UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO DIPARTIMENTO FIERI - AGLAIA DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA IL BENE MOLTO PIU’ DEL MALE IL PARADIGMA PAOLINO DELLA GIUSTIFICAZIONE NELLA FILOSOFIA DI PAUL RICOEUR Tesi di dottorato di Giovanni Todaro Tutor Prof. Giuseppe Modica Coordinatore Prof. Leonardo Samonà 2011 XXII CICLO SETTORE SCIENTIFICO DISCIPLINARE M-FIL/03 2 Non enim cogitationes meae, cogitationes vestrae ISAIAS 55,8 4 INTRODUZIONE UNA FILOSOFIA DEVANT DIEU Fra i maggiori studiosi del pensiero di Ricoeur si distingue per acume e precisione Jean Greisch. Da pochi anni egli ha portato a compimento un progetto di vaste proporzioni sulle correnti e gli autori che si sono prodigati nell’ambito della filosofia della religione1. Non sembra del tutto fuori luogo ricordare che tale ponderosa opera si concluda con un lungo capitolo consacrato proprio alla disamina del lavoro ricoeuriano2. Secondo quanto sostenuto da Greisch la disciplina filosofica che studia la religione ha seguito un tragitto che si snoda lungo tutto il percorso del pensiero moderno fino a calcare i tratti fondamentali della rivoluzione ermeneutica della filosofia del Novecento. Greisch ha definito questo evento della storia della filosofia come “l’età ermeneutica della ragione”. Inoltre constata che il cosiddetto paradigma ermeneutico può e deve essere eletto a modello utile per caratterizzare compiutamente l’approdo ultimo della filosofia novecentesca e in particolare della filosofia della religione. Tale esito ha consentito di andare oltre le difficoltà insorte con la nozione di esperienza religiosa, vagheggiata in vario modo nelle correnti della riscoperta del sacro, aprendo la strada a una più accurata messa a fuoco del fatto religioso come dimensione implicante una mediazione con i testi che ne raccolgono principi, dettami e testimonianze. In altri termini, la rielaborazione filosofica della teoria generale dell’interpretazione ha giovato a una collocazione di prestigio di quei testi che, in un modo o nell’altro, nel bene e nel male, da secoli condizionano e informano di sé la cultura occidentale. A Greisch va sicuramente ascritto il merito di aver ricostruito con acribia e dovizia di particolari l’itinerario filosofico ricoeuriano. Tuttavia il susseguirsi dei paragrafi fornisce al lettore nulla più che una dettagliata periodizzazione del percorso seguito negli anni da Ricoeur. Pertanto è doveroso segnalarne un punto carente nella messa a fuoco di una ratio profonda e costante, che possa imporsi al contempo sia nella veste di leitmotiv predominante sia come tema elettivo. Dunque è indubbio che tale lavoro non possa addivenire al pieno compimento senza che vi sia stabilita un’ulteriore integrazione, finalizzata al rinvenimento di una trama sottesa nell’ordito variegato della filosofia ricoeuriana della religione. Sebbene nella ricostruzione critica greischiana non manchi affatto la determinazione di una struttura portante, che si sorregge giustamente sulla base di un nucleo tematico prevalente, ossia quello della Simbolica del male, non pare del tutto esplicata la ragione che rende il pensiero ricoeuriano peculiare e unitario da cima a fondo. Nell’ambito di una considerazione di carattere formale questa ratio risiede nella continuità del riferimento alle fonti bibliche della cultura occidentale, innegabilmente intrisa di cristianesimo. Ma la mera tematizzazione della radice giudaico-cristiana, del resto elemento assai evidente, non è bastevole ai fini di una più accurata delucidazione della proposta ricoeuriana e del suo aspetto più squisitamente tetico. È d’uopo rendere conto del contenuto effettivo di tali motivi ispiratori, se di fatto si 6 vuole entrare nel merito della ratio paradigmatica delle filosofia della religione e della filosofia ricoeuriana nella sua interezza. Quel che qui si sostiene vuole indirizzare l’attenzione su una costante scritturistica, relativa al ricorso alla Lettera ai Romani di Paolo, che affiora nei punti più nevralgici del lavoro svolto da Ricoeur nel corso degli anni e che impronta le fasi più salienti e decisive della Simbolica del male. La ricorrenza della dottrina paolina della giustificazione, che di Romani è il perno inamovibile, autorizza alla recezione di tale fonte nei termini di un autentico modello unitario del pensiero filosofico-religioso ricoeuriano. Al fine di motivare il ruolo assunto dal paradigma paolino della giustificazione, nell’economia generale della filosofia di Ricoeur, non dovranno essere tralasciate le coordinate fondamentali che ne propiziano la comparsa. Va innanzitutto chiarito un aspetto preliminare non indifferente: la Simbolica del male, che oltre a costituire un corpus di opere rappresenta un motivo conduttore, segna uno spartiacque. Vale a dire che il tragitto filosofico in esame vi entra in un modo e ne esce per certi versi radicalmente mutato. Avendo in animo di concepire una compiuta filosofia della volontà, il Nostro scopre con grande sconcerto che le aporie suscitate dalla questione del male nel mondo non sono per natura inclini al concetto, pertanto il loro imperversare induce il filosofo di Valence a smettere gli strumenti della dialettica e ad avallare un inevitabile ricorso alla sfera dei simboli religiosi. Dinanzi alla disfatta del concetto il pensiero filosofico ne esce malconcio, tuttavia l’interpretazione dei simboli, mercé l’ascesa della Simbolica del male a scapito della filosofia della volontà, può ancora garantire un margine di senso e di rielaborazione filosofica delle grandi questioni del bene e del male. In un certo senso il ricorso all’ermeneutica è indispensabile alla finalità di ridare vigore alla filosofia, la quale, sotto il cumulo delle macerie del Novecento, è in procinto di finire irrimediabilmente sotto scacco. A ragione si può ritenere Ricoeur il filosofo che incarni appieno tale temperie storica e filosofica. 7 In proposito può giovare un’ulteriore considerazione a margine dell’intento greischiano, volto a qualificare la filosofia di Ricoeur come massima espressione del paradigma ermeneutico della filosofia della religione. La filosofia ermeneutica ricoeuriana non propone di per sé un paradigma monolitico e predominante nell’ambito della teoria generale dell’interpretazione, questo può valere in una certa misura per Heidegger e per Gadamer: il filosofo di Valence concepisce il mondo ermeneutico come costellato da una pluralità di paradigmi in perenne conflitto fra loro. La considerazione critica del simbolo religioso, approntata da Ricoeur, non indugia né sul paradigma psicoanalitico né su quello strutturalista e antropologico, né rievoca quello della hegeliana fenomenologia dello spirito, né tantomeno insiste su quello dell’ontologia del linguaggio di tipo gadameriano. Il simbolo chiama in causa risorse altre, se si vuole dirimerne la complessità intrinseca. Queste risorse devono essere pre-filosofiche, nel senso che devono spingere il discorso fino al punto in cui la filosofia da sola non basta e inevitabile si fa l’approdo a ciò che i testi, specie quelli biblici, dicono senza il filtro ideologico di una determinata concezione filosofica. Ricoeur recepisce nel suo pensiero la giustificazione paolina non soltanto a motivo di una sentita e personale adesione alla formazione protestante che l’accompagna, ma a maggior ragione in virtù della scoperta di una logica nuova e indisponibile, che dinanzi allo scandalo del male non si prodiga nell’insano scopo di collocare razionalmente il dolore e la sofferenza, ma ricostruisce un senso a dispetto di tutto e testimonia che da secoli l’uomo occidentale ripone le proprie speranze in un bene a dispetto del male; in un bene che è “molto più” dello sgomento suscitato dal male. Il cuore pulsante della Simbolica del male permette di entrare in vivo contatto con quanto di ancora valido, a detta di Ricoeur, si celi nel kérygma. Tanto è determinante da indurre il filosofo di Valence a dichiarare senza reticenze di sorta la piena estromissione di ogni tentativo volto alla restaurazione della teodicea. Dinanzi alla questione del male e delle sue aporie metafisiche la 8 più valente alternativa è rappresentata dalla riscoperta esegetica della Parola, considerata dallo stesso Ricoeur come un miracolo a cui il logos può e deve prestare orecchio. Quanto detto è sufficiente a collocare il pensiero ricoeuriano su di una linea che si discosta notevolmente dalla corrente neotomista della “filosofia cristiana” novecentesca e ciò va segnalato per rimarcare l’originalità del contributo fornito, nei primi anni di scrittura, al movimento gravitante intorno alla rivista Esprit. Una contestualizzazione preliminare del pensiero ricoeuriano che voglia giovare a una maggiore comprensione degli scritti e degli articoli del periodo di collaborazione, con la rivista fondata da Mounier, permette di lumeggiare, in prima istanza, gli esordi ricoeuriani e, in seconda istanza, la genesi delle movenze di fondo sulle quali poggiano le fasi successive. Tali prove s’immettono a buon diritto nel solco di una corrente filosofica e teologica che gravita intorno alla Kierkegaard renaissance e alla riproposizione del pensiero barthiano in seno al coevo dibattito francese su filosofia e cristianesimo. In particolare, si deve imporre all’attenzione la corrispondenza con due figure che hanno influenzato non poco il giovane Ricoeur. Si tratta invero di Pierre Thévenaz e di Roger Mehl, i quali più di tutti hanno saputo intepretare lo spitito che anima il neobarthismo francese. Attraverso un accurato approccio ermeneutico rivolto agli scritti di tali pensatori3, Ricouer dichiara e configura gradualmente la propria posizione in merito al rapporto fra filosofia e fede cristiana, propugnando le ragioni che lo inducono, in via definitiva e senza alcuna reticenza, all’abiura della “filosofia cristiana” promossa negli ambienti del neotomismo francese. La consonanza con il pensiero di Mehl si esplica nei termini di un confronto fra le nozioni di metafisica e di Rivelazione, ponendo le premesse per una rielaborazione quasi congiunta dei due ambiti. Se da un lato la filosofia può ridare respiro ai contenuti della fede, attraverso una critica del dato rivelato inteso come 9 una prospettiva radicale e in continuo mutamento, dall’altro la teologia, specie quella protestante, può contribuire, in modo significativo, a smascherare il dogmatismo della tradizione metafisica. In altri termini, Ricoeur inizia ad assumere un habitus intellettuale che ne farà, negli anni successivi, un filosofo pronto ad accostare, senza per questo confonderli, la radicalità della fede protestante e la libertà critica della filosofia. Più decisivo e duraturo è il riscontro di quanto ereditato da Thévenaz. Il punto di maggiore adesione alla filosofia thévenaziana consiste nella sostanziale ripresa del metodo della désabsolutisation. La concessione fatta a tale concetto permette a Ricoeur di trovare, nel cuore della filosofia di quegli anni, gli strumenti più incisivi e il lessico più adeguato per addivenire a una più compiuta cognizione delle aporie dei sistemi di pensiero che tentano la via di un sapere pretenziosamente assoluto. A partire da questi primi punti di contatto si può avvalorare la tesi che anche la filosofia ricoeuriana, nella sua globalità e nella sua intrinseca complessità, calchi quasi fedelmente le orme della “filosofia senza assoluto” di Thévenaz. Pertanto, non si potrebbe avviare una puntuale e diligente ricognizione della formazione filosofica di Ricoeur, qualora se ne omettessero inopinatamente le motivazioni giovanili, così profondamente imbevute di teologia filosofica, ma anche radicalmente distanti da ogni dogmatismo di sorta. A ragione si deve dunque ritenere che nel novero delle opzioni fondamentali della filosofia ricoeuriana la “filosofia senza assoluto” di Thévenaz divenga cifra emblematica e predominante dell’arduo tentativo di recuperare, sul piano filosofico, le più innovative e rivoluzionarie istanze della teologia dialettica di Barth. In sintesi, sono due le caratteristiche che di sé informano tutto l’impianto filosofico-teologico dei primi scritti ricoeuriani: in primo luogo la destituzione perentoria d’ogni espressione filosofica che non sia in grado di travalicare i limiti dell’auto-referenzialità (su tutte le filosofie cartesiana ed hegeliana) e che con estrema difficoltà riescono a imbastire un proficuo dialogo con le scienze umane emergenti nel 10 novecento filosofico; in secondo luogo una coraggiosa tematizzazione del problema del male non più alla luce dei vacui tentativi della teodicea, ma alla luce di una via più esegetica, ispirata in larga misura alla teologia dialettica di Barth e alla dottrina della grazia ivi sostenuta. Alla considerazione critica e ricostruttiva dei motivi preliminari del pensiero ricoeuriano deve subentrare anche una fase di ulteriore approfondimento, in cui occorre sbozzare la concreta portata filosofica e teologica di quanto testé ravvisato. Pertanto s’intende focalizzare, in modo più sistematico, lo stretto legame che intercorre fra i motivi conduttori dell’ermeneutica ricoeuriana dei simboli del male e il paradigma paolino della giustificazione, fulcro centrale della tesi che qui s’intende sostenere, nonché chiave di volta dell’itinerario filosofico e teologico di Ricoeur. Tali motivi possono riassumersi nel progetto di ricavare, dalla Lettera ai Romani, non tanto un’esegesi fine a sé stessa quanto la matrice di una filosofia della speranza sorretta da quella che lo stesso Ricoeur ha battezzato come la “logica della sovrabbondanza”. Si tratta della hyperperisseia paolina che riassume la stessa dottrina della giustificazione contenuta nel passo, estrapolato da Rm. 5,12-21, in cui si fa menzione della grazia che agisce “molto più” del peccato. In altri termini, si vuol dimostrare che l’influsso paolino, mediato dalla tradizione luterana, non è per nulla occasionale, bensì intimamente strutturale e imprescindibile ai fini di una comprensione unitaria del pensiero ricoeuriano, il quale, in modo del tutto originale, sposa le provocazioni scaturite dalla lettura filosofica del Römerbrief di Barth e ne fa le premesse per introdurre un criterio di confronto polemico con la teodicea e la struttura onto-teo-logica della metafisica occidentale. Per Ricoeur, la costituzione di una più completa teoria della logica della sovrabbondanza equivale alla preparazione di una filosofia del male e del bene che sappia farsi carico dell’indisponibilità, tutta umana, di una logica che dia le ragioni metafisiche dello scandalo del male nel mondo. 