Diapositiva 1 - Università degli Studi di Messina

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L’atomo e il suo nucleo
L'atomo è la più piccola porzione di materia che può caratterizzare un elemento e che ne possiede le proprietà
chimiche, deriva dal greco atomos, “indivisibile”, veniva usata dagli antichi filosofi per definire le entità elementari ,
indistruttibili, costitutenti la materia. Questa idea prevalse fino a quando la natura dell’atomo divenne uno degli
argomenti principali della ricerca scientifica sperimentale.
Nei secoli XVI e XVII i risultati ottenuti nell'ambito della chimica diedero un notevole impulso allo sviluppo della
teoria atomica. I primi esperimenti misero in evidenza che le sostanze potevano essere suddivise nei loro componenti
ultimi, o in "corpi semplici", e che questi potevano combinarsi in modo intimo per formare nuovi composti con
proprietà del tutto diverse. In altre parole cominciò a delinearsi il concetto di elemento chimico. La natura degli
elementi fu precisata dal punto di vista scientifico e quantitativo dal chimico britannico John Dalton, nel 1803 che
postulò quanto segue:
La materia è costituita da atomi ;
Gli atomi di uno stesso elemento sono uguali e possiedono la stessa massa ;
Gli atomi di elementi diversi non sono uguali e non possiedono la stessa massa;
Gli atomi che partecipano ad una reazione sono sempre interi e non frazioni di essi.
Nel 1811 il chimico italiano Amedeo Avogadro formulò la legge secondo cui "volumi uguali di gas diversi nelle
stesse condizioni di temperatura e pressione contengono lo stesso numero di particelle";
IL MODELLO ATOMICO DI THOMSON
Nel modello atomico di Thomson, formulato nel 1898, da
J.J.Thomson, si ammetteva che l'atomo, piuttosto che la sferetta solida
e compatta ipotizzata da Dalton, fosse un aggregato di particelle piú
semplici. Alla luce dei pochi dati sperimentali in suo possesso,
J.J.Thomson ipotizzó che l'atomo fosse costituito da una sfera
omogenea carica di elettricitá positiva in cui gli elettroni erano
distribuiti in maniera uniforme e senza una disposizione spaziale
particolare.
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IL MODELLO ATOMICO DI RUTHERFORD
Rutherford ipotizzó che la massa e la carica positiva fossero concentrate in una parte molto piccola dell'atomo
chiamata nucleo, e che gli elettroni si trovavano nella zona periferica, a grande distanza dal nucleo.Questa ipotesi
nasceva da un'importante esperienza, effettuata da due allievi di Rutherford. Una lamina sottilissima di metallo veniva
bombardata con particelle alfa veloci; uno schermo rivelatore indicava poi i punti di arrivo della particelle alfa,
permettendo quindi di stabilirne la traiettoria dopo il passaggio attraverso la lamina.
Se fosse stato valido il modello di Thomson, cioé se l'atomo avesse avuto una struttura omogenea, la particelle alfa
avrebbero dovuto comportarsi tutte nello stesso modo. In realtá le particelle alfa si comportarono in modo diverso: per
la maggior parte passarono senza subire nessuna deviazione, ma alcune vennero deviate secondo vari angoli e alcune
vennero addirittura respinte. Questo comportamento spinse Rutherford a formulare la sua ipotesi; le particelle che non
venivano deviate erano quelle che passavano abbastanza distanti dai nuclei. Quelle che si avvicinavano ai nuclei
venivano deviate per effetto della repulsione elettrica, visto che sia le particelle che i nuclei sono positivi; tanto piú si
avvicinavano ai nuclei, tanto piú fortemente venivano deviate. Quelle che andavano direttamente verso i nuclei
venivano respinte: queste ultime erano poche, perché il il nucleo occupa una parte molto piccola rispetto allo spazio
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occupato da un atomo e quindi la probabilità che una particella si dirigesse proprio contro un nucleo era bassa.
IL MODELLO ATOMICO DI BOHR
Il modello atomico dell’inglese Rutherford è il primo in grado di interpretare e giustificare alcuni fenomeni noti, in
particolare quelli radioattivi (1911). Tuttavia, sebbene il modello di Rutherford sembrava offrire sufficienti garanzie
per una corretta interpretazione della struttura atomica, ad un esame più attento esso mostrava evidenti difficoltà.
Infatti, gli elettroni, sotto l’azione della forza coulombiana, orbitano su traiettorie, che per semplicità consideriamo
circolari, il loro moto quindi è accelerato. Come sappiamo ad ogni carica in moto accelerato è associata un’emissione
di radiazione elettromagnetica che sottrae energia alla particella che emette la radiazione. Immaginando quindi che gli
