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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO
DIPARTIMENTO FIERI - AGLAIA
DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA
IL BENE MOLTO PIU’ DEL MALE
IL PARADIGMA PAOLINO DELLA GIUSTIFICAZIONE
NELLA FILOSOFIA DI PAUL RICOEUR
Tesi di dottorato di Giovanni Todaro
Tutor Prof. Giuseppe Modica
Coordinatore Prof. Leonardo Samonà
2011
XXII CICLO
SETTORE SCIENTIFICO DISCIPLINARE M-FIL/03
2
Non enim cogitationes meae,
cogitationes vestrae
ISAIAS 55,8
4
INTRODUZIONE
UNA FILOSOFIA DEVANT DIEU
Fra i maggiori studiosi del pensiero di Ricoeur si distingue per acume e
precisione Jean Greisch. Da pochi anni egli ha portato a compimento un
progetto di vaste proporzioni sulle correnti e gli autori che si sono prodigati
nell’ambito della filosofia della religione1.
Non sembra del tutto fuori luogo ricordare che tale ponderosa opera si
concluda con un lungo capitolo consacrato proprio alla disamina del lavoro
ricoeuriano2. Secondo quanto sostenuto da Greisch la disciplina filosofica
che studia la religione ha seguito un tragitto che si snoda lungo tutto il
percorso del pensiero moderno fino a calcare i tratti fondamentali della
rivoluzione ermeneutica della filosofia del Novecento. Greisch ha definito
questo evento della storia della filosofia come “l’età ermeneutica della
ragione”. Inoltre constata che il cosiddetto paradigma ermeneutico può e
deve essere eletto a modello utile per caratterizzare compiutamente
l’approdo ultimo della filosofia novecentesca e in particolare della filosofia
della religione.
Tale esito ha consentito di andare oltre le difficoltà insorte con la
nozione di esperienza religiosa, vagheggiata in vario modo nelle correnti
della riscoperta del sacro, aprendo la strada a una più accurata messa a fuoco
del fatto religioso come dimensione implicante una mediazione con i testi
che ne raccolgono principi, dettami e testimonianze. In altri termini, la
rielaborazione filosofica della teoria generale dell’interpretazione ha giovato
a una collocazione di prestigio di quei testi che, in un modo o nell’altro, nel
bene e nel male, da secoli condizionano e informano di sé la cultura
occidentale.
A Greisch va sicuramente ascritto il merito di aver ricostruito con
acribia e dovizia di particolari l’itinerario filosofico ricoeuriano. Tuttavia il
susseguirsi dei paragrafi fornisce al lettore nulla più che una dettagliata
periodizzazione del percorso seguito negli anni da Ricoeur. Pertanto è
doveroso segnalarne un punto carente nella messa a fuoco di una ratio
profonda e costante, che possa imporsi al contempo sia nella veste di
leitmotiv predominante sia come tema elettivo. Dunque è indubbio che tale
lavoro non possa addivenire al pieno compimento senza che vi sia stabilita
un’ulteriore integrazione, finalizzata al rinvenimento di una trama sottesa
nell’ordito variegato della filosofia ricoeuriana della religione.
Sebbene nella ricostruzione critica greischiana non manchi affatto la
determinazione di una struttura portante, che si sorregge giustamente sulla
base di un nucleo tematico prevalente, ossia quello della Simbolica del male,
non pare del tutto esplicata la ragione che rende il pensiero ricoeuriano
peculiare e unitario da cima a fondo.
Nell’ambito di una considerazione di carattere formale questa ratio
risiede nella continuità del riferimento alle fonti bibliche della cultura
occidentale, innegabilmente intrisa di cristianesimo. Ma la mera
tematizzazione della radice giudaico-cristiana, del resto elemento assai
evidente, non è bastevole ai fini di una più accurata delucidazione della
proposta ricoeuriana e del suo aspetto più squisitamente tetico. È d’uopo
rendere conto del contenuto effettivo di tali motivi ispiratori, se di fatto si
6
vuole entrare nel merito della ratio paradigmatica delle filosofia della
religione e della filosofia ricoeuriana nella sua interezza.
Quel che qui si sostiene vuole indirizzare l’attenzione su una costante
scritturistica, relativa al ricorso alla Lettera ai Romani di Paolo, che affiora
nei punti più nevralgici del lavoro svolto da Ricoeur nel corso degli anni e
che impronta le fasi più salienti e decisive della Simbolica del male. La
ricorrenza della dottrina paolina della giustificazione, che di Romani è il
perno inamovibile, autorizza alla recezione di tale fonte nei termini di un
autentico modello unitario del pensiero filosofico-religioso ricoeuriano.
Al fine di motivare il ruolo assunto dal paradigma paolino della
giustificazione, nell’economia generale della filosofia di Ricoeur, non
dovranno essere tralasciate le coordinate fondamentali che ne propiziano la
comparsa. Va innanzitutto chiarito un aspetto preliminare non indifferente:
la Simbolica del male, che oltre a costituire un corpus di opere rappresenta
un motivo conduttore, segna uno spartiacque. Vale a dire che il tragitto
filosofico in esame vi entra in un modo e ne esce per certi versi
radicalmente mutato. Avendo in animo di concepire una compiuta filosofia
della volontà, il Nostro scopre con grande sconcerto che le aporie suscitate
dalla questione del male nel mondo non sono per natura inclini al concetto,
pertanto il loro imperversare induce il filosofo di Valence a smettere gli
strumenti della dialettica e ad avallare un inevitabile ricorso alla sfera dei
simboli religiosi. Dinanzi alla disfatta del concetto il pensiero filosofico ne
esce malconcio, tuttavia l’interpretazione dei simboli, mercé l’ascesa della
Simbolica del male a scapito della filosofia della volontà, può ancora
garantire un margine di senso e di rielaborazione filosofica delle grandi
questioni del bene e del male. In un certo senso il ricorso all’ermeneutica è
indispensabile alla finalità di ridare vigore alla filosofia, la quale, sotto il
cumulo
delle
macerie
del
Novecento,
è
in
procinto
di
finire
irrimediabilmente sotto scacco. A ragione si può ritenere Ricoeur il filosofo
che incarni appieno tale temperie storica e filosofica.
7
In proposito può giovare un’ulteriore considerazione a margine
dell’intento greischiano, volto a qualificare la filosofia di Ricoeur come
massima espressione del paradigma ermeneutico della filosofia della
religione. La filosofia ermeneutica ricoeuriana non propone di per sé un
paradigma monolitico e predominante nell’ambito della teoria generale
dell’interpretazione, questo può valere in una certa misura per Heidegger e
per Gadamer: il filosofo di Valence concepisce il mondo ermeneutico come
costellato da una pluralità di paradigmi in perenne conflitto fra loro. La
considerazione critica del simbolo religioso, approntata da Ricoeur, non
indugia né sul paradigma psicoanalitico né su quello strutturalista e
antropologico, né rievoca quello della hegeliana fenomenologia dello
spirito, né tantomeno insiste su quello dell’ontologia del linguaggio di tipo
gadameriano. Il simbolo chiama in causa risorse altre, se si vuole dirimerne
la complessità intrinseca. Queste risorse devono essere pre-filosofiche, nel
senso che devono spingere il discorso fino al punto in cui la filosofia da sola
non basta e inevitabile si fa l’approdo a ciò che i testi, specie quelli biblici,
dicono senza il filtro ideologico di una determinata concezione filosofica.
Ricoeur recepisce nel suo pensiero la giustificazione paolina non
soltanto a motivo di una sentita e personale adesione alla formazione
protestante che l’accompagna, ma a maggior ragione in virtù della scoperta
di una logica nuova e indisponibile, che dinanzi allo scandalo del male non
si prodiga nell’insano scopo di collocare razionalmente il dolore e la
sofferenza, ma ricostruisce un senso a dispetto di tutto e testimonia che da
secoli l’uomo occidentale ripone le proprie speranze in un bene a dispetto
del male; in un bene che è “molto più” dello sgomento suscitato dal male. Il
cuore pulsante della Simbolica del male permette di entrare in vivo contatto
con quanto di ancora valido, a detta di Ricoeur, si celi nel kérygma. Tanto è
determinante da indurre il filosofo di Valence a dichiarare senza reticenze di
sorta la piena estromissione di ogni tentativo volto alla restaurazione della
teodicea. Dinanzi alla questione del male e delle sue aporie metafisiche la
8
più valente alternativa è rappresentata dalla riscoperta esegetica della Parola,
considerata dallo stesso Ricoeur come un miracolo a cui il logos può e deve
prestare orecchio.
Quanto detto è sufficiente a collocare il pensiero ricoeuriano su di una
linea che si discosta notevolmente dalla corrente neotomista della “filosofia
cristiana” novecentesca e ciò va segnalato per rimarcare l’originalità del
contributo fornito, nei primi anni di scrittura, al movimento gravitante
intorno alla rivista Esprit.
Una contestualizzazione preliminare del pensiero ricoeuriano che voglia
giovare a una maggiore comprensione degli scritti e degli articoli del
periodo di collaborazione, con la rivista fondata da Mounier, permette di
lumeggiare, in prima istanza, gli esordi ricoeuriani e, in seconda istanza, la
genesi delle movenze di fondo sulle quali poggiano le fasi successive. Tali
prove s’immettono a buon diritto nel solco di una corrente filosofica e
teologica che gravita intorno alla Kierkegaard renaissance e alla
riproposizione del pensiero barthiano in seno al coevo dibattito francese su
filosofia e cristianesimo.
In particolare, si deve imporre all’attenzione la corrispondenza con due
figure che hanno influenzato non poco il giovane Ricoeur. Si tratta invero di
Pierre Thévenaz e di Roger Mehl, i quali più di tutti hanno saputo
intepretare lo spitito che anima il neobarthismo francese. Attraverso un
accurato approccio ermeneutico rivolto agli scritti di tali pensatori3, Ricouer
dichiara e configura gradualmente la propria posizione in merito al rapporto
fra filosofia e fede cristiana, propugnando le ragioni che lo inducono, in via
definitiva e senza alcuna reticenza, all’abiura della “filosofia cristiana”
promossa negli ambienti del neotomismo francese. La consonanza con il
pensiero di Mehl si esplica nei termini di un confronto fra le nozioni di
metafisica e di Rivelazione, ponendo le premesse per una rielaborazione
quasi congiunta dei due ambiti. Se da un lato la filosofia può ridare respiro
ai contenuti della fede, attraverso una critica del dato rivelato inteso come
9
una prospettiva radicale e in continuo mutamento, dall’altro la teologia,
specie quella protestante, può contribuire, in modo significativo, a
smascherare il dogmatismo della tradizione metafisica. In altri termini,
Ricoeur inizia ad assumere un habitus intellettuale che ne farà, negli anni
successivi, un filosofo pronto ad accostare, senza per questo confonderli, la
radicalità della fede protestante e la libertà critica della filosofia.
Più decisivo e duraturo è il riscontro di quanto ereditato da Thévenaz. Il
punto di maggiore adesione alla filosofia thévenaziana consiste nella
sostanziale ripresa del metodo della désabsolutisation. La concessione fatta
a tale concetto permette a Ricoeur di trovare, nel cuore della filosofia di
quegli anni, gli strumenti più incisivi e il lessico più adeguato per addivenire
a una più compiuta cognizione delle aporie dei sistemi di pensiero che
tentano la via di un sapere pretenziosamente assoluto. A partire da questi
primi punti di contatto si può avvalorare la tesi che anche la filosofia
ricoeuriana, nella sua globalità e nella sua intrinseca complessità, calchi
quasi fedelmente le orme della “filosofia senza assoluto” di Thévenaz.
Pertanto, non si potrebbe avviare una puntuale e diligente ricognizione
della formazione filosofica di Ricoeur, qualora se ne omettessero
inopinatamente le motivazioni giovanili, così profondamente imbevute di
teologia filosofica, ma anche radicalmente distanti da ogni dogmatismo di
sorta. A ragione si deve dunque ritenere che nel novero delle opzioni
fondamentali della filosofia ricoeuriana la “filosofia senza assoluto” di
Thévenaz divenga cifra emblematica e predominante dell’arduo tentativo di
recuperare, sul piano filosofico, le più innovative e rivoluzionarie istanze
della teologia dialettica di Barth. In sintesi, sono due le caratteristiche che di
sé informano tutto l’impianto filosofico-teologico dei primi scritti
ricoeuriani: in primo luogo la destituzione perentoria d’ogni espressione
filosofica che non sia in grado di travalicare i limiti dell’auto-referenzialità
(su tutte le filosofie cartesiana ed hegeliana) e che con estrema difficoltà
riescono a imbastire un proficuo dialogo con le scienze umane emergenti nel
10
novecento filosofico; in secondo luogo una coraggiosa tematizzazione del
problema del male non più alla luce dei vacui tentativi della teodicea, ma
alla luce di una via più esegetica, ispirata in larga misura alla teologia
dialettica di Barth e alla dottrina della grazia ivi sostenuta.
Alla considerazione critica e ricostruttiva dei motivi preliminari del
pensiero ricoeuriano deve subentrare anche una fase di ulteriore
approfondimento, in cui occorre sbozzare la concreta portata filosofica e
teologica di quanto testé ravvisato. Pertanto s’intende focalizzare, in modo
più sistematico, lo stretto legame che intercorre fra i motivi conduttori
dell’ermeneutica ricoeuriana dei simboli del male e il paradigma paolino
della giustificazione, fulcro centrale della tesi che qui s’intende sostenere,
nonché chiave di volta dell’itinerario filosofico e teologico di Ricoeur. Tali
motivi possono riassumersi nel progetto di ricavare, dalla Lettera ai
Romani, non tanto un’esegesi fine a sé stessa quanto la matrice di una
filosofia della speranza sorretta da quella che lo stesso Ricoeur ha battezzato
come la “logica della sovrabbondanza”. Si tratta della hyperperisseia
paolina che riassume la stessa dottrina della giustificazione contenuta nel
passo, estrapolato da Rm. 5,12-21, in cui si fa menzione della grazia che
agisce “molto più” del peccato.
In altri termini, si vuol dimostrare che l’influsso paolino, mediato dalla
tradizione luterana, non è per nulla occasionale, bensì intimamente
strutturale e imprescindibile ai fini di una comprensione unitaria del
pensiero ricoeuriano, il quale, in modo del tutto originale, sposa le
provocazioni scaturite dalla lettura filosofica del Römerbrief di Barth e ne fa
le premesse per introdurre un criterio di confronto polemico con la teodicea
e la struttura onto-teo-logica della metafisica occidentale. Per Ricoeur, la
costituzione di una più completa teoria della logica della sovrabbondanza
equivale alla preparazione di una filosofia del male e del bene che sappia
farsi carico dell’indisponibilità, tutta umana, di una logica che dia le ragioni
metafisiche dello scandalo del male nel mondo.
11
L’articolazione di cotale impegno deve essere provvista di un’analisi
testuale che entri nel merito di quei passi del saggio De l’interprétation.
Essai sur Freud (1965) e soprattutto della parte nevralgica degli studi
raccolti nel volume Le conflit des interprétations (1969) che attestano, in
maniera inequivocabile, l’incorporazione di tale paradigma nell’ermeneutica
della Simbolica del male. Un aspetto per nulla secondario riguarda appunto
anche una linea di confronto con Barth, qui ritenuto a ragione ispiratore
principe di tali presupposti. Ma un ruolo altrettanto significativo lo riveste
anche l’influenza dell’ermeneutica demitizzante di Bultmann. A questa fase
va assegnato il fine di fornire un’argomentazione incentrata sulla proposta
di ritenere il contributo ricoeuriano all’ermeneutica biblica in una posizione
di equidistanza critica fra i due grandi teologi del Novecento. Dal confronto
con l’ermeneutica bultmanniana, con le sue implicazioni esistenzialistiche, e
l’ermeneutica barthiana, che lascia intendere, con la nozione di Nachdenken,
che il testo biblico possa essere foriero d’implicazioni anche di carattere
anti-metafisico, emerge con evidente scalpore la necessità di ricondurre il
tema del male nell’ambito più generale e meno agevole dell’essere. Ricoeur,
non disponendo di una metafisica, poiché ne ritiene le ragioni
profondamente inficiate da motivazioni opzionali (è il tema ricorrente nella
filosofia riflessiva francese del désir d’être) e da istanze gnostiche
(contenute nella pretesa di poter costituire un sapere assoluto dell’essere
come totalità), delinea a partire dagli anni ’70 fino agli inizi dei ‘90, con i
suoi Essais d’herméneutique biblique, la possibilità di circoscrivere
un’ontologia biblica che faccia da tramite fra l’ambito speculativo e le
conquiste dell’esegesi moderna.
Infine, si propone una ricognizione aperta sulle implicazioni e le
diramazioni squisitamente teoretiche conseguenti all’identificazione del
paradigma paolino come presupposto costante per una sempre incipiente
ontologie biblique. Per la verità, questo topos presente nell’ultimo Ricoeur
non ha i crismi di un’ontologia in senso stretto: se ne deve pertanto
12
assumere il carattere critico e per nulla sistematico alla stregua di uno
schema aperto volto, più che altro, a porre in evidenza le aporie delle
ontologie in senso stretto, qualora, s’intende, esse vengano rapportate al
mondo del testo biblico.
L’articolazione interna dell’ultimo capitolo si muove lungo due linee
principali di sviluppo che convergono verso un obiettivo comune, quello di
determinare,
attraverso
l’assunzione
paradigmatica
della
tradizione
protestante, un processo alla struttura onto-teo-logica della metafisica
radicalmente alternativo alla proposta heideggeriana, contestata a motivo di
quella che Ricoeur stesso chiama un’ingiustificata marginalizzazione della
tradizione giudaico-cristiana.
La prima linea di sviluppo si preoccupa di centrare i risvolti filosofici
innescati con la nozione tutta ricoeuriana di “verità metaforica”, sulla quale
si fonda un’ontologia narrativa indipendente dalla tradizione metafisica,
specie quella che sorregge la teoria teologica della analogia entis punta di
diamante del filone scolastico e neotomista dell’onto-teo-logia. Sulla scorta
non soltanto dell’eredità barthiana, ma anche dei frutti scaturiti dalla
collaborazione con Jüngel, il pensiero ricoeuriano promuove una concezione
dell’ontologia quale racconto dell’essere, il quale contempla l’evoluzione di
tale nozione da sostanza e fondamento a narrazione plurale della ricerca di
un senso ultimo, nella quale affluisce anche il contributo del linguaggio
religioso.
La seconda linea di sviluppo si preoccupa invece di riprendere un
legame con l’ultimo Ricoeur, quello impegnato sul fronte di una teologia
più esegetica e di una filosofia della traduzione. Il riferimento testuale più
significativo chiama in causa i saggi raccolti nel volume, scritto con
l’esegeta André LaCocque, Penser la Bible del 1998. Il contributo del
lavoro del traduttore viene recepito come emblema del lavoro ermeneutico
tout court, in quanto l’interpretazione, oltre a perseguire il fine della
13
applicazione del contenuto del testo, deve avere cura di rispettarne
l’intenzionalità originaria e la lingua che ne ha visto il primo concepimento.
Tale convincimento va a suffragare l’intento di ovviare al tentativo
heideggeriano di de-giudaizzare il pensiero filosofico occidentale, attraverso
la riproposizione del campo semantico implicato dal verbo ebraico ehyeh,
soprattutto nell’accezione richiamata nel passo di Es. 3,14, il quale, oltre a
essere universalmente noto come la teofania del Roveto ardente, determina
la base scritturistica di quella che Gilson ha definito la “metafisica
dell’Esodo”, matrice originaria del modello filosofico dell’onto-teo-logia.
Pur ammettendone una certa plausibilità, perlomeno sul piano storicofilosofico, Ricoeur scorge nella traduzione dell’ebraico ehyeh con il greco
einai uno scarto di significato proficuamente aporetico. Invero il campo
semantico semitico (legato all’idea di un’azione nel tempo) trabocca i limiti
referenziali del campo semantico ellenico (legato all’idea di una verità
epistemica)
e
lo
fa
perché
depositario
di
una
sovrabbondanza
(hyperperisseia) di senso che non pone una mera relazione di causalità
Dio/mondo, bensì una relazione fondata su un incontro, fra l’essere fragile
dell’uomo e l’essere ineffabile di Dio, che renda decifrabile una storia della
speranza quale segno di un bene nonostante le cadute e le sofferenze,
dunque di un bene “molto più” del male.
Nella prospettiva di avanzare una formulazione sintetica, che risponda
alla necessità di comporre le articolazioni interne della ratio filosofica e
teologica di Ricoeur, si deve tenere in gran conto quanto questi ha affermato
in un frammento postumo recentemente dato alla stampe, nel quale lo stesso
si autodefinisce “un cristiano d’espressione filosofica”4. Così dicendo egli
intende ribadire che il modo più congruo di professare la propria fede, senza
per questo rinunciare all’ambito circoscritto della pratica filosofica, è quello
di pensare senza un assoluto autoreferenziale e di avere fino in fondo il
coraggio di filosofare devant Dieu. Pensare di più e pensare davanti a Dio
costituiscono la somma della filosofia ricoeuriana. Una filosofia che prenda
14
spunto dall’insopprimibile esigenza di trovare un senso dinanzi allo
scandalo del male e della sofferenza. Una filosofia che deve entrare
disarmata nel cuore della questione più spinosa del pensiero novecentesco,
se vuole mantenere viva la vocazione umana al bene nonostante il male.
Secondo quanto si è accennato la désabsolutisation costituisce la pars
destruens della riflessione ricoeuriana, mentre nella riappropriazione
filosofica del “molto più” di Paolo si condensa la pars construens di tale
riflessione. A tali opzioni di metodo va conferito il fine di pensare una
filosofia in grado di rinunciare all’assoluto e alla metafisica, per poter
approdare all’esito di riscoprire le risorse che scaturirebbero da una
rifondazione della speranza cristiana, sia in ambito ontologico sia in ambito
morale e spirituale. Il devant Dieu, proposto e descritto con enfasi da
Thévenaz, è il primo passo per una nuova determinazione filosofica della
questione del male e del bene al di fuori delle pastoie e delle insidie della
teodicea, considerata alla stregua del più colossale inganno del pensiero
filosofico moderno e non solo. La convinzione che sorregge il filosofo che
si decide per un pensiero debole devant Dieu risiede nel fatto che se è vero
che la questione di Dio implichi inevitabilmente la questione del male nel
mondo è altrettanto plausibile che la fede nel Dio biblico, la fedeltà
accordata al Dio cristiano e la fiducia in questo medesimo Dio comportino
al contempo la rinuncia a una collocazione razionale del male e un’apertura
incondizionata alla sorgente di una salvezza anch’essa incondizionata, così
come descritta e narrata nella dottrina paolina della giustificazione.
15
1
J. Greisch, Le buisson ardent et les lumières de la riason, Éditions du Cerf, Paris 2004.
J. Greisch, Les arrhes de l’espérance. L’herméneutique de la religion entre la critique
et la conviction. Paul Ricoeur, ivi pagg. 735-919.
3
La condition du philosophe crétien (1948) e, Un philosophe protestant: Pierre
Thévenaz (1956) in Lectures 3, Éditions du Seuil, Paris 1994.
4
Vivant jusqu’à la mort. Suivi de Fragments, Éditions du Seuil, Paris 2007, trad. it.
Vivo fino alla morte, Effatà, Torino 2008, pag. 90.
2
16
CAPITOLO I
UNA FILOSOFIA SENZA ASSOLUTO
1.1 Approdi aperti
Sul finire dei suoi lunghi anni di ricerca e di scrittura, Paul Ricoeur (19132005), sollecitato in questo dai suoi discepoli, provava a dotare la propria
poliedrica filosofia di un testo che in veste di compendio desse prova
dell’unitarietà dei suoi studi.
Nel 1990, con la stesura di Soi-même comme un autre,5 è parso ai molti
che tale scopo venisse tutto sommato adempiuto, ancorché lo stesso autore
chiosasse il volume con un capitolo ben nutrito d’interrogativi tutt’altro che
fugati. In esso ci si chiedeva, infatti, verso quale ontologia potessero
indirizzarsi gli studi e i molteplici stimoli del suo filosofare.
Per la verità, il ponderoso volume Soi-même comme un autre, oltre a
voler coordinare tutte le vie percorse negli anni (riflessione sulla natura del
soggetto attraverso l’approccio semantico, l’approccio etico, l’approccio
narrativo e fenomenologico-ermeneutico), tentava finanche una scaltrita
teoresi di stampo ontologico e, con molta acribia, lo faceva forgiando, sulla
base della dialettica idem/ipse, un’ermeneutica del sé. Fin qui nulla da
eccepire; sennonché, nel tentativo di dettare a posteriori una linea che colga
nell’insieme spirito e motivi conduttori della filosofia ricoeuriana, risulterà
determinante e assai più proficuo un parziale ridimensionamento della
prospettiva critica più consolidata che ritiene l’ontologia del sé l’approdo
ultimo e definitivo del percorso ricoeuriano6.
Precostituire un approccio sulla falsa riga di tale consueta impostazione
comporterebbe la messa da canto di una vastità di prospettive ben radicate
nell’universo filosofico e ontologico ricoeuriano. Una vastità che, affiancata
alla congerie di saggi e articoli sul mondo biblico, dà la contezza di un mai
domo interesse per le sorti del dibattito, di cui lo stesso Ricoeur è stato un
assiduo protagonista, sui rapporti, che da sempre intercorrono fra pensiero
filosofico e tradizione culturale ebraico-cristiana, centrati sulla questione
essere/Dio (ontologia/teologia). In ragione di questo sfondo, si proverà a
caldeggiare la possibilità di sbozzare un topos meno esplorato della filosofia
di Ricoeur, quello della ontologia biblica prospettato a margine degli Essais
d’herméneutique biblique7 e lo si farà esplicando i presupposti
squisitamente teologici che informano il paradigma carsico del pensiero
elaborato negli anni dal filosofo di Valence.
Alla direzione seguita e sintetizzata in Soi-même comme un autre,
s’intenderà affiancare e prospettare questa strada finora poco battuta. Per far
ciò si dovrà proseguire sviluppando primieramente due punti. In primo
luogo, occorrerà delineare una serie di riferimenti testuali che risponda
all’esigenza di collocare con maggiore dovizia le coordinate di tale percorso
alternativo; in secondo luogo, occorrerà individuare una serie di motivi,
categorie concettuali e temi attinenti al quadro d’insieme che ha da prodursi.
In merito al primo punto è agevole individuare già in Soi-même comme un
autre un esplicito rimando a quegli studi che lo stesso Ricoeur definisce di
frontiera, ovvero i saggi raccolti in Lectures 3. Tale gruppo di scritti
fornisce ulteriori e utili elementi per caratterizzare una periodizzazione del
percorso profilato. Grossomodo si possono individuare tre momenti, in
stretta connessione fra loro: un periodo giovanile, nel quale Ricoeur si
muove nell’ambito del neobarthismo francese, siamo sul finire degli anni
’40 e negli anni ’50, una lunga fase intermedia che inquadra l’impegno di
18
Ricoeur, soprattutto negli anni ’60 e ’70, intorno ai motivi e ai temi
dell’ermeneutica e della filosofia del linguaggio (incentrata sullo studio
della metafora e del racconto) e un periodo più maturo, che copre un arco
temporale che corre dagli anni ’80 agli anni ’90 e nel quale, come si tenterà
di dimostrare, pervengono a una maggiore chiarificazione i temi che
avranno da essere enucleati. Mediante l’intreccio fra questi tre periodi della
filosofia ricoeuriana, si può evincere una certa unità di fondo che si
consolida sul tema del rapporto incrociato fra la nozione filosofica di essere
e quella teologica di Dio, al di là degli schemi scolastici e neotomistici
predominanti nella “filosofia cristiana” francese della prima metà del ‘900.
In un certo qual modo si può e si deve rinvenire, nelle pieghe di tale legame
fondamentale, una costitutiva tendenza a emancipare la nozione di essere
dalla speculazione metafisica e la nozione di Dio dalla teologia dogmatica.
Peraltro, il solco filosofico-teologico prospettato, se rimanesse
saldamente ancorato alla sola ontologia del sé, si dissolverebbe, secondo la
stessa ammissione rassegnata da Ricoeur,8 e non darebbe ragione anche del
lavoro sulla decostruzione della colpevolezza umana (dagli anni ’50 agli
anni ’60 e concentrata intorno alla Simbolica del male) che rappresenta di
fatto il nucleo tematico originario sia del progetto di un’antropologia
fondamentale sia della filosofia ermeneutica della religione di Ricoeur e
della quale si rende necessaria un’ulteriore caratterizzazione. E ancora, dal
primo periodo ricaviamo taluni temi dominanti che fungono da cardini sui
quali fa perno il successivo sviluppo dell’ontologia dinanzi alla questione
del rapporto Dio/essere, sviluppo che sfocia nel volume Thinking biblically
(1998)9, autentica espressione del tentativo di coniugare speculazione
filosofica ed esercizio esegetico.
Tali elementi, che si raccolgono intorno alla formulazione di un
processo di désabsolutisation, secondo un’ispirazione tratta dall’approccio
al pensiero del filosofo protestante Pierre Thévenaz, vanno sotto il segno di
una filosofia che nutre nei confronti dell’ontologia un atteggiamento
generale e fondamentale cospicuamente affine alle movenze della filosofia
19
dell’essere di Marcel; filosofo, quest’ultimo, con il quale Ricoeur ha
lungamente intrattenuto un dialogo fruttuoso. Dalla focalizzazione di tale
rapporto si possono apprendere le note dominanti delle movenze marceliane
recepite dalla filosofia ricoeuriana. Innanzitutto l’oscurità del termine essere
determina una radicata convinzione secondo la quale questa parola tanto
inflazionata non può ricondurre a una scienza tout court, in quanto
scaturigine di una storia che attraversa, a fasi alterne, la parabola temporale
della filosofia nella sua variegata interezza. Quindi non c’è scienza
dell’essere ma storia dell’essere. Questa, in estrema sintesi, la formula
basilare che dà il senso della recondita radice marceliana della filosofia di
Ricoeur.
Detto
altrimenti,
viene
assunta
previamente
la
dimensione
d’indisponibilità che si cela nei limiti del pensiero filosofico sull’essere e, in
ultima istanza, si vuole porre in risalto il carattere eminentemente narrativo
di un’ontologia segnata nel profondo più dalla categoria della creatività
(Marcel) che da quella della differenza (Heidegger).10 Come fenditure le
ispirazioni marceliane non mancano mai d’incidere lungo l’intricato
sviluppo dell’iter filosofico ricoeuriano: lasciando cadere queste fugaci
contaminazioni s’incorre nel rischio di non focalizzare accuratamente il
sostrato ontologico di tale itinerario. In fondo Ricoeur cerca di porre nel
giusto risalto una concezione secondo cui proprio l’ontologia può essere
assunta come il meno sistematico e il più mutevole discorso della filosofia
occidentale. In virtù di tale non secondaria ragione è bene anteporre, alla
considerazione dei motivi elettivi del pensiero di Ricoeur, la convinzione
che vi sia una radice marceliana mai del tutto obliata e revocata.
Nondimeno, la stessa formulazione dell’ontologia del sé non
rappresenta affatto un approdo ultimo, bensì la tematizzazione della
frontiera dell’essere e rappresenta quindi un approdo aperto, poiché
mediante la costituzione di un sé si consente alla filosofia di avere un fulcro
metodologico sul quale innestare la pluralità di forme che l’ontologia può
assumere nello svolgimento della sua enucleazione. Il soggetto del sé non è
20
il fondamento del Cogito cartesiano, non il punto centrale di una riflessione
autoreferenziale, bensì il nucleo aurorale di una continua e incessante
esperienza dell’essere, che si esperisce pertanto nell’orizzonte plurimo di
un’ontologia che è narrazione, che è conoscenza dell’esistente attraverso il
limite, indisponibile e pur tuttavia creativamente aperto, della finitudine.
Ciò permette al filosofo francese di collocare il magma delle forme della
nostra cultura nell’ambito della itinérance dell’essere11, quindi d’inscrivere
nel circolo ontologico tutte le forme espressive della cultura, dal pensiero
speculativo di matrice greca all’esperienza religiosa di matrice biblica.
Prefigurare una dimensione narrativa in seno alla conoscenza dell’essere
dell’esistente equivale quindi ad ammettere che l’ontologia possa assumere
una declinazione culturale d’ispirazione biblica.
Su tali presupposti si fonda la previa convinzione secondo la quale,
come attestano gli studi biblici del Nostro, l’ontologia non deve temere di
mettere a confronto, senza cedere alla tentazione dell’identificazione (come
accade nell’ontologismo e nella onto-teo-logia), la nozione di essere con
l’esperienza religiosa. Il topos ricoeuriano della ontologie biblique12,
elaborato negli anni ’90, consente di comporre istanze che, nella loro
radicale incommensurabilità, coesistono nella tensione e giovano a rendere
la fase ultima della filosofia di Ricoeur ancora viva e foriera di spunti
rilevanti. Essere e Dio sono pertanto assunti come assoluti che non
convergono, ma che tuttavia concorrono a rinvigorire da sempre le sorti
della
filosofia
occidentale,
così
profondamente
segnata
dall’imprescindibilità di questi due concetti-limite.
Ricoeur percorre lo slancio di un pensiero filosofico volto a un dialogo
più aperto con la particolarità del mondo biblico e getta le basi per un nuovo
discorso ontologico, che perverrà a un avanzamento rilevante e significativo
con il progetto, rimasto in larga parte incompiuto, di un percorso biblico
dell’ontologia. Ciò nondimeno, questo intento riecheggia per certi versi
Marcel, attraverso una riproposizione della nozione di riflessione seconda di
stampo ontologico, con una sorta di ontologia seconda (questa è la base su
21
cui edificare il topos della ontologia biblica). Una riflessione seconda che
possiamo decifrare come la conduzione di un pensare a dispetto e
nonostante l’invincibile indisponibilità dell’essere promesso nel variegato
mondo del testo biblico. Di tale progetto si può dire che incarni l’intento di
dimostrare che se l’ontologia è la conoscenza dell’essere in quanto tale
(nella sua pretesa unità e totalità) l’ontologia seconda raccoglie i cocci della
prima e ricostruisce un senso nella frammentarietà dell’essere travagliato dal
dissidio fra bene e male.
Come si è avuto modo di constatare sopra, la riflessione ricoeuriana,
nella sua complessa oscillazione, fra tematiche filosofiche e tematiche
religiose, e nella sua interezza si snoda lungo il crinale che guarda
congiuntamente al versante della critica e al versante della convinzione13. Si
tratta di due consolidate categorie di pensiero che ricoprono una veste di
fondamentale importanza nell’economia della filosofia di Ricoeur. Entrambi
gli elementi palesano il carattere decostruttivo e ricostruttivo della
riflessione filosofico-religiosa del Nostro. Nell’ambito della dialettica
religione/fede, il momento critico rappresenta l’assunzione proficua e
aporetica della categoria moderna del sospetto e non una mera strategia
della confutazione fine a sé stessa. Di pari grado, la convinzione rappresenta
una risorsa di senso, una fonte del pensiero filosofico, nella misura in cui
non appare come una pura e semplice assunzione previa e acritica. La
dialettica in questione si scaltrisce mercé la coesione di queste due
categorie, le quali, in prima istanza, sembrano essere assai lontane fra loro,
ma nel contempo si rivelano assai utili e determinanti alla finalità che si
propone Ricoeur: rimanere filosofo e seguitare a professare la propria fede
cristiana. Inoltre va aggiunto che le categorie in questione, interagendo l’una
con l’altra, provocano un processo di emancipazione dalla zavorra di un
sospetto greve e pregiudizialmente antireligioso e dalla zavorra, a detta di
Ricoeur altrettanto gravosa, di una fede totalmente assimilata alla credenza.