11 L’articolazione di cotale impegno deve essere provvista di un’analisi testuale che entri nel merito di quei passi del saggio De l’interprétation. Essai sur Freud (1965) e soprattutto della parte nevralgica degli studi raccolti nel volume Le conflit des interprétations (1969) che attestano, in maniera inequivocabile, l’incorporazione di tale paradigma nell’ermeneutica della Simbolica del male. Un aspetto per nulla secondario riguarda appunto anche una linea di confronto con Barth, qui ritenuto a ragione ispiratore principe di tali presupposti. Ma un ruolo altrettanto significativo lo riveste anche l’influenza dell’ermeneutica demitizzante di Bultmann. A questa fase va assegnato il fine di fornire un’argomentazione incentrata sulla proposta di ritenere il contributo ricoeuriano all’ermeneutica biblica in una posizione di equidistanza critica fra i due grandi teologi del Novecento. Dal confronto con l’ermeneutica bultmanniana, con le sue implicazioni esistenzialistiche, e l’ermeneutica barthiana, che lascia intendere, con la nozione di Nachdenken, che il testo biblico possa essere foriero d’implicazioni anche di carattere anti-metafisico, emerge con evidente scalpore la necessità di ricondurre il tema del male nell’ambito più generale e meno agevole dell’essere. Ricoeur, non disponendo di una metafisica, poiché ne ritiene le ragioni profondamente inficiate da motivazioni opzionali (è il tema ricorrente nella filosofia riflessiva francese del désir d’être) e da istanze gnostiche (contenute nella pretesa di poter costituire un sapere assoluto dell’essere come totalità), delinea a partire dagli anni ’70 fino agli inizi dei ‘90, con i suoi Essais d’herméneutique biblique, la possibilità di circoscrivere un’ontologia biblica che faccia da tramite fra l’ambito speculativo e le conquiste dell’esegesi moderna. Infine, si propone una ricognizione aperta sulle implicazioni e le diramazioni squisitamente teoretiche conseguenti all’identificazione del paradigma paolino come presupposto costante per una sempre incipiente ontologie biblique. Per la verità, questo topos presente nell’ultimo Ricoeur non ha i crismi di un’ontologia in senso stretto: se ne deve pertanto 12 assumere il carattere critico e per nulla sistematico alla stregua di uno schema aperto volto, più che altro, a porre in evidenza le aporie delle ontologie in senso stretto, qualora, s’intende, esse vengano rapportate al mondo del testo biblico. L’articolazione interna dell’ultimo capitolo si muove lungo due linee principali di sviluppo che convergono verso un obiettivo comune, quello di determinare, attraverso l’assunzione paradigmatica della tradizione protestante, un processo alla struttura onto-teo-logica della metafisica radicalmente alternativo alla proposta heideggeriana, contestata a motivo di quella che Ricoeur stesso chiama un’ingiustificata marginalizzazione della tradizione giudaico-cristiana. La prima linea di sviluppo si preoccupa di centrare i risvolti filosofici innescati con la nozione tutta ricoeuriana di “verità metaforica”, sulla quale si fonda un’ontologia narrativa indipendente dalla tradizione metafisica, specie quella che sorregge la teoria teologica della analogia entis punta di diamante del filone scolastico e neotomista dell’onto-teo-logia. Sulla scorta non soltanto dell’eredità barthiana, ma anche dei frutti scaturiti dalla collaborazione con Jüngel, il pensiero ricoeuriano promuove una concezione dell’ontologia quale racconto dell’essere, il quale contempla l’evoluzione di tale nozione da sostanza e fondamento a narrazione plurale della ricerca di un senso ultimo, nella quale affluisce anche il contributo del linguaggio religioso. La seconda linea di sviluppo si preoccupa invece di riprendere un legame con l’ultimo Ricoeur, quello impegnato sul fronte di una teologia più esegetica e di una filosofia della traduzione. Il riferimento testuale più significativo chiama in causa i saggi raccolti nel volume, scritto con l’esegeta André LaCocque, Penser la Bible del 1998. Il contributo del lavoro del traduttore viene recepito come emblema del lavoro ermeneutico tout court, in quanto l’interpretazione, oltre a perseguire il fine della 13 applicazione del contenuto del testo, deve avere cura di rispettarne l’intenzionalità originaria e la lingua che ne ha visto il primo concepimento. Tale convincimento va a suffragare l’intento di ovviare al tentativo heideggeriano di de-giudaizzare il pensiero filosofico occidentale, attraverso la riproposizione del campo semantico implicato dal verbo ebraico ehyeh, soprattutto nell’accezione richiamata nel passo di Es. 3,14, il quale, oltre a essere universalmente noto come la teofania del Roveto ardente, determina la base scritturistica di quella che Gilson ha definito la “metafisica dell’Esodo”, matrice originaria del modello filosofico dell’onto-teo-logia. Pur ammettendone una certa plausibilità, perlomeno sul piano storicofilosofico, Ricoeur scorge nella traduzione dell’ebraico ehyeh con il greco einai uno scarto di significato proficuamente aporetico. Invero il campo semantico semitico (legato all’idea di un’azione nel tempo) trabocca i limiti referenziali del campo semantico ellenico (legato all’idea di una verità epistemica) e lo fa perché depositario di una sovrabbondanza (hyperperisseia) di senso che non pone una mera relazione di causalità Dio/mondo, bensì una relazione fondata su un incontro, fra l’essere fragile dell’uomo e l’essere ineffabile di Dio, che renda decifrabile una storia della speranza quale segno di un bene nonostante le cadute e le sofferenze, dunque di un bene “molto più” del male. Nella prospettiva di avanzare una formulazione sintetica, che risponda alla necessità di comporre le articolazioni interne della ratio filosofica e teologica di Ricoeur, si deve tenere in gran conto quanto questi ha affermato in un frammento postumo recentemente dato alla stampe, nel quale lo stesso si autodefinisce “un cristiano d’espressione filosofica”4. Così dicendo egli intende ribadire che il modo più congruo di professare la propria fede, senza per questo rinunciare all’ambito circoscritto della pratica filosofica, è quello di pensare senza un assoluto autoreferenziale e di avere fino in fondo il coraggio di filosofare devant Dieu. Pensare di più e pensare davanti a Dio costituiscono la somma della filosofia ricoeuriana. Una filosofia che prenda 14 spunto dall’insopprimibile esigenza di trovare un senso dinanzi allo scandalo del male e della sofferenza. Una filosofia che deve entrare disarmata nel cuore della questione più spinosa del pensiero novecentesco, se vuole mantenere viva la vocazione umana al bene nonostante il male. Secondo quanto si è accennato la désabsolutisation costituisce la pars destruens della riflessione ricoeuriana, mentre nella riappropriazione filosofica del “molto più” di Paolo si condensa la pars construens di tale riflessione. A tali opzioni di metodo va conferito il fine di pensare una filosofia in grado di rinunciare all’assoluto e alla metafisica, per poter approdare all’esito di riscoprire le risorse che scaturirebbero da una rifondazione della speranza cristiana, sia in ambito ontologico sia in ambito morale e spirituale. Il devant Dieu, proposto e descritto con enfasi da Thévenaz, è il primo passo per una nuova determinazione filosofica della questione del male e del bene al di fuori delle pastoie e delle insidie della teodicea, considerata alla stregua del più colossale inganno del pensiero filosofico moderno e non solo. La convinzione che sorregge il filosofo che si decide per un pensiero debole devant Dieu risiede nel fatto che se è vero che la questione di Dio implichi inevitabilmente la questione del male nel mondo è altrettanto plausibile che la fede nel Dio biblico, la fedeltà accordata al Dio cristiano e la fiducia in questo medesimo Dio comportino al contempo la rinuncia a una collocazione razionale del male e un’apertura incondizionata alla sorgente di una salvezza anch’essa incondizionata, così come descritta e narrata nella dottrina paolina della giustificazione. 15 1 J. Greisch, Le buisson ardent et les lumières de la riason, Éditions du Cerf, Paris 2004. J. Greisch, Les arrhes de l’espérance. L’herméneutique de la religion entre la critique et la conviction. Paul Ricoeur, ivi pagg. 735-919. 3 La condition du philosophe crétien (1948) e, Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz (1956) in Lectures 3, Éditions du Seuil, Paris 1994. 4 Vivant jusqu’à la mort. Suivi de Fragments, Éditions du Seuil, Paris 2007, trad. it. Vivo fino alla morte, Effatà, Torino 2008, pag. 90. 2 16 CAPITOLO I UNA FILOSOFIA SENZA ASSOLUTO 1.1 Approdi aperti Sul finire dei suoi lunghi anni di ricerca e di scrittura, Paul Ricoeur (19132005), sollecitato in questo dai suoi discepoli, provava a dotare la propria poliedrica filosofia di un testo che in veste di compendio desse prova dell’unitarietà dei suoi studi. Nel 1990, con la stesura di Soi-même comme un autre,5 è parso ai molti che tale scopo venisse tutto sommato adempiuto, ancorché lo stesso autore chiosasse il volume con un capitolo ben nutrito d’interrogativi tutt’altro che fugati. In esso ci si chiedeva, infatti, verso quale ontologia potessero indirizzarsi gli studi e i molteplici stimoli del suo filosofare. Per la verità, il ponderoso volume Soi-même comme un autre, oltre a voler coordinare tutte le vie percorse negli anni (riflessione sulla natura del soggetto attraverso l’approccio semantico, l’approccio etico, l’approccio narrativo e fenomenologico-ermeneutico), tentava finanche una scaltrita teoresi di stampo ontologico e, con molta acribia, lo faceva forgiando, sulla base della dialettica idem/ipse, un’ermeneutica del sé. Fin qui nulla da eccepire; sennonché, nel tentativo di dettare a posteriori una linea che colga nell’insieme spirito e motivi conduttori della filosofia ricoeuriana, risulterà determinante e assai più proficuo un parziale ridimensionamento della prospettiva critica più consolidata che ritiene l’ontologia del sé l’approdo ultimo e definitivo del percorso ricoeuriano6. Precostituire un approccio sulla falsa riga di tale consueta impostazione comporterebbe la messa da canto di una vastità di prospettive ben radicate nell’universo filosofico e ontologico ricoeuriano. Una vastità che, affiancata alla congerie di saggi e articoli sul mondo biblico, dà la contezza di un mai domo interesse per le sorti del dibattito, di cui lo stesso Ricoeur è stato un assiduo protagonista, sui rapporti, che da sempre intercorrono fra pensiero filosofico e tradizione culturale ebraico-cristiana, centrati sulla questione essere/Dio (ontologia/teologia). In ragione di questo sfondo, si proverà a caldeggiare la possibilità di sbozzare un topos meno esplorato della filosofia di Ricoeur, quello della ontologia biblica prospettato a margine degli Essais d’herméneutique biblique7 e lo si farà esplicando i presupposti squisitamente teologici che informano il paradigma carsico del pensiero elaborato negli anni dal filosofo di Valence. Alla direzione seguita e sintetizzata in Soi-même comme un autre, s’intenderà affiancare e prospettare questa strada finora poco battuta. Per far ciò si dovrà proseguire sviluppando primieramente due punti. In primo luogo, occorrerà delineare una serie di riferimenti testuali che risponda all’esigenza di collocare con maggiore dovizia le coordinate di tale percorso alternativo; in secondo luogo, occorrerà individuare una serie di motivi, categorie concettuali e temi attinenti al quadro d’insieme che ha da prodursi. In merito al primo punto è agevole individuare già in Soi-même comme un autre un esplicito rimando a quegli studi che lo stesso Ricoeur definisce di frontiera, ovvero i saggi raccolti in Lectures 3. Tale gruppo di scritti fornisce ulteriori e utili elementi per caratterizzare una periodizzazione del percorso profilato. Grossomodo si possono individuare tre momenti, in stretta connessione fra loro: un periodo giovanile, nel quale Ricoeur si muove nell’ambito del neobarthismo francese, siamo sul finire degli anni ’40 e negli anni ’50, una lunga fase intermedia che inquadra l’impegno di 18 Ricoeur, soprattutto negli anni ’60 e ’70, intorno ai motivi e ai temi dell’ermeneutica e della filosofia del linguaggio (incentrata sullo studio della metafora e del racconto) e un periodo più maturo, che copre un arco temporale che corre dagli anni ’80 agli anni ’90 e nel quale, come si tenterà di dimostrare, pervengono a una maggiore chiarificazione i temi che avranno da essere enucleati. Mediante l’intreccio fra questi tre periodi della filosofia ricoeuriana, si può evincere una certa unità di fondo che si consolida sul tema del rapporto incrociato fra la nozione filosofica di essere e quella teologica di Dio, al di là degli schemi scolastici e neotomistici predominanti nella “filosofia cristiana” francese della prima metà del ‘900. In un certo qual modo si può e si deve rinvenire, nelle pieghe di tale legame fondamentale, una costitutiva tendenza a emancipare la nozione di essere dalla speculazione metafisica e la nozione di Dio dalla teologia dogmatica. Peraltro, il solco filosofico-teologico prospettato, se rimanesse saldamente ancorato alla sola ontologia del sé, si dissolverebbe, secondo la stessa ammissione rassegnata da Ricoeur,8 e non darebbe ragione anche del lavoro sulla decostruzione della colpevolezza umana (dagli anni ’50 agli anni ’60 e concentrata intorno alla Simbolica del male) che rappresenta di fatto il nucleo tematico originario sia del progetto di un’antropologia fondamentale sia della filosofia ermeneutica della religione di Ricoeur e della quale si rende necessaria un’ulteriore caratterizzazione. E ancora, dal primo periodo ricaviamo taluni temi dominanti che fungono da cardini sui quali fa perno il successivo sviluppo dell’ontologia dinanzi alla questione del rapporto Dio/essere, sviluppo che sfocia nel volume Thinking biblically (1998)9, autentica espressione del tentativo di coniugare speculazione filosofica ed esercizio esegetico. Tali elementi, che si raccolgono intorno alla formulazione di un processo di désabsolutisation, secondo un’ispirazione tratta dall’approccio al pensiero del filosofo protestante Pierre Thévenaz, vanno sotto il segno di una filosofia che nutre nei confronti dell’ontologia un atteggiamento generale e fondamentale cospicuamente affine alle movenze della filosofia 19 dell’essere di Marcel; filosofo, quest’ultimo, con il quale Ricoeur ha lungamente intrattenuto un dialogo fruttuoso. Dalla focalizzazione di tale rapporto si possono apprendere le note dominanti delle movenze marceliane recepite dalla filosofia ricoeuriana. Innanzitutto l’oscurità del termine essere determina una radicata convinzione secondo la quale questa parola tanto inflazionata non può ricondurre a una scienza tout court, in quanto scaturigine di una storia che attraversa, a fasi alterne, la parabola temporale della filosofia nella sua variegata interezza. Quindi non c’è scienza dell’essere ma storia dell’essere. Questa, in estrema sintesi, la formula basilare che dà il senso della recondita radice marceliana della filosofia di Ricoeur. Detto altrimenti, viene assunta previamente la dimensione d’indisponibilità che si cela nei limiti del pensiero filosofico sull’essere e, in ultima istanza, si vuole porre in risalto il carattere eminentemente narrativo di un’ontologia segnata nel profondo più dalla categoria della creatività (Marcel) che da quella della differenza (Heidegger).10 Come fenditure le ispirazioni marceliane non mancano mai d’incidere lungo l’intricato sviluppo dell’iter filosofico ricoeuriano: lasciando cadere queste fugaci contaminazioni s’incorre nel rischio di non focalizzare accuratamente il sostrato ontologico di tale itinerario. In fondo Ricoeur cerca di porre nel giusto risalto una concezione secondo cui proprio l’ontologia può essere assunta come il meno sistematico e il più