elettroni si muovano in modo analogo ai pianeti intorno al sole, il raggio della loro orbita, a seguito della perdita di
energia, dovrebbe ridursi progressivamente fino a farli cadere definitivamente sul nucleo in un moto a spirale.
E’ stato calcolato che in tali condizioni il tempo necessario all’elettrone per arrivare sul nucleo dovrebbe essere
dell’ordine di 2*10-11secondi; sicuramente un intervallo troppo piccolo per giustificare una struttura atomica stabile.
Nel 1913 il fisico danese Niels Bohr propose un nuovo modello che superasse queste difficoltà. Egli inizialmente
accettò per buona l'idea del nucleo centrale con gli elettroni esterni, proposto da Rutherford, anche perché quel
modello era il risultato di un fatto sperimentale inconfutabile. Poi però vi apportò delle modifiche sostanziali
avvalendosi della teoria dei quanti di Planck. Bohr affrontò il problema nella sua forma più elementare: la costruzione
del modello dell'atomo dell'idrogeno. Scelse l'idrogeno sia perché si trattava dell'atomo più semplice di tutti (un
nucleo centrale con carica positiva con un unico elettrone che gli gira intorno), sia perché lo spettro di quell'elemento
si presentava anch'esso in forma molto semplice, con pochissime righe ben distanziate fra loro.
Bohr ragionò nel modo seguente: se la materia assorbe ed emette energia in modo discontinuo significa che
l'atomo, che è il suo costituente fondamentale, può esistere solo in determinate configurazioni ciascuna con un proprio
contenuto energetico. Quando l'atomo passa da una configurazione con un certo contenuto energetico ad un'altra con
contenuto energetico diverso, esso assorbe o emette energia sotto forma di fotoni e per tale motivo lo spettro appare
con una linea scura o con una linea colorata in corrispondenza di quel determinato valore dell'energia. Lo spettro
dell'idrogeno pertanto, non è altro che la rappresentazione visiva del passaggio da atomi con un certo contenuto
energetico ad altri con diverso contenuto energetico. Quindi postulò alcune regole fondamentali e riuscì utilizzando
queste ultime a spiegare matematicamente il comportamento dell’atomo di idrogeno.
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I Postulati di Bohr
Nell'atomo gli elettroni ruotano intorno al nucleo su orbite circolari. Ognuna di queste orbite ha un raggio ben
determinato.
Il momento angolare degli elettroni é quantizzato. Esso può assumere soltanto certi valori (permessi), ma non
può assumere i valori intermedi fra quelli permessi.
Finché un elettrone rimane nella sua orbita, non emette e non assorbe energia.
L'intuizione di Bohr fu brillante, i suoi postulati sanciscono "l'inadeguatezza della elettrodinamica classica a
descrivere il comportamento di un sistema di dimensioni atomiche". L'ipotesi di Bohr si appoggiava sulla recente
teoria del "quanto di azione" di Planck; che, cioé, "l'irradiazione di energia da un sistema atomico non avviene in
maniera continua secondo le leggi dell'elettrodinamica classica, ma, al contrario, avviene in distinte emissioni
separate, secondo l'equazione:"
E = n hn
Il modello atomico "quantizzato" da Bohr non spiegava tuttavia la diversa intensità delle righe spettrali caratteristiche
degli elementi e il loro stato di polarizzazione; si limitava al calcolo delle frequenze delle righe spettrali. Ecco allora
il principio di corrispondenza enunciato da Bohr sulla base di una constatazione: se si calcola la frequenza emessa da
un salto d'orbita minimo, è indifferente servirsi dei metodi classici o di quelli quantistici; il risultato è sempre lo
stesso. Esperienza e calcolo collimano quando cioè si scelgano condizioni limite. Si poteva quindi formulare l'ipotesi
che l'intensità e lo stato di polarizzazione di una riga corrispondano all’intensità ed allo stato di polarizzazione della
riga corrispondente, che verrebbe emessa dal sistema secondo la teoria classica.
L'anno seguente all'enunciazione delle ipotesi di Bohr venne iniziata da Franck ed Hertz la prima di una serie di
esperienze sugli urti fra atomi ed elettroni liberi che avrebbero confermato l'esistenza, non solo per l'atomo di
idrogeno (considerato da Bohr) ma per tutti gli atomi, di diversi stati energetici con valori discreti dell'energia. Ciò
confermava la validità della formula che lega la frequenza della radiazione emessa alla differenza tra le energie di
due stati quantici.
In sostanza, l'idea di Bohr era che l'elettrone nel suo moto intorno al nucleo potesse occupare solo particolari orbite
stabili che soddisfacessero la relazione:
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L  n
Essendo L il momento angolare orbitale dell’elettrone. Quindi :
 
