSIMA E INDIVISA TRINITÀ.
Sia notorio ai presenti che, siccome si è levata già da molti anni una
guerra sanguinosa, lunga e costosa tra Sua Maestà il defunto re Carlo XII,
di gloriosa memoria, re di Svezia, dei Goti e dei Vandali, ecc., i suoi
successori al trono di Svezia, signora Ulrica, regina di Svezia, dei Goti e dei
Vandali, ecc., e il regno di Svezia da una parte; e tra Sua Maestà lo zar
Pietro I, imperatore di tutta la Russia, ecc., e l’impero di Russia dall’altra
parte: le due parti hanno convenuto di cercare di porre fine a tali disordini e
di conseguenza all’effusione di tanto sangue innocente; ed è piaciuto alla
Divina Provvidenza disporre gli animi delle due parti a far riunire i loro
ministri plenipotenziari per trattare e concludere una pace ferma, sincera e
durevole, e un’amicizia eterna tra i due Stati, province e paesi, vascelli,
sudditi e abitanti; cioè il signor Johan Lillienstedt698, consigliere di Sua
Maestà il re di Svezia, del suo regno e della sua cancelleria, e il barone Otto
698 Sull’originale Jean Liliensted. Johan Paulinus Lillienstedt (o Liljenstedt; 1655-1732), conte
e statista svedese. Prima della pace di Neustadt/Nystad aveva partecipato a numerose
missioni diplomatiche, tra cui quella che portò alla pace di Åland.
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Reinhold Strömfelt699, intendente delle miniere di rame e dei feudi dei
Dalderi per parte della suddetta Maestà e per parte di Sua Maestà lo zar, il
conte James Bruce, suo aiutante generale di campo, presidente dei collegi
dei minerali e delle manifatture, e cavaliere degli ordini di Sant’Andrea e
dell’Aquila bianca, e Heinrich Johann Friedrich Ostermann, consigliere
privato della cancelleria di Sua Maestà lo zar. I quali ministri plenipotenziari
essendosi riuniti a Neustadt, hanno fatto il cambio dei loro poteri; e dopo
aver implorato l’assistenza divina, hanno dato mano a questa importante e
molto salutevole opera, e hanno concluso, con la grazia e la benedizione di
Dio, la pace seguente tra la Corona di Svezia e Sua Maestà lo zar.
Art. I. Vi sarà d’ora innanzi, e per sempre, una pace inviolabile per terra e
per mare, come pure un’unione sincera e un’amicizia indissolubile, tra Sua
Maestà Federico I, re di Svezia, dei Goti e dei Vandali, i suoi successori alla
Corona e al regno di Svezia, i suoi domini, province, paesi, città, vascelli,
sudditi e abitanti, tanto nell’impero romano che fuori di detto impero, da
una parte; e Sua Maestà Pietro I, imperatore di tutta la Russia, ecc., i suoi
successori al trono di Russia, e tutti i suoi paesi, città, vascelli, sudditi e
abitanti, dall’altra parte; in modo che in avvenire le due parti pacificate non
commetteranno, né permetteranno che si commetta, alcuna ostilità,
segretamente o pubblicamente, direttamente o indirettamente, per loro o
per altri. Esse non daranno neppure alcun soccorso ai nemici di una delle
due parti pacificate, sotto qualunque pretesto, e non faranno con loro
alcuna alleanza che sia contraria a questa pace; ma conserveranno sempre
tra loro un’amicizia sincera, e procureranno di mantenere l’onore, il
vantaggio e la sicurezza reciproca; come pure di impedire, quanto sarà loro
possibile, i danni e i disordini dei quali una delle due parti fosse minacciata
da qualche altra potenza.
II. Vi è in più, da una parte e dall’altra, un perdono generale delle
crudeltà commesse durante questa guerra, sia con le armi o per altre vie, in
modo che non le si ricordi né si faccia vendetta alcuna; particolarmente nei
confronti di tutte le persone di Stato, e dei sudditi di qualunque nazione
siano che hanno preso servizio in una delle due parti durante la guerra, e
che per questo passo si sono resi nemici della parte avversa, eccetto i
Cosacchi russi che passarono al servizio del re di Svezia, e che Sua Maestà
lo zar non ha voluto che fossero compresi in questo perdono generale,
malgrado tutte le istanze fatte dal re di Svezia in loro favore.