mutevole discorso della filosofia occidentale. In virtù di tale non secondaria ragione è bene anteporre, alla considerazione dei motivi elettivi del pensiero di Ricoeur, la convinzione che vi sia una radice marceliana mai del tutto obliata e revocata. Nondimeno, la stessa formulazione dell’ontologia del sé non rappresenta affatto un approdo ultimo, bensì la tematizzazione della frontiera dell’essere e rappresenta quindi un approdo aperto, poiché mediante la costituzione di un sé si consente alla filosofia di avere un fulcro metodologico sul quale innestare la pluralità di forme che l’ontologia può assumere nello svolgimento della sua enucleazione. Il soggetto del sé non è 20 il fondamento del Cogito cartesiano, non il punto centrale di una riflessione autoreferenziale, bensì il nucleo aurorale di una continua e incessante esperienza dell’essere, che si esperisce pertanto nell’orizzonte plurimo di un’ontologia che è narrazione, che è conoscenza dell’esistente attraverso il limite, indisponibile e pur tuttavia creativamente aperto, della finitudine. Ciò permette al filosofo francese di collocare il magma delle forme della nostra cultura nell’ambito della itinérance dell’essere11, quindi d’inscrivere nel circolo ontologico tutte le forme espressive della cultura, dal pensiero speculativo di matrice greca all’esperienza religiosa di matrice biblica. Prefigurare una dimensione narrativa in seno alla conoscenza dell’essere dell’esistente equivale quindi ad ammettere che l’ontologia possa assumere una declinazione culturale d’ispirazione biblica. Su tali presupposti si fonda la previa convinzione secondo la quale, come attestano gli studi biblici del Nostro, l’ontologia non deve temere di mettere a confronto, senza cedere alla tentazione dell’identificazione (come accade nell’ontologismo e nella onto-teo-logia), la nozione di essere con l’esperienza religiosa. Il topos ricoeuriano della ontologie biblique12, elaborato negli anni ’90, consente di comporre istanze che, nella loro radicale incommensurabilità, coesistono nella tensione e giovano a rendere la fase ultima della filosofia di Ricoeur ancora viva e foriera di spunti rilevanti. Essere e Dio sono pertanto assunti come assoluti che non convergono, ma che tuttavia concorrono a rinvigorire da sempre le sorti della filosofia occidentale, così profondamente segnata dall’imprescindibilità di questi due concetti-limite. Ricoeur percorre lo slancio di un pensiero filosofico volto a un dialogo più aperto con la particolarità del mondo biblico e getta le basi per un nuovo discorso ontologico, che perverrà a un avanzamento rilevante e significativo con il progetto, rimasto in larga parte incompiuto, di un percorso biblico dell’ontologia. Ciò nondimeno, questo intento riecheggia per certi versi Marcel, attraverso una riproposizione della nozione di riflessione seconda di stampo ontologico, con una sorta di ontologia seconda (questa è la base su 21 cui edificare il topos della ontologia biblica). Una riflessione seconda che possiamo decifrare come la conduzione di un pensare a dispetto e nonostante l’invincibile indisponibilità dell’essere promesso nel variegato mondo del testo biblico. Di tale progetto si può dire che incarni l’intento di dimostrare che se l’ontologia è la conoscenza dell’essere in quanto tale (nella sua pretesa unità e totalità) l’ontologia seconda raccoglie i cocci della prima e ricostruisce un senso nella frammentarietà dell’essere travagliato dal dissidio fra bene e male. Come si è avuto modo di constatare sopra, la riflessione ricoeuriana, nella sua complessa oscillazione, fra tematiche filosofiche e tematiche religiose, e nella sua interezza si snoda lungo il crinale che guarda congiuntamente al versante della critica e al versante della convinzione13. Si tratta di due consolidate categorie di pensiero che ricoprono una veste di fondamentale importanza nell’economia della filosofia di Ricoeur. Entrambi gli elementi palesano il carattere decostruttivo e ricostruttivo della riflessione filosofico-religiosa del Nostro. Nell’ambito della dialettica religione/fede, il momento critico rappresenta l’assunzione proficua e aporetica della categoria moderna del sospetto e non una mera strategia della confutazione fine a sé stessa. Di pari grado, la convinzione rappresenta una risorsa di senso, una fonte del pensiero filosofico, nella misura in cui non appare come una pura e semplice assunzione previa e acritica. La dialettica in questione si scaltrisce mercé la coesione di queste due categorie, le quali, in prima istanza, sembrano essere assai lontane fra loro, ma nel contempo si rivelano assai utili e determinanti alla finalità che si propone Ricoeur: rimanere filosofo e seguitare a professare la propria fede cristiana. Inoltre va aggiunto che le categorie in questione, interagendo l’una con l’altra, provocano un processo di emancipazione dalla zavorra di un sospetto greve e pregiudizialmente antireligioso e dalla zavorra, a detta di Ricoeur altrettanto gravosa, di una fede totalmente assimilata alla credenza. Si tratta di chiarire più dettagliatamente che la categoria della convinzione risponda in larga misura all’esigenza tutta moderna e post- 22 metafisica di una relazione più aperta e viva con la fede, intesa appunto non come credenza, bensì come libera relazione con la Rivelazione, che provoca il pensiero e arricchisce la coscienza di una prospettiva del tutto estranea ed estraniante (non alienante) rispetto al consueto modo d’interpretare le costruzioni metafisiche e la loro pretesa di fondare, in modo ultimativo, l’esistenza dell’uomo e la grande questione del rapporto con il divino. In un certo senso, la convinzione risponde ai dettami di un processo di riappropriazione e ricostruzione dell’esistenza religiosa all’insegna dell’attestazione e della fiance. E, ancora una volta, si potrà trovare un punto di contatto con la réflection di Marcel e la vigenza di questa nell’ottica della cosiddetta “riflessione seconda”. Nondimeno si sviluppa, con il lento costituirsi della convinzione portata a maturazione attraverso il confronto con le istanze della critica filosofica del sospetto moderno, un’ermeneutica della religione che informa di sé gran parte del pensiero teologico-filosofico di Ricoeur. 1.2 Preludio filosofico e teologico Questo primo capitolo privilegia una contestualizzazione preliminare del pensiero ricoeuriano e vuole giovare a una maggiore comprensione degli scritti e degli articoli del periodo di collaborazione con la rivista Esprit. A quest’epoca risalgono gli albori dell’interesse nutrito, dal filosofo francese, nei riguardi di una corrente filosofica e teologica che gravita intorno alla Kierkegaard renaissance e alla riproposizione del pensiero barthiano in seno al coevo dibattito francese su filosofia e cristianesimo. 23 In modo particolare, si vogliono porre nel giusto risalto le affinità con due figure che hanno avuto notevole influsso sugli esordi ricoeuriani, Pierre Thévenaz e Roger Mehl, a loro modo espressioni vive del pensiero protestante a cavaliere fra filosofia e teologia. Sono due gli articoli che meritano attenzione. Nel primo articolo in questione, redatto nel 1948 e dedicato all’analisi della filosofia di Mehl, dal titolo La condition du philosophe chrétien14, Ricouer dichiara la propria posizione in merito al rapporto fra filosofia e fede cristiana, chiarendo, in maniera inequivocabile, di non aderire al progetto di una “filosofia cristiana” imperante negli ambienti del neotomismo francese. Il Nostro trae da Mehl un bagaglio notevole di spunti non indifferenti. Fra le righe di questo testo vengono delineati i tratti salienti di questo cristianesimo incastonato nel cuore di una “filosofia senza assoluto”, lasciando trapelare al contempo la configurazione di un pensiero che comporti il radicamento in una condizione sradicata in primo luogo dalla pretenziosa concezione dell’essere come totalità e del sapere come sistema. A fronte di un’umanità totalmente décroche da ogni idea assoluta, di un’umanità nuda dinanzi all’abisso del Totalmente Altro, si staglia all’orizzonte un percorso filosofico scevro d’ogni formulazione metafisica, ovvero un orizzonte di pensiero che prenda progressivamente coscienza della natura opzionale della metafisica15. Parimenti, da una tale situazione, esistenziale e intellettuale al contempo, si evince giocoforza che il devant Dieu non è una fonte veritativa, bensì la messa in crisi di tutto ciò che ancora, nella metafisica come nella religione stessa, sa di umano troppo umano. Il lavoro e lo spirito dei neobarthiani francesi, a cui Ricoeur s’ispira largamente, può riassumersi nello sforzo di sviscerare le possibilità della crisi teologico-filosofica proficuamente avviata da Barth. In altri termini, si tratta di comprendere e di portare a compimento un processo di decostruzione del rapporto fra le due discipline fino al punto di scorgervi una via nuova e radicalmente alternativa; per far ciò non ci si può lasciare 24 alle spalle la ricerca di una nuova prospettiva ontologica, rilanciata a dispetto della crisi della metafisica e delle aporie che concernono il rapporto del pensiero filosofico con lo scandalo del male e della sofferenza. La crisi sagacemente avviata da Barth può innescare un processo lento e laborioso di ripensamento (Nachdenken) delle fondamenta stesse della filosofia occidentale; un ripensamento che sappia guardare con coraggio alle inesauribili risorse pre-filosofiche del pensiero biblico. Tutti e tre gli esponenti di questo rilancio francese del barthismo in filosofia, ovvero Mehl, Thévenaz e lo stesso Ricoeur, concordano sul fatto che non giova in nessun caso accapigliarsi sulle possibilità o meno di una filosofia cristiana: tutti e tre convergono, inoltre, sul fatto che il filosofo cristiano è una realtà inequivocabile e può rappresentare una risorsa per la filosofia postmetafisica. Sullo sfondo sussiste la convinzione, assai radicata, che la corrispondenza ancillare fra Rivelazione cristiana e metafisica vada rivista e confutata; in altre parole, si è ben lungi dal riproporre un legame diretto e razionale fra il complesso dogmatico cristiano e i capisaldi della filosofia classica (come accade nel tomismo). Nel suo commento a Mehl, Ricoeur evidenzia con acume che tale movimento si prefigge il fine di rimettere il cristianesimo nel cuore vivo della filosofia, eludendo perentoriamente la via della imprescindibile auctoritas della Rivelazione; quella che, per intenderci, ha assegnato a quest’ultima il ruolo di deposito della verità e alla filosofia la competenza di dimostrare, per la sola via discorsiva, la primazia del dato rivelato. Mehl ribadisce, e Ricoeur gli fa eco, che l’unico dato certo è quello dell’iniziale disarmonia fra le verità di fede e le verità di ragione. Ai loro occhi appare, pertanto, di gran lunga più proficuo assumere proprio questa discrepanza, in tutta la sua fecondità, come punto di partenza per comprendere appieno la condizione peculiare del credente che intraprende la via della filosofia. Tale condizione concerne, in primo luogo, la mancanza di presupposti di ogni sorta per operare un’assimilazione fra la struttura epistemica della verità, secondo il pensiero greco, e la scandalosa e spiazzante esperienza della 25 Croce e della Resurrezione di Gesù Cristo: basti questo primo imprescindibile elemento per rinfocolare e acuire la crisi e la rottura. Le forme della nostra conoscenza non sono in grado di rielaborare un cotale evento, in virtù del quale la fede si preannuncia, fin nelle sue fondamenta, come una condizione di radicale disarmonia fra il conoscere razionalmente e il confidare nel Dio morto e risorto. Alla luce di questa difformità pregiudiziale, appare del tutto evidente che metafisica, da un lato, e Rivelazione biblica, dall’altro, siano ben lungi l’una dall’altra e ciò è ancor più plausibile se si tiene in conto che l’una, con la sua concezione dell’essere come sostanza e fondamento, si appiattisce sulla nozione di realtà come composizione di dati (non in senso empirico, bensì in senso epistemico); mentre l’altra è soltanto nella dogmatica che parte dalla fede come dato. All’inverso la Rivelazione deve essere interpretata come un puro e inesausto darsi continuo. Su una tale premessa non può verificarsi nessuna consonanza formale e materiale fra la nozione filosofica di verità e l’esperienza cristiana della verità di Cristo. Metafisica e Rivelazione si distinguono dunque come due poli incomunicabili. Tuttavia, nel cuore stesso di un tale dissidio, Ricoeur vuole collocare un diaframma che possa tornare utile alla comprensione di entrambe. Siamo dinanzi a una forma più o meno ibrida di ontologia, elaborata al fine di accrescere la comprensione della natura opzionale della metafisica e della natura aporetica della congiunzione pensiero/Rivelazione biblica, sicché potrà impiantarsi un progetto ontologico che superi l’impasse della primazia del fondamento (Grund) ed esplichi l’ineludibilità del limite (Grenze). La condizione che vive il filosofo, che ha in animo di esprimere, quantunque parzialmente, il proprio cristianesimo in termini di frontiera con il discorso filosofico, è sostanzialmente quella dell’esperienza aporetica del limite, del limite esistenziale, del limite della trascendenza e della piena conoscibilità del darsi rivelativo. In vista di parametri più appropriatamente filosofici la questione si esplica a mezzo di una dicotomia fra l’essere pensato nell’ambito della metafisica e l’essere pensato nell’ambito della dottrina 26 salvifica. Talché nell’un caso prevale la natura opzionale di un essere come persistente fondamento (Grund) dell’ente; di contro, nell’altro caso predomina, tracimando ogni limite epistemico, la natura insondabile ed escatologica dell’essere. Né prolegomeni né preambula fidei, nulla di simile può essere fornito dalla metafisica alla Rivelazione; ne è un esempio emblematico la discontinuità fra la dottrina antica dell’immortalità dell’anima, secondo la quale il post mortem è inteso come una sopravvivenza per inerzia e la dottrina cristiana della resurrezione dei corpi, secondo la quale la vita post mortem è un dono per grazia e non per inerzia. Per certi versi appare del tutto evidente che la soteriologia cristiana non ha alcun addentellato con la metafisica e ne rappresenta un oltrepassamento radicale e deciso già a partire dal più metafisico dei problemi, la vita dopo la morte. L’evento salvifico, come è dato comprendere in virtù del testo biblico, consuma e compie una promessa impossibile. Tuttavia, pur riconoscendo un’indole al divino che da sempre anima la metafisica nelle sue più varie sfaccettature, la categoria propria della soteriologia cristiana non culmina con l’idea di un ricongiungimento dell’anima dell’uomo con il mondo da cui proviene e da cui violentemente è stato sottratto, bensì con l’éschaton, cioè con una realtà che non ha provenienza né origine. Tale raffigurazione simbolica può essere interpretata filosoficamente in ragione di un impianto ontologico non più di stampo metafisico (volto all’individuazione di quello che si potrebbe definire lo spazio dell’essere) ma di stampo escatologico (volto all’individuazione di quello che si potrebbe definire il tempo dell’essere). Pertanto, mercé