Si tratta di chiarire più dettagliatamente che la categoria della
convinzione risponda in larga misura all’esigenza tutta moderna e post-
22
metafisica di una relazione più aperta e viva con la fede, intesa appunto non
come credenza, bensì come libera relazione con la Rivelazione, che provoca
il pensiero e arricchisce la coscienza di una prospettiva del tutto estranea ed
estraniante (non alienante) rispetto al consueto modo d’interpretare le
costruzioni metafisiche e la loro pretesa di fondare, in modo ultimativo,
l’esistenza dell’uomo e la grande questione del rapporto con il divino. In un
certo senso, la convinzione risponde ai dettami di un processo di
riappropriazione
e
ricostruzione
dell’esistenza
religiosa
all’insegna
dell’attestazione e della fiance. E, ancora una volta, si potrà trovare un punto
di contatto con la réflection di Marcel e la vigenza di questa nell’ottica della
cosiddetta “riflessione seconda”. Nondimeno si sviluppa, con il lento
costituirsi della convinzione portata a maturazione attraverso il confronto
con le istanze della critica filosofica del sospetto moderno, un’ermeneutica
della religione che informa di sé gran parte del pensiero teologico-filosofico
di Ricoeur.
1.2 Preludio filosofico e teologico
Questo primo capitolo privilegia una contestualizzazione preliminare del
pensiero ricoeuriano e vuole giovare a una maggiore comprensione degli
scritti e degli articoli del periodo di collaborazione con la rivista Esprit. A
quest’epoca risalgono gli albori dell’interesse nutrito, dal filosofo francese,
nei riguardi di una corrente filosofica e teologica che gravita intorno alla
Kierkegaard renaissance e alla riproposizione del pensiero barthiano in
seno al coevo dibattito francese su filosofia e cristianesimo.
23
In modo particolare, si vogliono porre nel giusto risalto le affinità con
due figure che hanno avuto notevole influsso sugli esordi ricoeuriani, Pierre
Thévenaz e Roger Mehl, a loro modo espressioni vive del pensiero
protestante a cavaliere fra filosofia e teologia. Sono due gli articoli che
meritano attenzione. Nel primo articolo in questione, redatto nel 1948 e
dedicato all’analisi della filosofia di Mehl, dal titolo La condition du
philosophe chrétien14, Ricouer dichiara la propria posizione in merito al
rapporto fra filosofia e fede cristiana, chiarendo, in maniera inequivocabile,
di non aderire al progetto di una “filosofia cristiana” imperante negli
ambienti del neotomismo francese.
Il Nostro trae da Mehl un bagaglio notevole di spunti non indifferenti.
Fra le righe di questo testo vengono delineati i tratti salienti di questo
cristianesimo incastonato nel cuore di una “filosofia senza assoluto”,
lasciando trapelare al contempo la configurazione di un pensiero che
comporti il radicamento in una condizione sradicata in primo luogo dalla
pretenziosa concezione dell’essere come totalità e del sapere come sistema.
A fronte di un’umanità totalmente décroche da ogni idea assoluta, di
un’umanità nuda dinanzi all’abisso del Totalmente Altro, si staglia
all’orizzonte un percorso filosofico scevro d’ogni formulazione metafisica,
ovvero un orizzonte di pensiero che prenda progressivamente coscienza
della natura opzionale della metafisica15. Parimenti, da una tale situazione,
esistenziale e intellettuale al contempo, si evince giocoforza che il devant
Dieu non è una fonte veritativa, bensì la messa in crisi di tutto ciò che
ancora, nella metafisica come nella religione stessa, sa di umano troppo
umano.
Il lavoro e lo spirito dei neobarthiani francesi, a cui Ricoeur s’ispira
largamente, può riassumersi nello sforzo di sviscerare le possibilità della
crisi teologico-filosofica proficuamente avviata da Barth. In altri termini, si
tratta di comprendere e di portare a compimento un processo di
decostruzione del rapporto fra le due discipline fino al punto di scorgervi
una via nuova e radicalmente alternativa; per far ciò non ci si può lasciare
24
alle spalle la ricerca di una nuova prospettiva ontologica, rilanciata a
dispetto della crisi della metafisica e delle aporie che concernono il rapporto
del pensiero filosofico con lo scandalo del male e della sofferenza. La crisi
sagacemente avviata da Barth può innescare un processo lento e laborioso di
ripensamento (Nachdenken) delle fondamenta stesse della filosofia
occidentale; un ripensamento che sappia guardare con coraggio alle
inesauribili risorse pre-filosofiche del pensiero biblico. Tutti e tre gli
esponenti di questo rilancio francese del barthismo in filosofia, ovvero
Mehl, Thévenaz e lo stesso Ricoeur, concordano sul fatto che non giova in
nessun caso accapigliarsi sulle possibilità o meno di una filosofia cristiana:
tutti e tre convergono, inoltre, sul fatto che il filosofo cristiano è una realtà
inequivocabile e può rappresentare una risorsa per la filosofia postmetafisica. Sullo sfondo sussiste la convinzione, assai radicata, che la
corrispondenza ancillare fra Rivelazione cristiana e metafisica vada rivista e
confutata; in altre parole, si è ben lungi dal riproporre un legame diretto e
razionale fra il complesso dogmatico cristiano e i capisaldi della filosofia
classica (come accade nel tomismo).
Nel suo commento a Mehl, Ricoeur evidenzia con acume che tale
movimento si prefigge il fine di rimettere il cristianesimo nel cuore vivo
della filosofia, eludendo perentoriamente la via della imprescindibile
auctoritas della Rivelazione; quella che, per intenderci, ha assegnato a
quest’ultima il ruolo di deposito della verità e alla filosofia la competenza di
dimostrare, per la sola via discorsiva, la primazia del dato rivelato. Mehl
ribadisce, e Ricoeur gli fa eco, che l’unico dato certo è quello dell’iniziale
disarmonia fra le verità di fede e le verità di ragione. Ai loro occhi appare,
pertanto, di gran lunga più proficuo assumere proprio questa discrepanza, in
tutta la sua fecondità, come punto di partenza per comprendere appieno la
condizione peculiare del credente che intraprende la via della filosofia. Tale
condizione concerne, in primo luogo, la mancanza di presupposti di ogni
sorta per operare un’assimilazione fra la struttura epistemica della verità,
secondo il pensiero greco, e la scandalosa e spiazzante esperienza della
25
Croce e della Resurrezione di Gesù Cristo: basti questo primo
imprescindibile elemento per rinfocolare e acuire la crisi e la rottura. Le
forme della nostra conoscenza non sono in grado di rielaborare un cotale
evento, in virtù del quale la fede si preannuncia, fin nelle sue fondamenta,
come una condizione di radicale disarmonia fra il conoscere razionalmente e
il confidare nel Dio morto e risorto.
Alla luce di questa difformità pregiudiziale, appare del tutto evidente
che metafisica, da un lato, e Rivelazione biblica, dall’altro, siano ben lungi
l’una dall’altra e ciò è ancor più plausibile se si tiene in conto che l’una, con
la sua concezione dell’essere come sostanza e fondamento, si appiattisce
sulla nozione di realtà come composizione di dati (non in senso empirico,
bensì in senso epistemico); mentre l’altra è soltanto nella dogmatica che
parte dalla fede come dato. All’inverso la Rivelazione deve essere
interpretata come un puro e inesausto darsi continuo. Su una tale premessa
non può verificarsi nessuna consonanza formale e materiale fra la nozione
filosofica di verità e l’esperienza cristiana della verità di Cristo. Metafisica e
Rivelazione si distinguono dunque come due poli incomunicabili. Tuttavia,
nel cuore stesso di un tale dissidio, Ricoeur vuole collocare un diaframma
che possa tornare utile alla comprensione di entrambe. Siamo dinanzi a una
forma più o meno ibrida di ontologia, elaborata al fine di accrescere la
comprensione della natura opzionale della metafisica e della natura
aporetica della congiunzione pensiero/Rivelazione biblica, sicché potrà
impiantarsi un progetto ontologico che superi l’impasse della primazia del
fondamento (Grund) ed esplichi l’ineludibilità del limite (Grenze). La
condizione che vive il filosofo, che ha in animo di esprimere, quantunque
parzialmente, il proprio cristianesimo in termini di frontiera con il discorso
filosofico, è sostanzialmente quella dell’esperienza aporetica del limite, del
limite esistenziale, del limite della trascendenza e della piena conoscibilità
del darsi rivelativo. In vista di parametri più appropriatamente filosofici la
questione si esplica a mezzo di una dicotomia fra l’essere pensato
nell’ambito della metafisica e l’essere pensato nell’ambito della dottrina
26
salvifica. Talché nell’un caso prevale la natura opzionale di un essere come
persistente fondamento (Grund) dell’ente; di contro, nell’altro caso
predomina, tracimando ogni limite epistemico, la natura insondabile ed
escatologica dell’essere.
Né prolegomeni né preambula fidei, nulla di simile può essere fornito
dalla metafisica alla Rivelazione; ne è un esempio emblematico la
discontinuità fra la dottrina antica dell’immortalità dell’anima, secondo la
quale il post mortem è inteso come una sopravvivenza per inerzia e la
dottrina cristiana della resurrezione dei corpi, secondo la quale la vita post
mortem è un dono per grazia e non per inerzia. Per certi versi appare del
tutto evidente che la soteriologia cristiana non ha alcun addentellato con la
metafisica e ne rappresenta un oltrepassamento radicale e deciso già a
partire dal più metafisico dei problemi, la vita dopo la morte. L’evento
salvifico, come è dato comprendere in virtù del testo biblico, consuma e
compie una promessa impossibile. Tuttavia, pur riconoscendo un’indole al
divino che da sempre anima la metafisica nelle sue più varie sfaccettature, la
categoria propria della soteriologia cristiana non culmina con l’idea di un
ricongiungimento dell’anima dell’uomo con il mondo da cui proviene e da
cui violentemente è stato sottratto, bensì con l’éschaton, cioè con una realtà
che non ha provenienza né origine. Tale raffigurazione simbolica può essere
interpretata filosoficamente in ragione di un impianto ontologico non più di
stampo metafisico (volto all’individuazione di quello che si potrebbe
definire lo spazio dell’essere) ma di stampo escatologico (volto
all’individuazione di quello che si potrebbe definire il tempo dell’essere).
Pertanto, mercé questo cambio di rotta, ne sortisce la conseguenza che
l’ontologia, che si vuole modellata secondo la maniera biblica di pensare
l’essere dell’uomo e del mondo, deve assumere la portata sconvolgente del
concetto di novum. Detto altrimenti, l’escatologia lascia trasparire la trama
della storia della salvezza, articolata, secondo l’esegesi tipologica (secondo
cui l’archetipo non precostituisce il possibile ma preannuncia l’impossibile),
attraverso il passaggio o transito fra momenti asimmetrici: per meglio
27
intendere tutto ciò è bene addurre lo schema dalla Caduta alla Grazia
(secondo lo schema del paradigma paolino che implica l’estensione alla
Creazione e alla Parusia). Su questi presupposti teorici Ricoeur costruisce
una specifica ontologia del limite incentrata sulla nozione di tensione (o
promessa), il che costituisce finanche un punto di considerevole
convergenza e di voluta assonanza con l’idea marceliana di homo viator. In
breve, si tratta di comprendere l’incidenza ontologica delle figurazioni e dei
momenti salienti che scandiscono la storia della salvezza, in questo caso
intesa, ed ermeneuticamente assunta, come paradigma del carattere epocale
dell’essere (esse viator). In quest’ottica emerge con perentorietà la discrasia
fra ontologia metafisica e ontologia escatologica, primo abbozzo,
quest’ultima, del progetto, intravisto negli anni ’90, di tratteggiare una vera
e propria ontologia biblica, nata e sorretta dal fecondo connubio fra una
philosophia viatorum e l’esegesi biblica.
Ancor più incisivo e determinante appare il confronto con Thévenaz. In
un articolo del 1956, dal titolo Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz16,
Ricoeur pare ricalchi fedelmente i punti emersi nell’articolo pubblicato otto
anni prima, allorché se ne ribadisce la medesima suggestione di fondo. Il
punto di svolta decisivo è rappresentato dall’adesione accordata al concetto
thévenaziano di désabsolutisation. Si tratta di un passaggio nodale della
massima rilevanza, se si vogliono comprendere la genesi e le motivazioni
dell’itinerario filosofico e teologico di Ricoeur nel suo insieme. In
considerazione del contesto storico-filosofico, entro il quale maturano quelle
che potremmo a ragione ritenere le opzioni fondamentali della filosofia
ricoeuriana, la “filosofia senza assoluto” di Thévenaz diviene segno del
tentativo di coniugare la tradizione riflessiva francese (incentrata
sull’ermeneutica del Cogito cartesiano) con le più vivaci istanze della
teologia dialettica di Barth. Per l’appunto tali opzioni fondamentali possono
sommariamente sintetizzarsi in due punti: in prima battuta affiora uno
spiccato interesse per una filosofia meno autoreferenziale e più propensa al
dialogo con le espressioni della cultura e con le scienze umane; in seconda
28
battuta viene alla luce un costante interesse per le implicazioni filosofiche di
cui è portatrice la teologia barthiana. Un tale contesto di base costituisce il
retroterra che dà luogo, nel corso delle fasi successive del filosofare di
Ricoeur, a una sempre più scaltrita tematizzazione del ruolo della religione
cristiana nell’ambito delle questioni più spinose della filosofia del ‘900,
prime fra tutte quelle del male radicale e della sofferenza ingiusta
Ciò che Ricoeur evidenzia senza indugi è il fatto, apparentemente
singolare, che Thévenaz utilizzi l’aggettivo protestante per designare la
propria filosofia e lo faccia al fine di rendere perspicua l’affinità fra il
proprio modus philosophandi e la critica rivolta all’indirizzo delle filosofie
autoritarie, dogmatiche e razionalistiche, prima fra tutte quella cartesiana.
Detto altrimenti, nell’ambito del neobarthismo francese è opinione assai
diffusa credere che Lutero, rampognando la pretesa soggettiva di accedere
alla salvezza mediante le opere umane, abbia inaugurato un modo di pensare
diametralmente opposto a quello accentratore che prenderà forma
successivamente nelle filosofie d’ispirazione cartesiana ed hegeliana. Con la
Riforma, in poche parole, l’uomo moderno viene spodestato e si ritrova
dinanzi all’abisso dell’indisponibile. Thévenaz asserisce con vigore che la
Croce di Cristo è quanto di più lungi possa essere pensato dal Cogito, a suo
modo di vedere contraltare filosofico della concupiscenza del cuore tanto
avversata dallo stesso Lutero. Quindi, se il Riformatore tedesco, a suo
modo, ha dato il via alla concezione del decentramento dell’esistenza,
Cartesio, da par suo, ha gettato le basi di tutti i processi di pensiero
speculativi che tendono a costruire un assoluto artificioso e pernicioso. Per
certi versi tale argomento appare equipollente alla critica di Maritain a
Cartesio, sennonché nel pensatore cattolico il ricorso alla Rivelazione è
sostanzialmente legato all’esigenza di fondare un’epistemologia forte,
mentre nel pensatore protestante un tale ricorso risponde a tutt’altra
esigenza: rendere la filosofia più flessibile verso l’alterità irrinunciabile
della Rivelazione cristiana. Stante a tale dato storico, Thévenaz esorta se
stesso a intraprendere la strada di una filosofia che funga da
29
désabsolutisation del pensiero forte e del sapere assoluto. Una filosofia
protestante sarebbe una filosofia libera e quest’ultima sarebbe giocoforza
una philosophie sans absolu. In definitiva resta da capire da cosa s’intenda
liberare il pensiero protestante. A un tale quesito il tragitto seguito da
Ricoeur risponderà negli anni ’60 con la riflessione intorno alla Simbolica
del male, cuore e svolgimento dell’anti-teodicea ricoeuriana.
Il filosofo protestante, secondo Ricoeur incarnato appieno dallo stesso
Thévenaz, è il pensatore conscio che la considerazione filosofica della
Croce contenga in nuce tutta la carica esplosiva della cesura pascaliana fra il
dio dei filosofi e il Dio della Bibbia, insomma una forza dirompente e
decisamente iconoclastica che si scontra con le presupposizioni metafisiche
e le verità dogmatiche di chi piega l’esperienza drammatica e irriducibile
della fede agli schemi del filosofare greco. La fede non è quindi una
modalità conoscitiva, bensì stabile assenza di staticità; è presupporre il nulla
per il mondo e il tutto per il credente. Mantenere viva questa carica
paradossale, nel credente che sceglie di esprimere la propria condizione
nella filosofia, equivale a sperimentare un metodo che blandisce le
contructions systématiques e assapora la vertigine degli ébranlements
aporétique di un pensiero difforme dalle forme metafisiche. Sulla scia di
Paolo, che ha innescato un moto di dédivinisation delle opere della Legge, a
suo dire non completamente immuni dalla concupiscenza umana, il filosofo
protestante amplifica tale moto mediante una sua ricollocazione nella
filosofia, permettendo alla dédivinisation di tradursi in désabsolutisation
delle
forme
di
pensiero
che
ricorrono
a
cornici
sistematiche
pretenziosamente esaustive, incapaci perlopiù di cogliere la fede cristiana
nella sua portata rivoluzionaria e, perché no, aporetica.
Il processo di désabsolutisation congiuntamente coinvolge le pretese
sistematiche della filosofia e quelle dogmatiche delle teologie che
riecheggiano le assolutizzazioni della stessa filosofia e pertanto Thévenaz
propone, e Ricoeur sottolinea con una certa enfasi tale snodo, un singolare
parallelismo fra la concezione paolina dello spirito e le filosofie dei filosofi
30
che avversano l’assoluto declinato nelle formulazioni speculative di un
intelletto avulso. Quello che il filone neobarthiano cerca di trasmettere è
l’esigenza di radicare il filosofare nella condizione sradicata dell’uomo, il
quale mediante concetti quali assoluto, totalità ed affini non fa altro che
porre con maggiore risalto il condizionamento infruttuoso suscitato da tali
topoi concettuali. Pare non del tutto fuori luogo la considerazione del fatto
che, proprio attraverso la rilettura della filosofia thévenaziana, Ricoeur
abbia posto le basi della nozione di désir d’être abbondantemente utilizzata
nella Simbolica del male17. Si tratta di comprendere, in vista di una
maggiore recezione del Ricoeur degli anni ’60, la rilevanza dell’eredità
thévenaziana e della formazione protestane nell’ambito dei percorsi teoretici
che si snodano lungo la preparazione e l’elaborazione della Simbolica. Tali
percorsi assumono sovente una motivazione di fondo che induce il filosofo
di Valence a configurare una forma antimetafisica di filosofia ermeneutica
del cristianesimo. In virtù della lettura ricoeuriana del neobarthismo
francese si possono tratteggiare i contorni del seguente schema ermeneutico:
l’incompatibilità della fede alla filosofia può giovare alla filosofia medesima
e al suo rinnovamento attraverso la désabsolutisation, ovvero attraverso la
forza del pensiero debole che sa incorrere senza infingimenti metafisici nel
rischio dello scacco e, molto più, nella possibilità di penser plus. Parimenti
si vuole erodere la pretesa di riporre nella metafisica le sorti del metodo
della trascendenza stemperata nelle forme della causalità prima oppure nel
primato della ricerca del fondamento degli enti, confutando la stessa
epistemologia della trascendenza che è trasfigurazione del mascheramento
del désir d’être il cui precipuo oggetto è l’artificiosa ricerca di una
persistenza ontologica che si disfa dell’evento salvifico.
Entrando nel cuore oscuro della ragione metafisica, si mette in crisi il
pensiero filosofico al punto di rendere la stessa metafisica un’opportunità
folgorante e paradossale, capace di denudare l’uomo moderno delle sue
epistemologie forti. Ricoeur si serve dell’analisi dei testi mehliani e
thévenaziani al fine di lumeggiare senza trionfalismi di sorta lo statuto
31
precario e condizionato, ma pur sempre creativo, della ragione umana;
quella medesima ragione che per un verso produce assoluti, per un altro
rende intelligibile la sproporzione fra l’assoluto del pensiero e l’antecedenza
di assoluti fra loro irrelati come il bene e il male e come l’essere dell’ente
finito e l’essere di Dio: assoluti irrelati che precedono il pensiero filosofico
ed esorbitano da ogni sistema dottrinario. Per decifrare questa sorta di
antimetodo, il cui recto è la désabsolutisation e il cui verso è la
dédivinisation, Thévenaz conia l’espressione métaphysique à rebours18 che,
a suo modo, Ricoeur ricalca come rovesciamento e dépassement della
metafisica sviscerata come sublimazione del désir d’être e delle idee che
contengono la pretesa di totalità che accomuna i sistemi moderni di filosofia
da Cartesio a Hegel. Su questi presupposti il filosofo francese approderà, fra
gli anni ’80 e ’90, alla proposizione di una saggezza aporetica che si fonda
proprio sulla “filosofia senza assoluto” del cristiano impegnato a pensare
nonostante il limiti della metafisica. Una saggezza che Ricoeur ritiene
radicata nella filigrana dei testi Sapienziali (Il Libro di Giobbe su tutti) e
nelle Epistole paoline, oltre che nel vigore rivoluzionario dei Vangeli.
1.3 Radicalità del cristianesimo
Nel periodo focalizzato sopra come preliminare iniziano a farsi largo,
nell’evoluzione della forma mentis filosofica di Ricoeur, le note dominanti
del suo pensiero al confine fra filosofia e teologia. Questi elementi, che
programmaticamente
sono
stati
raggruppati
sotto
l’egida
della
désabsolutisation, provengono, come s’è testé fatto cenno, in larga misura
dagli studiosi post-barthiani, i quali hanno in animo di riproporre in chiave
32
teologico-filosofica la temperie e le suggestioni della Kierkegaard
renaissance.
Contestualizzando il movimento in relazione al coevo dibattito sul ferro
ligneo della filosofia cristiana, prende vita, con il fertile contributo
ricoeuriano, un’originale rimodulazione della dissoluzione kierkegaardiana
dell’hegelismo atta a dotare la visione cristiana del mondo di una
prospettiva filosofica radicalmente non afferente allo schema neotomista.
Detto altrimenti, si profila, in codesti pensatori, la possibilità di concepire
Dio al di fuori della metafisica medievale (in cui confluiscono ontologia e
ontologismo), del razionalismo classico (dimostrazione dell’esistenza di
Dio) e del razionalismo moderno (centralità del soggetto), recuperandone
l’identità biblica e riproponendo la teologia dialettica di Barth come
momento alternativo e di rottura nei riguardi sia della teologia cattolica sia
della teologia liberale.
A questo sostrato si deve aggiungere un’idiosincrasia evidente nutrita
nei confronti dell’idealismo hegeliano, prolungamento naturale, a detta di
molti, dell’esaltazione cartesiana del Cogito. In sintesi, il progetto
thévenaziano, che si è assunto come emblema di questa temperie filosofica,
è volto all’ideazione di una filosofia senza assoluto, cioè di un pensiero
aperto e non schematico che assuma su di sé il gravoso onere di continuare a
pensare finanche dinanzi alle aporie e alle angosce della crisi della filosofia
novecentesca.
S’è detto una filosofia scevra di assoluto, di totalità, di sistema. In altre
parole, tali elementi, ritenuti obiettivi polemici privilegiati del processo di
désabsolutisation, si possono agevolmente comporre sotto il programma
decostruttivo di una filosofia che abiti l’aporia, giacché in ognuno dei
suddetti elementi vi sarebbe contenuta un’ineludibile sfida alla filosofia
protestante. Dunque, nella possibilità di cogliere una categoria che
s’imponga come cifra emblematica di questo percorso, alternativo rispetto
alla critica più ortodossa, giova la messa a fuoco dell’aporia come locus
filosofico fondamentale nell’economia del lavoro ricoeuriano. Tale
33
categoria non sarà evidentemente comparabile, con la sua spiccata portata
critica e polemica, a quella di sistema filosofico. In altre parole, la filosofia
è strutturalmente refrattaria all’idea di poter approdare definitivamente a un
sistema che abbia i crismi della dottrina; la filosofia è da sempre pensare
nell’aporia.
Tuttavia ci si ritroverebbe giocoforza fuori strada qualora s’intendesse il
correlativo aggettivo aporetico, laddove venisse assunto per connotare il
metodo ricoeuriano, così come viene avallato nella più consolidata prassi
del discorso filosofico, vale a dire nell’accezione meramente negativa del
termine. Si tratta, in altre parole, di cogliere nella sua peculiarità l’iter
filosofico di Ricoeur, il quale non è certamente cadenzato da un susseguirsi
strettamente lineare di questioni e teorie, bensì da uno snodarsi continuo di
aporie, ripensamenti, interpretazioni e prospettive innovative, nonché da
proficue intromissioni di natura extra-filosofica.
In modo del tutto evidente va da sé che, in Ricoeur, quest’uso
dell’aporia in filosofia s’imponga positivamente. Se si vuole si fa largo
mercé una lettura affine al significato di fecondità. Parimenti, entrando nel
merito di una considerazione più generale, è proprio nella categoria di
aporia che il pensiero filosofico esercita la propria indefessa funzione di
ricerca di una ratio per il discorso umano sulle cose del mondo. A suo modo
Ricoeur rivendica la necessità di reinterpretare il concetto non più come
“strada senza uscita” (che lasci pensare a una filosofia intessuta di
astrattezze e vicoli ciechi), bensì come uno “stare sempre sulla strada” (che
lasci pensare a una filosofia on the road), sicché andrà abbandonata la
concezione dell’aporetico come sinonimo di astratto e inconcludente, a tutto
vantaggio di una caratterizzazione squisitamente positiva e costruttiva, se si
vuole seguire correttamente il percorso filosofico della produzione
ricoeuriana. Il più delle volte l’aporia, sul piano eminentemente generale,
non insorge sulla base di un’impostazione predeterminata con diligenza,
bensì s’impone, quasi drammaticamente, al pensiero; in un certo senso le
aporie ci coinvolgono e ci travolgono, non perché frutto di una scelta
34
ponderata ma perché casuali deviazioni del nostro modo di procedere nella
conoscenza delle cose del mondo. Ciò vale con maggiore incidenza sulla
possibilità di voler comprendere la presenza del male e del dolore
nell’esistenza dell’uomo.
Ne consegue che nell’aporia del rapporto fra essere e male si addensa
una materia che produce pensiero, che stimola al pensiero; in una siffatta
atmosfera, il problema di dare del male una scienza porta all’apice
l’aporeticità del discorso filosofico, facendone una costante dell’itinerario
speculativo del filosofo di Valence. L’investigazione sulle ragioni di tale
spinosa questione trascina con sé tutta una serie d’implicazioni filosofiche
che mai abbandoneranno Ricoeur nel prosieguo dei suoi anni di lavoro e di
indagine.
Pertanto, ci si propone di porre l’attenzione su tali questioni al fine di
ricavarne il dato fondamentale di una grande aporia (che in sintesi denuncia
che se esiste il male come è possibile equiparare l’essere al bene), ben
radicata nel cuore della filosofia ricoeuriana, che guida il motivo conduttore
della demolizione critica del sapere assoluto indirizzata alla riscoperta della
peculiarità del non-sapere religioso. Tale motivo di fondo è parimenti inteso
come direttamente connesso con l’esigenza di approntare con cura una
doviziosa ricognizione del carattere extra-filosofico della source biblica
della filosofia ricoeuriana.
Ebbene, alla luce di un attento confronto testuale fra gli articoli apparsi
su Esprit, il più delle volte considerati alla stregua di interventi marginali e
occasionali, e i testi classici del corpus ricoeuriano, in primis la ponderosa
Philosophie de la volonté (vol. I Le volontarie et l’involontaire del 1950),
appare non del tutto fortuita una certa concomitanza con gli scritti su Mehl e
Thévenaz. Questi, materialmente e non a caso, precedono (Mehl 1948) e
seguono (Thévenaz 1956) l’impegno profuso per la stesura della prima parte
della filosofia ricoeuriana della volontà e, in un certo senso, ne segnano il
confine teorico. In altre parole, tenendo conto dell’impasse implicato e
contenuto nel testo del 1950 e che lo stesso possa fungere da punto di svolta,
35
l’occasione suscitata dallo scrivere sul neobarthismo dà la misura
dell’influenza
esercitata
dal
pensiero
teologico
sullo
svolgimento
complessivo dell’itinerario seguito da Ricoeur in quegli anni fecondi. Pur
avendo una struttura che evoca l’hegelismo, che si snoda lungo il percorso
di decisione/azione/consentimento, la filosofia della volontà si arena nel
momento in cui Ricoeur s’imbatte con le aporie suscitate dal tentativo di
mediare una conciliazione fra l’azione e l’insuperabile presenza del male nel
mondo. Proprio in questo luogo significativo dell’opera emerge la
convinzione ricoeuriana che nella metafisica si celi un nucleo per così dire
opzionale, nel senso che le dottrine sull’immortalità e sulla trascendenza si
nutrono del desiderio umano di ovviare ai propri limiti esistenziali come la
sofferenza e come la morte. Questo assunto non abbandonerà più il filosofo
di Valence, ma soprattutto il pensatore cristiano che, attraverso la propria
filosofia, prova a esprimere il vigore di una fede a dispetto delle aporie della
teoresi. In ragione di tali convincimenti finanche le elucubrazioni della
teodicea e della dialettica hegeliana tradiscono, sul fondo della
sedimentazione del loro argomentare, tale natura opzionale della metafisica.
L’impossibilità teorica e strutturale di assimilare il male al momento
dialettico della negatività, riducendone di fatto tutto il sapore tragico,
contraddistingue, in modo rimarchevole, l’opzione metafisica e l’aporia
implicate dalla filosofia della volontà. Ciò costringe lo stesso Ricoeur a
tornare sui propri passi e a battere nuove strade, assai meno consone a
quella prima impostazione eidetica addotta per l’iniziale progetto (il quale
prevede un’impostazione hegeliana e un metodo fenomenologico). Si può
pertanto evincere in quale contesto emerga la necessità di adottare la via
della neobarthiana désabsolutisation. La scandalosa realtà della sofferenza
causata dal male subìto e della colpa per il male commesso non consente un
congruo legame a qualsivoglia impianto filosofico sia di stampo
rigorosamente fenomenologico sia di stampo rigorosamente idealisticohegeliano, ma in misura maggiore stride palesemente con le istanze dei
sistemi metafisici. In altre parole, i temi scottanti e immensi della malvagità
36
e della fragilità, insite nella condizione umana tout court, esulano da ogni
possibile costruzione sistematica, giacché si collocherebbero fra le loro
pieghe residui di teodicea. Inoltre si radicherebbe nel pensiero, e ben
fortemente, l’inanità concettuale della giustificazione provvidenziale e
storicistica del male nel mondo e nella storia (come nella concezione
hegeliana). Cosicché, procedendo in questa direzione, ne sortisce la
convinzione, genuinamente ricoeuriana, che dal rapporto fra bene e male
(ancor più diacritico che dialettico) non ne può in alcun modo conseguire
una linea di pensiero improntata alla concettualizzazione della totalità
dell’essere nella sua vacua universalità.
La focalizzazione dei limiti connessi alla finitudine esistenziale e
intellettuale dell’uomo mina dalle fondamenta e scardina la concezione
monolitica e astratta dell’essere pensato e concepito come totalità.
Quest’ultimo termine, tanto inflazionato, porta seco tutta l’impotenza del
conoscere filosofico e delle sue pretese, giacché nel cuore dell’essere non
riposa nessuna traccia che lasci pensare a una composizione dei contrasti:
l’essere racconta un dramma profondo e sovente lacerante.
Si dovrà ammettere nella filosofia di Ricoeur, intesa come un
assemblaggio fecondo e redditizio di aporie, un’inguaribile idiosincrasia per
ogni pretenziosa visione dell’essere come totalità: l’essere si preannuncia
perennemente come una frontiera del pensiero, poiché esso stesso ha ed è
una frontiera (fra il bene e il male). La materia più pervasiva e refrattaria del
pensiero filosofico, ovvero il male in tutte le sue forme, è talmente
incontrollabile di per sé da imporsi sempre più come una cogente
confutazione delle filosofie dell’assoluto; di conseguenza, dinanzi a una
siffatta incombente catastrofe teoretica, l’unico progetto perseguibile altro
non sarebbe che quello forgiato alla luce dell’espulsione del concetto
filosofico di totalità dell’essere. Il pensiero filosofico abiura lo spauracchio
del sistema, rinuncia al comfort della totalità e assume su di sé l’incombere
dell’aporia, ben sapendo che da essa non ne avrà alcun vantaggio ma, al
37
contempo, ne otterrà una maggiore coscienza del compito che è chiamato ad
attendere.
Entro i limiti oggettivi e i rudimenti di questa concezione per così dire
inattesa e non debitamente preventivata, nell’economia dell’incompiuto
progetto di una filosofia della volontà, si addiviene alla scaturigine della
Simbolica del male, la quale s’impone come una svolta significativa e
imprescindibile nell’ambito della filosofia ricoeuriana. Sullo sfondo rimane
lo scoglio della natura opzionale della metafisica, sulla scia della quale
Ricoeur denuncia quelle filosofie che pongono una regione dell’ulteriorità
intesa come persistenza del mondo e dell’anima immortale nell’iperuranio
della trascendenza. Lo stesso Cogito cartesiano rappresenta, per il filosofo
di Valence, l’anticamera di queste filosofie velleitarie. In un certo qual
modo, quando si vuole fornire un’interpretazione del ruolo giocato dalla
metafisica nell’ambito della Simbolica del male, si può metaforicamente
pensare a un rudere rovinosamente crollato dinanzi allo scandalo della
sofferenza, che comprova perentoriamente l’assurdità dei sistemi del
pensiero filosofico. Un rudere intorno al quale si aggira lo spettro di
un’ontologia che abbisogna di essere emendata dalla metafisica per venire
ricondotta sulle vie della narrazione; vie che non nascondono le increspature
del dramma dell’essere. Ricoeur ha un’ontologia in pectore ed essa è
un’ontologia senza metafisica che racconta l’essere soprattutto alla luce di
una fedeltà (anche in senso marceliano) a ciò che deve essere. Il tardo e per
certi versi incompiuto progetto di una ontologia biblica in sé compendia
queste irriducibili istanze.
Finanche sul fronte della filosofia morale s’impongono talune
considerazioni per nulla secondarie. In Ricoeur, la riflessione sul problema
del male è tesa a suffragare l’idea secondo cui la radicalità del male vada
ben oltre la ormai classica impostazione kantiana: si fa strada una
concezione che rompe con la base di quella che anche Hegel definisce
Moralische Weltenschauung. Del resto quanto segue lascia trapelare un
pilastro argomentativo della ricoeuriana dissoluzione delle teodicee. Il
38
cambiamento risulta di vaste proporzioni. Il male è radicale nella misura in
cui viene inteso non già come la massima malvagia, da cui deriverebbero
tutte le massime perverse, bensì perché scevro di ogni ragione, di ogni
spiegazione; ne è esempio emblematico la ingiusta sofferenza e
l’insostenibile caducità del nostro essere nel mondo19.