III. Tutte le ostilità, tanto per mare che per terra, cesseranno qui e nel
Granducato di Finlandia, entro quindici giorni, o prima se è possibile, dalla
sottoscrizione di questa pace; ma negli altri luoghi entro tre settimane, o
prima se è possibile, dacché si sarà fatto il cambio da una parte e dall’altra.
Per tale effetto si pubblicherà subito la conclusione della pace. E nel caso in
699 Sull’originale Stroemfeld. Otto Reinhold Strömfelt (o Strömfeldt; 1679-1746), politico
svedese. Dal 1720 al 1731 fu governatore della contea di Dalarna (che fino al 1997 si
chiamava Kopparberg, per la presenza di miniere di rame). In seguito fece parte dei
servizi di Stato e nel 1743 diventò presidente della Corte d’appello di Turku.
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cui, trascorso questo termine, sia commessa qualche ostilità o per mare o
per terra, dall’una o dall’altra parte, sotto qualunque nome, per ignoranza
della pace conclusa, ciò non arrecherà alcun pregiudizio alla conclusione di
questa pace; ma si dovranno restituire e gli uomini e gli effetti presi, e tolti
dopo il suddetto tempo.
IV. Sua Maestà il re della Svezia cede con la presente, tanto per sé che
per i suoi successori al trono e al regno di Svezia, a Sua Maestà lo zar e suoi
successori all’impero di Russia, in piena, irrevocabile ed eterna proprietà, le
province che furono conquistate e prese con le armi da Sua Maestà lo zar in
questa guerra alla corona di Svezia; cioè la Livonia, l’Estonia, l’Ingria e una
parte della Carelia, così come il distretto del feudo di Vyborg, precisato qui
sotto nell’articolo del regolamento dei confini; le città e fortezze di Riga,
Dunemunde700, Pernau701, Revel702, Dorpt703, Narva, Vyborg, Kexholm704, e le
altre città, fortezze, porti, piazze, territori, lidi e coste appartenenti alle
suddette province, come anche le isole di Ösel, Dagö, Mön, e tutte le altre
isole dalla frontiera di Curlandia, sulle coste di Livonia, Estonia e Ingria, e
dal lato orientale di Revel, sul mare, che va a Vyborg, verso Mezzogiorno e
Oriente; con tutti gli abitanti che si trovano in dette isole, province, città e
piazze; e generalmente tutte le loro pertinenze, dipendenze, prerogative,
diritti ed emolumenti, senza alcuna eccezione, così come la Corona di Svezia
le ha possedute.
Per tale effetto, Sua Maestà il re di Svezia rinuncia per sempre, nella
maniera più solenne, tanto per sé quanto per i suoi successori e per tutto il
regno di Svezia, a tutte le pretese che ebbero finora, o possano avere sulle
suddette province, isole, paesi e piazze, delle quali tutti gli abitanti saranno,
ai sensi della presente, prosciolti dal giuramento [di fedeltà] che hanno
prestato alla Corona di Svezia; in modo che Sua Maestà e il regno di Svezia
non potranno più attribuirseli d’ora innanzi, né richiederli mai, sotto
qualunque pretesto; ma essi saranno e resteranno annessi in perpetuo
all’impero di Russia; e Sua Maestà e il regno di Svezia si impegnano con la
presente di lasciare e mantenere sempre Sua Maestà lo zar e i suoi
successori all’impero di Russia nel pacifico possesso delle suddette province,
isole, paesi e piazze; e di cercare e consegnare a quelli che saranno
autorizzati da Sua Maestà lo zar tutti gli archivi e le carte, riguardanti
principalmente questi Paesi, che siano stati sottratti e portati in Svezia
durante la guerra.