questo cambio di rotta, ne sortisce la conseguenza che l’ontologia, che si vuole modellata secondo la maniera biblica di pensare l’essere dell’uomo e del mondo, deve assumere la portata sconvolgente del concetto di novum. Detto altrimenti, l’escatologia lascia trasparire la trama della storia della salvezza, articolata, secondo l’esegesi tipologica (secondo cui l’archetipo non precostituisce il possibile ma preannuncia l’impossibile), attraverso il passaggio o transito fra momenti asimmetrici: per meglio 27 intendere tutto ciò è bene addurre lo schema dalla Caduta alla Grazia (secondo lo schema del paradigma paolino che implica l’estensione alla Creazione e alla Parusia). Su questi presupposti teorici Ricoeur costruisce una specifica ontologia del limite incentrata sulla nozione di tensione (o promessa), il che costituisce finanche un punto di considerevole convergenza e di voluta assonanza con l’idea marceliana di homo viator. In breve, si tratta di comprendere l’incidenza ontologica delle figurazioni e dei momenti salienti che scandiscono la storia della salvezza, in questo caso intesa, ed ermeneuticamente assunta, come paradigma del carattere epocale dell’essere (esse viator). In quest’ottica emerge con perentorietà la discrasia fra ontologia metafisica e ontologia escatologica, primo abbozzo, quest’ultima, del progetto, intravisto negli anni ’90, di tratteggiare una vera e propria ontologia biblica, nata e sorretta dal fecondo connubio fra una philosophia viatorum e l’esegesi biblica. Ancor più incisivo e determinante appare il confronto con Thévenaz. In un articolo del 1956, dal titolo Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz16, Ricoeur pare ricalchi fedelmente i punti emersi nell’articolo pubblicato otto anni prima, allorché se ne ribadisce la medesima suggestione di fondo. Il punto di svolta decisivo è rappresentato dall’adesione accordata al concetto thévenaziano di désabsolutisation. Si tratta di un passaggio nodale della massima rilevanza, se si vogliono comprendere la genesi e le motivazioni dell’itinerario filosofico e teologico di Ricoeur nel suo insieme. In considerazione del contesto storico-filosofico, entro il quale maturano quelle che potremmo a ragione ritenere le opzioni fondamentali della filosofia ricoeuriana, la “filosofia senza assoluto” di Thévenaz diviene segno del tentativo di coniugare la tradizione riflessiva francese (incentrata sull’ermeneutica del Cogito cartesiano) con le più vivaci istanze della teologia dialettica di Barth. Per l’appunto tali opzioni fondamentali possono sommariamente sintetizzarsi in due punti: in prima battuta affiora uno spiccato interesse per una filosofia meno autoreferenziale e più propensa al dialogo con le espressioni della cultura e con le scienze umane; in seconda 28 battuta viene alla luce un costante interesse per le implicazioni filosofiche di cui è portatrice la teologia barthiana. Un tale contesto di base costituisce il retroterra che dà luogo, nel corso delle fasi successive del filosofare di Ricoeur, a una sempre più scaltrita tematizzazione del ruolo della religione cristiana nell’ambito delle questioni più spinose della filosofia del ‘900, prime fra tutte quelle del male radicale e della sofferenza ingiusta Ciò che Ricoeur evidenzia senza indugi è il fatto, apparentemente singolare, che Thévenaz utilizzi l’aggettivo protestante per designare la propria filosofia e lo faccia al fine di rendere perspicua l’affinità fra il proprio modus philosophandi e la critica rivolta all’indirizzo delle filosofie autoritarie, dogmatiche e razionalistiche, prima fra tutte quella cartesiana. Detto altrimenti, nell’ambito del neobarthismo francese è opinione assai diffusa credere che Lutero, rampognando la pretesa soggettiva di accedere alla salvezza mediante le opere umane, abbia inaugurato un modo di pensare diametralmente opposto a quello accentratore che prenderà forma successivamente nelle filosofie d’ispirazione cartesiana ed hegeliana. Con la Riforma, in poche parole, l’uomo moderno viene spodestato e si ritrova dinanzi all’abisso dell’indisponibile. Thévenaz asserisce con vigore che la Croce di Cristo è quanto di più lungi possa essere pensato dal Cogito, a suo modo di vedere contraltare filosofico della concupiscenza del cuore tanto avversata dallo stesso Lutero. Quindi, se il Riformatore tedesco, a suo modo, ha dato il via alla concezione del decentramento dell’esistenza, Cartesio, da par suo, ha gettato le basi di tutti i processi di pensiero speculativi che tendono a costruire un assoluto artificioso e pernicioso. Per certi versi tale argomento appare equipollente alla critica di Maritain a Cartesio, sennonché nel pensatore cattolico il ricorso alla Rivelazione è sostanzialmente legato all’esigenza di fondare un’epistemologia forte, mentre nel pensatore protestante un tale ricorso risponde a tutt’altra esigenza: rendere la filosofia più flessibile verso l’alterità irrinunciabile della Rivelazione cristiana. Stante a tale dato storico, Thévenaz esorta se stesso a intraprendere la strada di una filosofia che funga da 29 désabsolutisation del pensiero forte e del sapere assoluto. Una filosofia protestante sarebbe una filosofia libera e quest’ultima sarebbe giocoforza una philosophie sans absolu. In definitiva resta da capire da cosa s’intenda liberare il pensiero protestante. A un tale quesito il tragitto seguito da Ricoeur risponderà negli anni ’60 con la riflessione intorno alla Simbolica del male, cuore e svolgimento dell’anti-teodicea ricoeuriana. Il filosofo protestante, secondo Ricoeur incarnato appieno dallo stesso Thévenaz, è il pensatore conscio che la considerazione filosofica della Croce contenga in nuce tutta la carica esplosiva della cesura pascaliana fra il dio dei filosofi e il Dio della Bibbia, insomma una forza dirompente e decisamente iconoclastica che si scontra con le presupposizioni metafisiche e le verità dogmatiche di chi piega l’esperienza drammatica e irriducibile della fede agli schemi del filosofare greco. La fede non è quindi una modalità conoscitiva, bensì stabile assenza di staticità; è presupporre il nulla per il mondo e il tutto per il credente. Mantenere viva questa carica paradossale, nel credente che sceglie di esprimere la propria condizione nella filosofia, equivale a sperimentare un metodo che blandisce le contructions systématiques e assapora la vertigine degli ébranlements aporétique di un pensiero difforme dalle forme metafisiche. Sulla scia di Paolo, che ha innescato un moto di dédivinisation delle opere della Legge, a suo dire non completamente immuni dalla concupiscenza umana, il filosofo protestante amplifica tale moto mediante una sua ricollocazione nella filosofia, permettendo alla dédivinisation di tradursi in désabsolutisation delle forme di pensiero che ricorrono a cornici sistematiche pretenziosamente esaustive, incapaci perlopiù di cogliere la fede cristiana nella sua portata rivoluzionaria e, perché no, aporetica. Il processo di désabsolutisation congiuntamente coinvolge le pretese sistematiche della filosofia e quelle dogmatiche delle teologie che riecheggiano le assolutizzazioni della stessa filosofia e pertanto Thévenaz propone, e Ricoeur sottolinea con una certa enfasi tale snodo, un singolare parallelismo fra la concezione paolina dello spirito e le filosofie dei filosofi 30 che avversano l’assoluto declinato nelle formulazioni speculative di un intelletto avulso. Quello che il filone neobarthiano cerca di trasmettere è l’esigenza di radicare il filosofare nella condizione sradicata dell’uomo, il quale mediante concetti quali assoluto, totalità ed affini non fa altro che porre con maggiore risalto il condizionamento infruttuoso suscitato da tali topoi concettuali. Pare non del tutto fuori luogo la considerazione del fatto che, proprio attraverso la rilettura della filosofia thévenaziana, Ricoeur abbia posto le basi della nozione di désir d’être abbondantemente utilizzata nella Simbolica del male17. Si tratta di comprendere, in vista di una maggiore recezione del Ricoeur degli anni ’60, la rilevanza dell’eredità thévenaziana e della formazione protestane nell’ambito dei percorsi teoretici che si snodano lungo la preparazione e l’elaborazione della Simbolica. Tali percorsi assumono sovente una motivazione di fondo che induce il filosofo di Valence a configurare una forma antimetafisica di filosofia ermeneutica del cristianesimo. In virtù della lettura ricoeuriana del neobarthismo francese si possono tratteggiare i contorni del seguente schema ermeneutico: l’incompatibilità della fede alla filosofia può giovare alla filosofia medesima e al suo rinnovamento attraverso la désabsolutisation, ovvero attraverso la forza del pensiero debole che sa incorrere senza infingimenti metafisici nel rischio dello scacco e, molto più, nella possibilità di penser plus. Parimenti si vuole erodere la pretesa di riporre nella metafisica le sorti del metodo della trascendenza stemperata nelle forme della causalità prima oppure nel primato della ricerca del fondamento degli enti, confutando la stessa epistemologia della trascendenza che è trasfigurazione del mascheramento del désir d’être il cui precipuo oggetto è l’artificiosa ricerca di una persistenza ontologica che si disfa dell’evento salvifico. Entrando nel cuore oscuro della ragione metafisica, si mette in crisi il pensiero filosofico al punto di rendere la stessa metafisica un’opportunità folgorante e paradossale, capace di denudare l’uomo moderno delle sue epistemologie forti. Ricoeur si serve dell’analisi dei testi mehliani e thévenaziani al fine di lumeggiare senza trionfalismi di sorta lo statuto 31 precario e condizionato, ma pur sempre creativo, della ragione umana; quella medesima ragione che per un verso produce assoluti, per un altro rende intelligibile la sproporzione fra l’assoluto del pensiero e l’antecedenza di assoluti fra loro irrelati come il bene e il male e come l’essere dell’ente finito e l’essere di Dio: assoluti irrelati che precedono il pensiero filosofico ed esorbitano da ogni sistema dottrinario. Per decifrare questa sorta di antimetodo, il cui recto è la désabsolutisation e il cui verso è la dédivinisation, Thévenaz conia l’espressione métaphysique à rebours18 che, a suo modo, Ricoeur ricalca come rovesciamento e dépassement della metafisica sviscerata come sublimazione del désir d’être e delle idee che contengono la pretesa di totalità che accomuna i sistemi moderni di filosofia da Cartesio a Hegel. Su questi presupposti il filosofo francese approderà, fra gli anni ’80 e ’90, alla proposizione di una saggezza aporetica che si fonda proprio sulla “filosofia senza assoluto” del cristiano impegnato a pensare nonostante il limiti della metafisica. Una saggezza che Ricoeur ritiene radicata nella filigrana dei testi Sapienziali (Il Libro di Giobbe su tutti) e nelle Epistole paoline, oltre che nel vigore rivoluzionario dei Vangeli. 1.3 Radicalità del cristianesimo Nel periodo focalizzato sopra come preliminare iniziano a farsi largo, nell’evoluzione della forma mentis filosofica di Ricoeur, le note dominanti del suo pensiero al confine fra filosofia e teologia. Questi elementi, che programmaticamente sono stati raggruppati sotto l’egida della désabsolutisation, provengono, come s’è testé fatto cenno, in larga misura dagli studiosi post-barthiani, i quali hanno in animo di riproporre in chiave 32 teologico-filosofica la temperie e le suggestioni della Kierkegaard renaissance. Contestualizzando il movimento in relazione al coevo dibattito sul ferro ligneo della filosofia cristiana, prende vita, con il fertile contributo ricoeuriano, un’originale rimodulazione della dissoluzione kierkegaardiana dell’hegelismo atta a dotare la visione cristiana del mondo di una prospettiva filosofica radicalmente non afferente allo schema neotomista. Detto altrimenti, si profila, in codesti pensatori, la possibilità di concepire Dio al di fuori della metafisica medievale (in cui confluiscono ontologia e ontologismo), del razionalismo classico (dimostrazione dell’esistenza di Dio) e del razionalismo moderno (centralità del soggetto), recuperandone l’identità biblica e riproponendo la teologia dialettica di Barth come momento alternativo e di rottura nei riguardi sia della teologia cattolica sia della teologia liberale. A questo sostrato si deve aggiungere un’idiosincrasia evidente nutrita nei confronti dell’idealismo hegeliano, prolungamento naturale, a detta di molti, dell’esaltazione cartesiana del Cogito. In sintesi, il progetto thévenaziano, che si è assunto come emblema di questa temperie filosofica, è volto all’ideazione di una filosofia senza assoluto, cioè di un pensiero aperto e non schematico che assuma su di sé il gravoso onere di continuare a pensare finanche dinanzi alle aporie e alle angosce della crisi della filosofia novecentesca. S’è detto una filosofia scevra di assoluto, di totalità, di sistema. In altre parole, tali elementi, ritenuti obiettivi polemici privilegiati del processo di désabsolutisation, si possono agevolmente comporre sotto il programma decostruttivo di una filosofia che abiti l’aporia, giacché in ognuno dei suddetti elementi vi sarebbe contenuta un’ineludibile sfida alla filosofia protestante. Dunque, nella possibilità di cogliere una categoria che s’imponga come cifra emblematica di questo percorso, alternativo rispetto alla critica più ortodossa, giova la messa a fuoco dell’aporia come locus filosofico fondamentale nell’economia del lavoro ricoeuriano. Tale 33 categoria non sarà evidentemente comparabile, con la sua spiccata portata critica e polemica, a quella di sistema filosofico. In altre parole, la filosofia è strutturalmente refrattaria all’idea di poter approdare definitivamente a un sistema che abbia i crismi della dottrina; la filosofia è da sempre pensare nell’aporia. Tuttavia ci si ritroverebbe giocoforza fuori strada qualora s’intendesse il correlativo aggettivo aporetico, laddove venisse assunto per connotare il metodo ricoeuriano, così come viene avallato nella più consolidata prassi del discorso filosofico, vale a dire nell’accezione meramente negativa del termine. Si tratta, in altre parole, di cogliere nella sua peculiarità l’iter filosofico di Ricoeur, il quale non è certamente cadenzato da un susseguirsi strettamente lineare di questioni e teorie, bensì da uno snodarsi continuo di aporie, ripensamenti, interpretazioni e prospettive innovative, nonché da proficue intromissioni di natura extra-filosofica. In modo del tutto evidente va da sé che, in Ricoeur, quest’uso dell’aporia in filosofia s’imponga positivamente. Se si vuole si fa largo mercé una lettura affine al significato di fecondità. Parimenti, entrando nel merito di una considerazione più generale, è proprio nella categoria di aporia che il pensiero filosofico esercita la propria indefessa funzione di ricerca di una ratio per il discorso umano sulle cose del mondo. A suo modo Ricoeur rivendica la necessità di reinterpretare il concetto non più come “strada senza uscita” (che lasci pensare a una filosofia intessuta di astrattezze e vicoli ciechi), bensì come uno “stare sempre sulla strada” (che lasci pensare a una filosofia on the road), sicché andrà abbandonata la concezione dell’aporetico come sinonimo di astratto e