La grande aporia del pensiero moderno, che guarda favorevolmente
alle possibilità della teodicea, si rivolge alla presenza del male nel mondo e
pone in evidenza l’insensatezza invincibile e la totale infondatezza di ogni
tentata giustificazione sia metafisica che storicistica. Il male vanifica il
senso e il pensiero filosofico corre sull’orlo di un abisso senza fine. Il
sistema razionale della teodicea è incentrato su un nucleo di vanitas che ne
avvilisce i ragionamenti e le elucubrazioni. Conseguentemente va detto che,
giacché non tutto il male esperito può ovviamente essere ricondotto a
motivazioni morali (non v’è soltanto il male commesso, ma v’è anche e
soprattutto il male insensato subito dagli innocenti), in ragione di una
radicalità ben più tragica del male radicale kantiano, non ha alcun senso
perseverare nella visione morale del mondo che, come asserisce Hegel
confutando il primo postulato di tale dottrina (nel suo legame con l’ordine
naturale) sottende una logica della retribuzione e della compensazione che la
religione biblica propone, da Giobbe in avanti, di demitizzare e superare. Il
male è ed ha una realtà propria e a sé stante. Di contro, il bene è ed ha una
realtà propria altrettanto a sé stante.
E dunque non si potrà che prendere atto dell’inconsistenza della logica
contemplata nella teodicea e della razionalizzazione del male; e dunque si
dovrà ammettere che l’uomo non sia in grado di disporre di una logica da
spendere sul rapporto fra bene e male. La visione morale del mondo è una
chimera: l’unica radicale cagione del male e della sofferenza è l’assenza di
una cagione e l’aporetica constatazione dello scandalo che ci attanaglia.
Seguendo il filo sottile di tale argomento, Ricoeur incarna appieno
quell’onda di pensiero filosofico e teologico che ha abiurato le
inconcludenti e irritanti elucubrazioni della teodicea e ha scelto, sulla scia
39
della teologia dialettica di Barth, di riprovare il sentiero arduo e tortuoso
dell’esegesi biblica.
Questo rapido sguardo sull’aspetto ontologico e sull’aspetto morale
induce a tirare talune conclusioni di carattere filosofico. In sostanza inizia a
farsi luce lo stretto legame che corre fra l’ontologia metafisica da un lato e
la cosmologia arcaica dall’altro. In quest’ultima visione prospettica emerge,
nella forma della logica della retribuzione, un elemento di continuità con
l’impianto sistematico della filosofia della totalità, a questa afferisce una
visione del mondo che ha in comune con la cosmologia arcaica la
convinzione che il rapporto fra bene e male rientri in una sorta di economia
dell’essere, del suo divenire, della sua continuità, della sua coerenza logica.
A tutto ciò Ricoeur, filosofo e cristiano di formazione luterano-barthiana, si
oppone senza indugi; si tratta di un atteggiamento che può rinvenirsi
nell’intelaiatura di tutta la sua filosofia, che certamente ha assimilato,
soprattutto nella prima parte della sua formazione, taluni elementi
tipicamente kierkegaardiani.
Orbene, quest’ultima si attesta su posizioni orientate allo scardinamento
della visione sistematica della filosofia, d’altronde non può passare
inosservato, come attesta quanto sopra, un elemento fondamentale che
innerva le prime opere del Nostro; questo fattore comune concerne un
atteggiamento critico e de-costruttivo nei riguardi della filosofia hegeliana.
A fronte di tale posizionamento Ricoeur segue fedelmente un percorso di
affrancamento
da
qualsivoglia
elemento
che
possa
indulgere
all’instaurazione di una filosofia in cui attecchiscano i pilastri del sapere
assoluto. Al fine di delineare più compiutamente quest’aspetto, si dovrà, in
primo luogo, desumere una definizione programmatica di sistema filosofico
in guisa d’ipotesi di lavoro. Sistema è per Hegel, secondo la lettura che ne
propone Ricoeur, un modello di discorso fluido, anche se non del tutto
lineare, che allinea e inanella il fluttuare variegato delle fasi della storia e
delle forme di pensiero, attuando una strategia non tanto formale quanto
pretenziosamente inclusiva20. Detto in altri termini, nei pensatori sistematici
40
affiora la pretesa di poter includere, nell’ambito della concettualizzazione
filosofica, tutti quegli elementi storici e culturali, nonché religiosi, che con
una filosofia rigorosamente intesa non hanno tenuta organica. Pertanto, se si
vuole fuoriuscire dalla tenaglia del sistema, vanno rigettate le formulazioni
sclerotizzate sull’obiettivo di rendere momentaneo ciò che invece è
peculiare e irriducibile. In ultima istanza, la polemica è montata avendo in
animo la salvaguardia, sulla scia delle considerazioni kierkegaardiane, delle
prerogative proprie del pensiero religioso. In ragione di questo sentire così
radicale, anche Ricoeur percorre, ma fin dove è possibile, la via della
dissoluzione dell’hegelismo secondo la variante autorevole proposta da
Kierkegaard. Tuttavia sorgono talune considerevoli divergenze rispetto alla
linea del filosofo danese.
Pur rimanendo fedele all’impostazione principale, secondo la quale non
si condivide la visione inclusiva che ingloba, con la sua forza centripeta,
ogni forma di pensiero non filosofica, giacché ritenuta parziale e bisognosa
di una struttura filosofica onnicomprensiva, il Nostro respinge con decisione
l’appiattimento generale della filosofia di Hegel, in quanto sistema della
scienza, nel tentativo di recuperarne i risvolti più aporetici e fecondi.
Dunque pare del tutto evidente una recondita affinità, in Ricoeur, con
gli studi di Jean Wahl sul rapporto fra Kierkegaard ed Hegel21. Detto
altrimenti, in quest’ultimo, soprattutto quando l’oggetto del suo filosofare è
la religione, non tutti gli elementi del suo pensiero fanno sistema. Il filosofo
di Valence, infatti, sa rilevare con acume una complessità e un dinamismo
interni al pensiero del grande filosofo tedesco. In un certo senso, se ne può
trarre una visione d’insieme finalizzata a cogliere le differenze che
intercorrono fra l’impianto della Scienza della logica (culmine del sistema
hegeliano) e l’anima della Fenomenologia dello spirito (genesi del sistema
hegeliano), proponendo, al contempo, di arginare la rigorosa opposizione
Hegel/Kierkegaard. Non si tratta, in questa sede, di rintracciare un’eredità
hegeliana in Kierkegaard, quanto di scoprire in Hegel un discorso sulla
41
religione che, per certi versi e in una certa contenuta misura, anticipi
movenze tipiche del filosofo danese.
Invero Ricoeur vorrebbe suffragare la tesi secondo cui la concezione di
Geist contenga una buona dose di aporeticità. Il mondo della religione e il
suo vivido contatto con l’ineffabilità del male conservano tutto il loro
spessore nell’eccedenza del loro orizzonte di senso, derivato dal dato (qui
inteso
anche
come
dono)
della
Rivelazione
biblica
(delineando
perentoriamente l’opposizione fra inclusione ed eccezione). Una tale
puntualizzazione costituisce, a rigore, un’ulteriore occasione per lumeggiare
lo sfondo del pensiero ricoeuriano in materia di filosofia/problema del
male/sfera religiosa, infatti fornisce il dato tangibile di un’adesione
problematica alla concezione hegeliana della religione. Se è indubbio che
una certa vulgata prediliga un’impostazione sistematica del rapporto fra
pensiero filosofico e pensiero religioso, è altrettanto vero che, a dire di
Ricoeur, il rapporto in Hegel dovrebbe risultare meno agevole di quanto
possa sembrare. Se ne propone, fatto peraltro non sconosciuto alla filosofia
francese (basti su tutti il nome del testé citato Wahl), un’interpretazione che
ponga il rilievo di una certa disomogeneità fra la concezione costruita della
Scienza della logica e l’impostazione delle Lezioni sulla filosofia della
religione (1820-1821) rispetto al momento culminante del sistema della
scienza (che sussume arte e religione nella loro parzialità e la filosofia nella
sua assolutezza). Parimenti ne sortisce una viva rivisitazione del pensiero
religioso inteso come pensiero figurativo (incentrato sul concetto di
Vorstellung). Ricoeur, a suo modo, rimprovera a Hegel di aver sistemato la
Vorstellung senza approfondirne con coraggio le risorse22. Sulla base di tale
convinzione il filosofo di Valence ricostruisce tale mancato appuntamento
mediante l’esplorazione filosofica delle risorse della Simbolica del male.
Alla Vorstellung pertanto non si deve ascrivere un mero ruolo
preparatorio e comprimario (in fondo questa opinione lascia pensare a
residui di illuminismo e a prodromi di positivismo), bensì una propria
originale connotazione e un proprio originale modo di pensare e di essere
42
nel mondo. Si tratta, in linea di massima, di delineare un proficuo
accostamento fra l’esplorazione aporetica della questione del male e la netta
ricusazione della filosofia come sapere assoluto e inclusivo: la filosofia
ricoeuriana trae da questi due elementi costitutivi la linea guida di una
concezione dello spirito (Geist) come storia di eccezioni. Va inoltre ribadita
un’altra caratteristica fondamentale della filosofia sul piano meramente
generale: in Ricoeur la vera opposizione cardine è quella che corre fra
sistema e aporia, laddove quella rappresenti l’oblio di questa. Sebbene
anche la religione sia pensiero se ne deve constatare, con onestà e senza
infingimenti retorici e razionalistici, l’irriducibile atipicità nell’ambito di un
discorso filosofico, a meno che questo non assuma una veste di stampo
ermeneutico.
Ricoeur mutua dalla désabsolutisation i tratti distintivi e salienti, talché
irrompe sulla scena la questione dell’essere nella specifica declinazione che
tale argomento conosce alla luce della visione cristiana del mondo. Il
metodo
théveneziano
comporta
un’accurata
riflessione
sui
temi
dell’ontologia e rilancia vigorosamente l’aporia dell’essere come totalità,
acuendo e aggravando l’urgenza di riproporre in primo piano la questione
fondamentale della filosofia: se l’essere rimane ancorato all’equazione
classica (omne ens est bonum), che lo pone come consustanziale al bene,
come e perché il male? A ragion veduta un tale convincimento, per la verità
assiomatico, è aporetico fin già nel suo insorgere. Il pathos della
dissoluzione della pretenziosa filosofia dell’assoluto alberga fra le pagine
ricoeuriane fin dagli albori e la svolta, consumata nei passaggi nevralgici
della filosofia della volontà, è già ampiamente caldeggiata nel periodo delle
assidue frequentazioni del pensiero protestante più in voga nella prima metà
del ’900 filosofico e teologico francese di cui s’è testé detto.
Il male nel mondo, coacervo di contraddizioni, cagione di scandalo,
aporia spinosa per il pensiero viene progressivamente assunto da Ricoeur
quale leva di scardinamento d’ogni sistema, rappresentando la grande sfida
con la quale si misura ogni forma di pensiero che miri a soppesare la propria
43
consistenza. Pertanto una siffatta grande e inveterata aporia attraversa e
scuote ogni pretesa sistematica e ogni angolo del discorso proposto dalla
filosofia. Un tale sisma sotterraneo investe in toto l’ambito degli studi
filosofici nella sua interezza; ne sono interessati, infatti, sia il versante
ontologico del pensiero sia quello morale.
Tuttavia, va precisato che cotale conclusione interviene in primis
nell’ambito del percorso filosofico dello stesso Ricoeur; prima di trarne una
considerazione generale essa coinvolge i residui hegeliani della filosofia del
Nostro. Il suo primo grande progetto è destinato ad arenarsi proprio alla luce
di un punto di rottura nella filosofia della volontà. Nell’impianto generale di
quest’ultima dovrebbe intervenire il dispiegamento di un processo che si
snoda attraverso la decisione, l’azione e il consentimento. Si tratta di una
struttura che larvatamente tiene in seno residui di hegelismo, sennonché tale
struttura poggia e deve poggiare sull’esclusione di due ambiti aporetici, in
quanto non conciliabili nell’economia generale del dispiegamento della
dialettica della volontà. I due ambiti estromessi dal discorso sono quello
della trascendenza e quello della colpevolezza umana. Giacché essi
risentono del loro carattere ampiamente imperscrutabile non potranno in
alcun modo prendere posto in nessuna impostazione sistematica: essi
minano
dall’interno
il
sistema
della
dialettica
della
volontà
(volontario/involontario) proprio in virtù della loro origine, appunto
irriducibile e ineffabile. Nondimeno tale coppia, cagione d’instabilità,
ricoprirà in seguito e sempre il ruolo di aporia e di stimolo lungo l’arco di
tutto l’itinerario filosofico ricoeuriano.
Il male non si toglie, né tantomeno si conserva nell’essere (colto nella
sua pretenziosa totalità): il male ferisce l’essere, lacera il nostro modo di
vivere nel mondo e scaraventa nel vuoto ogni nostro pensiero. Kierkegaard
arriva ad asserire che dinanzi a cotale scandalo il pensiero sistematico
s’arresta ineluttabilmente, sicché ove c’è il male non c’è sistema e ove c’è
sistema il male è come artatamente rimosso. Secondo Ricoeur la filosofia
assolve l’onere di tentare ancora la via del pensare il bene a dispetto del
44
male. Vi sono a questo punto due possibilità da tenere in conto. Il pensiero
filosofico può imboccare la via della débâcle, rovinando negli abissi del
silenzio e del non-senso, seguitando a erigere edifici metafisici desolanti e
sconsolanti, oppure affrontare la via del défi, ossia del pensare altrimenti e
en depit du mal.
A completamento di questa descrizione va inserita un’altra coordinata
non meno fondamentale. Come si può desumere senza troppa difficoltà, il
pensiero del filosofo di Valence è contrassegnato, oltre che dalla grande
aporia di cui s’è detto sopra, da un motivo conduttore che insiste
costantemente. Esso è rappresentato dal durevole confronto con il
linguaggio simbolico, in specie con quello della fede biblica. In un certo
qual modo è come se in Ricoeur convergessero la dimensione di apertura
verso l’ignoto (indole che è nella natura stessa dell’aporia filosofica) e la
dimensione di ascolto nei riguardi di una prospettiva di senso meno
dogmatica di quanto erroneamente si pensi. In fondo risiede proprio in
questa sintesi mai conchiusa fra novità e interpretazione (è la dimensione
propria della subtilitas applicandi) il carattere autenticamente rivoluzionario
della svolta ermeneutica novecentesca. Il pensare nell’alveo impervio della
grande aporia conduce il Nostro a non glissare mai le innovazioni di senso
fornite dal linguaggio religioso: è come se vi fosse un sottile e duttile filo
che lega l’aporia più spinosa della filosofia e il senso del sacro che gli
uomini d’ogni tempo hanno tentato di comprendere con maggiore chiarezza.
In altre parole, la scoperta del sacro scaturisce dal bisogno di attingere a una
giustizia superiore e trascendente. Il legame che unisce la ricerca del sacro e
il problema del male è, se vogliamo, indissolubile. La Simbolica del male
ricoeuriana ricorre appieno a questa serie di considerazioni, ma nello stesso
tempo presagisce una posizione problematica rispetto alla fenomenologia
del sacro, specie quella di Eliade23.
Il confronto vivo e aperto con la sfera di senso che orbita intorno al
mondo biblico apre alla necessità di una svolta ermeneutica del pensiero,
giunto, come abbiamo avuto modo di scorgere, alle soglie della grande
45
aporia della filosofia. Tanto più l’aporia si fa ardua, spinosa e
insormontabile quanto più essa si fa, sul piano squisitamente ermeneutico,
interessante. Emergerà pertanto, con tutto il suo carico di elementi
speculativi, l’esigenza d’impiantare un discorso sulla natura filosofica
dell’interpretazione dei simboli incastonati nel linguaggio biblico.
Quest’aspetto contribuisce a rendere ancora più chiara l’ispirazione
congiuntamente ermeneutica e speculativa (due prospettive apparentemente
agli antipodi) di tutta la filosofia ricoeuriana. In breve, si tratta di specificare
una caratteristica importante del pensiero ricoeuriano: avere e volere una
filosofia senza un sistema equivale a instaurare un circolo assai fecondo che
inscriva al suo interno i due fuochi della speculazione e della
interpretazione.
Ebbene va aggiunto, per approdare a una prima sintesi, che in ragione
dell’infondata pretesa di enucleare una filosofia pura e avulsa dalle
espressioni religiose della finitudine umana, si dovrà giocoforza tentare
l’impresa di esplorare con coraggio e convinzione tutto ciò che può
contribuire a rendere chiaro il senso dell’essere così come lo si può attingere
dai testi biblici. Cosicché sarà altrettanto inevitabile e ineludibile un
approccio al mondo simbolico sotteso in tali testi; pur tuttavia deve essere
posto a distanza il sospetto che in Ricoeur si celi una filosofia criptoteologica, come la si può immaginare nell’ambito del progetto novecentesco
della filosofia cristiana. La successiva operazione da svolgere, nel prosieguo
della presente argomentazione, consiste nel ribadire il contesto e l’insieme
dei riferimenti testuali che esplicano lo sviluppo ermeneutico e speculativo
della filosofia del cristianesimo.
Orbene, alla luce di quanto rassegnato e di quanto è ancora da esplicare,
si vogliono porre in esame i temi e il corpus della cosiddetta Simbolica del
male al fine di ricavarne uno schema utile alla ricostruzione della ontologia
biblica. Un tale snodo, d’importanza capitale nell’iter ricoeuriano, permette
di centrare più accuratamente e con maggiore acribia le linee di pensiero da
sviluppare nei successivi passaggi. L’approccio ermeneutico e non
46
sistematico al simbolo religioso suggerisce una certa corrispondenza fra
l’aporeticità del male in filosofia e l’opacità del male espresso
simbolicamente. Basti questo a fare emergere il timore, in Ricoeur, di fare
dello scandalo del male nel mondo il perno centrale di una conoscenza
razionale (nell’ambito del mondo filosofico) oppure di una conoscenza
gnostica (nell’ambito del mondo religioso).
Ma una nota importante si pone all’attenzione. In merito a una
considerazione più generale della vocazione filosofica di Ricoeur s’impone,
una concezione del suo pensiero, come detto di frontiera, come pensiero
sapienziale24, che è tale nella misura in cui si fa evidente che codesta
accezione è recepita al fine di rendere chiara l’opposizione alla gnosi e ai
suoi surrogati moderni. Detto altrimenti, Ricoeur è il filosofo del rapporto
vivo e autentico che intercorre e insiste perpetuamente fra la filosofia e la
non-filosofia. Non pensiamo mai alienati dal mondo di simboli e immagini
che ci circonda e, per certi versi, ci sovrasta (tutto il contrario di chi sostiene
che è proprio nel simbolo, soprattutto quello religioso, che si concentra la
dose maggiore di alienazione umana).
Laddove la coscienza dell’umana condizione non pervenga in alcun
modo a un’adeguata resa concettuale e razionale, emerge il ricorso a una
approssimazione per simboli, la quale racchiude un potenziale speculativo
non indifferente. In altre parole, si tratta di ravvivare una linea di pensiero
che il simbolo conserva nella sovradeterminazione della sua struttura aperta.
Ciò nondimeno per Ricoeur non va eluso il fatto che nel simbolo religioso è
sempre posta la questione del rapporto fra l’umana esistenza e la
drammatica presenza del male e della sofferenza: v’è sempre un recondito
legame fra il senso tragico del male e il senso del sacro. Così dicendo, è
altrettanto evidente che v’è un modo di pensare il mondo e l’uomo in ogni
simbolo. Il procedimento che adotta Ricoeur consiste nella comparazione, e
nella conseguente reinterpretazione, dei simboli a partire da un nucleo
tematico che funga da comune denominatore nella molteplicità dei simboli
al fine di trarne una Simbolica coerente. Tale nucleo unitario è rappresentato
47
dalla
lacerazione
originaria,
che
mediante
i
concetti
d’impurità,
trasgressione e peccato costringe la coscienza a una rielaborazione del male
e della sua collocazione nell’ordine, spesso indecifrabile, del mondo25.
Tornando al carattere speculativo dell’ermeneutica dei simboli religiosi, si
dovrà aggiungere che esso è strettamente connesso al procedimento
ricoeuriano della ricostruzione di un senso in grado d’individuare un
discrimine fra il bene e il male. La quale cosa può a ogni modo essere
esplicitata considerando il simbolo come elemento costitutivo di un insieme
più complesso e strutturato, il racconto. Il filosofo di Valence non lesina mai
considerazioni sul carattere speculativo del simbolo religioso nell’ambito
delle costruzioni narrative che cercano un senso a qualunque costo.
Il discorso narrato rimette in questione le traversie del nostro modo di
conoscere e concepire la realtà che ci sovrasta: essenzialmente ci si ritrova
dinanzi al recupero di una riserva filosofica nell’orizzonte di un pensiero
che, catturato dall’impossibilità di una piena concettualizzazione, percorre
le tortuose vie del racconto. Il racconto è un discorso che incarna appieno la
ricerca di senso. Non si tratta parimenti, né più né meno, che di una
peculiare indagine o di un’interpretazione dell’esistenza prima del
sopraggiungere della metafisica. A detta di Ricoeur, codesta trasmutazione
del simbolo nel racconto trova una concreta forma espressiva nel mito. Di
conseguenza sarà proprio nell’ambito del mondo del mito che lo spessore
speculativo troverà un luogo ideale in cui si va sedimentando. Si evince
chiaramente, da questa impostazione di fondo, anche la natura sostanziale
del lavoro e del compito dell’ermeneutica; un lavoro che concerne la
focalizzazione delle potenzialità filosofiche del mondo simbolico e mitico.
Il lavoro ricoeuriano sulla Simbolica del male si configura più nitidamente
con una particolare integrazione al metodo ermeneutico, vale a dire con
l’assunzione del processo di demitizzazione.
In virtù di quanto si evince dalla disamina dei presupposti della filosofia
ricoeuriana, nei simboli biblici non si dovranno, in una maniera fin troppo
semplicistica, rinvenire solamente i contenuti storici, morali e spirituali dei
48
testi sacri: si dovranno in primis ravvisare una condizione, un percorso e una
forma mentis che chiamano in causa soprattutto il lettore e lo coinvolgono
attraverso la prospettiva di una sempre nuova interpretazione della realtà.
Detto altrimenti, sotto l’insegna del pensiero biblico si fondono le istanze
più vive e profonde della filosofia senza assoluto che, come abbiamo avuto
modo di provare e tentare, rappresenta lo strato fecondo, l’humus del tragitto
filosofico ricoeuriano nella sua interezza. Pertanto si è proposto e si seguita
a proporre una chiave di lettura che componga, nel rispetto delle diversità di
campo e di fondo, il carattere squisitamente filosofico di quest’iter e le
motivazioni autenticamente cristiane che lo informano fin nel profondo. Pur
rimanendo salda l’impostazione ontologica dai molteplici riferimenti testuali
e concettuali, non si vuole eludere il tentativo di capire appieno le movenze
e le note dominanti del cristianesimo d’espressione filosofica di Ricoeur.
Cioè di una fede in Dio e nell’uomo nonostante lo iato che sussiste fra la
Rivelazione e la razionalità filosofica.
5
Soi-même comme un autre, Éditions du Seuil, Paris 1990 (trad. it. Sé come un altro,
Jaca Book, Milano 1993).
6
6
Si pensi soprattutto alla critica italiana che negli ultimi anni si è particolarmente
soffermata sulla ricoeuriana filosofia del soggetto, tralasciando i motivi eminentemente
teologici e biblici degli scritti successivi a Soi-même, i quali attestano un ben documentato
interesse per le questioni ontoteologiche nel loro insieme. Cfr. AA. VV., L’io dell’altro (a
c. di A. Danese), Marietti, Genova 1993.
7
Essais d’herméneutique biblique in Lectures 3, Éditions du Seuil, Paris 1994.
8
Soi-même comme un autre, trad. it., Sé come un altro, op. cit. pagg. 92-102.
9
P. Ricouer, A. LaCocque, Thinking biblically, The University of Chicago Press,
Chicago 1998 ( trad. it., Come pensa la Bibbia, Paideia, Brescia 1998).
49
Un quadro d’insieme che fornisca le linee generali del rapporto Ricoeur/Marcel può
essere rinvenuto in un articolo apparso per la prima volta in italiano con il titolo Gabriel
Marcel fra etica e ontologia in Annuario filosofico 5/1989.
11
J. Greisch, Paul Ricoeur. L’itinérance du sens, Éditions Jérome Million, Grenoble
2001.
12
D’un Testament à l’autre (1992), in Lectures 3, op. cit., pagg. 365-366. In Appendice
forniamo una nostra traduzione di questo articolo non ancora reso in italiano.
13
La critique et la conviction, Calmann-Lévy, Paris 1995, trad. it., La critica e la
convinzione, Jaca Book, Milano 1997, pagg. 197-237.
14
La condition du philosophe crétien (1948), in Lectures 3, op. cit., pagg. 235-243.
15
La philosophie de la volonté. I Le volontarie et l’involontaire, Aubier-Montaigne,
Paris 1950, trad. it., Filosofia della volontà. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova
1990, pagg. 462-464.
16
Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz (1956), in Lectures 3, op. cit., pagg. 245259.
17
Per Simbolica del male si deve intendere un corpus di opere che comprende
Philosophie de la volonté II. Finitude et culpabilité (II La symbolique du mal), AubierMontaigne, Paris 1960 (trad. it., Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970). Le symbole
donne à penser, in Esprit 7/8, 1959 (trad. it., Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia
2002). Le conflit des interpretations, Éditions du Seuil, Paris 1969 (trad. it., Il conflitto
delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1999).
18
Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz (1956), in Lectures 3, op. cit., pagg. 251252.
19
Le conflit des interpretations, trad. it., op. cit., pagg. 316-319.
20
Philosopher après Kierkegaard (1963), Editions du seuil, Paris 1992, trad. it., in
Kierkegaard. La filosofia e l’eccezione, Morcelliana, Brescia 1996, pagg. 54-57.
21
Ivi, pagg. 35-41.
22
Ivi, pagg. 62-67.
23
Le conflit des interpretations, trad. it., op. cit., pagg. 35-36.
24
La critique et la conviction, trad. it., op. cit., pagg. 199-200.
25
Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit., pagg. 271-294.
10
50
CAPITOLO II
UNA FILOSOFIA A DISPETTO DEL MALE
2.1 Dentro e oltre la Simbolica del male
Porre il fine di chiarire in modo più puntuale il tenore del background
teologico ricoeuriano può indubbiamente fornire una completa visione
d’insieme sul debito contratto con la teologia dialettica e sulle ripercussioni
filosofiche provocate da tale corrente.
La natura effettiva di questo debito si compendia intorno a un centro di
gravità segnato dall’influsso della dottrina paolina della giustificazione, la
quale funge, come si tenterà di dimostrare, da collante dell’itinerario
filosofico di Ricoeur. Questi, nell’approcciare i temi connessi alla teologia,
mantiene sempre un profilo che raramente si discosta dalla tradizione
protestante, sicché si deve tenere in conto che il Paolo ricoeuriano
riecheggia, in larga misura, il Paolo luterano. Su questa scia s’innesta un
originale contributo con una notevole vivacità di pensiero e una palese
fedeltà alla testimonianza di un cristianesimo, ancora pulsante e polemico, e
per nulla sepolto sotto il cumulo delle macerie lasciato dal Novecento.
Puntando al cuore della questione, vale anche per Ricoeur, come per
Barth, l’indiscussa centralità del capitolo V della Lettera ai Romani, che è il
testo che espone perentoriamente la dottrina della giustificazione. Tuttavia
resta da configurare con maggiore acribia il contesto e il pretesto
dell’accostamento ricoeuriano al pensiero paolino.
Il primo significativo approccio26 al nucleo di questo paradigma è
indubbiamente datato 1965, allorché nel volume De l’interprétation. Essai
sur Freud27 si focalizzano con cura le implicazione filosofiche del
simbolismo religioso. In riferimento a quest’ultimo è doveroso produrre una
notazione preliminare. Il Novecento è il tempo dell’ermeneutica in filosofia,
ciò nondimeno bisogna accogliere il fatto che tale disciplina non appaia per
nulla compatta e rigorosamente ancorata a un unico e monolitico statuto
epistemologico. Più di ogni altro, e soprattutto più di Gadamer, il filosofo di
Valence sostiene l’idea che la teoria dell’interpretazione debba dare
contezza delle plurali e conflittuali architetture di senso che sorreggono le
sortite del Verstehen. Lo studio della teoria dell’interpretazione di matrice
psicoanalitica fornisce l’occasione di una prima tematizzazione dei conflitti
ermeneutici che caratterizzano le scienze umane del Novecento. Rimanendo
nel merito della questione inerente ai simboli, Ricoeur individua due grandi
epistemologie
moderne,
quella
di
tipo
freudiano
(che
propone
un’archeologia dei simboli da ricondurre al concetto di rimozione e al
concetto di sublimazione) e quella, a suo dire ancora valida nel Novecento,
di tipo hegeliano (il criterio teleologico guidato dalla direzione del sapere
assoluto)28. Secondo Ricoeur tali criteri epistemologici, in un certo modo,
obnubilano il potenziale di senso dell’esperienza cristiana dell’esistenza,
poiché non tengono in considerazione che anche la genesi della cultura
cristiana è frutto di un lungo e graduale processo ermeneutico che
interagisce con elementi culturali estranei.
Va rilevato inoltre che lo statuto ermeneutico si fa ancor più
problematico allorquando si approfondisca il contatto con la filosofia, la
quale, oltre a recepire la pluralità di senso, tematizza finanche le insidie del
non senso e pone con decisione il problema del male come problema insito
nell’interpretazione dei testi. Pertanto va detto che la cosiddetta grande
aporia gioca un ruolo destabilizzante e introduce l’esigenza di esplorare
52
risorse altre per interpretare in modo creativo la sfera simbolica del mondo
della religione e della cultura cristiana. In virtù di questo convincimento
sulle oscillazioni del senso dei testi in riferimento a un quadro ontologico
sottostante, Ricoeur inevitabilmente s’addentra nel mondo del simbolo
religioso, ritenendo questo l’unico surrogato possibile per comprendere le
pieghe più oscure del pensiero umano scosso in profondità dallo scandalo
del male. Allora si potrebbe affermare che l’ermeneutica simbolica sorregga
una filosofia che sta nel cuore della grande aporia e che, tramite la
Vorstellung, ricerchi il senso dell’esistenza sull’orlo dell’abisso. In altre
parole, la Vorstellung è cifra di un modo di stare e pensare dentro
l’ambiguità del sacro e del simbolo e dentro le aporie, senza cadere nella
tentazione di assolutizzare alcunché29.
Tuttavia né l’impianto fenomenologico hegeliano né l’ermeneutica
dell’inconscio freudiana possono rendere appieno l’effettivo spessore del
simbolo religioso. L’orizzonte in cui i simboli vanno collocati è quello
proprio del sacro. Ma questa preliminare assunzione non autorizza in alcun
modo a collocare Ricoeur nel composito novero dei pensatori che
propugnano una riscoperta tout court del sacro come dimensione dominante
della coscienza religiosa. Per meglio comprendere la posizione ricoeuriana
nella sua peculiarità non si deve prescindere dalla sua adesione ai dettami
della teologia barthiana30. Questo elemento indicativo emerge con la
decostruzione dell’ambiguità del sacro e la conseguente riscoperta della
demitizzazione della religione arcaica. La messa a punto degli elementi di
congiunzione fra l’ermeneutica ricoeuriana e la teologia dialettica permette
di delineare meglio l’incongruenza fra questa ermeneutica e la
fenomenologia del sacro31.
Pertanto, uscire dalla fenomenologia dello spirito non è sufficiente allo
scopo di recuperare la concezione biblica del bene e del male; occorre
passare attraverso e superare anche la fenomenologia del sacro. Se
l’abbandono della prima fenomenologia è dettato dall’influenza dei
neobarthiani francesi, la spinta ulteriore che rimanda all’abbandono
53
dell’altra fenomenologia proviene da un’influenza più diretta di Barth. Si
tratta peraltro di comprendere i termini e le movenze di una fedeltà alla
teologia barthiana dichiarata palesemente ma non sufficientemente
corroborata. La disamina della genesi e delle conclusioni della Simbolica del
male, che qui viene esposta, vuole nei limiti del possibile attendere alla
chiarificazione di questa eredità, che è resa più manifesta se si focalizza
l’innesto della dicotomia religione/fede, ben presente nel tessuto del
pensiero di Barth, nell’impianto generale della stessa Simbolica del male32.
Si può, a ragion veduta, intercettare tale elemento barthiano della filosofia
ricoeuriana a partire dagli snodi problematici dell’approccio al paradigma
paolino della giustificazione per mezzo della fede, recepito in larga misura
come motivo di rottura fra una religiosità arcaica e la portata rivoluzionaria
della religione ebraica successivamente rielaborata alla luce del Vangelo.
La teoria ricoeuriana del simbolo poggia su alcuni pilastri elaborati negli
anni ’60 e a più riprese esposti nei seminari di studio organizzati a Roma da
Castelli e dei quali il volume Le conflit des interpretations (1969) fornisce il
compendio. In breve, se nella fenomenologia di Eliade il simbolo si
caratterizza come rimando a un ordine cosmico immutabile e spesso in
conflitto con le disgregazioni apportate dal tempo della storia,
nell’ermeneutica ricoeuriana il simbolo possiede una connotazione
poliedrica che lo rende suscettibile di svariate interpretazioni, a seconda del
parametro epistemologico previamente assunto33.
Tuttavia l’elemento di spicco della concezione ricoeuriana consiste nella
doppia direzione insita nel simbolo34. Ossia, se da un lato esso rimanda più
o meno chiaramente a una realtà antecedente al discorso logico, dall’altro
contiene una spinta in avanti che rimanda più o meno tortuosamente a una
realtà da venire la cui comprensione è in fieri. La formula ricoeuriana,
parafrasando Kant, suona: le symbole donne à penser35 e propone di tenere
in considerazione il fatto che l’antecedenza del simbolico sia nel contempo
cifra di un’ambiguità di fondo. Un’ambiguità che risiede nel concetto stesso
di sacro: esso è non di rado il movente del senso di colpevolezza che
54
attanaglia e atterrisce l’uomo (è la culpabilité). Il sacro è qui inteso come il
luogo originario di un’armonia cosmica la cui trasgressione è da attribuire
unicamente all’uomo. Invece nella Bibbia si radica un lungo e laborioso
processo di demitizzazione del sacro a vantaggio di una prospettiva di
superamento del tragico e della logica di retribuzione che non lasciano
spazio alcuno alla speranza di un bene più profondo; di un bene per nulla
assoggettato a una vagheggiata armonia primordiale. Il bene della fede
cristiana è tutto proiettato in avanti e, come attesta il Vangelo, non soggiace
a nessuna logica del ripristino di una vagheggiata età dell’oro o dell’eterno
ritorno dell’eguale. A ben vedere il racconto stesso della Caduta è, secondo
un’esegesi assai consolidata già presso i Padri e ricalcata da Ricoeur, un
protovangelo.
Il simbolo, nel linguaggio biblico, tiene insieme (symballo) e sovrappone
una dimensione tragica (teologicamente determinata dalla confessione del
male
commesso)
e
una
dimensione
per
così
dire
kerygmatica
(teologicamente determinata dall’annuncio di un bene profondo). Il simbolo
biblico è, a detta di Ricoeur, espressione massima di questa tensione interna.