V. Sua Maestà lo zar, in cambio, si impegna e promette di restituire e
dare, libero e vuoto dalle truppe, a Sua Maestà e alla corona di Svezia, nel
termine di quattro settimane dopo aver ratificato scambievolmente questo
trattato di pace, o prima se è possibile, il Granducato di Finlandia, eccetto la
parte riservata qui sotto nel regolamento dei confini, che apparterrà a Sua
700 O Jurmala, in Lettonia.
701 O Pärnu, in Estonia.
702 O Reval, ora Tallinn, in Estonia.
703 O Dorpat, o Derpt, ora in Russia.
704 Odierna Korela.
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Maestà lo zar; in modo che Sua Maestà lo zar e i suoi successori non
avranno né produrranno mai alcuna pretesa sul suddetto ducato sotto
qualunque pretesto. Oltre a ciò, Sua Maestà lo zar si impegna e promette di
fare pagare subito, infallibilmente e senza diminuzione, la somma di due
milioni di scudi alle autorità del re di Svezia, purché presentino e diano
ricevute valide nei termini fissati, e in tale sorta di moneta di cui si è deciso
in un articolo separato, il quale è dello stesso vigore come se fosse qui
inserito parola per parola.
VI. Sua Maestà il re di Svezia si è anche riservato, riguardo al commercio,
il permesso per sempre di fare comperare annualmente cereali a Riga, Revel
e Ahrensburg, per 50.000 rubli: i quali cereali usciranno dalle suddette
piazze senza pagare alcun dazio o altra imposta, per essere trasportati in
Svezia, mediante un attestato sul quale appaia che sono stati comperati per
conto di Sua Maestà svedese, o da sudditi incaricati di tale acquisto da Sua
Maestà il re di Svezia: ciò però non sarà valido negli anni in cui Sua Maestà
lo zar si trovasse costretta, in mancanza di raccolto, o per altre ragioni
importanti, a vietare il trasporto di cereali a tutte le nazioni in generale.
VII. Sua Maestà lo zar promette ancora, nella forma più solenne, che non
si mischierà affatto negli affari interni del regno di Svezia, né nella forma di
reggenza che fu regolata e stabilita con giuramento, e all’unanimità dagli
Stati del detto regno; che non assisterà alcuno, in nessun modo, che possa
essere direttamente o indirettamente [coinvolto], ma che proverà a
impedire e prevenire tutto ciò che vi fosse contrario, purché ciò venga a
conoscenza di Sua Maestà lo zar; al fine di dare con ciò prove evidenti di
un’amicizia sincera e di buon vicinato.
VIII. E poiché si ha, da una parte e dall’altra, l’intenzione di fare una pace
ferma, sincera e duratura, e che perciò è necessario regolare precisamente i
confini, in modo che nessuna delle due parti possa averne ombra, ma che
ciascuna possieda in maniera pacifica ciò che le è stato ceduto con questo
trattato di pace. Esse hanno voluto dichiarare che i due imperi avranno,
d’ora in poi e per sempre, i confini seguenti, i quali cominciano sulla costa
settentrionale del Sinus Finicus705, vicino a Vikolax, da cui si estendono per
mezza lega dalla riva del mare fin di fronte a Villayoki, e di la più oltre nel
Paese; per modo che, dalla parte del mare e dirimpetto a Rohel, ci sarà una
distanza di tre quarti di lega in linea diametrale fino alla strada che va da
705 Golfo di Finlandia in latino. I nomi delle località dette in seguito, eccetto Vyborg e
Kexholm (in russo Priozersk) non sono oggi riscontrabili con certezza: per esempio, Rohel
è stata identificata sia con Röhäll (Finlandia) che con Roheline (Estonia). Ma già all’epoca
di Voltaire l’articolo VIII risultava poco comprensibile: ne Le Grand Dictionnaire
Géographique et Critique di Antoine Augustin Bruzen de la Martinière, edito a Venezia nel
1737-1741, alla voce “Carelia” è riportato, dopo il testo virgolettato, questo commento:
«Io uso la traduzione francese di questo trattato, che è stata pubblicata nelle relazioni del
tempo. Ci sono delle oscurità che provengono dall’incapacità del traduttore, e non è facile
stabilire cosa si intenda per linea diametrale e per le altre espressioni impiegate, ma non
sono stato in grado di porvi rimedio in mancanza del trattato in lingua originale. Vyborg e
Kexholm erano capitali, la prima, della Carelia finlandese e, la seconda, della Carelia di
Kexholm e attualmente sono nella Carelia moscovita».