inconcludente, a tutto vantaggio di una caratterizzazione squisitamente positiva e costruttiva, se si vuole seguire correttamente il percorso filosofico della produzione ricoeuriana. Il più delle volte l’aporia, sul piano eminentemente generale, non insorge sulla base di un’impostazione predeterminata con diligenza, bensì s’impone, quasi drammaticamente, al pensiero; in un certo senso le aporie ci coinvolgono e ci travolgono, non perché frutto di una scelta 34 ponderata ma perché casuali deviazioni del nostro modo di procedere nella conoscenza delle cose del mondo. Ciò vale con maggiore incidenza sulla possibilità di voler comprendere la presenza del male e del dolore nell’esistenza dell’uomo. Ne consegue che nell’aporia del rapporto fra essere e male si addensa una materia che produce pensiero, che stimola al pensiero; in una siffatta atmosfera, il problema di dare del male una scienza porta all’apice l’aporeticità del discorso filosofico, facendone una costante dell’itinerario speculativo del filosofo di Valence. L’investigazione sulle ragioni di tale spinosa questione trascina con sé tutta una serie d’implicazioni filosofiche che mai abbandoneranno Ricoeur nel prosieguo dei suoi anni di lavoro e di indagine. Pertanto, ci si propone di porre l’attenzione su tali questioni al fine di ricavarne il dato fondamentale di una grande aporia (che in sintesi denuncia che se esiste il male come è possibile equiparare l’essere al bene), ben radicata nel cuore della filosofia ricoeuriana, che guida il motivo conduttore della demolizione critica del sapere assoluto indirizzata alla riscoperta della peculiarità del non-sapere religioso. Tale motivo di fondo è parimenti inteso come direttamente connesso con l’esigenza di approntare con cura una doviziosa ricognizione del carattere extra-filosofico della source biblica della filosofia ricoeuriana. Ebbene, alla luce di un attento confronto testuale fra gli articoli apparsi su Esprit, il più delle volte considerati alla stregua di interventi marginali e occasionali, e i testi classici del corpus ricoeuriano, in primis la ponderosa Philosophie de la volonté (vol. I Le volontarie et l’involontaire del 1950), appare non del tutto fortuita una certa concomitanza con gli scritti su Mehl e Thévenaz. Questi, materialmente e non a caso, precedono (Mehl 1948) e seguono (Thévenaz 1956) l’impegno profuso per la stesura della prima parte della filosofia ricoeuriana della volontà e, in un certo senso, ne segnano il confine teorico. In altre parole, tenendo conto dell’impasse implicato e contenuto nel testo del 1950 e che lo stesso possa fungere da punto di svolta, 35 l’occasione suscitata dallo scrivere sul neobarthismo dà la misura dell’influenza esercitata dal pensiero teologico sullo svolgimento complessivo dell’itinerario seguito da Ricoeur in quegli anni fecondi. Pur avendo una struttura che evoca l’hegelismo, che si snoda lungo il percorso di decisione/azione/consentimento, la filosofia della volontà si arena nel momento in cui Ricoeur s’imbatte con le aporie suscitate dal tentativo di mediare una conciliazione fra l’azione e l’insuperabile presenza del male nel mondo. Proprio in questo luogo significativo dell’opera emerge la convinzione ricoeuriana che nella metafisica si celi un nucleo per così dire opzionale, nel senso che le dottrine sull’immortalità e sulla trascendenza si nutrono del desiderio umano di ovviare ai propri limiti esistenziali come la sofferenza e come la morte. Questo assunto non abbandonerà più il filosofo di Valence, ma soprattutto il pensatore cristiano che, attraverso la propria filosofia, prova a esprimere il vigore di una fede a dispetto delle aporie della teoresi. In ragione di tali convincimenti finanche le elucubrazioni della teodicea e della dialettica hegeliana tradiscono, sul fondo della sedimentazione del loro argomentare, tale natura opzionale della metafisica. L’impossibilità teorica e strutturale di assimilare il male al momento dialettico della negatività, riducendone di fatto tutto il sapore tragico, contraddistingue, in modo rimarchevole, l’opzione metafisica e l’aporia implicate dalla filosofia della volontà. Ciò costringe lo stesso Ricoeur a tornare sui propri passi e a battere nuove strade, assai meno consone a quella prima impostazione eidetica addotta per l’iniziale progetto (il quale prevede un’impostazione hegeliana e un metodo fenomenologico). Si può pertanto evincere in quale contesto emerga la necessità di adottare la via della neobarthiana désabsolutisation. La scandalosa realtà della sofferenza causata dal male subìto e della colpa per il male commesso non consente un congruo legame a qualsivoglia impianto filosofico sia di stampo rigorosamente fenomenologico sia di stampo rigorosamente idealisticohegeliano, ma in misura maggiore stride palesemente con le istanze dei sistemi metafisici. In altre parole, i temi scottanti e immensi della malvagità 36 e della fragilità, insite nella condizione umana tout court, esulano da ogni possibile costruzione sistematica, giacché si collocherebbero fra le loro pieghe residui di teodicea. Inoltre si radicherebbe nel pensiero, e ben fortemente, l’inanità concettuale della giustificazione provvidenziale e storicistica del male nel mondo e nella storia (come nella concezione hegeliana). Cosicché, procedendo in questa direzione, ne sortisce la convinzione, genuinamente ricoeuriana, che dal rapporto fra bene e male (ancor più diacritico che dialettico) non ne può in alcun modo conseguire una linea di pensiero improntata alla concettualizzazione della totalità dell’essere nella sua vacua universalità. La focalizzazione dei limiti connessi alla finitudine esistenziale e intellettuale dell’uomo mina dalle fondamenta e scardina la concezione monolitica e astratta dell’essere pensato e concepito come totalità. Quest’ultimo termine, tanto inflazionato, porta seco tutta l’impotenza del conoscere filosofico e delle sue pretese, giacché nel cuore dell’essere non riposa nessuna traccia che lasci pensare a una composizione dei contrasti: l’essere racconta un dramma profondo e sovente lacerante. Si dovrà ammettere nella filosofia di Ricoeur, intesa come un assemblaggio fecondo e redditizio di aporie, un’inguaribile idiosincrasia per ogni pretenziosa visione dell’essere come totalità: l’essere si preannuncia perennemente come una frontiera del pensiero, poiché esso stesso ha ed è una frontiera (fra il bene e il male). La materia più pervasiva e refrattaria del pensiero filosofico, ovvero il male in tutte le sue forme, è talmente incontrollabile di per sé da imporsi sempre più come una cogente confutazione delle filosofie dell’assoluto; di conseguenza, dinanzi a una siffatta incombente catastrofe teoretica, l’unico progetto perseguibile altro non sarebbe che quello forgiato alla luce dell’espulsione del concetto filosofico di totalità dell’essere. Il pensiero filosofico abiura lo spauracchio del sistema, rinuncia al comfort della totalità e assume su di sé l’incombere dell’aporia, ben sapendo che da essa non ne avrà alcun vantaggio ma, al 37 contempo, ne otterrà una maggiore coscienza del compito che è chiamato ad attendere. Entro i limiti oggettivi e i rudimenti di questa concezione per così dire inattesa e non debitamente preventivata, nell’economia dell’incompiuto progetto di una filosofia della volontà, si addiviene alla scaturigine della Simbolica del male, la quale s’impone come una svolta significativa e imprescindibile nell’ambito della filosofia ricoeuriana. Sullo sfondo rimane lo scoglio della natura opzionale della metafisica, sulla scia della quale Ricoeur denuncia quelle filosofie che pongono una regione dell’ulteriorità intesa come persistenza del mondo e dell’anima immortale nell’iperuranio della trascendenza. Lo stesso Cogito cartesiano rappresenta, per il filosofo di Valence, l’anticamera di queste filosofie velleitarie. In un certo qual modo, quando si vuole fornire un’interpretazione del ruolo giocato dalla metafisica nell’ambito della Simbolica del male, si può metaforicamente pensare a un rudere rovinosamente crollato dinanzi allo scandalo della sofferenza, che comprova perentoriamente l’assurdità dei sistemi del pensiero filosofico. Un rudere intorno al quale si aggira lo spettro di un’ontologia che abbisogna di essere emendata dalla metafisica per venire ricondotta sulle vie della narrazione; vie che non nascondono le increspature del dramma dell’essere. Ricoeur ha un’ontologia in pectore ed essa è un’ontologia senza metafisica che racconta l’essere soprattutto alla luce di una fedeltà (anche in senso marceliano) a ciò che deve essere. Il tardo e per certi versi incompiuto progetto di una ontologia biblica in sé compendia queste irriducibili istanze. Finanche sul fronte della filosofia morale s’impongono talune considerazioni per nulla secondarie. In Ricoeur, la riflessione sul problema del male è tesa a suffragare l’idea secondo cui la radicalità del male vada ben oltre la ormai classica impostazione kantiana: si fa strada una concezione che rompe con la base di quella che anche Hegel definisce Moralische Weltenschauung. Del resto quanto segue lascia trapelare un pilastro argomentativo della ricoeuriana dissoluzione delle teodicee. Il 38 cambiamento risulta di vaste proporzioni. Il male è radicale nella misura in cui viene inteso non già come la massima malvagia, da cui deriverebbero tutte le massime perverse, bensì perché scevro di ogni ragione, di ogni spiegazione; ne è esempio emblematico la ingiusta sofferenza e l’insostenibile caducità del nostro essere nel mondo19. La grande aporia del pensiero moderno, che guarda favorevolmente alle possibilità della teodicea, si rivolge alla presenza del male nel mondo e pone in evidenza l’insensatezza invincibile e la totale infondatezza di ogni tentata giustificazione sia metafisica che storicistica. Il male vanifica il senso e il pensiero filosofico corre sull’orlo di un abisso senza fine. Il sistema razionale della teodicea è incentrato su un nucleo di vanitas che ne avvilisce i ragionamenti e le elucubrazioni. Conseguentemente va detto che, giacché non tutto il male esperito può ovviamente essere ricondotto a motivazioni morali (non v’è soltanto il male commesso, ma v’è anche e soprattutto il male insensato subito dagli innocenti), in ragione di una radicalità ben più tragica del male radicale kantiano, non ha alcun senso perseverare nella visione morale del mondo che, come asserisce Hegel confutando il primo postulato di tale dottrina (nel suo legame con l’ordine naturale) sottende una logica della retribuzione e della compensazione che la religione biblica propone, da Giobbe in avanti, di demitizzare e superare. Il male è ed ha una realtà propria e a sé stante. Di contro, il bene è ed ha una realtà propria altrettanto a sé stante. E dunque non si potrà che prendere atto dell’inconsistenza della logica contemplata nella teodicea e della razionalizzazione del male; e dunque si dovrà ammettere che l’uomo non sia in grado di disporre di una logica da spendere sul rapporto fra bene e male. La visione morale del mondo è una chimera: l’unica radicale cagione del male e della sofferenza è l’assenza di una cagione e l’aporetica constatazione dello scandalo che ci attanaglia. Seguendo il filo sottile di tale argomento, Ricoeur incarna appieno quell’onda di pensiero filosofico e teologico che ha abiurato le inconcludenti e irritanti elucubrazioni della teodicea e ha scelto, sulla scia 39 della teologia dialettica di Barth, di riprovare il sentiero arduo e tortuoso dell’esegesi biblica. Questo rapido sguardo sull’aspetto ontologico e sull’aspetto morale induce a tirare talune conclusioni di carattere filosofico. In sostanza inizia a farsi luce lo stretto legame che corre fra l’ontologia metafisica da un lato e la cosmologia arcaica dall’altro. In quest’ultima visione prospettica emerge, nella forma della logica della retribuzione, un elemento di continuità con l’impianto sistematico della filosofia della totalità, a questa afferisce una visione del mondo che ha in comune con la cosmologia arcaica la convinzione che il rapporto fra bene e male rientri in una sorta di economia dell’essere, del suo divenire, della sua continuità, della sua coerenza logica. A tutto ciò Ricoeur, filosofo e cristiano di formazione luterano-barthiana, si oppone senza indugi; si tratta di un atteggiamento che può rinvenirsi nell’intelaiatura di tutta la sua filosofia, che certamente ha assimilato, soprattutto nella prima parte della sua formazione, taluni elementi tipicamente kierkegaardiani. Orbene, quest’ultima si attesta su posizioni orientate allo scardinamento della visione sistematica della filosofia, d’altronde non può passare inosservato, come attesta quanto sopra, un elemento fondamentale che innerva le prime opere del Nostro; questo fattore comune concerne un atteggiamento critico e de-costruttivo nei riguardi della filosofia hegeliana. A fronte di tale posizionamento Ricoeur segue fedelmente un percorso di affrancamento da qualsivoglia elemento che possa indulgere all’instaurazione di una filosofia in cui attecchiscano i pilastri del sapere assoluto. Al fine di delineare più compiutamente quest’aspetto, si dovrà, in primo luogo, desumere una definizione programmatica di sistema filosofico in guisa d’ipotesi di lavoro. Sistema è per Hegel, secondo la lettura che ne propone Ricoeur, un modello di discorso fluido, anche se non del tutto lineare, che allinea e inanella il fluttuare variegato delle fasi della storia e delle forme di pensiero, attuando una strategia non tanto formale quanto pretenziosamente inclusiva20. Detto in altri termini, nei pensatori sistematici 40 affiora la pretesa di poter includere, nell’ambito della concettualizzazione filosofica, tutti quegli elementi storici e culturali, nonché religiosi, che con una filosofia rigorosamente intesa non hanno tenuta organica. Pertanto, se si vuole fuoriuscire dalla tenaglia del sistema, vanno rigettate le formulazioni sclerotizzate sull’obiettivo di rendere momentaneo ciò che invece è peculiare e irriducibile. In ultima istanza, la polemica è montata avendo in animo la salvaguardia, sulla scia delle considerazioni kierkegaardiane, delle prerogative proprie del pensiero religioso. In ragione di questo sentire così radicale, anche Ricoeur percorre, ma fin dove è possibile, la via della dissoluzione dell’hegelismo secondo la variante autorevole proposta da Kierkegaard. Tuttavia sorgono talune considerevoli divergenze rispetto alla linea del filosofo danese. Pur rimanendo fedele all’impostazione principale, secondo la quale non si condivide la visione inclusiva che ingloba, con la sua forza centripeta, ogni forma di pensiero non filosofica, giacché ritenuta parziale e bisognosa di una struttura filosofica onnicomprensiva, il Nostro respinge con decisione l’appiattimento generale della filosofia di Hegel, in quanto sistema della scienza, nel tentativo di recuperarne i risvolti più aporetici e fecondi. Dunque pare del tutto evidente una recondita affinità, in Ricoeur, con gli studi di Jean Wahl sul rapporto fra Kierkegaard ed Hegel21. Detto altrimenti, in quest’ultimo, soprattutto quando l’oggetto del suo filosofare è la religione, non tutti gli elementi del suo pensiero fanno sistema. Il filosofo di