Nondimeno, per dare prova di questa duplicità implicita nel mondo
simbolico, il filosofo francese espone con fermezza che il simbolo che si fa
racconto è già di per sé stesso un’operazione ermeneutica che corre lungo il
crinale invisibile di una scissione. Il simbolo raccontato può infatti trovare
luogo presso il racconto mitico, che contempla una protologia delle origini
infrante (v’è traccia di rimpianto e di tragica mestizia), oppure presso un
racconto aperto e rivelativo, che contempla una escatologia, ossia una
narrazione proiettata verso l’impossibilità di un bene inatteso. I termini della
tensione sono antitetici e rimandano a un’origine perduta e a una promessa
impossibile.
L’escatologia
è
un’ermeneutica
dell’inatteso
e
dell’imponderabile. Parimenti si può, di certo non agevolmente, constatare
che sulla protologia mitica, detta altrimenti mitologia, gravi pur sempre la
forza di gravità della culpabilité. In un certo senso superare la
fenomenologia del sacro in Ricoeur equivale a espungere dalla sfera della
55
religione l’assenza di speranza. Così come avviene nella natura opzionale
della metafisica anche nella religione del sacro si vuole dare del male una
spiegazione logica che determini con sicurezza un’origine circostanziata di
tale scandalo; quest’ultimo inteso nell’un caso come privazione e nell’altro
caso come disarmonia. In definitiva, il simbolo biblico tiene insieme bene e
male senza un assoluto che ne armonizzi il lacerante contrasto.
Per Ricoeur questa doppiezza simbolica, incarnata pienamente e
primieramente dai simboli più ambigui della tradizione, appunto quelli del
male, ingenera in ambito ermeneutico interpretazioni che pongono conflitti
fra opposte visioni del mondo. Il testo stesso de Le conflit è costruito sulla
base di una serie di conflitti concentrici che vanno dalle epistemologie
ermeneutiche al conflitto ateismo/cristianesimo, per non parlare di quello
che è sullo sfondo, ovvero il conflitto fra bene e male. La filosofia
ermeneutica di Ricoeur non risponde all’intento di sanare in modo definitivo
tali conflitti, né tantomeno di conciliarne i termini in maniera artefatta e
speculativa; la filosofia ermeneutica di Ricoeur vuole decidere da quale
parte stare e lo fa recuperando le potenzialità filosofiche, morali e spirituali
del mondo biblico e del messaggio cristiano, che da quel mondo scaturisce
con veemenza.
Pertanto, la tematizzazione moderna della religione in filosofia, in
ambito generale e nel caso specifico di Ricoeur, passa necessariamente
attraverso la considerazione critica di due filoni di pensiero, ovvero
attraverso due fenomenologie, quella dello spirito con il suo metodo
teleologico (Hegel) e quella del sacro (Eliade). Rispetto alla fenomenologia
dello spirito, che avanza la propria pretesa di concatenare e fagocitare, a suo
modo, le figurazioni del sapere in virtù di una visione assoluta di spirito
(Geist), la fenomenologia del sacro, pur avendo interrotto il preteso
continuum dello spirito, cerca per via ermeneutica una composizione che
abbia comunque un centro irradiante (das Heilige) che polarizzi la varietà di
ierofanie e simbologie. Inoltre, alla luce delle acquisizioni di metodo
desunte dalla désabsolutisation, si perviene alla conclusione secondo cui
56
anche la fenomenologia del sacro di Eliade contemplerebbe una sorta di
totalità senza filosofia (nella coincidentia oppositorum di bene e male della
mistica), dal momento che il simbolo soppianterebbe la dialettica della
fenomenologia dello spirito nel ruolo di canale per accedere alla totalità del
kosmos, imprescindibile per ricostruire nel tempo la dimensione di un ordine
universale eterno e immutabile.
La ricerca di una dimensione di contrasto con le sottese epistemologie,
cui fanno capo le due fenomenologie, consente a Ricoeur di riproporre
un’interpretazione del problema del male e del bene in chiave cristiana e lo
fa approntando un quadro ermeneutico forte delle acquisizioni dell’esegesi
biblica che Barth ha voluto affrancare, a suo modo, da metodologie
antropologiche e filosofiche. Al fine di restituire un certo slancio e una certa
causticità al testo biblico il movimento che da Lutero, Kierkeggard e Barth
fino a Ricoeur entra nella teologia biblica propone un ritorno alla
contestazione paolina della religione arcaica fondata sulla logica
dell’equivalenza e della retribuzione. Detto in tutt’altro modo, si tratta di
comprendere che Ricoeur propone di decostruire l’esperienza religiosa a
partire da un criterio endogeno (la dicotomia barthiana religione/fede),
ovvero da un punto di vista che è dentro la dinamica stessa del testo biblico
e che sia in grado di dare la misura dell’ambiguità del sacro.
Ne sortisce l’acquisizione che, a motivo di una certa consonanza con
l’interesse nutrito nella teologia protestante per la questione del sacro, si
profila, sullo sfondo ermeneutico ricoeuriano, anche una dialettica fra
religione e fede. In riferimento alla peculiarità di quest’ultima dicotomia,
qualsiasi criterio unitario e antropologico dovrà cedere il passo
all’indisponibilità e all’imponderabilità del kérygma: non hanno ragion
d’essere né il moto centripeto dello spirito né tantomeno il moto centrifugo
del sacro. Ad ogni modo entrambe le prospettive possono essere assimilate a
varianti
di
un’antropologia
che
non
consente
alcun
ancoraggio
all’escatologia del mondo biblico. Parimenti non vale nemmeno il criterio
psicoanalitico della sedimentazione della coscienza (metodo archeologico),
57
enfaticamente legato a una demitizzazione del senso di colpa unicamente
centrato sul primato della soggettività. La dicotomia religione/fede (che è
barthianamente una sostanziale discrasia fra antropologia e teologia) è
proposta in ragione di un rimando preciso alla teologia di Barth che enuclea
il carattere innovativo del kérygma e della fede a esso conseguente. La
categoria che si viene a contrapporre con vigore, al metodo archeologico
come al metodo teleologico, è quella un po’ sfuggente dell’éschaton, cifra
dell’eccedenza da ogni sistema o dottrina. In virtù di una tale pregnante
prospettiva subentra la veemenza tutta paolina che contraddistingue il passo
del “molto più”, inteso come il “tutt’altro” e che segna, in modo quasi
plastico, l’irruzione stessa del Totalmente Altro nella vita del credente. La
cifra di tale alterità totale è talmente paradossale in quanto attesta una
relazione con la creatura sia a dispetto della stessa condizione creaturale sia
a dispetto finanche della propria alterità.
In un certo senso, Ricoeur tenta la strada, non certo agevole ed
accomodante, d’interpretate sia il metodo archeologico sia il metodo
teleologico come modulazioni distanti dal kérygma. Per adempiere al
proprio progetto il filosofo francese appronta un orizzonte di riferimento
con il quale inquadrare meglio il suddetto spettro metodologico.
Attingendo a piene mani alla Bibbia, individua nel punto alfa
(un’antecedenza che non è arché) l’elemento che trascende il metodo
archeologico e nel punto omega (un’ulteriorità che non è telos) quello che
trascende il metodo teleologico, sicché verrà a determinarsi, ancorché in
modo non ancora completamente chiaro, che l’orizzonte di riferimento del
simbolismo biblico è talmente sconfinato da non poter rimanere irretito da
pregiudiziali scelte metodologiche (non è dato disporre di un inizio e di una
fine nettamente individuati e ben determinati)36. Il quadro prospettico,
addotto da Ricoeur, indica lo snodo fra le due fenomenologie, quella dello
spirito e quella del sacro, e al contempo ne individua gli elementi da
trascendere se si vuole rimanere nell’orizzonte biblico dei simboli religiosi.
In
altre
parole,
si
procede
seguendo
58
una
triade
formata
da
Geist/Heilige/Kérygma, sulla base del fatto che ogni componente è, a suo
modo, autonoma ed eterogenea rispetto alle altre due; ne consegue la
convinzione che l’elemento intermedio renda più acuta e impercorribile la
distanza fra gli estremi, i quali non avranno più un riferimento ermeneutico
e metodologico comune. Questo processo determina sostanzialmente
un’applicazione ermeneutica congeniale alla filosofia senza assoluto di cui
s’è detto.
Di conseguenza, il kérygma si costituisce nella sua completa estraneità e
novità rispetto alle consuetudini delle filosofie della religione che precedono
il lavoro d’interpretazione ricoeuriano. Quest’ultimo tende al fine precipuo
di conferire all’éschaton la dimensione di un criterio non malleabile e non
pienamente disponibile, giacché foriero di un’istanza decostruttiva operata
all’indirizzo del mondo religioso interpretato coi crismi della filosofia e
della antropologia. Ciò nondimeno viene a determinarsi l’instaurazione
perentoria della contrapposizione fra il sapere assoluto e il sapere
ermeneutico, accentuando notevolmente la polarità strutturale della moderna
filosofia della religione, quella di sapere e fede.
La dimensione religiosa del conoscere e del pensare il mondo e l’uomo
non soltanto sfugge alle maglie del sapere assoluto, ma introduce una
prospettiva escatologica che solamente un’ermeneutica della fede rende a
suo modo comprensibile. L’unico margine di dialogo consentito è quello in
cui la filosofia destituisce la propria sicumera e presta la propria
disponibilità ad accogliere in modo aporetico le implicazioni ontologiche
della Rivelazione.
La continua e assai travagliata determinazione dello statuto della
religione in filosofia contribuisce in modo significativo all’emergere del
profilo della recezione ricoeuriana del modello paolino-luterano della
giustificazione. Quest’assunzione paradigmatica affatto secondaria acuisce,
sul versante del dibattito filosofico, l’evidente difficoltà di collocare la
religione cristiana nell’ambito di un determinato e compiuto sistema di
pensiero. In altre parole, Ricoeur, da credente e da filosofo, vive sulla
59
propria pelle le aporie del rapporto fra cristianesimo e filosofia nelle sue
varie fasi storiche, ammettendo che tale rapporto non è immune da contrasti
e manipolazioni. Egli intende pertanto approssimarsi alla forma mentis della
fede biblico-cristiana senza schemi precostituiti e pregiudizievoli, giacché
l’assunzione del paradigma paolino prevede una presa di posizione
chiaramente in contrasto con la “filosofia cristiana”, cioè con il progetto di
fare della sfera filosofica e della sfera teologica un unico sistema, e per far
ciò occorre passare attraverso una lucida analisi del concetto filosofico di
religione, prevedendo l’instaurazione della dicotomia religione/fede. Tale
dicotomia, inoltre, è in primo luogo alimentata dalla dicotomia bene/male. Il
filosofo francese intende asserire, alla luce della propria convinzione, che
pur non potendo disporre intellettualmente di una logica per comprendere
l’intersecarsi continuo fra il bene e il male si può tuttavia tentare di abitare
questo paradosso attraverso la consapevolezza paolina che ci si possa
giovare (nell’ordine di una logica sovrannaturale) di ciò di cui non si può
disporre (nell’ordine di una logica per così dire naturale).
Congiuntamente alle difficoltà inerenti allo statuto filosofico della
religione cristiana, nel suo insieme interpretata come sfuggente a ogni
sistema, e all’abisso di non senso spalancato, dinanzi alle pretese del sapere
assoluto, dall’ingiusta sofferenza, vengono evidenziate e mortificate anche
le velleità di accedere a una forma totale di saggezza, in deroga alla quale va
da sé che il male nel mondo non segue alcuna logica; tuttavia,
conseguentemente al paradigma paolino, si approda alla convinzione
parallela che anche il bene stia al di fuori e al di sopra di ogni logica. Questa
è la logica della salvezza.
Se è vero che l’idea di totalità esprime appieno le aspettative di un
sapere ritenuto assoluto, è altrettanto vero che codesta pretenziosa e
pretestuosa assolutezza comporti la conclusione che la totalità, colta dal
punto di vista del criterio d’inclusione che la caratterizza fortemente, non
debba e non voglia lasciare dietro di sé né scarti né resti. Per Ricoeur
quest’idea di totalizzazione del sapere è affine, se non in debito, con la
60
gnosis, ovvero con il convincimento che anche ciò che è ritenuto
sovrannaturale sia oggetto di un’illuminante conoscenza del mondo e del
suo destino. La fede biblica e l’esistenza cristiana non rientrano, in nessun
modo, in quest’ordine di considerazioni. Pertanto si dovrà leggere, fra le
righe della Simbolica del male, un progetto puntualmente in polemica con lo
spirito profondo della gnosis: la fede cristiana e il simbolismo biblico a essa
connesso muovono da una concezione radicalmente aliena dalla pretesa
totalizzazione del rapporto fra bene e male. L’intellectus fidei, che
ricoeurianamente viene riproposto in chiave contemporanea, è quanto di più
lungi possa esserci dagli epigoni moderni e filosofici dell’ideologia
gnostica. In Ricoeur l’assunzione sempre più convinta del paradigma della
giustificazione evidenzia intrinseche affinità con altri aspetti del pensiero
paolino, le quali richiamano all’attenzione il contesto polemico cui fa
riferimento lo stesso Paolo e che il Nostro condivide. Si tratta se non altro di
elementi in cui spicca il carattere occasionalmente anti-gnostico delle
Lettere paoline. Infatti, pur prevalendo nettamente la polemica sulla Legge e
il suo valore salvifico, all’anti-legalismo di Paolo può essere affiancata, a
ragione, una certa propensione a smascherare le velleità della gnosis a lui
coeva.
In un certo senso, Ricoeur sposa e ricostruisce una continuità fra Paolo,
Agostino, Lutero e Barth all’insegna di un filone di pensiero, radicalmente
antignostico, mantenuto vivo nella cultura cristiana attraverso i secoli. La
Simbolica del male prosegue l’opera di désabsolutisation, poiché pone al
vertice il più alto livello di contrasto con l’idea di assoluto e lo fa
assumendo l’aporia dell’origine e del fine del male. Parimenti tale Simbolica
è già di per sé stessa una forma di anti-gnosi, giacché contempla, senza
mezzi termini, la presa di coscienza di un atto d’accusa rivolto a ogni
teodicea, attestandone l’ineludibile dissoluzione, in quanto pensiero
immobilizzato e fossilizzato. Il pensiero che vuole continuare la sua strada
deve farsi carico dell’irreversibilità di movimento che va dall’assoluto del
sapere all’indisponibilità del simbolo, specie di quello che racconta il male.
61
Traslato nel cuore pulsante della grande aporia, il sapere assoluto si
mostra nella sua debolezza e in tutta la sua inconsistenza: avere un’idea
dell’essere come di una totalità e collocare il male in essa come momento
negativo appare, agli occhi di Ricoeur, come una sorta di tragico suicidio
del pensare filosofico, il quale, per mantenersi in vita e impedire di rimanere
irrimediabilmente stritolato nella morsa feroce della grande aporia, non può
che ammettere una riserva di senso che lo preceda e lo sovrasti. Lo scopo è
indubbiamente quello di ravvivare ancora una volta e a dispetto del male un
margine di speculazione, che può proficuamente nutrirsi delle risorse del
simbolo e coabitare con l’aporia se addiviene alla completa destituzione
dell’idea di assoluto. Depone a favore di tutto ciò aggiungere il fatto che il
simbolo descrive l’esistenza umana come depositaria di una sorta di potenza
(dynamis) d’essere che può incanalarsi lungo le vie tortuose del desiderio,
dando la stura alla critica psicoanalitica della religione, oppure può
addentrarsi per le aporetiche vie della storia dell’essere, dando il via al
processo ermeneutico che ne deriva.
L’ambiguità intrinseca e strutturale del sacro deve essere portata alle
estreme conseguenze e tramutata in motivo di crisi. Codesta crisi sorregge
inequivocabilmente la scissione religione/fede, che diviene elemento
imprescindibile del ricoeurismo, dal momento che la crisi della fede, che
tale pensiero incarna, non fa riferimento soltanto alla diatriba fra pensiero
filosofico e pensiero religioso, ma a una conflittualità interna al mondo
biblico e neotestamentario di cui Paolo è testimone privilegiato. Assunta tale
caratteristica a paradigma ne consegue che l’elemento costitutivo di questa
crisi diviene il presupposto fondamentale della ricoeuriana filosofia
ermeneutica del cristianesimo. Questa invero compie due percorsi. Da un
lato, come detto, problematizza la natura ambigua del sacro, facendo sì che
possa delinearsi un primo nucleo della dialettica fra religione e fede;
dall’altro lato introduce la tematizzazione della nozione di speranza
nell’ambito del pensiero di Ricoeur. Alla prima esigenza corrisponde
l’impegno di spezzare il nesso fra il sacro e l’ideologia gnostica ed è proprio
62
a motivo di tale recondito connubio che, sulla scorta dell’eredità barthiana,
si configura la distinzione fra religione e fede. Nel secondo percorso si cerca
di chiarire che la nozione di speranza, in Ricoeur, non è oggetto di una mera
speculazione teoretica, metodo che progressivamente viene abbandonato,
ma il filo conduttore di un percorso esegetico fra le pagine del Grande
Codice della cultura occidentale.
2.2 Ermeneutica filosofica del paradigma paolino
L’estrinsecazione ermeneutica del pensiero di Paolo, e della sua incidenza
sulla teologia protestante, procede di pari grado con l’acquisizione amara
dell’insormontabile positività del male nel mondo e la contemporanea
consapevolezza di poter conoscere una speranza a dispetto di questa
positività.
Pertanto il tema elettivo della giustificazione per fede assume le fattezze
di una forma d’intelligenza dell’assenza di una logica di cui disporre per
spiegare la natura della sofferenza e del non senso della malvagità. Alberga
con forza, nel cuore di questa presa di coscienza, lo sguardo rivolto
all’indirizzo della speranza cristiana intesa come segno di una libertà
profondamente radicata nell’esistenza all’insegna della fede. In breve, una
giusta collocazione del paradigma paolino, come presupposto fondamentale
degli studi biblici di Ricoeur, prevede uno schema ben delineato che si
snoda talvolta nel solco della riflessione ontologica talaltra nel solco della
riflessione morale.
63
Il contesto di riferimento è prodotto in larga misura, come già
accennato, dell’insistenza irrevocabile della grande aporia e soprattutto dal
nodo tematico rappresentato dalle due fenomenologie, sicché è al cospetto
delle difficoltà, insorte in materia di ermeneutica dei simboli religiosi, che il
filosofo di Valence ricorre a un quadro di riferimento che incornici la
questione superando le lacune e i limiti strutturali dell’interpretazione
archeologica e teleologica. Se per un verso quest’inclusione, che potremmo
considerare tutt’altro che estrinseca, è dettata dalle condizioni che ne
determinano l’ingresso nel panorama ermeneutico ricoeuriano; per un altro
verso essa si tramuta in un’occasione che propizia l’immissione di
un’energia nuova in prospettiva anche teoretica.
Detto più in sintesi, il paradigma paolino, convertito dal Nostro alla
stregua di un presupposto fondamentale del suo pensiero, evoca due aspetti
pertinenti alla filosofia in generale: esso è in primo luogo uno spazio
ermeneutico e in secondo luogo diviene lo spunto per una teoresi che
accompagna Ricoeur nelle successive fasi del suo iter di pensiero. Tanto è
plausibile che i riferimenti testuali si espandono attraverso la stesura di
scritti e opere lungo un arco di tempo decisamente ampio (dagli anni ’60
agli anni ‘90).
Lo si ritrova infatti incardinato, oltre che nel testé citato De
l’interprétation. Essais sur Freud, soprattutto ne Le conflit des
interprétations, in cui gioca un ruolo notevole sulla struttura dell’opera37,
nello scritto Le mal38 e nel sermone La logica di Gesù (1980) tenuto in
occasione di un incontro svoltosi presso la comunità ecumenica di Taizè39.
L’assunzione del paradigma paolino ha radici lontane e complesse. Alla
luce dell’esegesi che ne fornisce Barth, nella sua opera più studiata e
famosa, il Römerbrief, il passaggio che fa da cardine è Rm. 5, 12-21 in cui,
come è universalmente noto, Paolo sostiene, in modo netto e con tutta la
veemenza della sua retorica, che il primato della grazia di Cristo, sulle opere
della Legge, si fonda essenzialmente sull’azione di Cristo stesso: l’azione
salvifica sovrabbonda di gran lunga e senza misura l’ereditarietà del peccato
64
causata da Adamo e che circoscrive pur sempre l’ambito della Legge
stessa40. Nell’economia generale del testo il concetto fondamentale è
rappresentato dalla dottrina della giustificazione, mentre il tema narrativo è
incentrato sul dualismo tipologico fra l’Uomo vecchio (Adamo) e l’Uomo
nuovo (Gesù Cristo). Occorre, a questo punto, chiarire in che termini il
piano esegetico intersechi quello squisitamente filosofico. Tenendo nel
debito conto l’indiscussa centralità della locuzione “molto più” (pollô
mallon), nella struttura di questo testo, che taluni esegeti sono soliti indicare
come l’argomento a fortiori della dottrina paolina, vengono messe a
confronto due realtà fra loro irriducibili e vigorosamente contrapposte,
l’abbondanza
(perisseia)
del
peccato
e
l’abbondanza
iperbolica
(hyperperisseia) della grazia che giustifica il peccatore.
Orbene, il primo termine di paragone determina, a detta di una certa
esegesi assodata, che la radice del peccato, ovvero il male nelle sue più
svariate forme, non sia una meccanica e diretta conseguenza della
trasgressione della Legge (in Paolo non è la Legge a determinare il peccato
ma è il peccato a determinare la Legge), ma che anzi mantenga di per sé una
propria misteriosa autonomia; cioè a dire che vi è una profondità, nelle
ragioni che producono il peccato, che esorbita dal mero contesto dell’azione
umana (è questo il senso della perisseia, intesa come assenza di un limite
che possa essere circoscritto), sicché Ricoeur, da un punto di vista
filosofico, scorge in quest’affermazione una plausibile attestazione del male
radicale.
Tanto vale, ma in misura maggiore, anche per la grazia. Essa, dal canto
suo, non soltanto esorbita dai limiti dell’azione umana, come del resto il
male nel mondo, ma travalica sia ogni misura legata al male commesso che
ogni legame in generale con la realtà del male radicale, facendo così
riferimento a un bene che è nonostante il male e che è, in ultima istanza,
“molto più” potente ed eloquente di ogni male. In definitiva si stabilisce una
cesura e viene resa nulla ogni connessione logica e consequenziale fra la
radicalità del male e la profondità del bene41.
65
Ne sortisce la considerazione del fatto che l’affermazione di tali asserti
rappresenti congiuntamente un motivo di scandalo, nell’ordine di una logica
naturale delle cose, e un motivo di speranza nell’ordine di una logica
sovrannaturale delle cose (qui sovrannaturale va inteso più che altro come
sinonimo d’indisponibile). Ulteriormente ne consegue il rilievo del fatto che
l’argomento a fortiori, nella sua implicita natura anti-gnostica, delinei e dia
la misura di una dottrina che non ha soltanto una valenza teologica, bensì
anche una valenza pre-filosofica che può sic et simpliciter sfociare in un
preciso modello di pensiero alternativo in quanto simultaneamente
speculativo e rivelativo. Non ci si deve limitare dunque al mero aspetto
teologico, esso è sicuramente e ovviamente predominante ma non
completamente esaustivo; talché, filtrando il formulario dottrinario e
catechetico dell’argomento, viene assunto, da Ricoeur, un atteggiamento di
originale apertura verso la Rivelazione cristiana, intesa non più soltanto
come depositum veritativo, ma finanche come dono continuo di senso,
laddove di questo sembrano perdersi le tracce.
Il perno fondamentale di questa lettura, al contempo esegetica e
filosofica, è ravvisabile in una sorta di regola della dismisura e della
eccedenza. Inoltre questo esempio di ermeneutica filosofica del cuore
pulsante della dottrina salvifica sancisce lo sforzo ricoeuriano di decostruire
il senso di colpa42 attraverso la determinazione del concetto cristiano di
salvezza, quale segno emblematico dello sforzo d’integrazione a una forma
di giustizia non originaria ma originale (appunto la giustificazione e non il
giudizio, secondo la nota distinzione introdotta da Lutero), la cui misura è la
dismisura del bene a dispetto del male e l’infinita differenza qualitativa del
male rispetto al bene. In un certo senso ciò è consono alla mentalità
teologica barthiana laddove si dia vita a una dialettica spezzata che si pone
in netto contrasto con l’artefatta conciliazione prevista dalla teodicea43. In
virtù di tali presupposti, così fortemente radicati nell’ottica ricoeuriana, si
evince il perché non basti la sola fenomenologia del sacro per comprendere
appieno la dialettica religione/fede, poiché la dottrina salvifica, presupposta
66
del discorso filosofico dialogante con la Rivelazione, fornisce il quadro di
riferimento per l’oltrepassamento della metodologia fenomenologica in tutti
i suoi aspetti. Pertanto non si delinea un pensiero filosofico improntato al
proclama del “ritorno alle cose stesse”, bensì un filosofare proiettato verso
le “cose nuove”. Detto altrimenti, la oggettività del male è materialmente e
sostanzialmente radicata nel mondo a tal punto da costituire il dissidio
interno di tutto l’essere, pertanto allo sguardo eidetico si può e si deve
contrapporre, secondo quanto sostiene il Ricoeur deluso dall’idealismo
filosofico che di sé intride la fenomenologia, uno sguardo escatologico.
Se si vuole è proprio la considerazione di tale cambio di prospettiva che
induce Ricoeur ad abbandonare definitivamente la filosofia della volontà a
vantaggio di una filosofia della speranza. Sviluppatosi in questa direzione
appare finanche problematica l’adesione ricoeuriana alla fenomenologia
husserliana, poiché all’impianto eidetico, programmaticamente recepito,
subentra una modalità di filosofia per così dire esegetica ed euristica, in cui
è la Parola a produrre una sorta di epoché delle logiche ateistiche e teistiche.
Due considerazioni appaiono di grande rilevanza nella lettura barthiana
e, conseguentemente, in quella ricoeuriana del pensiero paolino. La prima
concerne il rinvenimento, ancora allo stadio embrionale, di una logica altra
sottesa dalla la storia della salvezza e che pertanto non può essere assimilata
a nessun’altra logica umana: è la cosiddetta logica della sovrabbondanza,
attestata della giustificazione e che spiazza ed eclissa ogni parametro
prospettico secondo un’idea mondana di giustizia o quant’altro44.
La seconda considerazione concerne la corrispondenza che viene
istituita fra una cotale logica e la nozione biblica di novitas (per intenderci si
richiama l’attenzione alla ricorrenza di espressioni quali “cielo nuovo e terra
nuova”, “legge nuova”, “comandamento nuovo”, “vita nuova” etc.). Si tratta
peraltro di un’equipollenza che gioca un ruolo non indifferente nel testo
barthiano e che Ricoeur accredita, come si vedrà di seguito, anche sotto il
profilo speculativo e ontologico. Insomma, il rimando diretto è quello
67
pertinente alla categoria, fondamentale nell’ermeneutica biblica ricoeuriana,
di essere nuovo45.
Rapportando le linee di tale logica alla filosofia dell’assoluto, ne
sortiscono le seguenti acquisizioni. La logica della sovrabbondanza ingenera
un forte legame con la barthiana dialettica spezzata, pertanto non è
proponibile pensare a un assoluto che contempli il male come momento
negativo, giacché il male, di per sé, è assoluto e lo è anche il bene, quindi
non vi è conoscenza dell’assoluto, in quanto bene e male sono, dal canto
loro, due assoluti. E ancora, attraverso la prospettiva della novità
nell’essere, si aprono nell’ontologia scenari che eludono in modo
rimarchevole la pretesa idea di una totalità dell’essere stesso. L’essere non è
una totalità e parimenti non è una dualità. Dunque, la scoperta del
paradigma paolino, nel suo influsso sul pensiero ricoeuriano, rende ancor
più acute ed evidenti le prerogative consone a una vera “filosofia senza
assoluto”.
L’assunzione del modello di un pensiero de-assolutizzante è in diretta
connessione con la configurazione di un presupposto extra-filosofico che lo
sorregga. Pertanto ci si sente in dovere di equiparare tale presupposto al
paradigma paolino che tanta eco ha suscitato nella teologia protestante. Quel
che risalta è che Ricoeur ha compiuto la sforzo di coniugare le suggestioni
thévenaziane con le fonti barthiane, non del tutto esplicitate, della filosofia
protestante francese. Il Nostro, da par suo, recepisce il mondo biblico alla
stregua di una fertile risorsa e sente fortemente il bisogno di dare una
versione filosofica adeguata della Parola che da sempre abita il mondo degli
uomini con il suo fond révelant46. In altre parole, si tratta di sopperire, con
una tale riserva di energia, al pericolo sempre incombente che la
speculazione e la riflessione filosofiche possano involversi e inaridirsi in
forme schematiche e asfittiche che facciano il paio con il dogmatismo
teologico. Più incisivamente, tale fondo rivelante consente una lettura della
Simbolica in alternativa e in drastica contrapposizione alla costruzione mitologica dell’interpretazione dei simboli religiosi e biblici. Costruzione che, a
68
detta dello stesso Ricoeur, sopravvive alla propria epoca, perpetuandosi in
talune movenze del pensiero moderno che, per certi versi, continuano a
insistere sulla linea dello gnosticismo antico, laddove pretendano di
sollecitare una conoscenza più o meno razionale della sfera religiosa e della
presenza del male nel mondo. In breve e in sintesi, si richiama l’attenzione
alla concezione del rapporto fra simbolo e mito, rinvenendo in quest’ultimo
la vigenza di una spiegazione statica e ipertrofica del simbolo stesso,
pertanto per mito-logia, nel discorso ricoeuriano, s’intende essenzialmente
la tendenza a imbastire un processo ermeneutico che si risolva sfociando
nell’eziologia e nel ridimensionamento della ricchezza semantica e delle
potenzialità speculative del simbolo47.
Parimenti, questa tendenza ha cagionato in epoca antica il proliferare
selvaggio della mitologia nello gnosticismo antico, il quale, a motivo della
propria pretesa di collocare il male, fa in modo che questo inizi un
pellegrinaggio fra le cose del mondo: il male è una divinità, il male è una
razza umana (per esempio i cosiddetti uomini somatici), il male è una
schiatta di demòni, il male è la materia; insomma, il male deve collocarsi
pur sempre da qualche parte e una ratio deve averla in ogni caso.
Conseguentemente il possesso di questa ratio determina il privilegio della
gnosis.
Questo processo individua un nucleo da incastonare nell’alveo di una
concezione sistematica del rapporto fra bene e male. Il ricorso ricoeuriano al
presupposto
paradigmatico,
desunto
dal
pensiero
paolino,
vuole
esplicitamente ovviare a una tale tendenza e lo fa sostenendo
congiuntamente le potenzialità speculative del simbolo e la possibilità di
inquadrarle sotto il punto di vista di una logica altra (quindi in nessun modo
conforme alla mito-logica) come quella cristiana della sovrabbondanza.
L’elemento comune, che pone sullo stesso piano la gnosi antica e la gnosi
moderna, rappresentata ai vertici dal sapere assoluto hegeliano e dalla
teodicea leibniziana, è la costituzione rigorosa del problema del male come
problema speculativo. Ricoeur considera la formulazione della domanda sul
69
male, quale domanda originaria (unde malum?)48 come il nucleo fondante le
pretese gnostiche e razionalistiche, dalle quali non è immune neanche
Agostino49, che influiscono sulla filosofia del male, sicché egli intende
oltrepassare questo atteggiamento mentale con la proposizione che assume il
simbolo come nexus di congiunzione fra un “pensare di più” e un pensare
nel solco della tradizione biblica sceverata di ogni influsso gnostico e
dogmatico.
L’intento precipuo, che insiste su questa elaborazione filosoficoteologica, verte sostanzialmente sul progetto di una anti-gnosi moderna,
della quale il Nostro rinviene il modello nel barthismo e, in generale, nelle
teologie che si decidono a favore di una ricollocazione centrale della
testualità biblica e dell’esegesi a essa legata, elaborando al contempo una
graduale assimilazione di tale progetto alle linee generali della
demitizzazione ermeneutico-esegetica della Bibbia. Tanto è cruciale da
indurre lo stesso Ricoeur a un’ulteriore specificazione della demitizzazione
in quanto “de-mitologizzazione”50. Come detto, l’operazione portata avanti
è corroborata dalla convinzione dell’indisponibilità di una logica da esibire
dinanzi al problema del male e della sofferenza; convinzione peraltro
impostata sul presupposto della “abbondanza” o “dismisura” (perisseia) del
male radicale, secondo quanto affermato dall’esegesi ricoeuriana della
Lettera ai Romani.
Nel medesimo riguardo, il graduale concepimento e la laboriosa
maturazione del “pensare di più” registra, in Ricoeur, finanche l’esigenza di
far proprie le movenze del pensiero tragico, ossia del pensiero che, per un
verso, assume la sostanzialità del male nella sua ingiustificata presenza e,
per un altro verso, rinuncia, di contro allo gnosticismo, alle pretese di
pensarlo nella sua razionalità. Detto in altri termini, il “pensare di più”
condensa in sé un movimento in avanti e un movimento all’indietro, tale da
rileggere, con occhi diversi, le insidie della speculazione sul male. Tale
doppio movimento verrà ulteriormente enucleato con la considerazione
della libertà che si proverà di seguito a imbastire.
70
Per meglio comprendere la spinta in avanti occorre scaltrire
ulteriormente tutte le implicazioni del paradigma paolino, assunto come il
grande presupposto del “pensare di più”. Si tratta di delucidare, con una
dose maggiore di chiarezza, le potenzialità squisitamente filosofiche che si
deducono alla luce di un modello propositivo per il pensiero occidentale
che, a detta di Ricoeur, vive della tensione continua fra una dimensione
propriamente speculativa (d’impronta greca) e una dimensione propriamente
rivelativa (d’impronta giudaico-cristiana). Il Nostro è il filosofo che incarna
appieno il tentativo d’istituire una proficua elaborazione critica e non
dogmatica di questa polarità culturale che egli considera aperta; basti
menzionare l’alta considerazione che concede agli scritti Sapienziali, a suo
dire segnati da evidenti elementi di contaminazione con la temperie
filosofica ellenistica.
La questione del male e del suo rapporto con il pensiero filosofico ha per
Ricoeur anche una valenza nell’ambito della riflessione, cioè nel contesto di
una filosofia del soggetto, ne è esempio il tema conduttore del desiderio
d’essere51, il quale funge da punto di congiunzione per pensare in
interconnessione fra loro sia la sfera del soggetto sia quella dell’origine
opzionale della metafisica. Proprio in virtù di questa precisa scelta
metodologica emergono i tratti salienti di un altro sbocco del “pensare di
più” e dell’esplicazione filosofica del paradigma paolino. Si tratta di ritenere
per certo che il filosofo di Valence ha in animo di superare la struttura ontoteo-logica della metafisica, avendo cura di delineare un modello salvifico di
ontologia e lo fa promuovendo la considerazione di una prospettiva facente
capo alla nozione di speranza (Hoffnung) come motivo scatenante la messa
in crisi della struttura metafisica52.
Per porre nel giusto ordine la questione e la conclusione che ne
consegue è necessario indugiare sull’aspetto apparentemente più soggettivo
del rapporto fra la filosofia e il male nel mondo. Per far ciò si deve prendere
un primo spunto dalla critica serrata che viene indirizzata alla visione
morale del mondo che, secondo l’interpretazione che ne fornisce lo stesso
71
Ricoeur, condiziona a più livelli la speculazione e la riflessione sul tema del
male. Ottemperando a tale concezione della realtà, la presenza del male nel
mondo è la conseguenza nefasta di un uso improprio della libertà: in altre
parole, s’instaura un regime di reciprocità fra la condizione libera dell’uomo
e la scaturigine dei mali e delle nefandezze che attanagliano la vita. Il
filosofo di Valence propone e suggerisce di costituire una vera e propria
ermeneutica della libertà e lo fa attraverso il ricorso alla nozione di
speranza; si tratta, come pare del tutto evidente, di un’argomentazione che
riveste un ruolo preminente nell’economia generale de Le conflit.