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Vyborg a Lapstrand, distante tre leghe da Vyborg, e che va nella stessa
distanza di tre leghe verso nord per Vyborg, in linea diametrale fino agli
antichi confini che erano tra Russia e Svezia, e anche prima della riduzione
del feudo di Kexholm, sotto la sovranità del re di Svezia. Questi antichi
confini si estendono, dal lato nord, a otto leghe; di là vanno, per linea
diametrale, attraverso il feudo di Kexholm fino al luogo dove il mare di
Porojeroi, che comincia presso il villaggio di Kudumagube, bagna gli antichi
confini che furono già tra la Russia e la Svezia; cosicché Sua Maestà il re e il
regno della Svezia possiederanno per sempre tutto ciò che è situato verso
ovest e verso nord, oltre i confini precisati; e Sua Maestà lo zar e l’impero di
Russia possiederanno per sempre ciò che è di qua situato, dal lato d’oriente
e del sud. E come Sua Maestà lo zar cede in questo modo per sempre a Sua
Maestà il re e al regno di Svezia una porzione del feudo di Kexholm, che
prima apparteneva all’impero di Russia, così promette nella maniera più
solenne, per sé e i suoi successori al trono di Russia, che non richiederà né
potrà richiedere mai questa porzione del feudo di Kexholm, sotto qualunque
pretesto; ma la suddetta porzione sarà e resterà sempre incorporata al
regno di Svezia. Quanto ai confini nei paesi dei Lapmarchi, essi resteranno
sullo stesso piano in cui erano prima dell’inizio di questa guerra tra i due
imperi. Si è deciso, inoltre, di nominare, subito dopo la ratifica del trattato
principale, dei commissari da una parte e dall’altra per regolare i confini nel
modo suddetto.
IX. Sua Maestà lo zar promette inoltre di mantenere tutti gli abitanti delle
province di Livonia, Estonia e Ösel, i nobili e i plebei, le città, i magistrati e
le corporazioni di mestieri, nell’intero godimento di privilegi, usanze e
prerogative di cui hanno goduto sotto il dominio del re di Svezia.
X. Non si introdurrà neppure l’obbligo di coscienza nei Paesi che sono
stati ceduti; ma in quelli si lascerà e sarà mantenuta la religione evangelica,
così come le chiese, le scuole, e ciò che da esse dipende, nello stesso posto
in cui erano al tempo dell’ultima reggenza del re di Svezia, a condizione che
vi si possa esercitare liberamente anche la religione greca.
XI. Quanto alla riduzione e liquidazione che furono fatte al tempo della
passata reggenza del re di Svezia, in Livonia, Estonia e Ösel, con grave
danno dei sudditi e degli abitanti di quel paese (ciò che ha portato, non
meno che l’equità dell’affare stesso, il defunto re di Svezia, di gloriosa
memoria, a dare assicurazione, con una patente pubblicata il 13 aprile
1700, «che, se alcuni dei suoi sudditi possono provare legalmente che i beni
che sono stati confiscati sono loro, si renderà loro giustizia a tale riguardo»;
e allora molti sudditi dei suddetti Paesi furono rimessi nel possesso dei loro
beni confiscati), Sua Maestà lo zar si impegna e promette di rendere
giustizia a ognuno, sia che rimanga dentro o fuori il territorio, che abbia
giusto titolo sulle terre in Livonia, Estonia, o nella provincia di Ösel, e la
possa verificare nelle debite forme; in modo che essi rientrino in possesso
dei loro beni o terre.