Valence, infatti, sa rilevare con acume una complessità e un dinamismo interni al pensiero del grande filosofo tedesco. In un certo senso, se ne può trarre una visione d’insieme finalizzata a cogliere le differenze che intercorrono fra l’impianto della Scienza della logica (culmine del sistema hegeliano) e l’anima della Fenomenologia dello spirito (genesi del sistema hegeliano), proponendo, al contempo, di arginare la rigorosa opposizione Hegel/Kierkegaard. Non si tratta, in questa sede, di rintracciare un’eredità hegeliana in Kierkegaard, quanto di scoprire in Hegel un discorso sulla 41 religione che, per certi versi e in una certa contenuta misura, anticipi movenze tipiche del filosofo danese. Invero Ricoeur vorrebbe suffragare la tesi secondo cui la concezione di Geist contenga una buona dose di aporeticità. Il mondo della religione e il suo vivido contatto con l’ineffabilità del male conservano tutto il loro spessore nell’eccedenza del loro orizzonte di senso, derivato dal dato (qui inteso anche come dono) della Rivelazione biblica (delineando perentoriamente l’opposizione fra inclusione ed eccezione). Una tale puntualizzazione costituisce, a rigore, un’ulteriore occasione per lumeggiare lo sfondo del pensiero ricoeuriano in materia di filosofia/problema del male/sfera religiosa, infatti fornisce il dato tangibile di un’adesione problematica alla concezione hegeliana della religione. Se è indubbio che una certa vulgata prediliga un’impostazione sistematica del rapporto fra pensiero filosofico e pensiero religioso, è altrettanto vero che, a dire di Ricoeur, il rapporto in Hegel dovrebbe risultare meno agevole di quanto possa sembrare. Se ne propone, fatto peraltro non sconosciuto alla filosofia francese (basti su tutti il nome del testé citato Wahl), un’interpretazione che ponga il rilievo di una certa disomogeneità fra la concezione costruita della Scienza della logica e l’impostazione delle Lezioni sulla filosofia della religione (1820-1821) rispetto al momento culminante del sistema della scienza (che sussume arte e religione nella loro parzialità e la filosofia nella sua assolutezza). Parimenti ne sortisce una viva rivisitazione del pensiero religioso inteso come pensiero figurativo (incentrato sul concetto di Vorstellung). Ricoeur, a suo modo, rimprovera a Hegel di aver sistemato la Vorstellung senza approfondirne con coraggio le risorse22. Sulla base di tale convinzione il filosofo di Valence ricostruisce tale mancato appuntamento mediante l’esplorazione filosofica delle risorse della Simbolica del male. Alla Vorstellung pertanto non si deve ascrivere un mero ruolo preparatorio e comprimario (in fondo questa opinione lascia pensare a residui di illuminismo e a prodromi di positivismo), bensì una propria originale connotazione e un proprio originale modo di pensare e di essere 42 nel mondo. Si tratta, in linea di massima, di delineare un proficuo accostamento fra l’esplorazione aporetica della questione del male e la netta ricusazione della filosofia come sapere assoluto e inclusivo: la filosofia ricoeuriana trae da questi due elementi costitutivi la linea guida di una concezione dello spirito (Geist) come storia di eccezioni. Va inoltre ribadita un’altra caratteristica fondamentale della filosofia sul piano meramente generale: in Ricoeur la vera opposizione cardine è quella che corre fra sistema e aporia, laddove quella rappresenti l’oblio di questa. Sebbene anche la religione sia pensiero se ne deve constatare, con onestà e senza infingimenti retorici e razionalistici, l’irriducibile atipicità nell’ambito di un discorso filosofico, a meno che questo non assuma una veste di stampo ermeneutico. Ricoeur mutua dalla désabsolutisation i tratti distintivi e salienti, talché irrompe sulla scena la questione dell’essere nella specifica declinazione che tale argomento conosce alla luce della visione cristiana del mondo. Il metodo théveneziano comporta un’accurata riflessione sui temi dell’ontologia e rilancia vigorosamente l’aporia dell’essere come totalità, acuendo e aggravando l’urgenza di riproporre in primo piano la questione fondamentale della filosofia: se l’essere rimane ancorato all’equazione classica (omne ens est bonum), che lo pone come consustanziale al bene, come e perché il male? A ragion veduta un tale convincimento, per la verità assiomatico, è aporetico fin già nel suo insorgere. Il pathos della dissoluzione della pretenziosa filosofia dell’assoluto alberga fra le pagine ricoeuriane fin dagli albori e la svolta, consumata nei passaggi nevralgici della filosofia della volontà, è già ampiamente caldeggiata nel periodo delle assidue frequentazioni del pensiero protestante più in voga nella prima metà del ’900 filosofico e teologico francese di cui s’è testé detto. Il male nel mondo, coacervo di contraddizioni, cagione di scandalo, aporia spinosa per il pensiero viene progressivamente assunto da Ricoeur quale leva di scardinamento d’ogni sistema, rappresentando la grande sfida con la quale si misura ogni forma di pensiero che miri a soppesare la propria 43 consistenza. Pertanto una siffatta grande e inveterata aporia attraversa e scuote ogni pretesa sistematica e ogni angolo del discorso proposto dalla filosofia. Un tale sisma sotterraneo investe in toto l’ambito degli studi filosofici nella sua interezza; ne sono interessati, infatti, sia il versante ontologico del pensiero sia quello morale. Tuttavia, va precisato che cotale conclusione interviene in primis nell’ambito del percorso filosofico dello stesso Ricoeur; prima di trarne una considerazione generale essa coinvolge i residui hegeliani della filosofia del Nostro. Il suo primo grande progetto è destinato ad arenarsi proprio alla luce di un punto di rottura nella filosofia della volontà. Nell’impianto generale di quest’ultima dovrebbe intervenire il dispiegamento di un processo che si snoda attraverso la decisione, l’azione e il consentimento. Si tratta di una struttura che larvatamente tiene in seno residui di hegelismo, sennonché tale struttura poggia e deve poggiare sull’esclusione di due ambiti aporetici, in quanto non conciliabili nell’economia generale del dispiegamento della dialettica della volontà. I due ambiti estromessi dal discorso sono quello della trascendenza e quello della colpevolezza umana. Giacché essi risentono del loro carattere ampiamente imperscrutabile non potranno in alcun modo prendere posto in nessuna impostazione sistematica: essi minano dall’interno il sistema della dialettica della volontà (volontario/involontario) proprio in virtù della loro origine, appunto irriducibile e ineffabile. Nondimeno tale coppia, cagione d’instabilità, ricoprirà in seguito e sempre il ruolo di aporia e di stimolo lungo l’arco di tutto l’itinerario filosofico ricoeuriano. Il male non si toglie, né tantomeno si conserva nell’essere (colto nella sua pretenziosa totalità): il male ferisce l’essere, lacera il nostro modo di vivere nel mondo e scaraventa nel vuoto ogni nostro pensiero. Kierkegaard arriva ad asserire che dinanzi a cotale scandalo il pensiero sistematico s’arresta ineluttabilmente, sicché ove c’è il male non c’è sistema e ove c’è sistema il male è come artatamente rimosso. Secondo Ricoeur la filosofia assolve l’onere di tentare ancora la via del pensare il bene a dispetto del 44 male. Vi sono a questo punto due possibilità da tenere in conto. Il pensiero filosofico può imboccare la via della débâcle, rovinando negli abissi del silenzio e del non-senso, seguitando a erigere edifici metafisici desolanti e sconsolanti, oppure affrontare la via del défi, ossia del pensare altrimenti e en depit du mal. A completamento di questa descrizione va inserita un’altra coordinata non meno fondamentale. Come si può desumere senza troppa difficoltà, il pensiero del filosofo di Valence è contrassegnato, oltre che dalla grande aporia di cui s’è detto sopra, da un motivo conduttore che insiste costantemente. Esso è rappresentato dal durevole confronto con il linguaggio simbolico, in specie con quello della fede biblica. In un certo qual modo è come se in Ricoeur convergessero la dimensione di apertura verso l’ignoto (indole che è nella natura stessa dell’aporia filosofica) e la dimensione di ascolto nei riguardi di una prospettiva di senso meno dogmatica di quanto erroneamente si pensi. In fondo risiede proprio in questa sintesi mai conchiusa fra novità e interpretazione (è la dimensione propria della subtilitas applicandi) il carattere autenticamente rivoluzionario della svolta ermeneutica novecentesca. Il pensare nell’alveo impervio della grande aporia conduce il Nostro a non glissare mai le innovazioni di senso fornite dal linguaggio religioso: è come se vi fosse un sottile e duttile filo che lega l’aporia più spinosa della filosofia e il senso del sacro che gli uomini d’ogni tempo hanno tentato di comprendere con maggiore chiarezza. In altre parole, la scoperta del sacro scaturisce dal bisogno di attingere a una giustizia superiore e trascendente. Il legame che unisce la ricerca del sacro e il problema del male è, se vogliamo, indissolubile. La Simbolica del male ricoeuriana ricorre appieno a questa serie di considerazioni, ma nello stesso tempo presagisce una posizione problematica rispetto alla fenomenologia del sacro, specie quella di Eliade23. Il confronto vivo e aperto con la sfera di senso che orbita intorno al mondo biblico apre alla necessità di una svolta ermeneutica del pensiero, giunto, come abbiamo avuto modo di scorgere, alle soglie della grande 45 aporia della filosofia. Tanto più l’aporia si fa ardua, spinosa e insormontabile quanto più essa si fa, sul piano squisitamente ermeneutico, interessante. Emergerà pertanto, con tutto il suo carico di elementi speculativi, l’esigenza d’impiantare un discorso sulla natura filosofica dell’interpretazione dei simboli incastonati nel linguaggio biblico. Quest’aspetto contribuisce a rendere ancora più chiara l’ispirazione congiuntamente ermeneutica e speculativa (due prospettive apparentemente agli antipodi) di tutta la filosofia ricoeuriana. In breve, si tratta di specificare una caratteristica importante del pensiero ricoeuriano: avere e volere una filosofia senza un sistema equivale a instaurare un circolo assai fecondo che inscriva al suo interno i due fuochi della speculazione e della interpretazione. Ebbene va aggiunto, per approdare a una prima sintesi, che in ragione dell’infondata pretesa di enucleare una filosofia pura e avulsa dalle espressioni religiose della finitudine umana, si dovrà giocoforza tentare l’impresa di esplorare con coraggio e convinzione tutto ciò che può contribuire a rendere chiaro il senso dell’essere così come lo si può attingere dai testi biblici. Cosicché sarà altrettanto inevitabile e ineludibile un approccio al mondo simbolico sotteso in tali testi; pur tuttavia deve essere posto a distanza il sospetto che in Ricoeur si celi una filosofia criptoteologica, come la si può immaginare nell’ambito del progetto novecentesco della filosofia cristiana. La successiva operazione da svolgere, nel prosieguo della presente argomentazione, consiste nel ribadire il contesto e l’insieme dei riferimenti testuali che esplicano lo sviluppo ermeneutico e speculativo della filosofia del cristianesimo. Orbene, alla luce di quanto rassegnato e di quanto è ancora da esplicare, si vogliono porre in esame i temi e il corpus della cosiddetta Simbolica del male al fine di ricavarne uno schema utile alla ricostruzione della ontologia biblica. Un tale snodo, d’importanza capitale nell’iter ricoeuriano, permette di centrare più accuratamente e con maggiore acribia le linee di pensiero da sviluppare nei successivi passaggi. L’approccio ermeneutico e non 46 sistematico al simbolo religioso suggerisce una certa corrispondenza fra l’aporeticità del male in filosofia e l’opacità del male espresso simbolicamente. Basti questo a fare emergere il timore, in Ricoeur, di fare dello scandalo del male nel mondo il perno centrale di una conoscenza razionale (nell’ambito del mondo filosofico) oppure di una conoscenza gnostica (nell’ambito del mondo religioso). Ma una nota importante si pone all’attenzione. In merito a una considerazione più generale della vocazione filosofica di Ricoeur s’impone, una concezione del suo pensiero, come detto di frontiera, come pensiero sapienziale24, che è tale nella misura in cui si fa evidente che codesta accezione è recepita al fine di rendere chiara l’opposizione alla gnosi e ai suoi surrogati moderni. Detto altrimenti, Ricoeur è il filosofo del rapporto vivo e autentico che intercorre e insiste perpetuamente fra la filosofia e la non-filosofia. Non pensiamo mai alienati dal mondo di simboli e immagini che ci circonda e, per certi versi, ci sovrasta (tutto il contrario di chi sostiene che è proprio nel simbolo, soprattutto quello religioso, che si concentra la dose maggiore di alienazione umana). Laddove la coscienza dell’umana condizione non pervenga in alcun modo a un’adeguata resa concettuale e razionale, emerge il ricorso a una approssimazione per simboli, la quale racchiude un potenziale speculativo non indifferente. In altre parole, si tratta di ravvivare una linea di pensiero che il simbolo conserva nella sovradeterminazione della sua struttura aperta. Ciò nondimeno per Ricoeur non va eluso il fatto che nel simbolo religioso è sempre posta la questione del rapporto fra l’umana esistenza e la drammatica presenza del male e della sofferenza: v’è sempre un recondito legame fra il senso tragico del male e il senso del sacro. Così dicendo, è altrettanto evidente che v’è un modo di pensare il mondo e l’uomo in ogni simbolo. Il procedimento che adotta Ricoeur consiste nella comparazione, e nella conseguente reinterpretazione, dei simboli a partire da un nucleo tematico che funga da comune denominatore nella molteplicità dei simboli al fine di trarne una Simbolica coerente. Tale nucleo unitario è rappresentato 47 dalla lacerazione originaria, che mediante i concetti d’impurità, trasgressione e peccato costringe la coscienza a una rielaborazione del male e della sua collocazione nell’ordine, spesso indecifrabile, del mondo25. Tornando al carattere speculativo dell’ermeneutica dei simboli religiosi, si dovrà aggiungere che esso è strettamente connesso al procedimento ricoeuriano della ricostruzione di un senso in grado d’individuare un discrimine fra il bene e il male. La quale cosa può a ogni modo essere esplicitata considerando il simbolo come elemento costitutivo di un insieme più complesso e strutturato, il racconto. Il filosofo di Valence non lesina mai considerazioni sul carattere speculativo del simbolo religioso nell’ambito delle costruzioni narrative che cercano un senso a qualunque costo. Il discorso narrato rimette in questione le traversie del nostro modo di conoscere e concepire la realtà che ci sovrasta: essenzialmente ci si ritrova dinanzi al recupero di una riserva filosofica nell’orizzonte di un pensiero che, catturato dall’impossibilità di una piena concettualizzazione, percorre le tortuose vie del racconto. Il racconto è un discorso che incarna appieno la ricerca di senso. Non si tratta parimenti, né più né meno, che di una peculiare indagine o di un’interpretazione dell’esistenza prima del sopraggiungere della metafisica. A detta di Ricoeur, codesta trasmutazione del simbolo nel racconto trova una concreta forma espressiva nel mito. Di conseguenza sarà proprio nell’ambito del mondo del mito che lo spessore speculativo troverà un luogo ideale in cui si va sedimentando. Si evince chiaramente, da questa impostazione di fondo, anche la natura sostanziale del lavoro e del compito dell’ermeneutica; un lavoro che concerne la focalizzazione delle potenzialità filosofiche del mondo simbolico e mitico. Il lavoro ricoeuriano sulla Simbolica del male si configura più nitidamente con una particolare integrazione al metodo ermeneutico, vale a dire con l’assunzione del processo di demitizzazione. In virtù di quanto si evince dalla disamina dei presupposti della filosofia ricoeuriana, nei simboli biblici non si dovranno, in una maniera fin troppo semplicistica, rinvenire solamente i contenuti storici, morali e spirituali dei 48 testi sacri: si dovranno in primis ravvisare una condizione, un percorso e una forma mentis che chiamano in causa soprattutto il lettore e lo coinvolgono attraverso la prospettiva di una sempre nuova interpretazione della realtà. Detto altrimenti, sotto l’insegna del pensiero biblico si fondono le istanze più vive e profonde della filosofia senza assoluto che, come abbiamo avuto modo di provare e tentare, rappresenta lo strato fecondo, l’humus del tragitto filosofico ricoeuriano nella sua interezza. Pertanto si è proposto e si seguita a proporre una chiave di lettura che componga, nel rispetto delle diversità di campo e di fondo, il carattere squisitamente filosofico di quest’iter e le motivazioni autenticamente cristiane che lo informano fin nel profondo. Pur rimanendo salda l’impostazione ontologica dai molteplici riferimenti testuali e concettuali, non si vuole eludere il tentativo di capire appieno le movenze e le note dominanti del cristianesimo d’espressione filosofica di Ricoeur. Cioè di una fede in Dio e nell’uomo nonostante lo iato che sussiste fra la Rivelazione e la razionalità filosofica. 