Il primo punto da rilevare, a sfavore della visione morale e dal quale è
agevole inferire una notevole carica aporetica, scaturisce dall’intollerabile
presenza del male sotto forma di ingiusta sofferenza (è il fulcro, se si vuole,
dell’esperienza jobica nella sua interezza), un tale elemento imprescindibile
trova una non indifferente risonanza nella menzionata concezione della
perisseia del male nella sua radicale disgiunzione dalla volontà umana. Ne
sortisce il bisogno e l’incombenza di uno sradicamento totale e senza riserve
del primo postulato della Moralische Weltenschauung secondo cui l’ordine
naturale delle cose e del mondo è rivolto al mantenimento del bene
originario che gli atti umani devono assecondare. Alla ricusazione di questa
forma di stoicismo è connesso il tentativo, tutto ricoeuriano, di recuperare la
nozione di libertà dal punto di osservazione della speranza cristiana. In
questo senso, Ricoeur crede in una certa misura di riprendere anche un Kant
che sta in mezzo fra la sua Critica della ragion pratica e La religione entro i
limiti della sola ragione, ma soprattutto il Kant della domanda “che cosa
posso sperare?”53. Pare che Ricoeur, a suo modo, abbozzi una risposta
riformulando la domanda con un “come posso sperare?”. In ragione di un
tale proponimento l’analisi della posizione ricoeuriana consente una
tematizzazione del problema del male e della sofferenza a tuttotondo, senza
escludere un’attenzione capace di soffermarsi sia sul versante riflessivo (che
investe la soggettività) sia sul versante speculativo e ontologico.
72
In definitiva, la focalizzazione critica della cosiddetta visione morale del
mondo, nella sua esemplarità, incarna una fase interlocutoria della demitologizzazione ricoeuriana, giacché viene messa in questione la reciproca
implicazione di male e libertà. Questa, in prima istanza, è chiamata in causa
come causa e, in seconda istanza, esonerata dalla piena responsabilità. In
questa proposta, dal tono marcatamente giuridico, si evince una coloritura
ideologica del pensiero sul male che è assai interessante descrivere per
sommi capi: poiché non si vuole dare ulteriore adito alla concezione
sostanziale e materialistica, caratterizzante certa gnosi di stampo
manicheistico, si fa affidamento all’escamotage della chiamata in giudizio
della condizione perversa dell’uomo visto come il massimo pervertitore del
supremo dono della libertà. Tracce non indifferenti di questa visione
inficiano la struttura dottrinaria del dogma del Peccato originale a partire
dalla
ricostruzione
che
ne
fornisce
Agostino.
Questi,
secondo
l’interpretazione lasciataci da Ricoeur, inscrive inconsapevolmente il
proprio insegnamento nell’ideologia di una certa patristica che volendo
disapprovare lo gnosticismo è incorsa nella formulazione di una anti-gnosi
che compendia in sé gnosticismo in senso stretto e visione morale del
mondo54.
Il movimento che include una stretta reciprocità fra libertà e questione
del male diviene, nell’ottica ricoeuriana, una sorta di condizionamento che
mina alla base la speculazione indotta dalla visione morale del mondo.
Quest’ultima, parimenti, è inammissibile in ragione del fatto che estromette,
talvolta incautamente talaltra proditoriamente, il non senso della sofferenza
dei giusti e degli innocenti. Orbene, poiché tale ideologia è implicata anche
nel mondo biblico, pensiamo ad esempio alle varie espressioni letterarie
della cosiddetta lamentazione, il tema della sofferenza deve essere slegato
dalla libertà e legato alla condizione ontologica della finitudine umana 55. Il
che manifesta che, in virtù del precipuo intento contenuto in Finitude et
culpabilité, al singolo uomo può essere unicamente imputata la colpa di un
singolo atto malvagio, ma all’umanità intera non si può di certo ascrivere la
73
responsabilità di tutto il male del mondo (l’uomo è strumento relativo di un
male assoluto e radicale che lo sovrasta)56. Tale considerazione è alla base
della demitizzazione del senso di colpa (la culpabilité) e della convinzione
che la finitude dell’esistenza sia il labile confine fra bene e male, posta
com’è in tensione fra il male radicale e la possibilità di essere portatrice
della speranza di un bene ancor più profondo.
In sintesi, Ricoeur vuole confutare la visione morale del mondo al fine
di sfatare il mito del male come conseguenza di una trasgressione (che
invece è occasione e non causa) e riqualificare sotto tutt’altra luce la
centralità della libertà dinanzi alla grande aporia. Inoltre non vanno eluse le
implicazioni che entrano nel merito del piano eminentemente ontologico. Se
il male non è né una forma oscura di privazione di essere, né tantomeno un
deliberato consenso a tale presunto, e inconsistente sotto ogni aspetto, nonessere, ne deve conseguire logicamente che, a riprova di tale considerazione,
finitudine e dolorosità confermino tragicamente che siamo sempre dentro
l’essere e che pertanto non ha nessun fondamento l’essere della metafisica
classica e neotomista, inteso come luogo in cui viene tutelata una sostanza
separata e perfetta (il luogo della compiuta equivalenza di essere e bene).
Allora si può concludere che il sostrato ontologico della Simbolica del male
è decisamente intriso di tragedia e di speranza. La linea adottata dal Nostro,
congiuntamente ontologica e
morale,
verte
sulla concezione del
rinnovamento della libertà secondo la speranza57.
Del resto ciò è comprovato anche dallo stesso mondo biblico, nel quale
si fa esplicito riferimento a una posizione preliminare e primordiale del male
nel mondo a prescindere dalla Caduta di Adamo (il Serpente ne è il simbolo
inequivocabile). Per rimanere ancora all’aspetto etico, con la critica della
visione morale del mondo, si evince che lo stesso mondo biblico è insidiato
da una reduplicazione di questa concezione: per Ricoeur si tratta della logica
di retribuzione o altrimenti detta di equivalenza, vero e costante contraltare
della logica della sovrabbondanza. Le figure della Legge e della Grazia
74
denunciano in modo parossistico questa tensione interna al mondo morale e
spirituale raccontato nei testi biblici.
La tematizzazione ricoeuriana del male, nel periodo impegnato
nell’elaborazione della Simbolica, palesa dunque una caratterizzazione
ambivalente del percorso teorico seguito, nel senso che, come si è tentato di
anticipare preliminarmente, prevale un atteggiamento volto a comporre due
metodologie fra loro complementari. Si focalizza un ambito di riflessione
incentrato sulla critica del soggetto e che determina un’argomentazione
ermeneutica intorno alla nozione di libertà; parimenti si focalizza un ambito
di speculazione incentrato, a sua volta, sulla critica della nozione di essere58.
Una terza componente, per così dire extra-filosofica, fa invece esplicito
ricorso al tema immenso della Rivelazione cristiana. Ne deriva la nota
dominante di un’analisi critica all’indirizzo delle filosofie che persistono
nell’insano intento di costruire ad arte un sapere del male che leghi fra loro
contaminazioni gnostiche, elementi metafisici e filosofie dell’assoluto.
Ricoeur è fermo nel convincimento che tali forme di pensiero si condensino
al massimo grado nel progetto filosofico, al contempo ambizioso e
velleitario, che va sotto l’etichetta di teodicea. Allo stesso modo, sullo
sfondo, perdura la necessità di non tralasciare le ragioni per un recupero
della dimensione ontologica, in caso contrario verrebbero smarrite le finalità
fatte proprie dall’ermeneutica del ‘900, che proprio sull’interscambio
ermeneutica/ontologia profonde tutte le energie. Si tratta, pertanto, di un
recupero dell’ontologia a dispetto della metafisica, alla quale lo stesso
Ricoeur non lesina strali volti a smascherarne la natura opzionale, la quale,
come testé accennato, è in stretta connessione con la tematizzazione della
matrice della filosofia della finitudine, intesa malevolmente come luogo
naturale del senso di colpa.
Sotto questo profilo si evidenzia con vigore la portata decisamente antimetafisica che connota, nel suo insieme, il percorso filosofico ricoeuriano,
seguendo il quale appare chiara la considerazione della metafisica alla
stregua di una sofisticata e moderna ristrutturazione dell’antica gnosis.
75
Quest’ultima viene blandita a motivo di una doppia presunzione: dare le
ragioni della natura e della presenza del male e, in ultima ma non meno
importante istanza, promuovere una salvezza fondata interamente sulla
conoscenza. In virtù di tale assunzione, Ricoeur si prodiga, con sempre
maggiore sforzo, nel perseguire l’abiura completa e senza reticenze di quelle
tracce, nelle sue latenti sopravvivenze nel pensiero moderno, che egli ritiene
essere epigoni dello gnosticismo.
Le finalità precipue e costanti del recupero post-metafisico, antignostico ed ermeneutico dell’ontologia s’indirizzano verso due ben precisi
riferimenti polemici, che Ricoeur intende scovare e sottoporre a una critica
serrata. Il riferimento polemico principale, nell’ambito della riflessione testé
posta in disamina, si concentra intorno alla visione morale del mondo;
mentre, nell’ambito concernente la speculazione, il riferimento prevalente
tocca i nervi scoperti dell’idea di essere come sostanza (predominante in
epoca antica e medievale) e come totalità (preponderante in epoca
moderna). In fondo, tutta quanta l’intelaiatura della Simbolica del male
interviene a sorreggere il significato autentico e originario di symbolon,
nella misura in cui si vuole comporre la stessa disomogeneità dei simboli
attraverso un’idea di legame che è un rimando alla funzione insita nel verbo
symballo59. Un legame che tenta di tenere insieme l’uomo all’essere, non in
quanto sostanza, bensì in quanto predicato e verbo che, in Ricoeur, assume
le movenze di un lungo racconto (in un’ontologia dal tenore marceliano). In
sintesi, al filosofo di Valence sta a cuore il progetto di delineare
un’ontologia segnata dall’essere nelle sue epoche. Così ragionando,
nell’ottica generale della Simbolica, si potrà rinvenire quasi uno schema in
cui inserire di volta in volta quegli elementi che concorrono a costituire
un’ontologia che è sì discorso sull’essere, ma nondimeno anche
emancipazione dall’essere metafisico, a fronte del quale si propugna una
storia del senso ultimo dinanzi allo scacco del male e delle innumerevoli
aporie a esso subordinate.
76
L’ontologia che fa da sfondo è segnatamente intrisa di dramma: è
espressione di un pensiero tragico. La narrazione è il luogo in cui si accede
al senso delle cose del mondo. Da Ricoeur si evincono due direttrici che
testimoniano l’atmosfera che si respira nelle grandi narrazioni. L’una è
consona alla struttura di quella che il Nostro definisce mitologia; l’altra, in
sintonia con la Parola che abita la nostra cultura, è la struttura della
escatologia. Dalla lettura delle pagine ricoeuriane, si deduce che il loro
discrimine non è determinato sic et simpliciter dalla sola relazione con il
mondo biblico, giacché occorre scendere più in profondità. La
differenziazione prende forma in riferimento al modello di rapporto con un
simbolo afferente a un inizio e con un simbolo afferente a una fine. Il mito,
nella concezione generale esposta nell’ermeneutica di Ricoeur, è una
connessione sotto forma di narrazione fra l’esistenza umana o la storia di un
popolo e l’implicazione ideologica di un inizio e di una fine, sotto il profilo
di un’intenzionalità strumentale. Tornando alle due direttrici poste in
evidenza, la mito-logia è strutturalmente sottoposta all’interpretazione
archeologica e, congiuntamente, all’interpretazione teleologica. Ricoeur
riconosce a entrambe le metodologie ermeneutiche la valenza di nodi critici
rilevanti e propone un’ermeneutica che anziché confutarne i termini ne
assuma l’imprescindibilità, se si vuole ripensare il cristianesimo e i testi
biblici nell’alveo della modernità. Pertanto non è sufficiente un rigetto antimoderno del metodo archeologico e del metodo teleologico, le fede cristiana
deve tramutarsi in convinzione (che vuol dire che deve pervenire a
un’oggettiva consapevolezza di sé), emendandosi dal bagaglio di credenze,
attraverso una sorta di auto-demitizzazione.
In che misura ciò possa avvenire, mercé la dottrina della giustificazione,
è determinato dalle implicazioni inerenti all’idea di una salvezza senza
presupposti. Quel che emerge è che la demitizzazione ricoeuriana inquadra
il proprio punto focale all’indirizzo dell’idea di originario nelle sue varie
sfaccettature o, per farla breve, nei suoi occultamenti filosofici. Talché
sostanza, fondamento, totalità sono maschere dell’idea di originario o del
77
ripristino dell’originario. Tale presunta condizione originaria, perduta nella
sofferenza o lordata con la colpa, inficia anche la comprensione della
salvezza nella sua essenzialità biblica. Dunque l’avallo della dottrina della
giustificazione, come cifra emblematica della salvezza cristiana, consente
l’approdo all’essenza profonda della salvezza stessa. In un certo qual modo
sia Barth sia Ricoeur convergono su un punto assai significativo e prezioso:
la giustificazione riecheggia e porta al dovuto compimento l’atto creatore in
quanto la salvezza del mondo svela la creatio ex nihilo. L’atto salvifico,
tipologicamente presagito nell’atto creatore, non riporta all’origine: la sua
direzione è sempre inconsueta, è sempre in avanti. La creatio ex nihilo è una
creatio ex novo e la dottrina paolina della salvezza, per mezzo della fede
anziché delle opere, ne consente una lumeggiante lettura. D’altronde basti in
proposito una focalizzazione delle argomentazioni di natura esegetica
sagacemente esposte in Finitude et culpabilité, dalle quali emerge che da
sempre il pensiero cristiano ha sostenuto che Cristo non è venuto in
funzione di Adamo (vale a dire per il ripristino della condizione prelapsaria), ma è Adamo che è stato creato per annunciare Cristo, cioè una
salvezza nuova. Tanto detto consente a Paolo d’impostare la propria dottrina
della giustificazione alla stregua di una salvezza che è “molto più” della
creazione yahvista narrata nel libro della Genesi60.
Orbene, il modello narrativo sotteso dall’escatologia in larga misura
attende all’argomentazione a fortiori di Paolo e, in modo più generico, alla
promessa veterotestamentaria. Due aspetti s’impongono come costitutivi
della dottrina salvifica paolina: il retroterra della concezione della creazione
come separazione radicale fra Dio e il mondo e il cuore della dottrina stessa,
ossia la nozione di giustificazione61. Cosa comporti l’assunzione di questi
due pilastri è dato dal fatto che la separazione originaria posta a partire dalla
creazione (separazione appunto creativa, nel senso che si svincola
dall’origine) determina come indisponibile l’inizio (emendandolo dal
condizionamento di un’origine da ricostruire) e, a seguire, la giustificazione,
implicante una giustizia ultima, che salva a dispetto di tutto il peccatore,
78
coincide sostanzialmente con il convincimento che anche la fine (éschaton)
risulti alquanto indisponibile. Talché se ne deduce la conclusione che
l’argomento del paradigma paolino, ovvero l’argomento del “molto più”,
forza al contempo e nel medesimo rispetto ambo le categorie di necessità e
di totalità. In altri termini, sovverte i dettami che stanno alla base della
logica di retribuzione, che è una decifrazione religiosa delle suddette
categorie concettuali. E ancora, l’alta considerazione che riscuote la
concezione cristiana del mondo, in Ricoeur, promuove un impianto di
pensiero derivato anche dalla netta stroncatura della totalità, giacché il fine
letto nell’éschaton, nella sua originale modalità d’interrelazione con il
cominciamento, è decisamente a fortiori rispetto a ogni condizione di
partenza. In definitiva, la visione cristiana e la convinzione che ne deriva
sono scevre di assoluto e di totalità e rendono l’idea di una realtà aperta al
novum. Parimenti tale concetto deve essere letto come misura della
dismisura concepita mediante la logica della sovrabbondanza del bene; dal
canto suo il bene diviene, nei contorni di tale logica sovrannaturale, termine
ultimo del superamento totale e incondizionato dell’originario. Ciò
permette, in altre parole, di qualificare un criterio che destituisca
simultaneamente sia quello archeologico sia quello teleologico: tale criterio
è appunto escatologico in quanto implica una logica che si proietta
nell’ambito di una ontologia del totalmente nuovo.
Da tutta questa serie di considerazioni basilari s’inferisce il radicale
convincimento secondo cui il cosiddetto “pensare di più” scardina, a suo
modo, anche un ipotetico impianto dialettico (volto a guadagnare una
totalità), di conseguenza emerge l’adozione di un atteggiamento diacritico
(più a che fare con lo spezzare della dialettica barthiana che in Ricoeur
finisce con il qualificare la natura stessa del pensiero filosofico-teologico),
non definitivamente assertivo bensì aporetico, cioè capace, in ultima istanza,
di coesistenza con le aporie del mondo e del pensiero del male62. Dunque,
per il Nostro, “pensare di più” equivale a mettere in atto un’operazione
mentale prima ancora che teoretica. Parimenti, tale “di più”, del pensiero
79
ricoeuriano, lo si ribadisce ancora una volta, recepisce due parametri: la
natura aperta e plasmabile, se vogliamo euristica, dell’aporia in sé e per sé e
il margine fecondo di dialogo con l’extra-filosofico (nello specifico con il
religioso), che Ricoeur qualifica positivamente come pre-filosofico (in un
senso affine a quello di fonte per la filosofia) e che, come puntualizzato in
precedenza, si condensa intorno a un presupposto che assuma le fattezze di
una sorta di opzione fondamentale non tanto della filosofia in astratto
quanto del singolo filosofo.
La costante incidenza e presenza di un’assunzione previa, ma non
sclerotizzata nelle forme di un greve dogmatismo, prevede la possibilità di
un ingresso a latere della fede cristiana, secondo quanto si è testé ripetuto a
più riprese, con tutto il suo corredo di espressioni-limite, quale, nello
specifico, il “molto più” paolino che viene recepito oltre che alla stregua di
cifra emblematica del paradigma della giustificazione anche come
un’attestazione che certifichi, in un certo qual modo, il colmo dello scacco
insito in ogni filosofia dell’assoluto e della totalità. Pertanto l’assunzione
della logica di sovrabbondanza sancisce inequivocabilmente, in via del tutto
definitiva, l’idiosincrasia ricoeuriana nutrita nei confronti delle nozioni di
sistema, di assoluto e di totalità, rifiutandone la plausibilità non a causa
della loro struttura logica, bensì a motivo della loro incongruenza in merito
alla questione spinosa del male del mondo e della sofferenza ingiusta delle
vittime innocenti, poiché risulta assai arduo il tentativo pretestuoso della
teodicea, che vuole coniugare male e armonia prestabilita, male e sistema.
Alla luce di questa sommaria ricostruzione, si tenta di seguito una
dettagliata ermeneutica del paradigma paolino che risulta essere
caratterizzata fortemente da una duplice connotazione, riflessiva per un
verso, speculativa per un altro. La finalità filosofica prevalente, che funge
da sfondo e dal quale mai Ricoeur intende declinare, è quella di estrapolare
un’ontologia, più narrativa ed ermeneutica, dallo spazio della metafisica. Al
fine di perseguire tale intento l’operazione interpretativa viene costellata di
rimandi e di confronti, uno su tutti concerne la considerazione dell’origine
80
della metafisica secondo la visione heideggeriana. Ricoeur intende
rintracciare anch’egli una Stimmung fondamentale: in vece del sentimento
dell’angoscia (Angst) il Nostro, rimanendo fedele alla tradizione riflessiva
francese e agli insegnamenti di Nabert, privilegia la focalizzazione del
desiderio. Questo elemento fa in modo che la metafisica stessa non sia altro
che una forma per rendere la nozione di essere sinonimo di persistenza. Da
ciò il filosofo di Valence determina quella che in precedenza è stata definita
la natura opzionale della metafisica. La radice profonda della metafisica
risiede nel desiderio e tale elemento costituisce un fattore comune con la
genesi delle velleità celate nella gnosi antica e nella gnosi moderna.
Nello strenuo tentativo di trascendere questo orizzonte, che mal si
compone alla spirale di contraddizioni innescata dal volere comprendere la
natura del male, Ricoeur propone, sulla scia dell’insegnamento paolino, di
tematizzare filosoficamente la speranza cristiana e la sua incidenza sul
discorso ontologico, sicché il paradigma della giustificazione diviene
giocoforza il cardine sul quale fare vertere il processo critico rivolto alla
struttura onto-teo-logica della metafisica e lo fa prefigurando una
prospettiva a suo modo originale. La modalità che s’intende privilegiare, per
rendere più recepibile la generale impostazione sottesa da Ricoeur, è quella
di tenere per ferma una contrapposizione schematica del modello biblico
della salvezza (verso un‘ontologia narrativa) alla struttura della metafisica
occidentale (in debito con l’onto-teo-logia).
Per comprendere le coordinate fondamentali di questo rinnovamento
all’insegna della speranza, l’emeneutica ricoeuriana del paradigma, che
segna lo spartiacque dell’immane lavoro compiuto ne Le conflit des
interprétations, deve esplicarsi diligentemente, cadenzando un susseguirsi di
figure della speranza snocciolate attraverso la modulazione, per mezzo di
varie traduzioni, della locuzione paolina del “molto più”. Si tratta di
un’operazione che, a detta dello stesso Ricoeur, enuclea le articolazioni
interne della locuzione, avendo cura, al contempo, di delucidarne le
implicazioni filosofiche.
81
In primo luogo la locuzione può tradursi en dépit de: laddove pare non
vi possa esserci più una logica o una direzione da dare al pensiero persiste
tuttavia una storia di pensiero, quindi il “molto più” (pollô mallon) pone una
sfida nel cuore dell’aporia. In secondo luogo la locuzione può tradursi grâce
à: il peccato in sé non riesce a tracciare il perimetro del male
circoscrivendolo alla sola condizione umana e poiché non dà ragione del
male (esorbitante nella sua perisseia) non dà ragione ma prelude a un bene
altrettanto esorbitante e illimitato. In terzo luogo la traduzione si accosta al
significato autentico della locuzione con l’espressione combien plus: è il
cuore stesso del “pensare di più” e funge da cerniera con la teologia della
speranza (Hoffnung) di Moltamann63. Così procedendo, la traduzione
combien plus, più fedele allo spirito paolino, assimila anche una certa dose
di pensiero tragico, talché la realtà del male viene implicata dall’essere.
Un’implicazione che esclude in modo drastico l’assimilazione del male a
momento negativo (nozione eminentemente dialettica) e l’equiparazione alla
peregrina nozione di privazione (concetto eminentemente metafisico). La
considerazione generale dell’aspetto ontologico pone, di conseguenza,
l’essere sotto tutt’altra luce, quella della logica della sovrabbondanza
(hyperperisseia) che esclude perentoriamente la privazione d’essere,
recependo di contro un’eccedenza che sovrasta congiuntamente la necessità
e la possibilità.
Tutto ciò permette, in ultima istanza, di stornare e recidere di netto
finanche un altro caposaldo della teodicea, vale a dire le maglie che
irretiscono l’essere nell’astrattezza del concetto di armonia prestabilita che
non piace per nulla al Nostro. Armonia e angoscia polarizzano e
immobilizzano la questione della religione e ostruiscono l’accesso
all’intelligenza della speranza, che Ricoeur delinea come la chiave di volta
della sua Simbolica del male. Tale chiave s’impone allo stesso tempo a mo’
di premessa e abbozzo per una ontologie biblique64. In un certo qual modo,
questo topos del pensiero ricoeuriano costituisce l’approdo ultimativo del
processo di désabsolutisation, ossia del processo di liberazione dalla
82
disperazione di chi pensa, incantato dall’assoluto,e soggiogato dal desiderio
metafisico, il male senza passare attraverso il “nonostante” di Paolo.
Per giungere a una maggiore e accurata comprensione del sottosuolo che
fa da sfondo alla differenziazione di origine barthiana fra religione e fede,
occorre recepire la centralità del paradigma paolino in qualità di discrimine
fra le due logiche dominanti la questione del male, la logica della
retribuzione, aspramente avversata dal Libro di Giobbe, e la logica della
sovrabbondanza65. Alla prima fa capo, secondo l’ermeneutica che ne
fornisce Ricoeur, una concezione dell’essere come totalità e alla seconda
un’interpretazione dell’essere come gratuità. Se ne deduce una dicotomia
esemplare e di chiara ispirazione luterana: la retribuzione è, a suo modo,
cifra del paradigma del giudizio e afferisce naturaliter alla figura biblica
della Legge e che, in via del tutto sommaria, costituisce il nucleo di un
sentimento di dipendenza assoluta, elemento che fa da matrice all’idolatria.
La sfera della religione è inglobata totalmente in quest’ottica focalizzata da
Barth, il maggiore teorico della dicotomia religione/fede, in virtù della quale
la critica ricoeuriana intende oltrepassare congiuntamente le due
fenomenologie.
Ciò impone una chiara linea di continuità del pensiero ricoeuriano con
un filone teologico che, sulla scia di Lutero e di Barth, rinviene nella visione
religiosa del mondo, senza che in questa vi sia una più nitida
differenziazione rispetto alla fede biblica, la radice ambiguamente protesa
verso la teodicea da un lato e l’ateismo dall’altro. In deciso contrasto a
questa concezione si delinea il paradigma della giustificazione. Ricoeur
concentra il suo sforzo sul rinvenimento di una certa continuità fra la linea
jobica, che sperimenta un’icastica e caustica parodia della teologia della
retribuzione, e la linea paolina, allo scopo di delucidare, con metodo
ermeneutico, la coabitazione forzosa di questi opposti paradigmi finanche
nel mondo biblico. Il movimento critico che viene innescato da Lutero e dai
suoi epigoni consente una lettura della ricerca di Dio come di un fenomeno
permeato da una polemica endogena al mondo biblico e che si caratterizza,
83
talvolta con la ridondanza dello scontro epocale, per mezzo di una linea
continua di dicotomie (opere/fede in teologia, religione/fede in filosofia).
Nondimeno Ricoeur cerca incessantemente uno sbocco squisitamente
ontologico, in cui collocare la sua ermeneutica del male e la sua intelligenza
della speranza, propiziato dall’assunzione del paradigma paolino. Il topos
dell’ontologia biblica, pertanto, si fa strada quale modello aperto
d’interpretazione della conoscenza cristiana; un modello che mira a
un’approfondita analisi critica dell’onto-teo-logia. Il discorso imbastito nei
termini della concezione ricoeuriana dell’essere volge a una rotta di
collisione nei riguardi della nozione di essere come sostanza a vantaggio di
una concezione dell’essere come racconto.
2.3 Nel cuore della teologia dialettica
Orbene, in ragione di quanto finora esposto, sull’incidenza del paradigma
paolino nei riguardi di un sua interpretazione squisitamente filosofica, si può
pervenire en passant alla conclusione secondo cui tutto l’impianto,
costituito da Ricoeur, non giovi a una sistematizzazione rigorosa del
cristianesimo, bensì alla delimitazione di un percorso critico che renda
plausibile
l’orizzonte
di
senso
della
fede
biblica
anche
nella
contemporaneità.
In un siffatto progetto il paradigma paolino si è imposto all’attenzione
quale grande e imprescindibile presupposto dell’opera del filosofo di
Valence, il quale individua anche la possibilità di costituire un forma sui
generis di ontologia quando si esprime a favore di una collocazione centrale
84
della nozione di essere nuovo come cerniera fra l’ermeneutica filosofica
(volta al recupero delle dimensione ontologica dei testi) e l’ermeneutica
biblica (volta alla promozione di una compiuta demitizzazione/demitologizzazione del racconto biblico).
Addivenendo all’acquisizione del paradigma paolino, quale chiave di
volta della Simbolica, il processo di demitizzazione si determina come la
principale opzione di metodo congeniale al pensiero ricoeuriano intriso di
istanze protestanti. Mentre la ontologia biblica si profila come elemento
implicito e speculativo della stessa Simbolica del male. Sicché, nel portare
alla luce tutte le implicazioni filosofiche della Entmythologisierung, non
può mancare un aperto confronto critico con Bultmann, il più autorevole e
rinomato esponente dell’esegesi demitizzante del panorama teologico
novecentesco.
Ricoeur
intende
sviluppare
una
cospicua
rivalutazione
della
demitizzazione e lo fa conferendo al metodo esistenziale un ruolo
alternativo a quanto sostiene in merito Barth. Come è ampiamente
documentato, questi ha lungamente polemizzato con Bultmann a proposito
del ruolo della pre-comprensione filosofica in materia di esegesi biblica66.
Nondimeno l’enucleazione della specificità ricoeuriana potrebbe fornire
spunti assai fecondi alla questione ermeneutica e più in generale al rapporto
fra filosofia e teologia. I due grandi protagonisti della teologia del primo
‘900 possono essere indicati, senza tema di smentita, come i più proficui
ispiratori dell’ermeneutica esegetica di Ricoeur. Da loro trae i fondamenti
della sua teoria del testo biblico; dalla loro contrapposizione evince inoltre
la possibilità di ritrovare, nel mondo della Parola, un nuovo inizio della
riflessione filosofica.
Innanzitutto, secondo quanto è confermato dall’opinione ricoeuriana,
non può essere elusa la natura eminentemente ermeneutica del fatto
cristiano, talché si dovrà giocoforza concedere il giusto risalto alla
dimensione kerygmatica insita nell’esegesi biblica. Ciò è dato per certo in
quanto la stessa Scrittura è, in ultima istanza, espressione fissata per iscritto
85
(per dirla con Dilthey) della proclamazione della Parola che la precede, la
fonda e che non la esaurisce in modo del tutto conclusivo. Sussumendo una
tale costituzione, strutturalmente ermeneutica, viene chiamata in causa una
circolarità comprensiva di evento/scrittura/evento; come dire che il rapporto,
con l’aspetto propriamente vitale della Parola, rimane non sullo sfondo, ma
costituisce l’essenza stessa dell’esegesi del testo biblico.
La dimensione interpretativa del cristianesimo si delinea attraverso una
serie
di
circoli
ermeneutici
concentrici,
Ricoeur
ne
privilegia
sostanzialmente due. In primo luogo il circolo che coinvolge l’interrelazione
fra Antico e Nuovo Testamento (il tema della speranza in connessione con
quello della promessa); in secondo luogo, il circolo specifico del kérygma,
che coinvolge il credente e Cristo stesso. Facendo leva su tale scenario, si
profila
un’intersecazione,
colta
magistralmente
da
Bultmann,
fra
l’interpretazione esistenziale e il senso cristico della Scrittura. Alla base di
questa opzione di metodo, operata da Bultmann e condivisa in una certa
misura da Ricoeur, ci pare di scorgere non tanto l’impronta di Heidegger,
accertata e assai conclamata da tutta la critica, quanto quella più profonda di
Lutero. Ricoeur stesso non giunge a Bultmann passando per il filosofo di
Sein und zeit, ma passando per il padre della Riforma. In un certo qual modo
si profila la necessità, tutta ricoeuriana, di far emergere il filo rosso che
congiunge la désabsolutisation thévenaziana alla Entmythologisierung
bultmanniana. Tale operazione è resa possibile facendo convergere la
specifica finalità di Thévenaz, cioè quella di aprire la soggettività alla
novitas del devant Dieu (a scapito dell’astratta e boriosa nozione di
assoluto) e la finalità di Bultmann che, da par suo, vuole questa soggettività
in dialogo con il Regno annunciato da Cristo nel Vangelo.
Tuttavia, va detto e confermato che, nello spirito dell’operato
ricoeuriano, non va centrato lo scopo di ricostruire un pensiero esistenziale,
bensì quello di ricostruirne uno squisitamente ed eminentemente biblico. Il
presupposto dell’ermeneutica della speranza sposa appieno l’obiettivo di dar
luogo a una vera ermeneutica della vita e lo fa ricorrendo in larga misura
86
alla meditazione luterana sul senso tropologico della Scrittura, che non
assume come prevalente il criterio secondo cui la stessa Scrittura
conterrebbe soltanto i precetti della vita morale del credente, bensì il criterio
secondo cui nell’esistenza del credente opererebbe una dialettica della
tensione fra lo spirito e la carne. Si tratta per certi versi di un criterio
interpretativo affine più a una prospettiva ontologica in senso lato che a una
morale in senso stretto.
Il debito barthiano non sembrerebbe di primo acchito del tutto evidente.
Benché il rapporto fra Ricoeur e l’autore del Römerbrief si limiti ad alcune
occasionali citazioni, pare di capitale importanza rilevare il fatto che la
correlazione fra filosofia e teologia, nel pensiero ricoeuriano, si possa
calibrare su uno schema traslato dall’ermeneutica barthiana. In che termini è
presto
detto.
In
Barth
(Kirchliche
Dogmatik,
I/2)
la
categoria
dell’applicazione (Anwendung) del testo biblico è sorretta da una previa fase
di “ripensamento” (Nachdenken) delle “forme di pensiero” (Denkweisen)
che la storia ha forgiato e che l’interprete deve mettere a confronto con la
sua esegesi della cosa biblica. Pertanto è nel carattere dialettico dell’esegesi
biblica che si evolve e si concretizza la stessa teologia dialettica, della quale
Barth è ritenuto il padre. Quest’ultimo ammetterebbe una forma di precomprensione, rovesciandone radicalmente la valenza: non più una congerie
di presupposti con i quali filtrare oppure concettualizzare la Parola, bensì
l’occasione per rendere effettivo un ripensamento delle visioni del mondo.
Si tratterà dunque di esplicitare la cadenza di un procedere dialettico che
interessa la pre-comprensione (Vorverständnis) e la post-comprensione
(Nachverständnis). L’accostamento fra esegesi e la cosiddetta teologia
dialettica viene ereditato dalla categoria ricoeuriana di distanciation
(dimensione propria del testo) e dalla categoria di monde du texte, nel
momento in cui esse vengono incorporate nell’elaborazione della teoria del
testo biblico come luogo della distanza fra i sistemi di pensiero e la Parola.
In Ricoeur le categorie ermeneutiche di pre-comprensione e di postcomprensione vengono assunte come condizioni preliminari della
87
distanziazione, intesa non più nel suo carattere alienante (problema aperto
da Gadamer), bensì concepita nel suo carattere critico, finanche innovativo
(dalla Verfremdung gadameriana alla Distanciation ricoeuriana)67. Si
esplicita, in tal senso, un procedimento nel quale il mondo del testo assume
il duplice ruolo di elemento naturale della intenzionalità del testo e di luogo
deputato al ripensamento delle ragioni profonde che sorreggono le visioni
del mondo. Pertanto si potrebbe tentare una prima linea comparativa
Ricoeur/Barth: la nozione di mondo del testo esplicita, in un certo modo, la
teologia dialettica, in quanto espressione di una concezione in cui il pensiero
filosofico viene problematicamente posto dinanzi al suo altro.