XII. Si restituiranno anche tempestivamente, in conformità dell’amnistia
che fu accordata e regolata qui sopra nell’articolo II, a quelli di Livonia, di
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Estonia e dell’isola di Ösel, che hanno seguito in questa guerra le parti del
re di Svezia, i beni, terre e case che furono confiscate e dati ad altri, tanto
nelle città di queste province che in quelle di Narva e Vyborg, sia che a essi
siano appartenuti prima della guerra o siano a loro passate durante la
guerra per eredità o altro titolo, senza alcuna eccezione o restrizione, sia
che i proprietari si trovino ora in Svezia o in prigione, o in altro luogo, dopo
che ciascuno avrà prima dimostrato presso il governo generale i documenti
riguardanti i suoi diritti; ma questi proprietari non potranno pretendere nulla
delle entrate che furono da altri riscosse in questa guerra, e dopo la
confisca, né alcun risarcimento dei danni sofferti in questa guerra o
altrimenti. Coloro che rientrano in questo modo nel possesso dei loro beni o
terre saranno obbligati a rendere omaggio a Sua Maestà lo zar, ora loro
sovrano, e a comportarsi nel resto come fedeli vassalli e sudditi; dopo che
avranno prestato il giuramento abituale, sarà loro permesso uscire dal
Paese, di andare a dimorare altrove nei Paesi di quelli che sono alleati e
amici dell’impero di Russia, e di mettersi al servizio di potenze neutrali, o di
continuarvi, se già vi sono impegnati, come giudicheranno al proposito. Per
quelli che non vogliono rendere omaggio a Sua Maestà lo zar, resta loro
fissato e concesso il termine di tre anni dopo la pubblicazione della pace,
per vendere entro questo tempo i loro beni, terre e ciò che loro appartiene,
al meglio che potranno, senza pagare più di quello che tutti devono pagare
in conformità con le ordinanze e gli statuti del Paese. In caso che
succedesse in futuro che un’eredità sia attribuita, secondo le leggi del
Paese, a qualcuno che non abbia prestato il giuramento di fedeltà a Sua
Maestà lo zar, sarà obbligato a farlo al ricevimento della sua eredità, o a
vendere questi beni in capo a un anno.
Nello stesso modo, coloro che hanno esborsato denaro su terre situate in
Livonia, Estonia e nell’isola di Ösel, e che ne abbiano ricevuto dei contratti
legittimi, godranno in modo pacifico delle loro ipoteche finché se ne paga
loro e il capitale e l’interesse; ma tali ipotecari non potranno pretendere
nulla degli interessi che siano scaduti durante la guerra e che siano stati
raccolti; ma coloro che, nell’uno o nell’altro caso, hanno l’amministrazione
dei beni suddetti, saranno obbligati a rendere omaggio a Sua Maestà lo zar.
Tutto ciò si intende anche per coloro che restano sotto la sovranità di Sua
Maestà lo zar, i quali avranno la medesima libertà di disporre dei beni che
posseggono in Svezia e nei paesi ceduti alla Corona di Svezia per questa
pace. Inoltre si manterranno anche reciprocamente i sudditi delle parti
pacificate che hanno pretese giuste nei paesi delle due potenze, col pubblico
o con persone private, e si renderà loro una giustizia rapida, affinché
ciascuno sia così messo e rimesso in possesso di ciò che gli appartiene di
diritto.
XIII. Tutti i contributi in denaro cesseranno nel Granducato di Finlandia,
che Sua Maestà lo zar restituisce, secondo l’articolo V, a Sua Maestà il re e
al regno di Svezia, a contare dalla data della firma del presente trattato; ma
vi si forniranno tuttavia gratuitamente i viveri e i foraggi necessari alle
truppe di Sua Maestà lo zar, finché il suddetto ducato sia del tutto libero, sul
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piano che si è praticato finora; e lo si difenderà e si vieterà, sotto pene
rigorosissime, di condurre via dai loro alloggi alcun ministro o paesano
finlandese, contro loro voglia, o di fargli alcun torto. Oltre a ciò, si
lasceranno tutte le fortezze e castelli della Finlandia nello stesso stato in cui
sono ora; ma sarà permesso a Sua Maestà lo zar di fare trasportare,
ritirandosi dal suddetto paese e piazze, ogni grande e piccolo cannone, i loro
attrezzi, depositi e altre munizioni di guerra che Sua Maestà lo zar vi fece
trasportare a qualunque titolo. Per questo fine, e per il trasporto dei bagagli
dell’esercito, gli abitanti forniranno gratuitamente i cavalli e i carri necessari
fino alle frontiere. Inoltre, se non si potesse effettuare tutto ciò nel termine
stipulato, e che si fosse obbligati a lasciare indietro una parte, essa sarà ben
conservata e ridata poi a coloro che saranno autorizzati da Sua Maestà lo
zar, in altri tempi che piaccia, e si farà parimenti trasportare la suddetta
parte fino alle frontiere. In caso che le truppe di Sua Maestà lo zar avessero
trovato e inviato fuori del Paese alcuni archivi e carte riguardanti il
Granducato di Finlandia, se ne farà fare una ricerca accurata, e si farà
rendere in buona fede ciò che si è trovato a coloro che sono autorizzati da
Sua Maestà il re della Svezia.