5 Soi-même comme un autre, Éditions du Seuil, Paris 1990 (trad. it. Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993). 6 6 Si pensi soprattutto alla critica italiana che negli ultimi anni si è particolarmente soffermata sulla ricoeuriana filosofia del soggetto, tralasciando i motivi eminentemente teologici e biblici degli scritti successivi a Soi-même, i quali attestano un ben documentato interesse per le questioni ontoteologiche nel loro insieme. Cfr. AA. VV., L’io dell’altro (a c. di A. Danese), Marietti, Genova 1993. 7 Essais d’herméneutique biblique in Lectures 3, Éditions du Seuil, Paris 1994. 8 Soi-même comme un autre, trad. it., Sé come un altro, op. cit. pagg. 92-102. 9 P. Ricouer, A. LaCocque, Thinking biblically, The University of Chicago Press, Chicago 1998 ( trad. it., Come pensa la Bibbia, Paideia, Brescia 1998). 49 Un quadro d’insieme che fornisca le linee generali del rapporto Ricoeur/Marcel può essere rinvenuto in un articolo apparso per la prima volta in italiano con il titolo Gabriel Marcel fra etica e ontologia in Annuario filosofico 5/1989. 11 J. Greisch, Paul Ricoeur. L’itinérance du sens, Éditions Jérome Million, Grenoble 2001. 12 D’un Testament à l’autre (1992), in Lectures 3, op. cit., pagg. 365-366. In Appendice forniamo una nostra traduzione di questo articolo non ancora reso in italiano. 13 La critique et la conviction, Calmann-Lévy, Paris 1995, trad. it., La critica e la convinzione, Jaca Book, Milano 1997, pagg. 197-237. 14 La condition du philosophe crétien (1948), in Lectures 3, op. cit., pagg. 235-243. 15 La philosophie de la volonté. I Le volontarie et l’involontaire, Aubier-Montaigne, Paris 1950, trad. it., Filosofia della volontà. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990, pagg. 462-464. 16 Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz (1956), in Lectures 3, op. cit., pagg. 245259. 17 Per Simbolica del male si deve intendere un corpus di opere che comprende Philosophie de la volonté II. Finitude et culpabilité (II La symbolique du mal), AubierMontaigne, Paris 1960 (trad. it., Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970). Le symbole donne à penser, in Esprit 7/8, 1959 (trad. it., Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002). Le conflit des interpretations, Éditions du Seuil, Paris 1969 (trad. it., Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1999). 18 Un philosophe protestant: Pierre Thévenaz (1956), in Lectures 3, op. cit., pagg. 251252. 19 Le conflit des interpretations, trad. it., op. cit., pagg. 316-319. 20 Philosopher après Kierkegaard (1963), Editions du seuil, Paris 1992, trad. it., in Kierkegaard. La filosofia e l’eccezione, Morcelliana, Brescia 1996, pagg. 54-57. 21 Ivi, pagg. 35-41. 22 Ivi, pagg. 62-67. 23 Le conflit des interpretations, trad. it., op. cit., pagg. 35-36. 24 La critique et la conviction, trad. it., op. cit., pagg. 199-200. 25 Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit., pagg. 271-294. 10 50 CAPITOLO II UNA FILOSOFIA A DISPETTO DEL MALE 2.1 Dentro e oltre la Simbolica del male Porre il fine di chiarire in modo più puntuale il tenore del background teologico ricoeuriano può indubbiamente fornire una completa visione d’insieme sul debito contratto con la teologia dialettica e sulle ripercussioni filosofiche provocate da tale corrente. La natura effettiva di questo debito si compendia intorno a un centro di gravità segnato dall’influsso della dottrina paolina della giustificazione, la quale funge, come si tenterà di dimostrare, da collante dell’itinerario filosofico di Ricoeur. Questi, nell’approcciare i temi connessi alla teologia, mantiene sempre un profilo che raramente si discosta dalla tradizione protestante, sicché si deve tenere in conto che il Paolo ricoeuriano riecheggia, in larga misura, il Paolo luterano. Su questa scia s’innesta un originale contributo con una notevole vivacità di pensiero e una palese fedeltà alla testimonianza di un cristianesimo, ancora pulsante e polemico, e per nulla sepolto sotto il cumulo delle macerie lasciato dal Novecento. Puntando al cuore della questione, vale anche per Ricoeur, come per Barth, l’indiscussa centralità del capitolo V della Lettera ai Romani, che è il testo che espone perentoriamente la dottrina della giustificazione. Tuttavia resta da configurare con maggiore acribia il contesto e il pretesto dell’accostamento ricoeuriano al pensiero paolino. Il primo significativo approccio26 al nucleo di questo paradigma è indubbiamente datato 1965, allorché nel volume De l’interprétation. Essai sur Freud27 si focalizzano con cura le implicazione filosofiche del simbolismo religioso. In riferimento a quest’ultimo è doveroso produrre una notazione preliminare. Il Novecento è il tempo dell’ermeneutica in filosofia, ciò nondimeno bisogna accogliere il fatto che tale disciplina non appaia per nulla compatta e rigorosamente ancorata a un unico e monolitico statuto epistemologico. Più di ogni altro, e soprattutto più di Gadamer, il filosofo di Valence sostiene l’idea che la teoria dell’interpretazione debba dare contezza delle plurali e conflittuali architetture di senso che sorreggono le sortite del Verstehen. Lo studio della teoria dell’interpretazione di matrice psicoanalitica fornisce l’occasione di una prima tematizzazione dei conflitti ermeneutici che caratterizzano le scienze umane del Novecento. Rimanendo nel merito della questione inerente ai simboli, Ricoeur individua due grandi epistemologie moderne, quella di tipo freudiano (che propone un’archeologia dei simboli da ricondurre al concetto di rimozione e al concetto di sublimazione) e quella, a suo dire ancora valida nel Novecento, di tipo hegeliano (il criterio teleologico guidato dalla direzione del sapere assoluto)28. Secondo Ricoeur tali criteri epistemologici, in un certo modo, obnubilano il potenziale di senso dell’esperienza cristiana dell’esistenza, poiché non tengono in considerazione che anche la genesi della cultura cristiana è frutto di un lungo e graduale processo ermeneutico che interagisce con elementi culturali estranei. Va rilevato inoltre che lo statuto ermeneutico si fa ancor più problematico allorquando si approfondisca il contatto con la filosofia, la quale, oltre a recepire la pluralità di senso, tematizza finanche le insidie del non senso e pone con decisione il problema del male come problema insito nell’interpretazione dei testi. Pertanto va detto che la cosiddetta grande aporia gioca un ruolo destabilizzante e introduce l’esigenza di esplorare 52 risorse altre per interpretare in modo creativo la sfera simbolica del mondo della religione e della cultura cristiana. In virtù di questo convincimento sulle oscillazioni del senso dei testi in riferimento a un quadro ontologico sottostante, Ricoeur inevitabilmente s’addentra nel mondo del simbolo religioso, ritenendo questo l’unico surrogato possibile per comprendere le pieghe più oscure del pensiero umano scosso in profondità dallo scandalo del male. Allora si potrebbe affermare che l’ermeneutica simbolica sorregga una filosofia che sta nel cuore della grande aporia e che, tramite la Vorstellung, ricerchi il senso dell’esistenza sull’orlo dell’abisso. In altre parole, la Vorstellung è cifra di un modo di stare e pensare dentro l’ambiguità del sacro e del simbolo e dentro le aporie, senza cadere nella tentazione di assolutizzare alcunché29. Tuttavia né l’impianto fenomenologico hegeliano né l’ermeneutica dell’inconscio freudiana possono rendere appieno l’effettivo spessore del simbolo religioso. L’orizzonte in cui i simboli vanno collocati è quello proprio del sacro. Ma questa preliminare assunzione non autorizza in alcun modo a collocare Ricoeur nel composito novero dei pensatori che propugnano una riscoperta tout court del sacro come dimensione dominante della coscienza religiosa. Per meglio comprendere la posizione ricoeuriana nella sua peculiarità non si deve prescindere dalla sua adesione ai dettami della teologia barthiana30. Questo elemento indicativo emerge con la decostruzione dell’ambiguità del sacro e la conseguente riscoperta della demitizzazione della religione arcaica. La messa a punto degli elementi di congiunzione fra l’ermeneutica ricoeuriana e la teologia dialettica permette di delineare meglio l’incongruenza fra questa ermeneutica e la fenomenologia del sacro31. Pertanto, uscire dalla fenomenologia dello spirito non è sufficiente allo scopo di recuperare la concezione biblica del bene e del male; occorre passare attraverso e superare anche la fenomenologia del sacro. Se l’abbandono della prima fenomenologia è dettato dall’influenza dei neobarthiani francesi, la spinta ulteriore che rimanda all’abbandono 53 dell’altra fenomenologia proviene da un’influenza più diretta di Barth. Si tratta peraltro di comprendere i termini e le movenze di una fedeltà alla teologia barthiana dichiarata palesemente ma non sufficientemente corroborata. La disamina della genesi e delle conclusioni della Simbolica del male, che qui viene esposta, vuole nei limiti del possibile attendere alla chiarificazione di questa eredità, che è resa più manifesta se si focalizza l’innesto della dicotomia religione/fede, ben presente nel tessuto del pensiero di Barth, nell’impianto generale della stessa Simbolica del male32. Si può, a ragion veduta, intercettare tale elemento barthiano della filosofia ricoeuriana a partire dagli snodi problematici dell’approccio al paradigma paolino della giustificazione per mezzo della fede, recepito in larga misura come motivo di rottura fra una religiosità arcaica e la portata rivoluzionaria della religione ebraica successivamente rielaborata alla luce del Vangelo. La teoria ricoeuriana del simbolo poggia su alcuni pilastri elaborati negli anni ’60 e a più riprese esposti nei seminari di studio organizzati a Roma da Castelli e dei quali il volume Le conflit des interpretations (1969) fornisce il compendio. In breve, se nella fenomenologia di Eliade il simbolo si caratterizza come rimando a un ordine cosmico immutabile e spesso in conflitto con le disgregazioni apportate dal tempo della storia, nell’ermeneutica ricoeuriana il simbolo possiede una connotazione poliedrica che lo rende suscettibile di svariate interpretazioni, a seconda del parametro epistemologico previamente assunto33. Tuttavia l’elemento di spicco della concezione ricoeuriana consiste nella doppia direzione insita nel simbolo34. Ossia, se da un lato esso rimanda più o meno chiaramente a una realtà antecedente al discorso logico, dall’altro contiene una spinta in avanti che rimanda più o meno tortuosamente a una realtà da venire la cui comprensione è in fieri. La formula ricoeuriana, parafrasando Kant, suona: le symbole donne à penser35 e propone di tenere in considerazione il fatto che l’antecedenza del simbolico sia nel contempo cifra di un’ambiguità di fondo. Un’ambiguità che risiede nel concetto stesso di sacro: esso è non di rado il movente del senso di colpevolezza che 54 attanaglia e atterrisce l’uomo (è la culpabilité). Il sacro è qui inteso come il luogo originario di un’armonia cosmica la cui trasgressione è da attribuire unicamente all’uomo. Invece nella Bibbia si radica un lungo e laborioso processo di demitizzazione del sacro a vantaggio di una prospettiva di superamento del tragico e della logica di retribuzione che non lasciano spazio alcuno alla speranza di un bene più profondo; di un bene per nulla assoggettato a una vagheggiata armonia primordiale. Il bene della fede cristiana è tutto proiettato in avanti e, come attesta il Vangelo, non soggiace a nessuna logica del ripristino di una vagheggiata età dell’oro o dell’eterno ritorno dell’eguale. A ben vedere il racconto stesso della Caduta è, secondo un’esegesi assai consolidata già presso i Padri e ricalcata da Ricoeur, un protovangelo. Il simbolo, nel linguaggio biblico, tiene insieme (symballo) e sovrappone una dimensione tragica (teologicamente determinata dalla confessione del male commesso) e una dimensione per così dire kerygmatica (teologicamente determinata dall’annuncio di un bene profondo). Il simbolo biblico è, a detta di Ricoeur, espressione massima di questa tensione interna. Nondimeno, per dare prova di questa duplicità implicita nel mondo simbolico, il filosofo francese espone con fermezza che il simbolo che si fa racconto è già di per sé stesso un’operazione ermeneutica che corre lungo il crinale invisibile di una scissione. Il simbolo raccontato può infatti trovare luogo presso il racconto mitico, che contempla una protologia delle origini infrante (v’è traccia di rimpianto e di tragica mestizia), oppure presso un racconto aperto e rivelativo, che contempla una escatologia, ossia una narrazione proiettata verso l’impossibilità di un bene inatteso. I termini della tensione sono antitetici e rimandano a un’origine perduta e a una promessa impossibile. L’escatologia è un’ermeneutica dell’inatteso e dell’imponderabile. Parimenti si può, di certo non agevolmente, constatare che sulla protologia mitica, detta altrimenti mitologia, gravi pur sempre la forza di gravità della culpabilité. In un certo senso superare la fenomenologia del sacro in Ricoeur equivale a espungere dalla sfera della 55 religione l’assenza di speranza. Così come avviene nella natura