nh
L  r  P  mvr 
2
Questa equazione può essere verificata ricorrendo alla teoria di
De Broglie sul dualismo onda corpuscolo delle particelle,
secondo la quale :
Ma se le orbite sono circolari e le uniche “onde”
che si possono mantenere su tali orbite sono onde
stazionarie, deve valere la relazione:
h
h
2r  n 
p mv
Quindi:
mvr 

h
p
2r  n
nh
2
Mediante questa relazione, Bohr calcolò il raggio dell'orbita dell'elettrone
intorno al protone nell'atomo di idrogeno allo stato fondamentale. Questo
valore risultava 0.53 Angstrom.
Il prodotto mvr (massa dell'elettrone per la sua velocità e per il raggio
dell'orbita circolare da esso percorsa) rappresenta il momento angolare
dell'elettrone. Esso è quantizzato in quanto non può assumere valori qualsiasi,
ma solo valori che sono multipli interi di h/2. Il numero intero n venne
chiamato da Bohr “numero quantico dell'elettrone”.
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Calcolo di r:
Il sistema atomico, come abbiamo detto è stabile, quindi la forza centrifuga cui è sottoposto l’elettrone deve
eguagliare la forza di Coulomb che agisce fra il nucleo e l’elettrone stesso:
e2
F k 2
r
k
1
4 0
Nel sistema cgs k=1, quindi
e2
F 2
r
Ovvero:
e 2 mv 2

2
r
r
D’altra parte l’energia dell’elettrone è data dalla somma dell’energia cinetica e dell’energia attrattiva verso il
nucleo (potenziale) :
1 2 e2
E  mv 
2
r
Usando queste ultime e la quantizzazione del momento angolare si trova :
e2
r
mv2
nh
r
2mv
2e 2
v
nh
Che sostituita nell’espressione della quantizzazione del momento angolare consente di ricavare r:
mvr 
nh
2
2e 2
v
nh
n2h2
r
2 2 me2
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Calcolo di E
2e 2
v
nh
1 2 e2
E  mv 
2
r
1  2e
E  m
2  nh
2
n2h2
r
2 2 me2
 e 2 2 2 me2
 
n2h2

1  2e 2
E  m
2  nh
2
2

 2e 2 
  m


 nh 
1  2e
E   m
2  nh
2



2
2
Quindi l’energia che compete agli elettroni atomici dipende dal numero quantico n, e più precisamente dal
suo inverso al quadrato.
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•
Passaggio da uno stato di energia Ei a uno stato di energia Ef < Ei, emissione di un fotone tale che f = (Ei-Ef)/h
f
e2  1
1 