XIV. Tutti i prigionieri, di una parte e dell’altra, di qualunque nazione,
condizione e stato che siano, saranno scarcerati immediatamente dopo la
ratifica di questo trattato di pace, senza pagare alcun riscatto; ma occorre
che ciascuno abbia prima saldato i debiti contratti, o abbia dato garanzia
sufficiente per il loro pagamento. Si forniranno loro gratuitamente, da una
parte e dall’altra, i cavalli e i carri necessari, nel tempo fissato per la loro
partenza, in proporzione alla distanza dei luoghi dove essi si trovano
attualmente, fino alle frontiere. Per quanto riguarda i prigionieri che hanno
abbracciato le parti dell’uno o dell’altro, o che hanno intenzione di restare
negli Stati dell’una o dell’altra parte, avranno indifferentemente questo
permesso. Lo stesso si intende per tutti coloro che siano statti presi, da una
parte e dall’altra, durante questa guerra; i quali potranno anche, o restare
dove sono, o tornare a casa loro, eccetto quelli che, di loro spontanea
volontà, hanno abbracciato la religione greca, volendolo così Sua Maestà lo
zar; per il qual fine le due parti pacificate faranno pubblicare e affiggere
degli editti nei loro Stati.
XV. Sua Maestà il re e la Repubblica di Polonia, come alleati di Sua
Maestà lo zar, sono compresi espressamente in questa pace, e si riserva loro
l’accesso nello stesso modo, come se il trattato di pace da rinnovare tra loro
e la Corona di Svezia sia stato inserito qui parola per parola. A questo fine,
cesseranno tutte le ostilità, di qualunque nome siano, ovunque e in tutti i
regni, paese e domini che appartengono alle due parti pacificate, e che sono
situati tanto nell’impero romano che fuori dell’impero romano, e vi sarà una
pace stabile e duratura tra le suddette due Corone. E siccome nessun
ministro plenipotenziario da parte di Sua Maestà e la Repubblica di Polonia
ha assistito al congresso di pace tenutosi a Neustadt, e così non si è potuto
rinnovare allo stesso tempo la pace tra Sua Maestà il re di Polonia e la
Corona di Svezia con un trattato solenne, Sua Maestà il re di Svezia si
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impegna e promette di mandare al congresso di pace i suoi plenipotenziari,
per iniziare le conferenze appena si sarà concertato il luogo del congresso,
al fine di concludere, con la mediazione di Sua Maestà lo zar, una pace
duratura tra questi due re, a condizione che nulla vi sia contenuto che possa
portare del pregiudizio a questo trattato di pace eterna fatto con Sua
Maestà lo zar.
XVI. Si regolerà e si confermerà la libertà del commercio che vi sarà per
mare e per terra tra le due potenze, i loro Stati, sudditi e abitanti, appena
sarà possibile, tramite un trattato a parte su questo tema, in vantaggio
degli Stati di una parte e dell’altra; ma, nel frattempo, sarà permesso ai
sudditi russi e svedesi di trafficare liberamente nell’impero di Russia e nel
regno di Svezia, da quando si sarà ratificato questo trattato di pace,
pagando i dazi ordinari per ogni specie di mercanzia; in modo che i sudditi
di Russia e di Svezia godranno reciprocamente degli stessi privilegi e
prerogative che si accordano ai più grandi amici degli Stati suddetti.
XVII. Essendo la pace conclusa, si restituiranno da una parte e dall’altra
ai sudditi di Russia e di Svezia, non soltanto i magazzini che erano prima
della guerra in alcune città mercantili di queste due potenze, ma anche si
permetterà loro di stabilirne di nuovi nelle città, porti e altre piazze che sono
sotto la sovranità di Sua Maestà lo zar e del re di Svezia.