Procedendo al rilievo del debito bultmanniano, la riflessione intorno alla
Simbolica del male entra a pieno titolo nella temperie ermeneutica e incrocia
il proprio destino con le influenze della demitizzazione esegetica del testo
biblico. Qui Ricoeur introduce nella questione e motiva un perentorio
distinguo interposto fra demitizzazione e demitologizzazione. Tale presa di
posizione pone l’attenzione sul fondamento dell’intera Simbolica: il mito è
una forma (interpretativa) di discorso che, attraverso una narrazione, fa
derivare da un simbolo primario una causa (funzione eziologica) posta oltre
il tempo e lo spazio, riducendo l’originaria polifonia del simbolo stesso.
Quest’ultimo di fatto non sarebbe, secondo la riflessione ricoeuriana, una
forma primitiva di pensiero, bensì la testimonianza di un senso che ci
precede, un elemento della materia incandescente della coscienza che il
pensare è chiamato a elaborare.
Nell’economia generale della Simbolica del male è di capitale
importanza la polisemia simbolica e, in ragione di questo convincimento,
Ricoeur configura l’ermeneutica come la tecnica che riporta alla luce la
polivalenza del simbolo, rimarcando il fatto che la potenza significante di
quest’ultimo è sempre riferita a un insieme di relazioni simboliche che
s’intersecano nell’incessante processo della comprensione. Inoltre va detto
che i simboli formano fra loro reti di rimandi e di correlazioni; queste reti
forgiano le visioni del mondo. Giacché sussiste codesta sovrapposizione fra
88
relazioni simboliche (nella sfera significante del linguaggio) e visioni del
mondo, ciò consente di mettere sullo stesso piano, a partire dalla specifica
situazione della Simbolica del male, spiegazione (Erklären) e comprensione
(Verstehen). Ne conseguirà che la suddetta Simbolica potrà essere
rovesciata, se sovrapposta all’orizzonte di senso biblico (primo indizio di
una post-comprensione filosofica del problema del male), in una Simbolica
della salvezza. In altri termini, nell’ermeneutica coesistono due esigenze:
l’una di carattere eminentemente epistemologico, legata al lavorio di una
teoria del testo (Erklären); l’altra concentrata intorno al dispiegamento degli
orizzonti di senso (Verstehen). Ed è quest’ultima che, per Ricoeur,
concretizza l’aspetto speculativo e oggettivo, superando l’impostazione
esistenziale di Bultmann, che per certi versi rimane ancorata alla sola sfera
della soggettività.
La demitizzazione non può limitare il proprio raggio d’azione alla
rimozione del nascondimento mitico di una peregrina spiegazione
cosmologica; essa deve assolvere il compito di ripensare i processi della
riflessione simbolica e di comprenderne la sottesa visione del mondo.
Similmente si tratterà di scoprire la pretesa velleitaria, guidata da una
coscienza
giudicante,
di
dare
una
veste
razionale
ed
esaustiva
all’interpretazione della presenza del male nel mondo. Tale processo è
individuato, da Ricoeur (in primo luogo ne Le conflit des interprétations),
come una sorta di latente gnosticismo, giacché si pensa di poter spiegare il
male attraverso un modello di discorso che irretisca la ricchezza polifonica
del simbolo e l’irriducibilità del pensiero biblico a precise categorie
concettuali. Ciò ingenera un procedimento, come appunto quello mitologico, suffragato da una falsa scienza (la gnosi, secondo l’interpretazione
che ne dà San Paolo nella Prima Lettera a Timoteo 6,20). La falsa scienza,
che del male fornisce una speculazione razionale, è incarnata dalla triade
teodicea
leibniziana/onto-teo-logia/visione
morale
del
mondo.
Riassumendo, la scienza, nel momento in cui si fa carico di spiegare il male
e la sofferenza, inevitabilmente non potrà che rovinare nell’illusione della
89
propria fallacia. A essa San Paolo contrappone il cosiddetto depositum fidei,
richiamando l’attenzione sulla gratuità di un Annuncio di grazia che precede
l’uomo e, traslato in termini filosofico-morali, libera l’uomo. Questo
kérygma della speranza, nell’interpretazione che ne fornisce Ricoeur, si
dispiega, nel Nuovo Testamento, mediante diversi modelli testuali che
alternano narrazione e insegnamento. Uno di questi modelli è rappresentato
appieno dalla dottrina paolina della giustificazione.
Il mondo del testo (come dimensione costitutiva) e la distanziazione
(come condizione preliminare) sono pertanto i punti nodali della teoria
dell’interpretazione, elaborata da Ricoeur sulla scorta della nozione
barthiana di ripensamento e su quella bultmanniana di demitizzazione,
intesa come demitologizzazione. Ripensamento e demitologizzazione sono,
a ragione, entrambe figure della post-comprensione filosofica. Pertanto si
potrebbe parlare di distanziazione demitologizzante in stretta correlazione
con il mondo del testo, consolidato nella sua proprietà di decostruire la
visione morale del mondo68.
Sono pertanto queste le coordinate essenziali del duplice debito
ricoeuriano contratto nei confronti di Barth e di Bultmann. Di pari passo, da
questo debito, procede un’equidistanza critica: Bultmann non si è posto il
problema del passaggio dalla centralità della decisione esistenziale a quello
del dispiegamento testuale; Barth non si è posto il problema del linguaggio,
ossia del prezioso giacimento simbolico e metaforico in grado di lasciare
intendere che il ripensamento delle filosofie non sia soltanto condotto sulla
linea della confutazione, ma anche su quella, propriamente ermeneutica,
dell’appropriazione. Entrambi hanno eluso la possibilità di restaurare il
simbolo e di ripensare la cosa biblica come una frontiera aperta fra filosofia
e teologia.
Su questi cardini ruota tutta la dialettica fra pre-comprensione e postcomprensione e a partire da tali presupposti teorici si potrebbe riconfigurare
il rapporto fra ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica. L’elaborazione
della nozione di post-comprensione può suffragare l’ipotesi, tutta
90
ricoeuriana, del presunto rovesciamento del rapporto fra le due sfere
dell’ermeneutica:
quella
biblica,
progressivamente
assumere
la
da
funzione
ermeneutica
regionale,
d’implementare
può
l’orizzonte
filosofico.
L’ermeneutica testuale di Ricoeur prospetta l’irrompere, nella questione
del senso dinanzi allo scandalo del male, di un essere nuovo proposto
dall’esegesi del mondo del testo biblico. Quasi come in una nuova alleanza,
il pensiero filosofico innesca una traiettoria di lettura nei testi sacri che
dispiegano un senso fondato su paradigmi alternativi e radicali. Uno di
questi, quello paolino della giustificazione, quello che più di tutti
caratterizza la riflessione ricoeuriana, dispiega il racconto biblico in
direzione di un pensare altrimenti lo scandalo del male, cioè alla luce di un
bene a dispetto del male, di un bene che investe l’uomo “molto più” del
male. Tutta la Bibbia, secondo l’esegesi ricoeuriana, potenzialmente
annuncia e progetta questo cambio di direzione. L’orizzonte di senso,
contemplato nel cuore della dialettica fra religione e fede, è tratto
dall’emblema della giustificazione, esperienza del dono di grazia. Se per ciò
che concerne l’aspetto squisitamente teologico la giustificazione incarna il
cuore stesso della dottrina paolina, da un punto di vista meramente
filosofico, come accade nell’economia del testo ricoeuriano, siamo in
presenza di una prospettiva alternativa, qual è il dispiegamento di un
paradigma altro da spendere in favore di un’interpretazione più filosofica
del mondo del testo biblico. Questo modello alternativo di lavoro
ermeneutico viene nondimeno ripreso e assunto in guisa di schema
decostruttivo dello gnosticismo sopravvissuto nel pensiero moderno (che ha
fatto del Cogito il principio dell’autosufficienza del soggetto).
Detto altrimenti, la presenza del male non assume solamente i netti
contorni dello scandalo e dello scacco: essa incarna una sfida perentoria per
il pensiero filosofico e, congiuntamente, per il pensiero teologico. La sfida è
duplice, ma è anche un’occasione per ripensare le convergenze fra visione
morale del mondo e visione religiosa del mondo. La proposta ricoeuriana
91
non auspica una soluzione pacifica nel rapporto fra filosofia e teologia, ma
guarda con favore a una proficua tensione. Il filosofo francese, conscio del
fatto che il problema del male metta in scacco nel contempo filosofia e
teologia, riformula tale duplice sfida mediante la possibilità d’imbastire una
contro-sfida. Il paradigma paolino risponde in pieno a quest’esigenza: la
giustificazione confuta la coscienza giudicante e affranca il Cogito
dall’inganno dell’auto-trasparenza e dell’auto-referenza.
In Ricoeur ritorna un motivo conduttore del pensiero teologico di
derivazione luterana: la visione della condizione umana stretta fra due poli,
quello del giudizio e quello della giustificazione. Al primo polo fanno capo,
in un certo senso, le forme gnostiche di pensiero, che Ricoeur ritiene
espressioni storiche della coscienza giudicante, nelle cui pieghe si possono
scorgere la forma dello schema della consolazione (principio della teodicea)
e la forma dello schema dell’accusa (principio dell’ateismo). Tutta
l’ermeneutica del conflitto (che coinvolge ateismo e teodicea e, più
profondamente, religione e fede) è improntata alla decostruzione di questa
coscienza attraverso la riflessione sulla Simbolica del male, parte anch’essa
di questo discernimento critico69.
La stessa palinodia jobica, commentata ne Le conflit des interprétations,
assolve in pieno questo compito; essa è, in ultima istanza, una critica della
coscienza giudicante sedimentata sul fondo della religione arcaica e contro
la quale sferrano i propri strali gli autori del Libro di Giobbe e del Qoèlet.
Con codesto preciso riferimento scritturistico, il filosofo francese prova a
corroborare la sua interpretazione kerygmatica del male. Egli intende
costruire, a suo modo, una sorta di parallelismo fra la sua riflessione critica,
esercitata sull’accusa (ateismo) e sulla consolazione (teodicea), e la
riflessione sapienziale. La motivazione di fondo è quella di enucleare una
confutazione della coscienza giudicante come coscienza impura. Si toccano
pertanto i nervi scoperti di due conflitti concentrici, quello fra ateismo e
teodicea e quello, assai più complesso e per questo meno evidente, fra
religione e fede. L’intento di Ricoeur è quello di dimostrare che il contenuto
92
dell’accusa ateistica e il contenuto della consolazione teistica hanno una
matrice comune nella visione religiosa e morale del mondo dominata dalla
logica retributiva: convincimento assai distante dal Dio della fede biblica, il
quale debolmente annuncia agli uomini la sua forza “a dispetto”(en depit de)
del male. Il Libro di Giobbe è il testo chiave per delucidare una prima
distinzione fra la religione (negli amici di Giobbe ancorata alla rigida logica
retributiva) e la fede (in Giobbe ancorata all’impossibilità della speranza).
Pertanto la nota esortazione ricoeuriana a pensare “nonostante” il male e
la sua sfida incontra, sulla sua strada, un contenuto rivelativo capace di
ripensare nella direzione di una post-comprensione (condizione a cui
sottoporre il pensiero filosofico), vale a dire di un pensare secondo la logica
di una nuova visione del mondo che non trascende ma rinvigorisce la
filosofia. Si ribadisce perentoriamente il fatto che per post-comprensione si
deve intendere quel processo decostruttivo che investe primieramente la
teodicea leibniziana, l’onto-teo-logia e la visione morale del mondo. Qui
risulta ancor più evidente il rovesciamento dei ruoli nel confronto fra
ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, dal momento che
quest’ultima assume la direzione di un vero e proprio processo di
metamorfosi (mediante appunto la post-comprensione) della coscienza
giudicante in coscienza affrancata dalla visione morale del mondo. Il mondo
del
testo
biblico
incrementa
quest’affrancamento
prospettando
l’oltrepassamento congiunto della requisitoria dell’ateismo (in cui Dio
sarebbe oggetto di una sentenza di condanna) e dell’arringa della teodicea
(in cui Dio sarebbe oggetto di una sentenza di completa assoluzione).
Entrambe le prospettive condurrebbero di fatto a un dissolvimento della
fede autentica.
Dal conflitto fra le interpretazioni emerge un’ermeneutica per certi versi
decostruttiva, per altri versi ricostruttiva; in gioco vi sarebbero le sorti della
possibilità di pensare “a dispetto” e al cospetto dello scandalo del male. Il
mondo del testo biblico prospetta un essere nuovo nella misura in cui si fa
promotore di un deposito (donazione) di senso radicalmente nuovo. Di
93
conseguenza, in quest’ordine di considerazioni, rientrerebbe finanche
l’esigenza, di derivazione barthiana, di riconfigurare la dialettica fra
religione e fede. In Ricoeur, pare di poter dire, emerge in modo perentorio
l’esigenza teorica di porre in rilievo questa distinzione fra il carattere storico
della religione e il carattere profetico della fede. In sintesi, si tratterà di
ridimensionare la religiosità, suffragata da un sentimento di dipendenza
vagamente nutrito nei confronti di un ancor più vago assoluto, a vantaggio
di un evento profetico destabilizzante che si fonda su una Parola che ci
precede e ci investe “a dispetto” (e “molto più”) delle more di una coscienza
giudicante e delle aporie del filosofare. La proposta ricoeuriana si
concretizza e si condensa intorno a un’idea-limite (contenuta nel mondo del
testo), il paradigma paolino della giustificazione. La sfida del male può
essere raccolta se s’intraprende una sfida ancor più radicale, quella della
dismisura del bene raccontato nel mondo biblico. Su questa linea prende
forma compiutamente l’esplicitazione della post-comprensione, vale a dire
la realizzazione di un approccio al testo biblico che vada coraggiosamente
ben oltre la dinamica della lettura soggettiva (ancora dominante nella
comprensione esistenziale di Bultmann). Si tratterà dunque di assumere un
approccio pre-filosofico che coinvolga la storia delle filosofie intrappolate
nel dualismo ateismo/teodicea. In un certo senso questa contro-sfida vuole
assumere il coraggio di pensare il paradigma della giustificazione come uno
scandalo per la teologia razionale e come una stoltezza per quella filosofia
che si mostra incapace di dialogare con l’Altro da sé.
94
26
Per la verità un primo nucleo viene già abbozzato in Finitude et culpabilité, allorché
comincia a farsi strada l’esigenza di ritrovare nel pensiero paolino una logica che dia
contezza delle peculiarità della storia della salvezza e della correlazione fra Adamo e
Cristo. Cfr. Finitude et culpabilité: II La symbolique du mal, Aubier, Paris 1960, trad. it.,
Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pagg. 539-542.
27
De l’interprétation. Essai sur Freud, Éditions du Seuil, Paris 1965, trad. It. Della
interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1997.
28
Sulla considerazione critica delle epistemologie rivali cfr. Ivi pagg. 503-536; cfr. Le
conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 285-380.
29
Lo statut de la Vorstellung dans la philosophie hégélienne de la religion, in Lectures
3, op. cit., pagg. 42-52.
30
De l’interprétation, trad. it. op. cit., pagg. 565-573.
31
Ibidem.
32
Si deve tenere in considerazione che tutta la parte V de Le conflit è consacrata alla
rielaborazione della dicotomia barhiana religione/fede.
33
De l’interprétation, trad. it., op. cit., pag. 567.
34
Le conflit, trad. it., op. cit., pag. 305.
35
Ivi, pag. 304.
36
De l’interprétation, trad. it., op. cit., pag. 567.
37
Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 325-330.
38
Le mal: un défi à la philosophie et à la théologie (1986) in Lectures 3, op. cit., pagg.
211-233(trad. it., Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia
1993).
39
Pubblicato per la prima volta in italiano in un volume curato da E. Bianchi dal titolo,
Paul Ricoeur: la logica di Gesù, Edizioni Qiqaion, Magnano BI 2009.
40
K. Barth, Der Römerbrief, Zürich 1954 (trad. it., L’Epistola ai Romani, Feltrinelli,
Milano 2002, pagg. 155-159).
41
Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit.,, pagg. 414-415.
42
Ivi, pagg. 353-395. Cfr. anche Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg.
439-450.
43
Le mal, op. cit. pagg. 226-227.
44
Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 422-423.
45
Exegesis. Problèmes de méthode et exercices de lecture, Delachaux et Niestlé,
Neuchâtel 1975, trad. it., Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia
1983, pagg. 89-95.
46
Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pag. 315.
47
Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit.,, pagg. 419-429.
48
Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pag. 289.
49
Ivi, pagg. 290-291.
50
Ivi, pagg. 400-402.
51
Ivi, pagg. 355-360.
52
Ivi, pagg. 417-418.
53
Ivi, pagg. 424-429.
54
Ivi, pag. 287.
55
Ivi, pagg. 349-366.
56
Ivi, pagg. 229-302.
57
Ivi, pagg. 415-438.
58
Ivi, pagg. 312-330.
59
Ivi, pagg. 303-319.
60
Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit., pagg. 497-547.
61
Thinking biblically, trad. it., op. cit., pagg. 51-63.
62
Le mal, op. cit. pagg. 226-228.
63
Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 329-330.
64
D’un Testament à l’autre, op. cit., pag. 365.
95
65
Ivi, pagg. 469-472.
In merito alla diatriba fra Barth e Bultmann si veda A. Aguti, La questione
dell’ermeneutica in Karl Barth, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, pagg. 205-276. Invece
per quanto riguarda la collocazione di Ricoeur, nell’ambito di tale questione, si veda W. G.
Jeanrond, Theological Hermeneutics. Development and Significance, Macmillan, London
1991, trad. it. L’ermeneutica teologica. Sviluppo e significato, Queriniana, Brescia 1994,
pagg. 202-268.
67
Exegesis. Problèmes de méthode et exercices de lecture, trad. it. op. cit., pagg. 53-79.
68
Le conflit des interprétations, trad. it. op. cit., pagg. 406-412.
69
Ivi, pagg. 457-473.
66
96
97
CAPITOLO III
UNA FILOSOFIA DAL PERCORSO BIBLICO
3.1 Ontologia spezzata
La profonda consonanza del pensiero filosofico e teologico di Ricoeur al
Nachdenken barthiano è suffragata dalla considerazione di due ambiti
d’indagine: l’uno, propriamente ermeneutico, permette di compiere con
maggiore dovizia l’oltrepassamento dei limiti strutturali dell’ermeneutica di
Bultmann; l’altro permette nondimeno di esplicitare le risorse ontologiche
insite nella linea di confronto vigente fra il percorso ricoeuriano e l’eredità
barthiana.
Lo spolvero novecentesco del paradigma paolino è tutto condensato
intorno al capitolo V del Römerbrief di Barth, in cui si concentrano tutte le
implicazioni filosofiche derivanti dall’attenzione prestata al celeberrimo
passo sulla giustificazione per fede. Il teologo svizzero, sulla scorta di
un’esegesi proposta da Julicher70, evidenzia con acume il carattere
rivoluzionario, e difficilmente riconducibile a delle precise formulazioni
dogmatiche, della locuzione “molto più”. Tale espressione, si lascia
intendere, racchiude un potenziale esplosivo in grado d’imporre una netta e
inequivocabile dicotomia fra il mondo e la grazia, per un verso, e le
conseguenti forme di pensiero implicate dai due termini dicotomici, per un
altro verso.
Inoltre, Barth sottolinea, in modo perentorio, che la diastasi che
intercorre fra l’azione di Adamo e l’azione di Cristo propone non un
dualismo metafisico, bensì una dialettica spezzata tutta interna all’essere del
mondo. A ulteriore conferma si aggiunga che attraverso una demitizzazione
delle figure di Adamo e Cristo, per il resto avviata dallo stesso Paolo e che
Ricoeur appronta per la prima volta in Finitude et culpabilité71, si evince
che il leitmotiv che tiene insieme la storia della salvezza (Adamo e Cristo
sono i poli imprescindibili di questa storia) non poggia su di una
corrispondenza logica (l’azione di Adamo è causa di quella di Cristo), ma su
di una corrispondenza tipologica, per dirla nei termini del metodo esegetico.
Vale a dire che Adamo è un archetipo che anticipa, senza presupporlo,
l’inatteso e l’impossibile, dunque Cristo non è un altro uomo, ma un uomo
che è altro rispetto al primo, che è nuovo rispetto al vecchio. Qui il
conoscere umano, indotto a pensare che tutto sia soggiacente a una logica di
equivalenza, del resto riconducibile a sprazzi a certe espressioni della
religione veterotestamentaria, deve ridimensionarsi drasticamente
e
compiere un atto d’ammissione nei riguardi dell’indisponibilità, tutta
umana, di una logica stringente e cogente che sappia dare contezza
dell’evento salvifico di per sé stesso.
Pur tuttavia, la diastasi implicata dalla sygkrisis Adamo/Cristo72, non
poggiando su di una misura comune alle due figure, fra loro inconciliabili,
non è una stasi: la via della salvezza passa attraverso l’inconsueto legame
fra il vecchio e il nuovo, giacché quello non preclude questo in virtù di una
logica debordante la stessa dicotomia, nel pieno rispetto, comunque, della
non reciprocità. Barth, e Ricoeur su questo punto lo riecheggia, vuole
individuare, nell’assenza di una logica di equivalenza o retribuzione nella
storia di salvezza, nello stesso tempo un elemento di rottura con la religione
delle fenomenologie e dell’antropologia e un elemento che apra la strada a
una conoscenza che si fondi soltanto sulla Rivelazione. Ne deriva la
100
conseguenza secondo la quale quest’ultima sarebbe l’unico criterio
disponibile per stabilire quale ente sia degno del sì di Dio (è il principio alla
base dell’elezione) e quale del suo no (è il principio alla base della
reiezione), giacché la logica del mondo, e per Paolo la stessa Legge
mosaica, da sola e nella sua esteriorità esula dallo stabilire le norme
dell’elezione divina. Si attesta, su questa linea, il pieno riconoscimento della
forza propulsiva della “crisi della fede” (la fede in quanto krisis), che è poi
la motivazione di fondo che anima per intero la struttura portante del
Römerbrief. Si delinea una considerazione della fede cristiana come forza
che è al contempo critica, poiché immersa nella storia di salvezza in cui
l’essere oscilla fra l’ente eletto e l’ente reietto; ma anche kerygmatica,
poiché la diastasi non è affatto sodale con la stasi.
Ne consegue che, ancora una volta va ribadito, la ricusazione netta e
decisa del sapere assoluto equivale ad ammettere a fortiori che il bene è un
assoluto in sé irrelato al male, a sua volta altrettanto assoluto in sé. Pertanto
non vi è una misura oppure una proporzione nel male in quanto prova del
bene; non vi è una misura oppure una proporzione nel bene in quanto
compensazione del male. Entrambe le forze, da sempre operanti nel mondo,
vanno direttamente rapportate a Dio in modo distinto e nella loro
singolarità. L’intento paolino, e sulla sua scia luterano-barthiano, è
primieramente quello di liberare il male, che è mistero dell’ostilità a Dio,
allo scopo di liberare il bene, che ha la propria scaturigine nell’azione
sovrabbondante di Dio. Da quest’ordine di idee e considerazioni si evince
una concezione tutta donativa e rivelativa alla base della locuzione “molto
più”, cosicché se ne trae la conclusione secondo cui in Barth ci si
collocherebbe lungi da una concezione in odore di manicheismo, ciò vale in
contrapposizione a quanto asserito da taluni teologi, specie gli assertori
dell’analogia entis, che ravvisano in Barth gli indizi di una sorta
d’insormontabile dualismo, anche metafisico, fra l’uomo e Dio.
Con Pareyson73 ci si può persuadere che nel Römerbrief non si celi
affatto alcun dualismo, semmai una peculiare forma di monismo, per la
101
precisione di monismo escatologico o ancora di monismo spezzato, a
suffragio del quale si può ricorrere a una plausibile interpretazione
ontologica dell’articolo barhiano Gott und das Nichtige (KD, III,3)74 e al
quale fa esplicito riferimento anche Ricoeur75.
Prima di entrare nel merito di tale testo è d’uopo intercettare una
categoria che faccia da cardine al discorso sull’essere di seguito esposto. La
categoria chiave, da spendere in vista di una maggiore chiarificazione di
questo monismo sui generis, è ben rappresentata dalla concezione del
mondo nuovo76 che funge da tema dominante del Capitolo V del
Römerbrief. Essa consente, in una certa maniera, d’imbastire un discorso
congeniale al piano ontologico, allorché nel paragrafo II del capitolo V tale
categoria teologica dà lo spunto per innescare una digressione dai risvolti
ampiamente filosofici e, in ragione dei quali, si determina una congiunzione
fra il rinnovamento dell’uomo e una visione d’insieme più incline a
coniugare il paradigma paolino con un’ermeneutica dell’escatologia e,
perché no, con un’ermeneutica dell’ontologia, secondo una linea direttrice
che viene seguita anche da Moltmann. Il fulcro della questione è costituito
dall’implicazione dell’éschaton (cifra emblematica del cosiddetto mondo
nuovo) nell’ambito del Verstehen ermeneutico. La prima e fondamentale
connotazione dell’éschaton è che noi non ne abbiamo conoscenza in alcun
modo e non ne possiamo presagire la reale portata se non attraverso il
simbolo. Tuttavia, lungi dal confinare quest’esperienza nell’antro oscuro del
misticismo, questa dimensione di novità sconvolge il modo di concepire il
nostro esistere nel mondo e lungo il tragitto della storia dell’umanità.
Inoltre, così come l’uomo vecchio e l’uomo nuovo non possono essere
giustapposti, allo stesso modo mondo vecchio e mondo nuovo non possono
esserlo altrettanto, a motivo del fatto che alla novitas delle “cose” che hanno
da essere (ta éschata) non compete affatto il ruolo di possibilità insita e
potenzialmente contenuta o presupposta dalle “cose di prima” (ta prota). La
polarità va derubricata in ragione del fatto che essa tende a ritenere
insuperabile la correlazione logica fra “primo” e “ultimo”, fra Adamo e
102
Cristo, fra bene e male, moltiplicandone paradossalmente, all’infinito e per
inerzia, le opposizioni e le contraddizioni aporetiche. La novitas non
dissolve affatto nell’unità la demarcazione netta del discrimine fra vecchio
mondo e nuovo mondo. La novitas è la cifra della dialettica brisé, anzi dello
spezzare la dialettica, in virtù della considerazione della grazia che sì
presuppone la natura, ma non già come sua causa naturale, bensì a motivo
della sua gloria.
In termini di un nuovo prospetto per l’ontologia, il monismo
escatologico di Barth rimane dualismo se non si consolidano le movenze
della sovrabbondanza (hyperperisseia), giacché il bene e il male, se posti
l’uno in corrispondenza all’altro, inducono a persistere nell’ambito di una
loro collocazione logica, così come di fatto accade nella teodicea. Invero, a
voler dare contezza della fallacia contenuta in quest’ultima dottrina,
confutando i lineamenti teorici dell’armonia prestabilita, che è poi
l’equivoco precipuo della teodicea leibniziana, si deduce che bene da una
parte e male dall’altra stridono a tal punto fra loro che s’innesca un processo
di graduale comprensione, secondo cui quanto più conosciamo il male tanto
più ne ravvisiamo la radicale difformità e lontananza abissale dal bene.
Pensando in siffatto modo, l’éschaton si configura progressivamente come
ultima conoscenza, come ultima ratio, estrema conoscenza dell’estrema
sovrabbondanza del bene e della grazia e s’impone non tanto come
risoluzione dialettica quanto come risposta in atto, se vogliamo a dispetto e
nonostante il male e la sofferenza. Dunque l’escatologia è conoscenza, a
scapito di una insormontabile indisponibilità alla ragione umana, della
dismisura del bene che non soppesa nessun male, ma inonda di sé il mondo
eccedendone la logica, mercé la totale cesura instaurata dall’azione salvifica
di Cristo.
Tutto ciò viene calato in relazione all’essere senza metafisica, inteso
come storia della ricerca di un senso ultimo e non come sostanza e
fondamento. Il monismo escatologico barthiano, recepito come prodromo
della ricoeuriana ontologie biblique, pone nel cuore della profezia del
103
mondo nuovo il dramma tutto mondano dell’essere, la cui condizione di
vanitas non è mera indeterminazione concettuale (l’essere è il più vuoto dei
concetti), bensì condizione di fragilità, di oscillazione senza conciliazione
fra il bene che non ha solidi presupposti ontologici (l’equivalenza
bene/essere contenuta nella formula omne ens est bonum qui non ha più
motivo di reggere) e il male che non è privazione e non ha niente di
metafisico. Pertanto la vanitas comporta il paradosso di una condizione che
sta al centro fra due pienezze (la perisseia del male e quella sovrabbondante
del bene).
Ciò nondimeno, si determina finanche un deciso oltrepassamento del
Dio causa efficiente del bene compensazione del male e causa efficiente del
male prova del bene, giacché in ragione del paradigma istituito dalla Lettera
ai Romani il kérygma annuncia Dio come principio inconcusso della cesura
e della sproporzione fra bene e male più che della loro regolamentazione.
Il dramma dell’essere viene denunciato da Barth, prontamente ripreso da
Ricoeur nel suo saggio Le mal, tramite la considerazione del Nichtige77 nella
sua onticità in quanto ente-no e non in quanto ni-ente: il male non è un nulla
metafisico che insidia da chissà quale remota regione l’essere; il male è una
realtà sostanziale, cioè una solida concrezione della negazione (ente-no),
anziché astratto momento negativo (ni-ente). Dunque una concrezione e non
già una negatività che si presti ai giochi e alle elucubrazioni della dialettica.
Ne sortisce la considerazione del carattere per nulla metafisico della
conoscenza imposta con il punto di vista escatologico sulle cose del mondo
in generale; escatologia vuol dire anche estirpazione del dualismo gnostico
che colloca il bene tutto da una parte e confina il male tutto da un’altra
parte. Il bene e il male si fronteggiano in ogni momento (senza la
differenziazione in momenti distinti della dialettica) nel continuum del
dramma dell’essere. Riguardo ancora alle implicazioni ontologiche del
dualismo gnostico, va ulteriormente ribadito che le considerazioni, sopra
prodotte, corroborano la teoria, che ha sempre accompagnato l’iter
filosofico di Ricoeur, della natura opzionale della metafisica, secondo cui
104
l’essere-sostanza contiene una sublimazione ipertrofica di un desiderio,
insieme arcaico e moderno, di persistenza che lo alieni dal feticcio del nonessere incarnato dal male. La peculiare e sfuggente natura delle
giustificazione senza condizione apre all’essere nuovo nella misura in cui
pone sull’essere vecchio uno sguardo disincantato e riconosce nel male non
la privazione di una sostanza, ma una piega oscura celata in ogni ente,
rendendo tensionale la natura dell’essere medesimo.
Pervenire a una seria considerazione filosofica del significato
dell’éschaton equivale, in ultima analisi, ad ammettere la presenza del male
in seno all’esistenza e all’essere, cagionando la visione di un’ontologia, così
come la rielabora Ricoeur, di stampo narrativo come storia della ricerca di
un senso ultimo, il che si accosta, in maniera congeniale, al sostrato
ontologico ricoeuriano che dice l’essere come predicato o verbo e non già
come sostanza o fondamento. In definitiva viene ripreso il convincimento
che supporta un’ontologia brisé determinata e attraversata dal conflitto
endogeno (ente-sì/ente-no) e dal conflitto esogeno (lo scontro fra
architetture di senso rivali), tutto questo costituisce l’assetto fondamentale
del discorso sull’essere intrapreso nel percorso filosofico del Nostro.
Tenendo conto di quanto delineato, si attesta il fatto che portare a
evidenza e a disamina il barthismo non troppo latente di Ricoeur permette
l’enucleazione di tale sottesa ontologia, così proficuamente intrisa di
contaminazioni con la storia delle idee, con le culture e con la religione. In
modo pregnante e sintetico questi elementi forniscono il senso profondo di
tutto il ricoeurismo, cioè di un pensiero filosofico che vive sulle frontiere
aperte e sconfinate del pensiero della profondità del bene.
Non pare del tutto peregrina l’ipotesi, fin qui sostenuta, della continuità
fra la concezione barthiana del mondo nuovo e il progetto ricoeuriano di
portare a compimento l’uscita dalla metafisica, della quale il topos del
mondo nuovo di Barth è, a detta di Ricoeur, una ben precisa figurazione. A
ben guardare è proprio in ragione di questo lascito che Ricoeur tenti la
strada di forgiare un’ermeneutica del mondo del testo biblico, tentativo che
105
si snoda a cavaliere fra gli anni ’70 e gli anni ’80. Come già s’è fatto cenno
in precedenza, è fin troppo chiaro quanto la categoria fondamentale
dell’ermeneutica ricoeuriana, ossia quella di essere nuovo, sia un’implicita
citazione del Römerbrief. Pertanto l’esplicazione critica dei punti di contatto
fra il topos barthiano del mondo nuovo e il topos ricoeuriano dell’essere
nuovo ci obbligano a scandagliare in che rapporto stiano la ontologia biblica
del filosofo di Valence e il monismo escatologico del teologo svizzero. Un
rapporto che appare in tutta la sua chiara imprescindibilità, tenendo nel
debito conto anche i vuoti lasciati dall’ermeneutica bultmanniana, tant’è che
Ricoeur stesso recepisce lo spirito della Entmythologisierung come una
forma di Nachdenken, che è poi incarnato appieno dalla necessità di
produrre una contro-sfida da opporre alle sfide del male.
Il male, con le sue aporie metafisiche, ontologiche e con lo sgomento
che provoca nell’animo umano, è recepito in forma filosofica alla stregua di
una sfida78 che non lasci scampo e non conceda quartiere al pensiero e alla
ricerca di un senso ultimo. Incalza allo stesso tempo e nel medesimo
riguardo le dottrine teologiche e il continuo fiorire delle filosofie di ogni
tempo, minacciandole incessantemente con il baratro del non-senso. Ricoeur
accetta la sfida alla filosofia e alla teologia e non intraprende la strada di una
facile risoluzione teorica e schematica, bensì quella più nobilmente teoretica
del penser plus79. Come già ampiamente descritto, egli cerca risorse in
grado di approvvigionare di continuo il pensiero e lo fa attingendo al mondo
biblico, a suo dire segnato in lungo e in largo dallo scandalo del male e dallo
scandalo, altrettanto sconcertante, di un bene a dispetto del male e di ogni
male.
Il male lancia la sua sfida congiuntamente al filosofo e al teologo ed
entrambi sono tenuti a pensare ancora e nonostante, lasciando che il loro
pensiero esprima e sprigioni tutto il proprio potenziale e tutta la propria
debolezza. Di fatto un tale atteggiamento ripercorre per sommi capi la forma
mentis neobarthiana da Mehl e da Thévenaz, allorché già fra le loro righe si
chiedeva alla teologia di farsi interrogare dalla Parola senza lo schematismo
106
dogmatico sedimentatosi nei secoli e alla filosofia di farsi interrogare ancora
dall’essere senza lo schematismo della metafisica. Prospettando, in
definitiva, una teologia da fare ancora che sappia uscire dalla teologia fatta
finora e una filosofia da fare ancora che sappia uscire dalla filosofia fatta
finora. Tali inderogabili esigenze hanno stimolato in Ricoeur la volontà di
addentrarsi sul versante filosofico fra le pieghe del linguaggio, conscio
dell’importanza di contribuire non tanto al costituirsi di una ontologia
ermeneutica (come avviene in Gadamer) quanto al delineare un’ermeneutica
dell’ontologia; mentre sul versante teologico di prodigarsi a vantaggio di
una maggiore comprensione esegetica del mondo del testo biblico. I due
versanti fanno da oggetto della ricoeuriana riflessione sul rapporto fra
ermeneutica filosofica (generale) ed ermeneutica biblica (regionale)80.