 ke


  RH
 c
2a0 hc  n f 2 ni 2 
1
 1
1 
 2 2
n
ni 
 f
LE LACUNE DELLA TEORIA DI BOHR
Ma la teoria di Bohr :
1) non giustificava il mancato irraggiamento degli elettroni
costretti a ruotare intorno solo ad alcune orbite
2) non dava alcuna informazione sull’intensità delle righe
degli idrogenoidi (oltre all’idrogeno sono atomi degli
elementi leggeri ionizzati in modo da aver perduto tutti
gli elettroni eccetto uno)
3) non dava alcun criterio razionale per ripartire gli
elettroni nelle loro orbite
4) non chiariva come estendere il modello ai sistemi
formati da più di un elettrone
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Nel 1916, il fisico tedesco Arnold Sommerfeld estese alle orbite ellittiche dell'atomo di idrogeno le
ipotesi che Bohr aveva enunciato solamente per le orbite circolari. Questa estensione avvenne
mediante l'applicazione ai moti dell'elettrone della meccanica relativistica di Einstein. Ne derivò
un'importante conseguenza: Sommerfeld poté rilevare che le orbite ellittiche degli elettroni non sono
equidistanti, ma formano dei gruppi (detti strati o anelli) elettronici; le orbite dello stesso strato
hanno energie che differiscono fra di loro di valori piccolissimi. Questi strati sono per convenzione
identificati con le lettere K, L, M, N, eccetera, partendo dagli strati interni. Gli strati comprendono
diversi numeri di orbite che vanno da 2 a 8, a 18, a 32, ecc., a mano a mano che si va verso l'esterno.
Tutto a questo punto pareva risolto e controllato sperimentalmente. Tuttavia anche la teoria di
Sommerfeld non spiegava quantitativamente la complessità degli spettri, che si rivelavano ad esami
più attenti ancor più complicati e non rendeva ragione di alcune anomalie magnetiche dell'atomo. In
breve, il modello di Bohr - Sommerfeld non spiegava sufficientemente i processi che avvengono
all'interno dell'atomo: quando un elettrone salta da un'orbita all'altra? Per quanto tempo un elettrone
persiste in un'orbita? Bohr stesso scrisse: “bisognava rinunciare a descrivere il comportamento
individuale degli atomi nello spazio e nel tempo, conformemente al principio di causalità, e
immaginare che la natura può fare, tra diverse possibilità, una libera scelta che non è sottoposta che
a considerazioni di probabilità.”
Nel 1917, Albert Einstein introdusse, nello studio dell'atomo di Bohr, alcuni coefficienti di
probabilità. Einstein formulò cioè l'ipotesi che un elettrone cambi orbita spontaneamente, cioè senza
intervento di cause esterne al sistema dell'atomo. Se l'atomo viene colpito da una radiazione
luminosa con frequenza pari alla frequenza corrispondente ad un salto, l'elettrone compie questo
passaggio in un'orbita esterna e lo compie con tanta maggior probabilità quanto maggiore è
l'intensità della luce che colpisce l'atomo.
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Nel 1925, i fisici Uhlenbeck e Goudsmit, per spiegare alcuni particolari fenomeni degli
spettri di emissione e di assorbimento degli atomi e alcuni fatti riguardanti il ferro
magnetismo e il paramagnetismo presenti in certe sostanze (non ancora spiegati con la
teoria di Bohr), supposero che ogni elettrone, proprio come fanno i satelliti naturali, oltre
che ruotare intorno al nucleo ruoti anche su se stesso. Rivoluzione e rotazione tornavano
nella similitudine fra atomo e Sistema Solare. L'elettrone cioè aveva proprietà simili a
quelle di un giroscopio, il cui asse, grazie al moto di rotazione intorno al l'asse passante per
il baricentro, tende a conservare una direzione ben determinata nello spazio. Ma non basta;
essendo elettricamente carico, l'elettrone assomiglia ad un piccolissimo magnete. I fisici
adottarono il termine spin, che in inglese significa appunto rotazione, e qui è sinonimo di
momento angolare meccanico; una grandezza fisica che dà una misura della velocità di
rotazione della particella e l'indicazione del verso in cui avviene la rotazione stessa.
Lo spin venne trattato da Uhlenbeck e Goudsmit con le stesse leggi quantistiche usate da
Bohr per il moto di rivoluzione dell'elettrone e ne dedussero che un elettrone ha sempre lo
stesso ben determinato spin, in altri termini ha sempre la stessa velocità di rotazione su se
stesso. Altra conclusione ricavata dall'ipotesi dello spin è che, poiché esso produce un
campo magnetico, l'elettrone può avere l'asse soltanto in due direzioni rispetto al campo
magnetico esterno, o la stessa direzione e lo stesso verso del campo esterno, oppure la
stessa direzione ma verso opposto (l'elettrone può essere, si dice, o parallelo o
antiparallelo).
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L’ESPERIENZA DI FRANCK-HERTZ
La totale affermazione della meccanica quantistica si ebbe grazie all’esperimento di Frank-Herz,
due fisici tedeschi che dimostrarono la validità del principio di quantizzazione dell’energia. Questo
esperimento ebbe un enorme importanza storica perché ha fornito i dati sperimentali che hanno