XVIII. In caso che dei vascelli da guerra o mercantili svedesi vengano ad
arenarsi o perire per tempesta o per altri incidenti sulle coste o lidi della
Russia, i sudditi di Sua Maestà lo zar saranno obbligati a dare loro ogni tipo
di soccorso e di assistenza, di salvare l’equipaggio e gli effetti, quanto sarà
loro possibile, e rendere esattamente ciò che sia stato gettato a terra, se
essi lo richiedono, mediante una ricompensa adatta. I sudditi di Sua Maestà
il re di Svezia faranno lo stesso nei confronti dei vascelli e degli effetti russi
che hanno la disgrazia di arenarsi o perire sulle coste della Svezia. A tale
scopo, e per prevenire eventuali furti, insolenze e saccheggi, che di solito si
commettono in questi sfortunati incidenti, Sua Maestà lo zar e il re di Svezia
faranno emanare un rigorosissimo divieto a questo proposito, e faranno
punire con arbitrio i trasgressori.
XIX. E, per impedire anche per mare ogni occasione che potrebbe far
nascere qualche disaccordo tra le due parti pacificate, tanto quanto è
possibile, si è concluso e risolto che quando d’ora in poi i vascelli da guerra
svedesi, uno o più, sia piccoli che grandi, passeranno innanzi a una delle
fortezze di Sua Maestà lo zar, faranno la salva del loro cannone, ed essi
saranno risalutati da quello della fortezza russa; e viceversa, d’ora in poi
quando i vascelli da guerra russi, uno o più, sia piccoli che grandi,
passeranno davanti a una delle fortezze di Sua Maestà il re di Svezia,
faranno la salva del loro cannone, ed essi saranno risalutati da quello della
fortezza svedese. In caso che i vascelli svedesi e russi si incontrino in mare,
o in qualche porto o altro posto, si saluteranno reciprocamente con la salva
ordinaria, nello stesso modo in cui si usa in simili casi tra Svezia e
Danimarca.
XX. Si è convenuto da ambo le parti di non rimborsare più i ministri delle
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due potenze, come prima; i loro ministri, i plenipotenziari e inviati, senza o
con carattere, che dovranno mantenersi in futuro da sé con tutto il loro
seguito, tanto in viaggio che a corte, e nella città in cui hanno ordine di
andare a risiedere; ma, se una o l’altra delle due parti riceverà
tempestivamente l’avviso dell’arrivo di un inviato, ordinerà ai suoi sudditi di
dargli tutta l’assistenza di cui avrà bisogno, affinché possa continuare in
sicurezza il suo viaggio.
XXI. Da parte di Sua Maestà il re di Svezia, si comprende anche in questo
trattato di pace Sua Maestà il re della Gran Bretagna, alla riserva delle
obiezioni che ci sono tra Sua Maestà lo zar e il suddetto re, di cui si tratterà
direttamente, e si proverà a terminarle amichevolmente. Sarà pure
permesso ad altre potenze, che saranno nominate dalle due parti pacificate
nello spazio di tre mesi, di entrare in questo trattato di pace.
XXII. In caso che si verifichi in futuro qualche vertenza tra gli Stati e i
sudditi di Svezia e di Russia, ciò non pregiudicherà affatto questo trattato di
pace eterna e inviolabile, ma avrà e terrà la sua forza e il suo effetto; e si
nomineranno tempestivamente commissari da una parte e dall’altra per
esaminare e risolvere equamente la vertenza.
XXIII. Si renderanno anche, d’ora in poi, tutti coloro che sono colpevoli di
tradimenti, omicidi, furti e altri crimini, e che passano dalla Svezia in Russia
e dalla Russia in Svezia, soli o con mogli e figli, in caso che la parte lesa del
Paese da cui essi sono fuggiti li reclami, di qualunque nazione essi siano, e
nello stesso stato in cui erano al loro arrivo, con mogli e figli, così come con
tutto ciò che avevano portato via, rubato o saccheggiato.