3.2 Dalla metafisica alla metafora
In linea del tutto generale, la presa di posizione ricoeuriana si assesta,
nell’ambito filosofico, in sintonia con quella che Greisch ha definito l’età
ermeneutica della ragione, profilando un’età ermeneutica dell’ontologia
volta al recupero della nozione di essere-verbo; mentre, nell’ambito
teologico, si assesta in sintonia con l’età ermeneutica della predicazione
della Parola volta al recupero dell’esegesi demitizzante.
La prima posizione lascia trapelare in che termini possa venire formulata
la contro-sfida della filosofia; la seconda posizione, da par suo, lascia
intravedere in che termini la teologia sia in grado di accogliere la medesima
sfida. Secondo il Nostro, il progetto di penser plus contempla un fronte
107
ermeneutico, con basi che poggiano su di un’epistemologia che faccia
proprie le istanze della spiegazione e della comprensione, e un fronte più
teoretico che consenta d’instaurare un circolo fra dimensione speculativa e
dimensione rivelativa. Ma soprattutto, e in maniera più incisiva, la controsfida ricoeuriana è mossa nei confronti della finitudine e della condizione di
potenziale sofferenza in cui si ritrova per intero l’umanità, in risposta a tale
inoppugnabile dato di fatto sia la teologia sia la filosofia devono saper
cogliere che la verità del cristianesimo non può essere esperita e pensata
mediante una dottrina, ma nella sua potenza evocativa che sfugge al
pensiero sistematico, al quale va contrapposto un pensiero debole che
seguiti a pensare “a dispetto” del male e a ispirare anche un’azione
profondamente radicata nella compassione “nonostante” la sofferenza81.
Entrambe le prospettive incarnano il proposito, che Ricoeur recepisce dagli
Scritti Sapienziali, di promuovere una operosa spiritualizzazione della
lamentazione come contropartita alle illusioni della teodicea.
A motivo della perspicua prevalenza di tali note dominanti dalla lettura
del Ricoeur successivo a Le conflit des interprétations si desume un
crescendo dell’interesse a tessere il canovaccio di un’ontologia tesa a
superare, come detto, gli schemi delle metafisica e dell’onto-teo-logia
medievale e moderna per far proprio il convincimento che il nommer Dieu82
non determini la previa assunzione di un fondamento (Grund) dell’essere
astratto, bensì la promessa di ritrovare nell’essere la storia di una speranza
(Hoffnung) capace di far pensare il bene nonostante tutto. Ciò si pone
stabilmente e creativamente nell’alveo del barthiano Nachdenken e lo fa
accogliendo coraggiosamente i rischi di elaborare un’ermeneutica
dell’ontologia, riproponendo cioè un pensiero post-metafisico e capace di ripensare l’essere nella novitas del mondo biblico (mondo nuovo/essere
nuovo). Il modello ermeneutico che se ne ricava è decisamente improntato a
rivalutare l’ermeneutica esistenziale del kérygma di Bultmann che, al di là
del superficiale debito contratto con Heidegger (come gli viene
rimproverato da Barth), racchiude in sé le stesse potenzialità speculative che
108
Ricoeur riconosce nel metodo barthiano della “sperimentazione” filosofica.
Entmythologisierung e Nachdenken delle dottrine teologiche e filosofiche,
presenti nella storia del pensiero occidentale, incrociano il proprio destino
sulla via di un’ermeneutica dell’ontologia, all’insegna dell’incremento di
senso che può sortire a loro beneficio dalla storia biblica dell’essere.
Pertanto assume contorni sempre nitidi il proposito di far sì che il
Nachdenken prenda forma e vita in una onto-teologia della salvezza
contrapposta alla struttura onto-teo-logica della metafisica. In sintesi, si
tratterebbe non soltanto di una confutazione tout court dell’onto-teo-logia in
quanto tale, ma soprattutto di una sua reinterpretazione alla luce di una
lucida comparazione con il percorso biblico della storia dell’essere,
notoriamente avviato con la teofania del Roveto ardente narrata in Esodo
3,14.
Ricoeur, a suo modo, lascia intendere che sia possibile ripercorrere la
scia barthiana del processo alla struttura onto-teo-logica della metafisica,
che è concentrata intorno alla confutazione della analogia entis, a tutto
vantaggio di un ritorno in auge, in ambito teologico e filosofico, del
concetto paolino di analogia fidei (Rm. 12,6). A tal fine, l’esplicazione
ermeneutica e filosofica del paradigma della giustificazione attende
all’esigenza di coniugare i risvolti ontologici dell’ermeneutica biblica, con il
chiaro progetto di tracciare un cammino alternativo al processo
heideggeriano all’onto-teo-logia, lasciando aperto un ampio spettro
d’interpretazioni nel cuore della relazione fra la nozione di essere e la
Rivelazione giudaico-cristiana, in virtù della concezione, tutta ricoeuriana,
dell’essere assunto non come fondamento dell’ente, bensì come racconto
che l’ente dà di sé (compiendo il passaggio dalla concezione sostanziale alla
concezione predicativa). In proposito emerge l’obiettivo di arricchire
l’ermeneutica dell’ontologia con l’applicatio del mondo del testo biblico in
ambito filosofico e per perseguire tale ambizioso fine l’impianto del
discorso ricoeuriano sull’essere narrato nella Bibbia conduce a una
biforcazione di metodo. Sono infatti due gli schemi interpretativi nei quali il
109
filosofo di Valence inscrive il nocciolo della questione ontologica: il metodo
della verità metaforica contrapposta alla verità metafisica (sviluppato negli
‘70)83 e il metodo della traduzione (sviluppato negli ultimi scritti) come
elemento di completamento dell’ermeneutica dei simboli inaugurata negli
anni ’60.
Orbene, per mezzo del primo metodo, viene elaborata una strategia che
verte sull’obiettivo di esplicitare le implicazioni ontologiche del mondo
della metafora, nel quale Ricoeur scorge i principi attivi di un vero pensiero
speculativo. Nel perseguire tale scopo il Nostro prende lo spunto dalla
critica, testé menzionata, che Barth muove accanitamente nei confronti della
analogia entis84. Lo studio delle conseguenze teologiche e filosofiche,
addivenute con la formulazione di tale dottrina, porta Ricoeur a rielaborare
una concettualizzazione dell’essere e delle metafora che per certi versi
riecheggiano il sentire del teologo svizzero.
L’analisi critica prende le mosse dal rilievo di un primo movimento
erroneo innescato, a giudizio di Ricoeur, dalla genesi scolastica di tale
dottrina analogica. Quest’ultima, infatti, avanza l’inveterata pretesa di
istituire una scienza di Dio e del dato rivelato (basti pensare, all’apice di
questo progetto, al concetto tomista di doctrina cristiana). Al colmo di tale
graduale laborioso processo Ricoeur pone il sempre crescente divario fra il
mondo della lectio e quello della quaestio, il quale incede al punto tale da
pervenire a una quasi totale prevalenza, negli ambienti scolastici, del
secondo sul primo. Colmare tale divario è lo scopo perseguito dal recupero
della natura squisitamente ermeneutica del fatto cristiano in sé. Scopo che,
come si cerca di dimostrare in queste pagine, riassume l’iter filosofico e
teologico del nostro autore di riferimento, stante a quanto scritto e teorizzato
negli anni ’90 con gli ultimi saggi d’ermeneutica biblica e soprattutto con la
stesura del libro, scritto a quattro mani con l’esegeta LaCocque, Thinking
biblically (1998). La dicotomia quaestio/lectio85 può essere tradotta in una
dialettica i cui termini sono la analogia entis e la analogia fidei; termini che
110
vengono estrapolati l’uno dall’altro mercé l’assunzione critica del
paradigma paolino e del mondo concettuale che ne deriva.
Ma il motivo dominante non risiede semplicemente ed esclusivamente
nel fatto che si voglia approdare a un pensiero proporzionato al contenuto
della fede, perché in fondo non emergerebbe nessuna differenza rispetto al
progetto di una filosofia cristiana, talché si tratta invece di porre una
proficua mediazione fra filosofia e Rivelazione in vista di una prospettiva
alternativa, nel qual caso ontologica. La analogia fidei è un’assunzione del
paradigma ed è pertanto interpretata come previa adozione di un parametro
in deciso contrasto con la petizione di principio della analogia entis, vale a
dire quella pertinente all’omne ens est bonum, in cui il male sta fuori e
sospeso come un nulla. Assodato che la hyperperisseia del paradigma
paolino sancisca la messa a fuoco decisa della dismisura che intercorre fra
bene e male, ne sortisce che anche la perisseia del male coinvolge
direttamente la realtà globale dell’essere, segnando lo sconfinamento
radicale della stessa realtà del male, pervasiva e giammai astratta. Proprio
questo parametro sfuggente e pregnante sta alla base dell’ontologia brisé
che condiziona in profondità il barthismo, il pensiero teologico-filosofico di
Ricoeur e tutte le espressioni che gravitano intorno a uno specifico modo
paolino di riflettere sulla teologia in generale e sulla questione del male e
della sofferenza in particolare.
Inoltre, la sovrapposizione fra questi due elementi, il paradigma della
hyperperisseia e l’ontologia spezzata, ingenera il processo ultimativo della
completa e irreversibile dissoluzione della teodicea, che si snoda attraverso
il farsi carico di una coscienza tragica (pensiero tragico nell’ontologia) che
mediante il concetto di sofferenza e di speranza estromette d’un sol colpo il
connubio analogia entis e teodicea. E ancora, colpendo un altro caposaldo
della analogia entis, ovvero la nozione centrale di partecipazione86 si
evincono conseguenze che ricadono su di un'altra nozione chiave della
teodicea, quella per intendersi della permissio. Per rendere più perspicua
questa consonanza dovrà dapprima chiarirsi in che termini il paradigma
111
paolino rimandi a una precisa ricusazione della nozione metafisica di
partecipazione. Lo stretto legame, intercorrente fra la analogia entis e
l’ontologia della partecipazione, rappresenta il nocciolo duro della
metafisica scolastica ed è d’uopo metterne a nudo l’inconsistenza biblica se
l’obiettivo che s’intende raggiungere ne contempla una netta e
inequivocabile stroncatura. In altre parole, Ricoeur colpisce al cuore la
metafisica scolastica allo scopo di rinverdire i riferimenti biblici di quella
che egli prefigura come la modalità più consona onde tenere insieme
analogia e Sacra Scrittura, ossia quella di verità metaforica a scapito di
quella di verità metafisica. In breve, si tratterà si salvare la analogia, in
quanto discorso in linea con la condizione d’indisponibilità della fede, e di
rigettare la specificazione entis.
La confutazione della nozione di partecipazione verte per intero sulla
cogenza di un solo inoppugnabile argomento, la kenosis di Cristo. La
nozione in oggetto è, da quello che se ne può sapere, in debito nei confronti
della concezione della imitatio. Questa è sorretta dal principio a primo ente
descendit87 secondo cui l’essere dell’ente, che partecipa dell’essere del
fondamento, imita il primo essere in conformità del grado gerarchico che gli
compete. Il fatto della kenosis fornisce il modello generale del
rovesciamento completo di quest’impostazione. In Cristo conosciamo di Dio
non già la natura, l’essenza o se si vuole l’essere, giacché essa con la Croce
ci appare svuotata e questo dato rivelato precede tutte le formulazioni
dogmatiche che con il Credo niceno-costantinopolitano suggellano la
dottrina della natura umano-divina del Figlio di Dio. Sicché l’azione
salvifica compie, per così dire, il tragitto inverso: è Cristo che imita, con
l’incarnazione (assumptio), la natura dell’ente-uomo; e così facendo, Egli si
svuota del proprio ente e incontra il nulla dell’ente da salvare, che non è e
non ha un vuoto metafisico, bensì è la condizione dell’umanità nel suo
essere ente-no dinanzi a Dio (qui erompe tutta la drammaticità del Nichtige
di Barth).
112
Dunque, questo nulla dell’uomo, che Cristo riconosce e redime, è la
cifra essenziale della condizione dell’ente dell’uomo drammaticamente
ambigua e oscillante fra l’ente-sì e l’ente-no (Nichtige), talché ne consegue,
come dura contropartita, una sorta di smarrimento metafisico, anzi di
smarrimento della metafisica, specie quella sulla quale è fondata ogni
dottrina facente capo alla analogia entis e all’ontologia della partecipazione.
Anche il concetto, fondamentale nella teodicea, di permissio rimane
sconvolto da questa sorta di rovesciamento: l’unica forma di permissione
del male che è dato conoscere alla luce della Scrittura è quella della Croce in
cui si manifesta l’amore del Padre che permette al Figlio di morire per il
peccatore. In questo modo soltanto la permissio della Croce si staglia come
discrimine assoluto nel bel mezzo dell’ontologia spezzata dalla elezione e
dalla reiezione.
L’unica forma plausibile di comunicazione fra l’uomo e Dio è costituita,
seguendo la scia barthiana vigente nel pensiero ricoeuriano, dal non afferire
al principio della partecipazione per imitazione. A motivo di quanto si
evince dal paradigma paolino si deve percorrere un’altra via analogica,
quella della fede e quella della rivelazione. In fondo si tratta di comprendere
che l’avversione barthiana nutrita nei confronti della analogia è dettata dalla
volontà di recuperare la dimensione più propria e la più fedele possibile del
discorso analogico e tale fine va perseguito sotto un profilo radicalmente
anti-metafisico, recependo il livello metaforico di tale discorso, in quanto
modello plausibile in cui attecchisce più agevolmente il leitmotiv che
attraversa la pluralità di linguaggi del mondo del testo biblico, ossia il
nommer Dieu. Mediante l’individuazione di tale motivo conduttore, Ricoeur
intende porre nel giusto risalto il carattere nello stesso tempo unitario e
sfuggente del topos del Nome nell’economia generale del linguaggio
utilizzato dai due Testamenti.
Il Nome-Dio è un catalizzatore del racconto i cui limiti si muovono e
mutano di continuo, la stessa risposta contenuta nella teofania sinaitica
(ehyeh aser ehyeh) segna l’inizio di un tragitto che l’uomo e Dio iniziano a
113
compiere insieme, ma del quale non è dato conoscere il punto terminale,
sempre in avanti, sempre sfuggente. Su questa base mobile, se condotta fino
alle sue estreme conseguenze, si snoda l’asse portante della ontologie
biblique in quanto ontologia narrativa. Narrativa perché racconto della
coabitazione, nella storia della salvezza (senza uno schema sistematico fra
finito e infinito), fra essere-uomo/essere-Dio.
In un certo qual modo, si vuole consolidare il discorso onto-biblico, nel
suo dare forma alla analogia fidei, come humus su cui far ripartire il
rapporto con la filosofia, non più reclutata come ancilla bensì,
capovolgendo le gerarchie implicite nella filosofia cristiana dal sapore
tomista, come limes, come terra di frontiera. Detto altrimenti, il recupero
della analogia deve e può passare attraverso l’ingaggio di un proficuo
dialogo con le risorse poetiche del linguaggio; deve e può passare attraverso
un raccontare l’essere aperto alle incursioni del raccontare Dio e ciò è in
larga parte consentito prendendo posizione dinanzi all’antitesi, posta
lucidamente in evidenza da Ricoeur, che si determina fra il modus
argumentativus e il modus symbolicus88.
Nell’un caso predomina la centralità della quaestio, quindi del porre la
questione veritativa nei termini della dimostrazione razionale in cui il testo
assolve il compito di una auctoritas suggellante, nell’altro caso predomina
l’urgenza della lectio, suffragando quindi il privilegio accordato a un
approccio più esegetico a scapito di un approccio più teologico e
speculativo, in cui, per farla breve, la Parola, anziché scompaginare le nostre
velleità, prima fra tutte quella del desiderio, si accomoda presso la
razionalità sistematica. In quest’ordine d’idee trova l’innesto migliore
l’utilizzo della metafora quale strumento d’espressione, poiché essa non è
sic et simpliciter una figura letteraria mutuata dal repertorio retorico, ma un
livello di discorso che dà pronta contezza dello spessore anche filosofico
della narrazione in generale e del racconto biblico in particolare. La
metafora concorre con il racconto a rendere l’idea di un discorso che è
mutamento e movimento continuo verso un punto mirato da lungi, ancorché
114
inatteso, ancorché indisponibile. Il Nome che pervade il mondo del testo
biblico è, per il Ricoeur degli anni ’70, che ha scoperto la metafora e sta
iniziando un laborioso studio sul racconto, il punto di fuga per antonomasia.
Il filo rosso che compone la trama del lavoro ricoeuriano sulla metafora
corre fra Metapher89 e La métaphore vive e segna la piena confluenza del
livello dell’enunciazione metaforica in sé e per sé con il prosieguo della
progettuale ermeneutica dell’ontologia; una tale struttura di metodo
consente la tematizzazione del cosiddetto pensiero-limite, argomento assai
ricorrente negli studi biblici ricoeuriani. Espressione che, al di là del suo
vago sentore jaspersiano, conduce direttamente a decifrare tutte le istanze
della metafora biblica intorno al nucleo della tensione viva e vigente fra il
linguaggio umano e la Rivelazione; tensione che non si concretizza tanto nei
termini di un’ispirazione quasi psicologica che rappresenta il dato rivelato
come infusione di verità nella mente dell’agiografo, quanto nella misura di
un orizzonte aperto di senso che ha sempre da essere costruito, delineato e
proposto alla storia degli uomini. Dalla nozione di Rivelazione Ricoeur
espunge ogni influsso psicologizzante e assume invece il carattere più
pregnante della cooperazione per la salvezza.
In definitiva, la linea addotta da Ricoeur può sintetizzarsi intorno alla
ricognizione delle espressioni-limite in vista di un’organica visione
d’insieme capeggiata dal progetto di qualificare il linguaggio biblico, quindi
la costituzione ermeneutica della fede giudaico-cristiana, come una forma
eminente di pensiero-limite. Sul piano squisitamente ontologico, tale
posizione configura una precisa alternativa teoretica nell’ambito del
famigerato processo all’onto-teo-logia: un’alternativa che caldeggia l’effetto
di soppiantare la struttura metafisica del discorso sull’essere con il modello
dell’enunciazione metaforica, secondo un livello di recezione della nozione
di essere non come sostanza bensì come verbo, come predicazione estrema.
L’analisi critica della analogia s’inscrive nell’ambito di due questioni
concentriche, focalizzate testualmente nella raccolta di saggi Metapher
(‘74), scritto con Jüngel, e nell’ottavo studio de La métaphore vive (‘75). Si
115
tratta, in larga misura, di dare le ragioni di una teoria filosofica del concetto
di “verità metaforica” contrapposta al concetto di “verità metafisica” e di
coordinare tale sforzo con la linea tracciata, insieme a Jüngel, in merito alle
possibilità d’interporre, nelle movenze del processo novecentesco all’ontoteo-logia, l’apporto delle scienze bibliche. Pertanto, è assai significativo il
fatto che Ricoeur contemporaneamente si prodighi, sul versante linguistico,
nella riconfigurazione delle implicazioni filosofiche e ontologiche della
metafora e, sul versante biblico, nell’approfondimento del parler Dieu nel
mondo del testo biblico e nelle sue implicazioni altrettanto ontologiche.
Tuttavia, si deve tenere in conto che sul finire degli anni ’90 il filosofo
di Valence progressivamente si scosta da questa linea comune a Jüngel,
poiché cresce in lui la consapevolezza che lo schema della metafora
perpetua, a suo modo, la tendenza a privilegiare un’impostazione per così
dire sistematica, mentre l’approdo ulteriore sarà quello di incrementare
sempre più il contatto con l’esegesi in quanto scienza non soltanto
dell’interpretazione ma anche della traduzione. Prima di considerare in che
misura si delinei tale svolta è d’uopo porre in disamina i limiti stessi
dell’enunciazione metaforica, così come viene focalizzata nell’ottavo studio
de La métaphore vive.
Se da un lato l’inquadramento della metafora, secondo la retorica
classica, prevede l’adozione del principio di sostituibilità, dettato peraltro da
esigenze il più delle volte estetiche (A al posto di B), da par suo Ricoeur ne
rivendica la funzione euristica, facendo capo alla natura copulativa
dell’essere in quanto predicato; in altri termini, si tratta di rinunciare alle
pretese identificative della banalizzazione della metafora (A=B) e di
addurne, di contro, il carattere di enunciato aperto: lo schema configurato da
Ricoeur prevede la formula A è come è B. Da queste coordinate viene fuori
che l’enunciazione metaforica è una proposizione biunivoca in cui non vi è
un soggetto e un predicato che confezionano l’enunciato, bensì due soggetti
e due predicati che ristrutturano l’enunciato. Parimenti si procederà secondo
una considerazione della referenza non più sotto i canoni della mera
116
descrizione ostensiva, ma secondo quelli dell’immaginazione. Nella
metafora ricoeuriana si assiste a una biforcazione della referenza, nel senso
che A dirà di B ciò che di B non si è ancora detto e B dirà di A ciò che di A
non si è ancora detto. Si potrebbe dire, in altre parole, che si è dinanzi a una
sorta di coniugazione relazionale che accosta due non-detti e in cui la copula
funge da flusso canalizzatore di nuovi modi per dire nuovamente i due
termini. In tal modo alla funzione descrittiva-ostensiva subentra a pieno
regime una funzione, per così dire, più speculativa, che abbia in sé un
margine di pensiero ancora e sempre da sviluppare.
La “metafora biblica”, che fa da matrice fondamentale di tutta la galassia
di espressioni-limite che costellano la Sacra Scittura, è secondo Ricoeur
forgiata su di una duplice proposizione: “Dio è colui che è”(Es. 3,14),
nell’Antico Testamento, e “Dio è amore” (1Gv. 4,8), nel Nuovo Testamento.
Nel ’92, con l’ultimo saggio di ermeneutica biblica dal titolo Da un
testamento all’altro, il filosofo di Valence mette in evidenza il predominio
esercitato dalla metafora nell’economia generale del mondo biblico.
Attraverso l’enunciazione metaforica Dio ed essere vengono accostati al
fine di modificarne le rispettive referenze primarie; il che significa che nella
dimensione metaforica che li coinvolge Dio diviene il punto di fuga
dell’essere o il terminale ultimo della storia dell’essere e, sul versante
opposto, l’essere diviene per Dio il luogo dell’incontro con la storia
dell’uomo. Valgono le medesime considerazioni anche nei confronti della
metafora neotestamentaria “Dio è amore”, giacché l’amore, dinanzi a Dio, si
qualifica in virtù dell’azione di Cristo che ne rivela le potenzialità sconfinate
e inaspettate, e Dio, dinanzi all’amore, rivolge la sua azione all’uomo e alla
sua storia. Gli enunciati metaforici lasciano intendere che occorre
trascendere la referenza meramente ostensiva, la quale avrebbe la pretesa di
dirci l’essenza dei termini della metafora: ciò che realmente ci dice la
metafora è l’intersecarsi continuo dei campi semantici o, se si vuole,
l’incrociarsi continuo del linguaggio di cui disponiamo con la realtà
annunciata di ciò di cui non disponiamo affatto.
117
In sintesi, la metaforicità del linguaggio, contenuto e utilizzato nel
mondo biblico, è una sorta di sospensione del baratro che separa l’uomo
dalla novità continua della Rivelazione giudaico-cristiana. In questi termini
e in questa misura è ravvisabile la diastasi fra le velleità della “verità
metafisica” e le feconde innovazioni della “verità metaforica”.
3.3 La sfida della traduzione all’ontologia
Occorre infine coordinare la portata reale di questi studi, sulla metafora e
sulla loro incidenza in ambito ontologico, con le fasi di pensiero dell’ultimo
Ricoeur, che uno studioso di spicco come Jervolino ha recentemente
definito il “filosofo della traduzione”90. Quest’ultimo esito, anche
nell’economia generale della ricostruzione del paradigma paolino, ricopre
un ruolo non indifferente, conferendo una dose di maggiore chiarezza ai
percorsi biblici dell’ontologia.
Lo schema della traduzione è in larga misura un vero e proprio modello
di pensiero che fa il paio con l’adozione del paradigma paolino, in quanto
giustifica l’opportunità di un confronto aperto con una logica altra, nel caso
specifico della sovrabbondanza (hyperperisseia), e con una lingua altra, è il
caso in esame, cioè dell’effetto del verbo ebraico ehyeh nella prospettiva di
dare un’impronta biblica all’ontologia intesa come storia dell’essere. La
traduzione si propone alla stregua di una cifra emblematica del filosofare
ricoeuriano nella sua interezza, la quale si profila, come si è più volte
ribadito, nei termini di un pensiero di frontiera fra l’istanza creativa della
dimensione speculativa della sfera filosofica tout court e l’istanza recettiva
118
richiesta della dimensione rivelativa del mondo giudaico e cristiano.
Dunque il paradigma paolino e la prospettiva di un’ontologia inscritta
nell’ambito della analogia fidei sono espressioni vive e concrete di questo
stare alla soglia della novità annunciata dalla Parola e sviscerata dalla
filosofia ermeneutica, pertanto è d’obbligo porre nel giusto rilievo lo sforzo,
prodigato negli anni da Ricoeur, di condurre presso di sé la logica e la
lingua della sapienza biblica del “nonostante”.
Ripercorrendo questa evoluzione si evince un passaggio fondamentale.
Negli anni ’70 prevale, nell’ottica generale del Ricoeur filosofo del
linguaggio, quale vero motivo conduttore di quell’epoca, lo schema della
metafora e delle sue esplicazioni filosofiche, senza dimenticare il notevole
influsso prodotto dal confronto e dalla collaborazione con Jüngel. Tuttavia
le posizioni sulle quali si attesta il pensiero ricoeuriano in quegli anni hanno
da essere reinterpretate alla luce di un sempre crescente interesse per
l’esegesi biblica, a scapito dell’impostazione un po’ più speculativa della
precedente teologia filosofica. L’elaborazione della teoria del mondo del
testo, e nel caso specifico del mondo del testo biblico, comporta l’esigenza
di approfondire e vivificare il contatto con il testo in sé; d’altro canto,
l’incremento del lavoro esegetico, favorito dal fecondo contatto con
esponenti della scuola di Chicago, primo fra tutti LaCocque, getta le basi
per l’elaborazione di uno schema nuovo e più accurato che impegnerà, come
accennato, l’ultimo Ricoeur sul fronte della nozione di traduzione91, intesa
sia come tecnica sia come forma mentis della suo pensiero a cavaliere fra
filosofia ermeneutica e teologia biblica92. Gettate le basi per fruire al meglio
di un più consolidato presupposto di natura filosofica ed esegetica, Ricoeur
profonde, negli anni ’80, le sue fatiche esegetiche in direzione di tale
presupposto e ne trae considerazioni sul piano metodico alle quali è d’uopo
ricorrere a piene mani, se si vuole, come nel caso della prospettiva generale
testé focalizzata, lasciare aperta una propaggine squisitamente ontologica
alla tesi finora esposta. Dunque non è del tutto marginale il ruolo di questo
aspetto per la verità poco valorizzato, ma che a ben guardare condiziona la
119
peculiare presa di posizione del Nostro nel merito della questione del
processo novecentesco alla onto-teo-logia.
Compiendo un lieve passo indietro, ci si dovrà soffermare con maggiore
attenzione allo snodo cruciale fra ermeneutica filosofica ed ermeneutica
biblica. Il carattere fortemente ontologico dell’ermeneutica, emerso nel
corso del Novecento filosofico, è vigente anche nell’ermeneutica biblica,
allorché le prerogative del kérygma lascino spazio aperto alla possibilità di
pensare l’esistenza in relazione alla categoria di essere nuovo. Tale assunto
basilare consente a Ricoeur di capovolgere, a suo modo, il rapporto
gerarchico fra le due ermeneutiche, laddove si è sempre ritenuta la prima
alla stregua di un’ermeneutica generale e la seconda come un’ermeneutica
regionale. Il cosiddetto essere nuovo pone in evidenza e concretizza
l’immissione della speranza cristiana nell’ambito del pensiero filosofico
esistenziale e ontologico in senso lato. Tuttavia l’operazione si compie
attraverso la coniugazione di due aspetti: in primo luogo la novità è
innanzitutto
quella
apportata
da
una
logica,
come
quella
della
sovrabbondanza della grazia, che è altra rispetto alle logiche della
metafisica e della teodicea; in secondo luogo la novità consiste anche nel
fornire il modello di un’apertura a una lingua altra, come quella dell’essere
ebraico, che può parlarsi ancora nella lingua filosofica dell’occidente che
comunque radica la propria grammatica ontologica tanto nel mondo greco
quanto nel mondo giudaico-cristiano.
La questione sui termini che impongono uno spiraglio all’indirizzo di
una lingua che dice altro dell’essere viene più accuratamente e
sistematicamente posta e analizzata nel saggio Dall’interpretazione alla
traduzione, contenuto nella raccolta scritta con LaCocque, Penser la Bible,
nel quale si fornisce la più chiara presa di posizione nel merito delle
questioni inerenti al rapporto fra il Nome biblico di Dio e la nozione
filosofica di essere. Il testo, oltre a essere corredato di una buona dose di
rimandi al mondo dell’esegesi biblica, determina anche un più preciso
inquadramento filosofico del rapporto fra il mondo concettuale della Sacra
120
Scrittura e le aporie dell’ontologia a partire da quell’evento del pensiero
occidentale che con Gilson si suole definire la métaphysique de l’Exode
(con l’esplicito riferimento testuale a Es. 3,14). Tale tematizzazione
concerne in modo eminente la disamina delle controversie legate al processo
della struttura onto-teo-logica della metafisica93. Nondimeno la questione
viene discussa, in queste pagine, in termini meno perentori nei confronti di
ciò che Ricoeur considera un ineludibile dato storico, vale a dire la
connotazione filosofica dell’essere e la sua correlazione con il Dio della
Rivelazione biblica. L’argomento ricoeuriano dà prova di una certa
elasticità; avendo cura di tenere per ferma la convinzione che non può
comunque essere saltata a pie’ pari tutta la storia della filosofia, egli tenta di
percorrere una via originale in seno al suddetto processo all’onto-teo-logia,
e lo fa affinché possa costituirsi una direttrice rispettosa al contempo
dell’eredità fornita dalle varie scuole e dell’incremento di senso ravvisabile
nella novità biblica. Il filosofo di Valence procede determinando un aspetto,
a suo modo di vedere, preliminare e significativo, il cui esito è quello di
concepire e recepire il carattere proficuo dello scarto, per certi versi
abissale, fra il campo semantico inerente al greco einai (e conseguentemente
al latino esse) e quello afferente all’ebraico ehyeh. Se è consentito farlo, va
da sé che alla onto-teo-logia subentra, per dirla con Von Balthasar, una sorta
di onto-teo-drammatica, ossia una ricognizione storica e concettuale del
connubio Deus/esse, alla base del pensiero occidentale, che non si consolida
soltanto su basi metafisiche ma, a detta di Ricoeur, su di una base più che
altro narrativa.
I punti cruciali dell’argomentazione avanzata nel saggio esegeticofilosofico, sulla traduzione del Nome proclamato nell’Esodo, possono essere
compendiati nel modo seguente. In primo luogo vanno evidenziati gli aspetti
critici che concernono un’impostazione classica, la quale com’è noto
propugna la piena associazione vigente nel connubio Deus/esse. Come si è
esposto sopra, quest’ultimo va destrutturato anche sulla base del carattere
metaforico dell’ontologia cristiana94. In secondo luogo Ricoeur non si sente
121
di sposare incondizionatamente la piena dissociazione fra Deus ed esse, così
come viene fatto nella contemporaneità post-metafisica da Heidegger a
Lévinas. A questo proposito l’argomentazione devia sulla considerazione
critica della causa efficiente di tale dissociazione, che deriverebbe dalla
nietzscheana “morte di Dio”95. Di fatto a morire sarebbero la metafisica e il
dio metafisico. Tuttavia Ricoeur non giustifica la connessione fra questo
evento del pensiero e la heideggeriana marginalizzazione del mondo biblico.
Quel che poi sorprende e che sovente non si pone nel giusto risalto è che,
secondo quanto sostiene il filosofo francese, in buona sostanza finanche la
“metafisica dell’Esodo” e la “filosofia cristiana” neotomista partecipano
anch’essi, e a loro modo, di questa marginalizzazione, anteponendo
all’esegesi del testo biblico un ricorso a esso più che altro dettato
dall’esigenza di avere il supporto di una auctoritas.
Orbene, alla dissoluzione della metafisica e alla conseguente
mortificazione della sua propaggine teistica subentrano talune alternative
che nel Novecento filosofico hanno fatto e continuano a fare scuola. Si tratta
della via etica lévinasiana, che di fatto dissolve il Nome Dio nella
dimensione dell’alterità orizzontale, e della via seguita da Marion, il quale
proponendo un Dio senza essere auspica un ritorno alla teologia apofatica,
sulla scorta della quale si afferma che di sensato su Dio si può soltanto dire
che è Amore96.
Ricoeur intende distanziarsi da entrambe le prospettive in virtù del fatto
che alla prima si può imputare l’accusa di non concedere nulla alla storia
dell’ontologia occidentale, mentre alla seconda s’imputa un’irricevibile e
non del tutto giustificabile cesura fra l’Antico Testamento (Es, 3,14) e il
Nuovo Testamento (1Gv. 4,8). Ponendo tali punti di vista sul piano
dell’equipollenza, il Nostro rigetta congiuntamente sia l’etica senza
ontologia di Lévinas sia l’apofasi senza esegesi di Marion. In questo modo
si tenta e si auspica un recupero dello spessore ontologico del mondo del
testo biblico, senza tuttavia indulgere alle varianti ideologiche che
condizionano la storia del connubio Deus/esse97. Ancora una volta va
122
ribadito che quest’ultimo, nell’ottica ricoeuriana, è non già uno schema
veritativo, bensì l’innesco di una storia e di una ricerca di senso. Nella
fattispecie la proclamazione giovannea, tanto cara a Marion, non giova alla
comprensione generale della storia salvifica (che connette e interconnette
Antico Testamento e Nuovo Testamento) se estrapolato e alienato
dall’aspetto metaforico che lo sorregge. Dunque un percorso ontologico
nell’esegesi biblica è possibile purché ciò avvenga sempre nell’ambito di
un’ontologia spezzata e di un’ontologia senza metafisica e difforme dalla
struttura onto-teo-logica. Ricomporre queste istanze equivale alla messa in
atto di un percorso che sappia far propria una sorta di coabitazione di
ontologia e logica della hyperperisseia. La traduzione del verbo essere
ebraico può consentire una proficua immissione del “molto più” nella storia
dell’essere. Mantenere vivo il contatto fra ontologia e hyperperisseia
consente anche e soprattutto di valersi di un cospicuo strato filosofico che
impedisca al pollô mallon di non scadere nell’irrazionalismo e nel
misticismo. In definitiva, il “molto più” dà forma e abita lo scarto fra
l’essere greco e l’essere ebraico98.
Lo scarto o il baratro fra i due campi semantici chiama in causa la
disomogeneità fra la referenza primaria del greco einai e quella, per certi
versi non del tutto esplorata, dell’ebraico ehyeh. La referenza ellenica è
incentrata sull’idea di presenza e verte sulle possibilità di poter disporre di
ciò che esiste, di ciò che è, se ciò non fosse verrebbe preclusa ogni
possibilità di conoscenza. Di contro la referenza semitica è incentrata
sull’idea di promessa (o di attestazione) e ciò è dato supporlo in virtù della
peculiare fraseologia alla base della Ur-theophanie sinaitica. In quanto la
reduplicazione della risposta ehyeh in ehyeh aser ehyeh lascia intendere che
non ci si trovi sic et simpliciter innanzi a un’evanescenza della presenza di
Dio, bensì al cospetto di una reiterazione che apre al tempo dell’attesa; si
potrebbe così tradurre: “Io ci sono/mi mostro quindi Io ci sono/mi mostro”.