confermato il modello di Bohr. Franck ed Hertz, nel loro esperimento, “si servirono” di tali postulati
dimostrando che effettivamente esistono dei livelli energetici atomici quantizzati anche negli atomi
pesanti. Essi bombardarono i vapori di vari “elementi” con elettroni di nota energia cinetica,
provocandone l’eccitazione che avviene solo per precisi valori di tale energia; valore appunto
coincidente con la differenza energetica fra due diversi livelli atomici considerati. In generale
un’interazione di tale tipo può dare origine a due distinti fenomeni di scattering:
Urti elastici. In questo caso l’elettrone subisce la repulsione coulombiana della nuvola atomica
ed esce dal processo di urto modificando la sua traiettoria ma senza perdere energia
Urti anelastici. Se l’elettrone possiede sufficiente energia cinetica, nel processo d’urto una parte
di tale energia viene ceduta al sistema atomico che passa dallo stato fondamentale al suo primo
livello eccitato.
Indicando con Ef ed Ei l’energia degli stati iniziali e finali del sistema atomico, possiamo scrivere :
Ef = Ei + DE
essendo in tal caso DE la differenza di energia fra lo stato iniziale e quello eccitato.
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L’energia perduta dall’elettrone durante l’urto è pari a
DE = m (vi2 – vf2) / 2
essendo vi e vf le velocità dell’elettrone prima e dopo l’urto. Ricordando i postulati di Bohr,
possiamo affermare che l’urto anelastico può aver luogo solo se l’energia dell’elettrone sia
maggiore o uguale della quantità DE, cioè pari alla differenza di energia fra l’ultimo stato
elettronico occupato ed il primo stato vuoto. Uno schema dell’apparato da usare per lo scopo è
mostrato in Figura 1.
Si tratta di un tubo elettronico a bassa
pressione contenente mercurio (Hg).
Un filamento di tungsteno “riscaldato”
emette
elettroni
per
effetto
termoionico e funge da catodo. Una
griglia ha la funzione di anodo
(elettrodo a potenziale positivo) ed
“attrae” gli elettroni, accelerandoli per
mezzo del potenziale ad essa
applicato. Nel tubo è installato anche
un collettore o controcatodo a
potenziale negativo rispetto all’anodo.
Tutto il tubo viene riscaldato per produrre vapori di mercurio a bassa pressione. L’obbiettivo di
questo esperimento è proprio quello di osservare e misurare la quantizzazione dei livelli energetici
nell’atomo di mercurio in fase gassosa per mezzo di elettroni accelerati da un campo elettrico.
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Poiché si prevede che gli atomi hanno livelli di
energia discreta, negli urti con gli elettroni anche
il trasferimento avviene solo per quantità
“precise” di tale energia (salti discreti
discontinui). L’esperimento consiste nel misurare
la corrente di collettore al variare della tensione
di accelerazione, mentre la tensione di controllo
e la tensione frenante rimangono costanti.
Inizialmente, aumentando la tensione di
controllo, la corrente di collettore aumenta come
in un comune tetrodo fino a raggiungere un
valore massimo quando, in prossimità della
seconda griglia, gli elettroni hanno acquistato
un’energia cinetica sufficiente ad eccitare per
collisone gli atomi di mercurio.
Dopo tale collisione, poiché gli elettroni non riescono più a vincere l’azione della tensione frenante, la
corrente diminuisce drasticamente. Aumentando ancora la tensione di accelerazione, gli elettroni
raggiungono l’energia necessaria per eccitare gli atomi di Hg sempre più vicino alla prima griglia. In
questo caso dopo la prima collisione, gli elettroni vengono nuovamente accelerati in modo che se la
tensione di accelerazione è sufficientemente elevata, essi ricevono dal campo elettrico l’energia
necessaria ad eccitare più di una volta altri atomi di mercurio. Inoltre, poiché gli elettroni, hanno una
massa di molto inferiore a quella atomica, (nel caso di specie circa 360.000 volte), l’urto non
modifica in maniera apprezzabile lo stato di moto traslazionale dell’atomo di Hg. Quindi si otterranno
altri massimi sempre più crescenti in corrispondenza di determinati (e sempre crescenti) valori della
tensione acceleratrice.
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Quindi mettendo in grafico la corrente rispetto al
potenziale di accelerazione si ottengono una serie
di picchi la cui distanza rappresenta la differenza
di energia fra l’ultimo stato occupato ed il primo
libero degli atomi di mercurio secondo la relazione
DE = Ef – Ei. Si trova circa 4.9 eV.
Ciò è in ottimo accordo con i risultati spettroscopici, infatti osservando lo spettro del mercurio, la
riga di maggiore intensità corrisponde ad una lunghezza d’onda di 2537 Å, transizione
corrispondente alla precisa energia data dalla seguente relazione:
E = h c/ = (6.626 × 10-34 J×s × 3×108 m/s) / 2537 × 10-10 m = 7.83 × 10-19 J
che equivale a :
7.83 × 10-19 J / 1.6 × 10-19 C = 4.89 eV
Valore molto vicino a quanto si ottiene con l’esperienza di Frank ed Hertz.
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