XXIV. Il cambio delle ratifiche di questo strumento di pace si farà a
Neustadt nello spazio di tre settimane, a partire dalla sottoscrizione, o
prima se è possibile. In fede di tutto ciò, sono stati elaborati due esemplari
dello stesso tenore del presente trattato di pace, che sono stati confermati
dai ministri plenipotenziari di una parte e dell’altra, ai sensi dei poteri che
hanno avuto dai loro signori, che li avevano firmati di proprio pugno, e
autenticati con i loro sigilli.
Fatto a Neustadt il 30 agosto 1721 vecchio stile706, dalla nascita di nostro
Signore.
Johan Paulinus Lillienstedt
Otto Reinhold Strömfelt
James Bruce
Heinrich Johann Friedrich Ostermann
706 Ossia 10 settembre 1721 secondo il calendario gregoriano.
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EDITTO DELL’IMPERATORE PIETRO I
PER L’INCORONAZIONE DELL’IMPERATRICE CATERINA707
Noi, Pietro I, imperatore e autocrate di tutta la Russia, ecc. facciamo
sapere a tutti gli ecclesiastici, ufficiali civili e militari, e altri della nazione
russa, nostri sudditi fedeli [quanto segue]:
Nessuno ignora l’uso costante e perpetuo stabilito nei regni della
cristianità, secondo il quale i sovrani fanno incoronare le loro spose, così
come ciò lo si pratichi attualmente, e lo è stato diverse volte nei tempi
passati dagli imperatori della vera fede greca; cioè l’imperatore Basilide che
ha fatto coronare la sua sposa Zenobia708 l’imperatore Giustino709 la sua
sposa Lupicina, l’imperatore Eraclio la sua sposa Martina; l’imperatore Leone
il Filosofo la sua sposa Maria710, e molti altri che hanno del pari fatto
mettere la corona imperiale sul capo delle loro consorti, ma di cui non
faremo menzione qui, perché ciò ci condurrebbe troppo lontano.
È anche noto fino a quale punto abbiamo noi esposto la nostra persona, e
affrontato i pericoli maggiori, a favore della nostra patria, durante il corso
dell’ultima guerra di ventuno anni consecutivi; che noi abbiamo terminato,
con l’aiuto di Dio in modo così onorevole e vantaggioso che la Russia non
vide mai paci simili, né acquisì mai la gloria che le è derivata da questa
guerra. L’imperatrice Caterina, nostra amatissima sposa, ci fu di grande
aiuto in tutti questi pericoli, non soltanto nella suddetta guerra, ma anche in
alcune altre spedizioni, in cui ci ha accompagnato volontariamente, e ci
servì da consigliere quanto ha potuto, nonostante la debolezza del sesso;
particolarmente nella battaglia contro i Turchi, sul fiume Prut, dove il nostro
esercito era ridotto a 22.000 soldati, e quello dei Turchi era composto da
270.000 uomini. Fu in tale circostanza disperata che ella segnalò soprattutto
il suo zelo con un coraggio superiore al suo sesso, così come è noto a tutto
l’esercito e in tutto il nostro impero. Per queste ragioni, e in virtù del potere
che Dio ci ha dato, noi abbiamo deciso di onorare la nostra sposa della
corona imperiale, in grata riconoscenza di tutte le sue pene; ciò che, se
piace a Dio, sarà compiuto questo inverno a Mosca; e noi diamo avviso di
questa risoluzione a tutti i nostri sudditi fedeli, in favore dei quali la nostra
affezione imperiale è inalterabile.
707 Cfr. seconda parte, capitolo XVII. (Nota dell’autore) – L’editto è del 15/26 novembre
1723. Caterina fu incoronata ufficialmente il 7/18 maggio 1724.
708 Zenobia Settimia era la seconda moglie di Odenato, re di Palmira. “Basilide” (o Basilio
come è riportato in alcune ristampe) sta probabilmente per basileus, come si faceva
chiamare l’imperatore bizantino.
709 Nell’ordinanza è Giustiniano, ma fu il suo predecessore Giustino I (V-VI secolo) a sposare
Lupicina, schiava e di origine barbara, che cambiò il nome in Eufemia quando diventò
imperatrice.
710 Era Leone III Isaurico. Con Leone il Filosofo, o il Saggio, si intende invece Leone VI.
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