Di primo acchito si pone all’attenzione un’apparente aspetto tautologico,
tuttavia, nel modo si pensare di questa lingua così remota eppure alla base
123
della nostra tradizione culturale, l’aspetto che si vuole esprimere è lo scarto
di tempo che la manifestazione di Dio, presso la storia d’Israele e presso la
storia dell’uomo, innesta nel tempo dell’uomo inabitato dalla speranza.
In altre parole, la traduzione del verbo ebraico concretizza e determina
l’esplicito ricorso a una scelta segnata dall’esigenza di condurre a sé
(tradurre) da lungi un significato estraneo che apra il discorso sull’essere
all’accoglienza di una promessa testimoniata nel mondo del testo biblico.
Inoltre si profila un motivo non trascurabile, se si vuole perseguire, in virtù
della disomogeneità delle referenze, una distanziazione della ousia dalla
para-ousia. L’operato del traduttore deve avere l’accortezza di saper
cogliere la differenza fra il già detto e il non ancora detto implicito nella
varietà di senso che può schiudersi dinanzi al testo; deve inoltre porgere la
giusta attenzione alla lettura dell’eccedenza del Nome rispetto al verbo e
rispetto a un’oggettività che trascende il desiderio d’essere e le pastoie della
metafisica.
Se è vero che la cosiddetta “metafisica dell’Esodo”, su cui si tenta
d’imperniare una “filosofia cristiana”, sia storicamente un punto d’inizio per
la riflessione filosofica tradizionale, sarà altrettanto vero, a detta del Nostro,
che Es. 3,14 può essere ricollocato, nel cuore pulsante della filosofia, sotto
due aspetti ancora non sufficientemente esauriti (e mai lo saranno): lo si può
considerare un punto di fuga del discorso sull’essere e lo si deve
contestualizzare come locus della voce del Roveto ardente, ovvero del grido
di dolore d’Israele, quindi dell’umanità intera, che imbrigliato fra le spine
della storia accoglie uno spirito di forza inestinguibile che arde sotto forma
di una speranza di giustizia e di un bene che è nonostante il male che è e che
attanaglia il mondo (secondo un Midrash che riscuote consensi anche nella
più recente esegesi cristiana). L’assunzione di questa lettura, se si vuole così
affine al paradigma paolino, rende in modo eminente l’idea di quale
direzione Ricoeur voglia imprimere alla sua ontologia biblica, ossia alla
storia dell’essere raccontata con la lingua della fedeltà e della speranza,
124
ossia con una lingua capace di esorbitare (con la logica della hyperperisseia)
dal dramma dell’essere spezzato fra il bene e il male.
Insomma, l’ermeneutica da sola non basta, nel senso che non di rado
l’interpretazione soggiace a una ideologia di sorta che ne preclude la
continuità nel tempo. Se l’ermeneutica è insieme interpretare e pensare deve
aprire uno spiraglio fra il mondo del testo e il mondo della lingua da cui il
medesimo testo proviene a noi, che ne accogliamo, quasi gratuitamente, le
istanze e la novità. Parimenti l’opzione di metodo che adduce la traduzione
come orizzonte per penser plus (e come concretizzazione del barthiano
Nachdenken)
incarna
lo
sbocco
finale
del
lungo
processo
di
désabsolutisation intrapreso in tempi non sospetti dal primo Ricoeur. Detto
in altri termini, gli albori del pensiero ricoeuriano hanno conservato fino alla
teorizzazione del metodo della traduzione il medesimo spirito di libertà da
ogni pretesa sistematica. E ancora, in fondo si è rinvenuto nella
hyperperisseia la legge fondamentale della de-assolutizzazione del rapporto
bene/male nell’essere e l’elemento di rottura esibito nei confronti di un’idea
di essere come totalità. Accogliere, nella prospettiva di un’ontologia plurale,
un’altra lingua dell’essere equivale a mantenere vivo questo proponimento e
questa idiosincrasia verso la totalizzazione. Ma di fatto ci si ritrova dinanzi
alla prospettiva che al contempo comporta una parziale rivalutazione dello
spirito dell’onto-teo-logia, non nella sua essenza strutturale, bensì nel suo
accordo con il tema immenso di comprendere l’essere per mezzo del Nome
di Dio e di accostare il mistero di Dio per mezzo della nostra esistenza, e
l’assunzione dello scarto, quasi aporetico che vige fra lingue diverse, come
occasione per esercitare la libertà del pensiero e la libertà d’introdurre la
dismisura della speranza.
In Ricoeur modellare una filosofia ermeneutica, secondo i dettami della
traduzione, equivale a insistere sul rifiuto dell’idea di totalità per anteporre
un’idea di accoglienza e apertura ed è in questi termini che si sviluppa e si
compie il suo esodo dalla metafisica. In altre parole, il verbo ebraico ehyeh è
assunto e tradotto come cifra del “molto più” paolino, conducendone, fino
125
alle estreme conseguenze, tutte le potenzialità finanche filosofiche. Va
inoltre considerato il fatto che esplicitamente il metodo della traduzione
consente di acuire il divario fra lo stesso Ricoeur e Heidegger nei termini di
una precisa contrapposizione polemica. Occorre evidenziare che il filosofo
di Valence è decisamente critico nei confronti della linea heideggeriana di
de-giudaizzazione, ovvero della marginalizzazione del mondo biblico e
della Sacra Scrittura.
L’ultimo Ricoeur non assurge a testimone di una nuova filosofia che
sappia rimettere al centro la natura veritativa del dato rivelato, come accade
invece nel neotomismo francese e italiano. L’ultimo Ricoeur propone una
nuova alleanza fra un pensiero filosofico mai concluso e le risorse, ancora
in larga parte inesplorate, celate nella radice biblica della cultura europea.
Si può dire del proponimento ricoeuriano, nella sua interezza, che esso è
depositario di una recondita analogia con quanto è rassegnato da Quinzio
per descrivere i tratti salienti del pensiero cristiano del Novecento: “si va
oggi a cercare il cristianesimo là dove è più lontano dal moderno, per le vie
traverse di gnosi, alchimie e simbolismi che ricompongono armonie perdute,
mentre il cristianesimo si può riconoscerlo solo nella modernità, la
modernità che la morte inghiotte, come l’abisso inghiotte chi osa fissarlo.”99
A tutto ciò Ricoeur ha dedicato studio ed energie, protendendo ogni
fibra del proprio filosofare alla strenua ricerca di una lingua che sapesse
raccontare il bene.
126
70
K. Barth, Der Römerbrief, trad. it., op. cit., pag. 155.
Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit., pagg. 533-547.
72
Ibidem.
73
L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Mursia, Milano 2004, pagg. 91-92.
74
K. Barth, Gott und das Nichtige, trad. it. Dio e il Niente, Morcelliana, Brescia 2003.
75
Le mal, op. cit., pagg. 226-228.
76
K. Barth, Der Römerbrief, trad. it., op. cit., pagg. 142-150.
77
Le mal, op. cit., pag. 233. Cfr. anche K. Barth, Gott und das Nichtige, trad. it., op. cit.,
pagg. 145-157.
78
Ivi, pagg. 112-113.
79
Le mal, op. cit., pag. 47-48.
80
Exegesis. Problèmes de méthode et exercices de lecture, trad. it. op. cit., pagg. 79-80.
81
Le mal, op. cit., pagg. 229-233.
82
Entre philosophie et theologie II: nommer Dieu, in Lectures 3, op. cit., pagg. 281305.
83
La métaphore vive, Editions du Seuil, Paris 1975, trad. it. La metafora viva, Jaca
Book, Milano 2001, pagg. 372-391.
84
Ivi, pagg. 359-366.
85 85
Thinking biblically, trad. it., op. cit., pagg. 336-342.
86
La métaphore vive, trad. it., op. cit., pag. 368-369.
87
Ivi, pag. 363.
88
Ivi, pag. 370.
89
P. Ricoeur, E. Jüngel, Metapher. Zur Hermeneutik religiöser Sprache, München
1974, trad. it., Dire Dio, Queriniana, Brescia 2005.
90
D. Jervolino, Introduzione a Ricoeur, Morcelliana, Brescia 2003, pagg. 66-76. Cfr.
anche, Id., Per una filosofia della traduzione, Morcelliana, Brescia 2008, pagg. 201-223.
91
La traduzione. Una sfida etica, Morcelliana, Brescia 2002.
92
Si fa riferimento al contenuto e all’impostazione del saggio Dall’interpretazione alla
traduzione, in Come pensa la Bibbia (trad. it. di Thinking biblically, op. cit.), pagg. 321348.
93
Ivi, pagg. 342-346.
94
Ivi, pagg. 342-343.
95
Ivi, pag. 344.
96
Ivi, pag. 345.
97
Ivi, pag. 346.
98
Ivi, pag. 347.
99
S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 2006, pag. 104.
71
127
128
APPENDICE
Paul Ricoeur
DA UN TESTAMENTO ALL’ALTRO
(trad. di Giovanni Todaro)
L’intento di questo saggio è quello di interpretare congiuntamente la
famosa proclamazione di Es. 3,14 “Io sono colui che sono” e quella di 1Gv
4,8 “Dio è amore”. Più precisamente intendo mostrare che la formula
giovannea diventa più significativa nel momento in cui viene interpretata
come un’estensione della formula ebraica. Proverò a dire, in conclusione,
quale arricchimento può ricavare una filosofia teologica (o una teologia
filosofica) da un tale accostamento apparentemente incongruo.
“IO SONO COLUI CHE SONO”
Suggerisco di procedere in più tappe nella direzione dell’enigmatica
proclamazione contenuta in Es. 3,14.
La prima tappa ci viene fornita dalla più breve di tutte le formule
ebraiche capaci di scuotere il primato dell’ontologia greca. Questa formula,
che gli esegeti designano con il termine “autopresentazione” o “autointroduzione” di Dio (Selbst-Vorstellung o Selbst-Verkündigung), si riduce a
questa: “Io [sono] Jahvé” (Lev. 18,5-21). Una formula leggermente diversa:
“Io [sono] Jahvé, il vostro Dio” – con l’aggettivo possessivo “vostro” –
aggiunge all’auto-introduzione una richiesta di riconoscimento. Come
confermato da ulteriori approfondimenti, non esiste alcuna asserzione
biblica che riguardi Dio in sé e per sé. Al contrario, proclamare il nome di
Dio ingenera immediatamente un doppio processo esplicativo, l’uno
narrativo, l’altro prescrittivo. “Sono io Jahvé, il tuo Dio che ti ha fatto uscire
dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altro Dio
all’infuori di me” (Es. 20, 2-3). La proposizione relativa di forma narrativa “Sono io che […] ti ho fatto uscire” – e il grande comandamento che segue
immediatamente costituiscono insieme ciò che si può chiamare la
denominazione predicativa di Dio, la quale esplica e manifesta il nome
puramente appellativo contenuto nella clausola dell’autopresentazione: “Io
[sono] Jahvé.”
La seconda tappa è introdotta attraverso il testo paradigmatico,
conosciuto, nella letteratura ebraica, sotto il titolo di Shema (Ascolta!):
“Ascolta Israele, Jahvé nostro Dio [è] uno solo” – oppure: “Jahvé nostro Dio
[è] il solo” (Dt. 6,4). Questa proclamazione, enunciata alla terza persona,
porta l’autopresentazione più lontano, verso il grande comandamento che la
segue, o che piuttosto la spiega: “Tu amerai Jahvé il tuo Dio con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze”. In entrambi i casi Jahvé e Israele –, viene formulata una rivendicazione esclusiva: così come
Jahvé è il solo a escludere gli altri dei, allo stesso modo l’amore umano
verso Dio esclude tutti gli altri oggetti d’amore. Si può anche discutere la
questione se tale proclamazione dell’Unico, piuttosto che dell’Uno, implichi
la non esistenza degli altri dei. L’accento, ci sembra, non cade sullo statuto
130
ontologico dell’idolo, bensì sul carattere “esclusivo” della fedeltà dovuta a
Jahvé.
La terza tappa è particolarmente disseminata di insidie. Essa ha come
posta in gioco l’implicazione ontologica dell’atto del discorso che proclama
il nome di Dio, sia nel modo appellativo sia nel modo predicativo. Infatti, si
può dire che né l’autopresentazione di Jahvé né lo Shema permettano di
distinguere tra essenza ed esistenza, nel senso dell’ontologia greca e
successivamente di quella scolastica. In tal modo l’autodichiarazione rinvia
all’auto-manifestazione. La proclamazione dell’unicità di Dio non si lascia
scomporre in due enunciati: in primo luogo, “Dio esiste”; in secondo luogo,
“Egli è uno [solo]”. I predicati etico-narrativi, che esplicano lo Shema,
equivalgono a un atto di fiducia nell’efficacia del nome senza alcuna
intermedia asserzione di esistenza. Questa doppia fiducia nell’efficacia
storica ed etica del nome rende superflua ogni asserzione che pretenda di
distinguersi dall’esistenza.
Detto ciò, che ne è della famosa proclamazione di Es. 3,14: Eyeh asher
eyeh, “Io sono colui che sono” (LXX: Ego eimi ho ôn; Vulg.: Ego sum qui
sum)? Non abbiamo forse qui a che fare con ciò che Étienne Gilson designa
come il nucleo della “metafisica biblica”? Dovremmo piuttosto aver cura di
non confondere troppo avventatamente l’ebraico eyeh (“Io sono”) con il
greco einai. Il semplice fatto che il verbo “essere” sia enunciato alla prima
persona del presente mette in guardia contro una tale assimilazione. È il
caso di ricordare che il passaggio dal mythos al logos è reso dai Greci sotto
l’egida dell’articolo neutro to (to sophron). Inoltre è soprattutto il peculiare
contesto di Es. 3,14 che deve essere preso in considerazione, cioè il racconto
della “vocazione di Mosè”, il quale appartiene a uno specifico genere
letterario, quello appunto dei “racconti di vocazione”.
Che ne è allora della pretenziosa “metafisica dell’Esodo”? Si può
oscillare tra un approccio puramente esegetico, secondo cui la cornice stessa
del racconto di vocazione impedisce di sopravvalutare e d’ipostatizzare il
triplice “Io sono”, culminante nel nome “Jahvé”, e un approccio più
131
teologico dove sarà sottolineata la stranezza di una risposta che sembra
eccedere rispetto al meccanismo delle domande e delle risposte, delle
obiezioni e delle rassicurazioni e nel cui ambito la proclamazione è inserita.
Tale eccedenza, posta in evidenza dal sottile crescendo dei tre eyeh, non
ingenera una situazione ermeneutica unica nel suo genere, ovvero l’apertura
del verbo “essere” a una pluralità di interpretazioni? Grazie a questa
eccedenza e a questa apertura, il significato di Es. 3,14 non può più essere
separato dalla storia dei suoi effetti, dalla sua Wirkungsgeischichte. In
quest’ottica, l’interpretazione tomista non è che una fra le tante, pur essendo
quella che ha modellato maggiormente la metafisica occidentale.
Certamente la questione non è quella di riscoprire una qualche perduta
univocità, la quale può non essere mai esistita, ma precisamente di
preservare la plurivocità, addirittura l’indeterminatezza (“Io sono cului che
sono” diviene in termini hegeliani una proposizione indeterminata), a
prescindere se tale plurivocità sia stata o meno interpretata dallo scrittore,
chiunque egli sia.
La meditazione filosofica innestata sull’Esodo (3,14) si arricchisce così
di opposte suggestioni. Se si insiste sullo sfondo narrativo del racconto di
vocazione, si inclinerà a negare la portata ontologica della formula, che si
manterrà nei limiti della dimensione etica di cui parla la nozione di
vocazione, l’Eyeh asher eyeh non mirerà che a una sottolineatura solenne
dell’autorità del mandante. Se, di contro, si sottolinea la stranezza di una
proclamazione che sembra oltrepassare i limiti del racconto classico di
vocazione, ci si sentirà tentati di esplorare la sovrabbondanza di senso
incontrata nella strana sequenza eyeh, eyeh, eyeh, Jahvé. Allora si aprirà a
una pluralità di interpretazioni oltre la chiusura dell’ontologia greca, ma
senza temere il rischio di una interpretazione sconcertante, vale a dire che la
risposta
di
Jahvé
è
una
non-risposta,
nella
quale
il
mistero
dell’inconoscibilità di Dio è preservato – la formula ha valore di enigma nel
contesto di un semplice racconto. Sennonché per uno spirito occidentale,
132
educato alla tradizione dell’ontologia greca, queste linee interpretative
sembreranno fra loro opposte.
“DIO È AMORE”
Nel passaggio dalla Bibbia ebraica al Nuovo Testamento è importante
evidenziare la continuità più che la discontinuità tra i due Testamenti. La
scelta della proclamazione giovannea: “Dio è amore” sembra suggerire che
la discontinuità prevalga sulla continuità. Ciò è manifesto in diversi modi.
Innanzitutto il contesto cristologico di questa asserzione è evidente: Dio ha
manifestato il suo amore identificandosi con l’uomo Gesù; l’amore esprime
allora quello che l’ultimo Barth, seguito in questo da E. Jüngel, chiama l’
”umanità di Dio”. In seguito, la teologia cristiana ha ipostatizzato il
processo di differenziazione e la re-identificazione parlando di Dio come
trino; ora la dottrina trinitaria non sembra forse contraddire lo Shema
ebraico: “Ascolta Israele, Jahvé il nostro Dio è uno [solo]” ?
Senza sottovalutare tale discontinuità, il mio proposito è di porre
l’accento su una nuova forma di continuità, capace di edificarsi proprio su
questa discontinuità.
Questa continuità di secondo grado tra “Dio è uno [solo]” e “Dio è
amore” può essere ricostruita in tre tappe.
Prima tappa: la continuità s’impone una prima volta se si legge la frase
“Dio è amore” come un enunciato metaforico. Questa interpretazione
metaforica non poggia sulla teoria aristotelica della metafora nominale, che
consiste nel dare a una cosa il nome di un’altra sulla base di qualche forma
di somiglianza fra le due. Intendo qui per “metafora” una predicazione
bizzarra a favore della quale una nuova attribuzione pertinente procede dal
crollo dell’attribuzione diretta, letterale e per nulla pertinente. La forza di
questa predicazione bizzarra risulta dal fatto che essa accresce il significato
133
tanto del soggetto quanto del predicato. Applichiamo questa idea alla frase
“Dio è amore”. Vedendo Dio come amore e l’amore come Dio, noi
pensiamo di più, sia a proposito di Dio che a proposito dell’amore. In che
cosa questo è in relazione con il nostro problema della continuità tra la
comprensione ebraica e la comprensione cristiana di Dio? Nella seguente
maniera: qualcosa che concerne Dio è presupposta nella posizione di Dio
come soggetto; e cos’altro bisogna presupporre se non che Dio è uno [solo],
tenuto conto delle narrazioni e delle legislazioni che contribuiscono alla
denominazione predicativa e, attraverso di essa, al nome appellativo Jahvé
(per non dire nulla di quello che profezie, inni, proverbi aggiungono alla
denominazione legislativa e narrativa)? Sì, tutto questo è posto nuovamente
nel soggetto Dio (è per questo che Pascal, il cristianissimo Pascal, ha potuto
invocare Dio come il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe).
È questo stesso Dio che ora è chiamato “amore”. Tale denominazione
implica che nella dottrina trinitaria “tre” non sostituisca semplicemente
l’unità numerica, e che nello Shema ebraico Dio non è numericamente uno,
ma l’oggetto esclusivo dell’amore: da cui la traduzione “Dio è il solo”
piuttosto che “Dio è uno”.
Simmetricamente, nella frase “Dio è amore”, tutto quello che abbiamo
precedentemente
compreso
o
precompresso
riguardo
all’amore
è
ugualmente posto, cambiato e preservato nella e per l’attribuzione a Dio.
Ciò che viene sostenuto, come ho provato a dire in un saggio dedicato alla
dialettica dell’amore e della giustizia, è il primato della logica della
sovrabbondanza che governa l’economia del dono, rispetto alla logica della
equivalenza, che regge la giustizia intesa come vendetta o legge del
taglione. Applicata a Dio, questa precomprensione della legge che governa
l’economia del dono, accresce e arricchisce la nostra comprensione
preliminare di Dio come il solo (o l’unico). La frase allora vuol dire ciò:
questo Dio, che voi conoscete già come Dio d’Israele e che richiede da voi
un amore esclusivo è lui stesso quest’amore esclusivo. Questo mutuo
accrescimento di significato tra Dio e l’amore ci autorizza a dire che, lungi
134
dall’essere abolita attraverso la frase “Dio è amore”, la proclamazione dello
Shema “Dio è il solo” è rilanciata a vantaggio di quest’incremento iconico
dei due termini fra loro. A conclusione di questa prima tappa,
l’interpretazione metaforica dell’espressione “Dio è amore” preserva il Dio
dell’ ”Io sono colui che sono” in seno allo stesso processo metaforico.
La seconda tappa, che va in direzione della lettura trinitaria e
cristologica, è svolta attraverso l’interpretazione dialettica dell’amore
stesso. Una tale interpretazione non si sostituisce certo a quella metaforica,
ma la sviluppa esplicandola. È il predicato “amore”, metaforicamente
applicato a Dio, che ora richiede una nuova interpretazione di tipo dialettico.
Alla soglia di questa seconda tappa sottolineo il mio debito riguardo a
Jüngel, in Dio mistero del mondo, e riguardo alla sua attenzione di
conservare qualcosa del tono hegeliano sulla transizione che conduce da una
comprensione iniziale dell’amore a ciò che si può chiamare una valutazione
pensante di cosa sia l’amore. Infatti, fino a quando si è solamente parlato
dell’economia del dono in termini di logica della sovrabbondanza, non si è
ancora detto ciò che conta: vale a dire che l’amore è abnegazione di sé verso
l’altro, che conferisce al sé iniziale una dimensione che non sarà possibile se
esso rimane solo con sé medesimo. Cito Jüngel: “A giudicare formalmente,
l’amore ci appare come evento di una sempre maggiore abnegazione di sé in
relazione a un sé a pieno titolo. A giudicare materialmente, l’amore è
compreso come l’unità della vita e della morte a vantaggio della vita”.
Questo enunciato, preso in se stesso, parla dell’amore senza attribuirlo
esplicitamente a Dio. Parla cioè dell’amore in sé, come nell’inno paolino di
1Cor. 13. A tal riguardo, non importa sapere chi è l’amante né chi è l’amato.
È solamente grazie all’attribuzione metaforica “Dio è amore” che lo
sviluppo dialettico dell’amore è attribuito a Dio, in un modo che è Dio
stesso, –parlando formalmente – questo rovesciamento della relazione a sé
nell’abnegazione di sé in vista di una più profonda relazione al sé e –
parlando materialmente – questa unità della vita e della morte a vantaggio
della vita.
135
Se c’è un punto in cui siamo lontani da Lévinas è proprio questo: un
iniziale rapporto al sé è presupposto attraverso l’abnegazione di sé, in vista
di un rinnovato rapporto al sé. Per Jüngel, la dialettica dell’amore trae la sua
forza da questa alternanza fra Abwendung (allontanamento) e Zuwendung
(avvicinamento). È ciò che Jüngel chiama “l’amore giudicato formalmente”.
Mentre lo è materialmente (nel senso di materia opposta alla forma) quando
la stessa cosa è detta nel vocabolario della vita e della morte: “l’evento
dell’unità della vita con la morte a vantaggio della vita”. In effetti, la figura
formale (l’abnegazione di sé in relazione a un sé a pieno titolo) prende in
qualche modo corpo allorché vita e morte sono affrontati non come contrari,
bensì come un unico cammino: dalla vita verso la vita attraverso la morte. A
questo proposito Jüngel richiama opportunamente S. Agostino, dicendo
dell’amore che esso fa venire in noi la morte (Sal. 121,12): Facit in nobis
quamdam mortem. A cui fa eco il Cantico dei cantici: “l’amore è forte come
la morte” (8,6). Pertanto, una fenomenologia dell’amore può nello stesso
tempo arrivare a riconoscere che la sofferenza dell’amore non è di non
amare abbastanza, ma di soffrire della propria impotenza dinanzi a ciò che
non è lui stesso; che non tutto sia amore, ecco ciò di cui soffre l’amore. È
questa fenomenologia dialettica dell’amore, se così la si può definire, che
l’enunciato metaforico “Dio è amore” implica con il predicato “amore” in
quanto attribuito a Dio. Ma il Dio, di cui si dice che sia l’amore, è lo stesso
Dio d’Israele reinterpretato alla luce di questo nuovo e complesso predicato.
Qui a Dio vengono contemporaneamente trasferite sia la struttura formale
sia la struttura materiale della dialettica dell’amore. Parlando formalmente
“Dio si differenzia in quanto egli ama se stesso” o meglio: “egli ama un
altro e in tal modo è e resta sé stesso”. Parlando materialmente, Dio non è
ancora amore finché non è il Dio sofferente e morente. Ciò può essere inteso
come la precomprensione – il Vorgriff, per dirla come Karl Rahner – del
Dio trino, una bozza della dottrina classica della trinità “immanente”.
L’ultima tappa riguarda l’asserzione cristologica che si riferisce all’uomo
Gesù, in cui Dio stesso si è identificato, al fine di effettuare storicamente
136
l’auto-esplicazione metaforica e dialettica che Dio è in sé stesso. Un nuovo
passo nell’interpretazione è qui operato verso quella che si può chiamare
interpretazione
narrativa
della
frase
“Dio
è
amore”.
Tuttavia
l’interpretazione narrativa non si comprende da sola, ma si deve
congiungere all’interpretazione dialettica, la quale a sua volta sviluppa
l’interpretazione metaforica, che resta la base. Dunque bisogna seguire
l’intero percorso: inizialmente il Dio uno/solo è metaforicamente amore. Ed
è così nella misura in cui l’amore è l’unione della vita e della morte a
vantaggio della vita. Infine, l’amore non è una tale unione che nell’evento
storico della Croce, secondo la simbolica cristiana.
Che una componente narrativa sia essenziale al senso dell’amore lo
desumiamo anche da una certa precomprensione nella vita quotidiana.
Parlare dell’amore è raccontare una storia d’amore. La narrazione sviluppa
la dimensione temporale, storica e già storicamente legata, se si può osare
dirlo alla storia dell’Esodo e alla storia drammatica delle relazioni
dell’Alleanza di Dio con il suo popolo. Ricordiamolo: la denominazione
predicativa di Jahvé è insieme prescrittiva e narrativa. In questo senso Dio si
lascia raccontare: questa è una delle maniere di dire che è rivelato, che è
aperto (Offenber), e non interamente inconoscibile, ma ben conosciuto nelle
storie ove egli stesso è invischiato. La peculiarità dei racconti evangelici è di
esemplificare in modo narrativo la dialettica della vita e della morte a
vantaggio della vita. A questo riguardo, il genere letterario del Vangelo è
costituito tramite lo sviluppo narrativo di un breve kerygma, in attesa di uno
sviluppo narrativo: “Egli è morto, è stato sepolto, è resuscitato ed è stato
visto da molti”. In questo senso i racconti evangelici possono essere
considerati come “racconti interpretativi” in virtù della struttura dialettica
dell’amore, in cui il kerygma dice metaforicamente chi è Dio. Così,
attraverso l’interpretazione metaforica e l’interpretazione dialettica, è la
stessa narrazione che assicura il pieno sviluppo della formula “Dio è
amore”. Nei Vangeli questa preoccupazione di raccontare ha assunto la
forma specifica evidenziata da Weinrich: vale a dire che Gesù, il narratore
137
delle parabole, diviene il narratore raccontato del Vangelo; sicché egli stesso
diviene la parabola raccontata di Dio. Ma questa formula abbreviata
diventerebbe ingannevole se l’interpretazione narrativa della formula “Dio è
amore” non rientrasse nell’economia dell’interpretazione dialettica, che
unisce la vita alla morte in seno all’amore, e dell’interpretazione metaforica,
che attribuisce bizzarramente l’amore a Dio.
Vorrei, per concludere, trarre alcune considerazioni finali da questo
esercizio di ermeneutica biblica, inquadrata nella prospettiva di una filosofia
teologica o di una teologia filosofica.
Ho innanzitutto avuto costantemente in animo la polarità su cui si edifica
la filosofia hegeliana della religione, cioè la coppia Vorstellung/Denken, che
traduco con “pensiero figurativo”/”pensiero concettuale” o “speculativo”.
Per Hegel la religione, ivi compresa la “religione compiuta” (Vollendete) del
libro III della Filosofia della religione, resta figurativa in tutto e per tutto,
fin nelle sue elaborazioni dogmatiche e fondamentalmente trinitarie. È alla
filosofia del pensiero concettuale che spetta di chiarire ciò che anche per la
teologia rimane figurato. Emerge, dalle interpretazioni proposte a proposito
di Es. 3,14 e 1Gv. 4,8, che il modo speculativo di pensare non è imposto dal
di fuori ad affermazioni che rimangono pur sempre figurate, ma che è già
costitutivo di quella che si potrebbe indicare come una intrinseca
dimensione sapienziale.
Riguardo all’aspetto dichiaratamente “figurato” della coppia considerata,
occorre slegarlo dalla nozione d’immagine per ricollegarlo piuttosto a quella
di gioco linguistico, nel senso desunto da Wittgenstein. Sono qui in gioco
tre campi d’indagine. Innanzitutto quello degli atti linguistici, propriamente
detti, e utilizzati nella proclamazione del nome di Dio: invocazione, lode,
lamentazione e interrogazione; di seguito abbiamo quello delle forme
retoriche, per la precisione quello dei tropi: metafora, metonimia,
sineddoche, ironia; infine quello dei principali generi letterari applicati ai
testi biblici: racconti, comandamenti, profezie, inni e proverbi. Presi
insieme, atti linguistici, tropi e generi letterari contribuiscono alla
138
proclamazione del nome di Dio. Una tale conseguenza è offerta dalla
nozione hegeliana di rappresentazione. Tutte le frasi considerate in questo
studio, da “Io sono Jahvé” fino a “Dio è amore”, possono essere inserite in
ciascuna di queste tre rubriche.
La tesi che mi sembra risultare, dall’interpretazione delle frasi chiave
prese in considerazione, è che un autentico pensiero speculativo è già
implicito nella proclamazione del nome di Dio. Quello che, nella prima
parte, ho chiamato il “passaggio dal nome appellativo al nome predicativo”,
sotto la duplice forma narrativa (Io sono Jahvè che ho fatto tutto) e
prescrittiva (Tu non avrai altro Dio all’infuori di me) costituisce una vera
esplicazione del Nome e innesca così un processo speculativo che si può
seguire dicendo: 1) che il Dio d’Israele è un Dio relazionale, di cui nulla si
sa se non all’interno delle relazioni Dio/uomo, Dio/popolo, Dio/mondo; 2)
che questa relazione comporta un momento critico, di cui si è conosciuto il
segno nelle “obiezioni di Mosè alla chiamata” e che si esprime pienamente
nella lamentazione, nel pianto, nell’accusa dei Salmi, per esplodere
letteralmente nella polemica di Giobbe.
Quanto alla proclamazione del nome di Dio, inclusa nella enunciazione
giovannea, essa sviluppa al proprio interno un movimento speculativo che si
articola sulla base di quello inaugurato da Es. 3,14, nella misura in cui il Dio
uno/solo della Bibbia ebraica può essere ritenuto il soggetto grammaticale
della frase “Dio è amore”, nell’interpretazione metaforica che ne è stata
proposta.
Il
movimento
speculativo
prosegue
nel
passaggio
all’interpretazione dialettica e all’interpretazione narrativa; e potrebbe
essere prolungato sulla base dell’espressione “Gesù parabola di Dio”,
tramite una riproposizione della vecchia querelle sull’analogia secondo
Jüngel (la più grande dissomiglianza in seno a una tanto grande
somiglianza). Sarà così confermata l’unione del piano figurativo col piano
speculativo nel discorso cristiano, prima dei grandi risvolti teologici
conciliari.
139
Un secondo campo d’indagine sarà quello dell’ontologia biblica. Ci si
sposterà qui al seguito di un’altra querelle, non più quella della polarità
rappresentazione/concetto, ma in quella dell’onto-teologia, inaugurata da
Heidegger e risolta, come è noto, da Lévinas, mediante la rottura tra
pensiero dell’Altro e pensiero dell’Essere. Le interpretazioni alternative che
abbiamo considerato, a partire dal celebre “Io sono colui che sono”, fanno
posto all’ipotesi di una ontologia sui generis, in cui il verbo “essere”: 1) è
sempre pronunciato con una persona grammaticale, a partire dall’ “Io sono”;
2)
preserva
una
insuperabile
plurivocità,
fino
alla
frontiera
dell’inconoscibilità divina; 3) vieta di separare manifestazione del sé, in un
senso che si può ancora dire ontologico, e ingiunzione, in un senso
schiettamente etico.
Se è vero che la frase “Dio è amore” può essere ritenuta come uno
sviluppo interpretativo della frase “Io sono colui che sono”, allora
l’asserzione, ontologicamente sui generis di Es. 3,14, si trova contenuta e
ripresa nella frase giovannea. A essa si aggiunge, in primo luogo, ciò che si
potrebbe chiamare l’ “essere come” dell’interpretazione metaforica, vale a
dire una modalità specificamente rilevante la verità metaforica. Da questo
momento in poi, se si è potuto scrivere “Dio è amore”, mettendo l’accento
sul predicato, si è anche potuto scrivere “Dio è amore”, per affermare che lo
è
veramente.
È
questa
veemenza
ontologica
che
si
comunica
all’interpretazione dialettica. Secondo un’espressione forte di E. Jüngel:
“Dio è l’evento dell’unità della vita e della morte a vantaggio della vita”.
Dio è questo movimento dialettico. Quanto all’interpretazione narrativa,
essa inscrive, nella dimensione storica dell’evento, l’essere metaforico e
dialettico, senza che sia mai richiesta una versione greca del verbo “essere”.
Nell’espressione “Dio è amore” non si dovranno distinguere due asserzioni:
1) Dio esiste; 2) Dio esiste come amore. Questa scomposizione è
caratteristica di una ontologia nella quale è possibile appunto distinguere
l’essenza dall’esistenza e dunque inferire o meno l’essenza dall’esistenza. È
140
lo stesso amore che, in Dio, si manifesta, in qualche modo, in un unico
plesso come sorgente di manifestazione e sorgente d’ingiunzione.
141
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* Per una bibliografia ancora più ricca e dettagliata si segnala il sito
www.fondsricoeur.fr
148
INDICE
INTRODUZIONE
Una filosofia devant Dieu
5
CAPITOLO I
Una filosofia senza assoluto
1.1 Approdi aperti
17
1.2 Preludio filosofico e teologico
23
1.3 Radicalità del cristianesimo
32
CAPITOLO II
Una filosofia a dispetto del male
2.1 Dentro e oltre la Simbolica del male
51
2.2 Ermeneutica filosofica del paradigma paolino
63
2.3 Nel cuore della teologia dialettica
84
CAPITOLO III
Una filosofia dal percorso biblico
3.1 Ontologia spezzata
99
3.2 Dalla metafisica alla metafora
107
3.3 La sfida della traduzione all’ontologia
118
APPENDICE
Paul Ricoeur, Da un Testamento all’altro
129
BIBLIOGRAFIA
143
149
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