opzionale della metafisica anche nella religione del sacro si vuole dare del male una spiegazione logica che determini con sicurezza un’origine circostanziata di tale scandalo; quest’ultimo inteso nell’un caso come privazione e nell’altro caso come disarmonia. In definitiva, il simbolo biblico tiene insieme bene e male senza un assoluto che ne armonizzi il lacerante contrasto. Per Ricoeur questa doppiezza simbolica, incarnata pienamente e primieramente dai simboli più ambigui della tradizione, appunto quelli del male, ingenera in ambito ermeneutico interpretazioni che pongono conflitti fra opposte visioni del mondo. Il testo stesso de Le conflit è costruito sulla base di una serie di conflitti concentrici che vanno dalle epistemologie ermeneutiche al conflitto ateismo/cristianesimo, per non parlare di quello che è sullo sfondo, ovvero il conflitto fra bene e male. La filosofia ermeneutica di Ricoeur non risponde all’intento di sanare in modo definitivo tali conflitti, né tantomeno di conciliarne i termini in maniera artefatta e speculativa; la filosofia ermeneutica di Ricoeur vuole decidere da quale parte stare e lo fa recuperando le potenzialità filosofiche, morali e spirituali del mondo biblico e del messaggio cristiano, che da quel mondo scaturisce con veemenza. Pertanto, la tematizzazione moderna della religione in filosofia, in ambito generale e nel caso specifico di Ricoeur, passa necessariamente attraverso la considerazione critica di due filoni di pensiero, ovvero attraverso due fenomenologie, quella dello spirito con il suo metodo teleologico (Hegel) e quella del sacro (Eliade). Rispetto alla fenomenologia dello spirito, che avanza la propria pretesa di concatenare e fagocitare, a suo modo, le figurazioni del sapere in virtù di una visione assoluta di spirito (Geist), la fenomenologia del sacro, pur avendo interrotto il preteso continuum dello spirito, cerca per via ermeneutica una composizione che abbia comunque un centro irradiante (das Heilige) che polarizzi la varietà di ierofanie e simbologie. Inoltre, alla luce delle acquisizioni di metodo desunte dalla désabsolutisation, si perviene alla conclusione secondo cui 56 anche la fenomenologia del sacro di Eliade contemplerebbe una sorta di totalità senza filosofia (nella coincidentia oppositorum di bene e male della mistica), dal momento che il simbolo soppianterebbe la dialettica della fenomenologia dello spirito nel ruolo di canale per accedere alla totalità del kosmos, imprescindibile per ricostruire nel tempo la dimensione di un ordine universale eterno e immutabile. La ricerca di una dimensione di contrasto con le sottese epistemologie, cui fanno capo le due fenomenologie, consente a Ricoeur di riproporre un’interpretazione del problema del male e del bene in chiave cristiana e lo fa approntando un quadro ermeneutico forte delle acquisizioni dell’esegesi biblica che Barth ha voluto affrancare, a suo modo, da metodologie antropologiche e filosofiche. Al fine di restituire un certo slancio e una certa causticità al testo biblico il movimento che da Lutero, Kierkeggard e Barth fino a Ricoeur entra nella teologia biblica propone un ritorno alla contestazione paolina della religione arcaica fondata sulla logica dell’equivalenza e della retribuzione. Detto in tutt’altro modo, si tratta di comprendere che Ricoeur propone di decostruire l’esperienza religiosa a partire da un criterio endogeno (la dicotomia barthiana religione/fede), ovvero da un punto di vista che è dentro la dinamica stessa del testo biblico e che sia in grado di dare la misura dell’ambiguità del sacro. Ne sortisce l’acquisizione che, a motivo di una certa consonanza con l’interesse nutrito nella teologia protestante per la questione del sacro, si profila, sullo sfondo ermeneutico ricoeuriano, anche una dialettica fra religione e fede. In riferimento alla peculiarità di quest’ultima dicotomia, qualsiasi criterio unitario e antropologico dovrà cedere il passo all’indisponibilità e all’imponderabilità del kérygma: non hanno ragion d’essere né il moto centripeto dello spirito né tantomeno il moto centrifugo del sacro. Ad ogni modo entrambe le prospettive possono essere assimilate a varianti di un’antropologia che non consente alcun ancoraggio all’escatologia del mondo biblico. Parimenti non vale nemmeno il criterio psicoanalitico della sedimentazione della coscienza (metodo archeologico), 57 enfaticamente legato a una demitizzazione del senso di colpa unicamente centrato sul primato della soggettività. La dicotomia religione/fede (che è barthianamente una sostanziale discrasia fra antropologia e teologia) è proposta in ragione di un rimando preciso alla teologia di Barth che enuclea il carattere innovativo del kérygma e della fede a esso conseguente. La categoria che si viene a contrapporre con vigore, al metodo archeologico come al metodo teleologico, è quella un po’ sfuggente dell’éschaton, cifra dell’eccedenza da ogni sistema o dottrina. In virtù di una tale pregnante prospettiva subentra la veemenza tutta paolina che contraddistingue il passo del “molto più”, inteso come il “tutt’altro” e che segna, in modo quasi plastico, l’irruzione stessa del Totalmente Altro nella vita del credente. La cifra di tale alterità totale è talmente paradossale in quanto attesta una relazione con la creatura sia a dispetto della stessa condizione creaturale sia a dispetto finanche della propria alterità. In un certo senso, Ricoeur tenta la strada, non certo agevole ed accomodante, d’interpretate sia il metodo archeologico sia il metodo teleologico come modulazioni distanti dal kérygma. Per adempiere al proprio progetto il filosofo francese appronta un orizzonte di riferimento con il quale inquadrare meglio il suddetto spettro metodologico. Attingendo a piene mani alla Bibbia, individua nel punto alfa (un’antecedenza che non è arché) l’elemento che trascende il metodo archeologico e nel punto omega (un’ulteriorità che non è telos) quello che trascende il metodo teleologico, sicché verrà a determinarsi, ancorché in modo non ancora completamente chiaro, che l’orizzonte di riferimento del simbolismo biblico è talmente sconfinato da non poter rimanere irretito da pregiudiziali scelte metodologiche (non è dato disporre di un inizio e di una fine nettamente individuati e ben determinati)36. Il quadro prospettico, addotto da Ricoeur, indica lo snodo fra le due fenomenologie, quella dello spirito e quella del sacro, e al contempo ne individua gli elementi da trascendere se si vuole rimanere nell’orizzonte biblico dei simboli religiosi. In altre parole, si procede seguendo 58 una triade formata da Geist/Heilige/Kérygma, sulla base del fatto che ogni componente è, a suo modo, autonoma ed eterogenea rispetto alle altre due; ne consegue la convinzione che l’elemento intermedio renda più acuta e impercorribile la distanza fra gli estremi, i quali non avranno più un riferimento ermeneutico e metodologico comune. Questo processo determina sostanzialmente un’applicazione ermeneutica congeniale alla filosofia senza assoluto di cui s’è detto. Di conseguenza, il kérygma si costituisce nella sua completa estraneità e novità rispetto alle consuetudini delle filosofie della religione che precedono il lavoro d’interpretazione ricoeuriano. Quest’ultimo tende al fine precipuo di conferire all’éschaton la dimensione di un criterio non malleabile e non pienamente disponibile, giacché foriero di un’istanza decostruttiva operata all’indirizzo del mondo religioso interpretato coi crismi della filosofia e della antropologia. Ciò nondimeno viene a determinarsi l’instaurazione perentoria della contrapposizione fra il sapere assoluto e il sapere ermeneutico, accentuando notevolmente la polarità strutturale della moderna filosofia della religione, quella di sapere e fede. La dimensione religiosa del conoscere e del pensare il mondo e l’uomo non soltanto sfugge alle maglie del sapere assoluto, ma introduce una prospettiva escatologica che solamente un’ermeneutica della fede rende a suo modo comprensibile. L’unico margine di dialogo consentito è quello in cui la filosofia destituisce la propria sicumera e presta la propria disponibilità ad accogliere in modo aporetico le implicazioni ontologiche della Rivelazione. La continua e assai travagliata determinazione dello statuto della religione in filosofia contribuisce in modo significativo all’emergere del profilo della recezione ricoeuriana del modello paolino-luterano della giustificazione. Quest’assunzione paradigmatica affatto secondaria acuisce, sul versante del dibattito filosofico, l’evidente difficoltà di collocare la religione cristiana nell’ambito di un determinato e compiuto sistema di pensiero. In altre parole, Ricoeur, da credente e da filosofo, vive sulla 59 propria pelle le aporie del rapporto fra cristianesimo e filosofia nelle sue varie fasi storiche, ammettendo che tale rapporto non è immune da contrasti e manipolazioni. Egli intende pertanto approssimarsi alla forma mentis della fede biblico-cristiana senza schemi precostituiti e pregiudizievoli, giacché l’assunzione del paradigma paolino prevede una presa di posizione chiaramente in contrasto con la “filosofia cristiana”, cioè con il progetto di fare della sfera filosofica e della sfera teologica un unico sistema, e per far ciò occorre passare attraverso una lucida analisi del concetto filosofico di religione, prevedendo l’instaurazione della dicotomia religione/fede. Tale dicotomia, inoltre, è in primo luogo alimentata dalla dicotomia bene/male. Il filosofo francese intende asserire, alla luce della propria convinzione, che pur non potendo disporre intellettualmente di una logica per comprendere l’intersecarsi continuo fra il bene e il male si può tuttavia tentare di abitare questo paradosso attraverso la consapevolezza paolina che ci si possa giovare (nell’ordine di una logica sovrannaturale) di ciò di cui non si può disporre (nell’ordine di una logica per così dire naturale). Congiuntamente alle difficoltà inerenti allo statuto filosofico della religione cristiana, nel suo insieme interpretata come sfuggente a ogni sistema, e all’abisso di non senso spalancato, dinanzi alle pretese del sapere assoluto, dall’ingiusta sofferenza, vengono evidenziate e mortificate anche le velleità di accedere a una forma totale di saggezza, in deroga alla quale va da sé che il male nel mondo non segue alcuna logica; tuttavia, conseguentemente al paradigma paolino, si approda alla convinzione parallela che anche il bene stia al di fuori e al di sopra di ogni logica. Questa è la logica della salvezza. Se è vero che l’idea di totalità esprime appieno le aspettative di un sapere ritenuto assoluto, è altrettanto vero che codesta pretenziosa e pretestuosa assolutezza comporti la conclusione che la totalità, colta dal punto di vista del criterio d’inclusione che la caratterizza fortemente, non debba e non voglia lasciare dietro di sé né scarti né resti. Per Ricoeur quest’idea di totalizzazione del sapere è affine, se non in debito, con la 60 gnosis, ovvero con il convincimento che anche ciò che è ritenuto sovrannaturale sia oggetto di un’illuminante conoscenza del mondo e del suo destino. La fede biblica e l’esistenza cristiana non rientrano, in nessun modo, in quest’ordine di considerazioni. Pertanto si dovrà leggere, fra le righe della Simbolica del male, un progetto puntualmente in polemica con lo spirito profondo della gnosis: la fede cristiana e il simbolismo biblico a essa connesso muovono da una concezione radicalmente aliena dalla pretesa totalizzazione del rapporto fra bene e male. L’intellectus fidei, che ricoeurianamente viene riproposto in chiave contemporanea, è quanto di più lungi possa esserci dagli epigoni moderni e filosofici dell’ideologia gnostica. In Ricoeur l’assunzione sempre più convinta del paradigma della giustificazione evidenzia intrinseche affinità con altri aspetti del pensiero paolino, le quali richiamano all’attenzione il contesto polemico cui fa riferimento lo stesso Paolo e che il Nostro condivide. Si tratta se non altro di elementi in cui spicca il carattere occasionalmente anti-gnostico delle Lettere paoline. Infatti, pur prevalendo nettamente la polemica sulla Legge e il suo valore salvifico, all’anti-legalismo di Paolo può essere affiancata, a ragione, una certa propensione a smascherare le velleità della gnosis a lui coeva. In un certo senso, Ricoeur sposa e ricostruisce una continuità fra Paolo, Agostino, Lutero e Barth all’insegna di un filone di pensiero, radicalmente antignostico, mantenuto vivo nella cultura cristiana attraverso i secoli. La Simbolica del male prosegue l’opera di désabsolutisation, poiché pone al vertice il più alto livello di contrasto con l’idea di assoluto e lo fa assumendo l’aporia dell’origine e del fine del male. Parimenti tale Simbolica è già di per sé stessa una forma di anti-gnosi, giacché contempla, senza mezzi termini, la presa di coscienza di un atto d’accusa rivolto a ogni teodicea, attestandone l’ineludibile dissoluzione, in quanto pensiero immobilizzato e fossilizzato. Il pensiero che vuole continuare la sua strada deve farsi carico dell’irreversibilità di movimento che va dall’assoluto del sapere all’indisponibilità del simbolo, specie di quello che racconta il male. 61 Traslato nel cuore pulsante della grande aporia, il sapere assoluto si mostra nella sua debolezza e in tutta la sua inconsistenza: avere un’idea dell’essere come di una totalità e collocare il male in essa come momento negativo appare, agli occhi di Ricoeur, come una sorta di tragico suicidio del pensare filosofico, il quale, per mantenersi in vita e impedire di rimanere irrimediabilmente stritolato nella morsa feroce della grande aporia, non può che ammettere una riserva di senso che lo preceda e lo sovrasti. Lo scopo è indubbiamente quello di ravvivare ancora una volta e a dispetto del male un margine di speculazione, che può proficuamente nutrirsi delle risorse del simbolo e coabitare con l’aporia se addiviene alla completa destituzione dell’idea di assoluto. Depone a favore di tutto ciò aggiungere il fatto che il simbolo descrive l’esistenza umana come depositaria di una sorta di potenza (dynamis) d’essere che può incanalarsi lungo le vie tortuose del desiderio, dando la stura alla critica psicoanalitica della religione, oppure può addentrarsi per le aporetiche vie della storia dell’essere, dando il via al processo ermeneutico che ne deriva. L’ambiguità intrinseca e strutturale del sacro deve essere portata alle estreme conseguenze e tramutata in motivo di crisi. Codesta crisi sorregge inequivocabilmente la scissione religione/fede, che diviene elemento imprescindibile del ricoeurismo, dal momento che la crisi della fede, che tale pensiero incarna, non fa riferimento soltanto alla diatriba fra pensiero filosofico e pensiero religioso, ma a una conflittualità interna al mondo biblico e neotestamentario di cui Paolo è testimone privilegiato. Assunta tale caratteristica a paradigma ne consegue che l’elemento costitutivo di questa crisi diviene il presupposto fondamentale della ricoeuriana filosofia ermeneutica del cristianesimo. Questa invero compie due percorsi. Da un lato, come detto, problematizza la natura ambigua del sacro, facendo sì che possa delinearsi un primo nucleo della dialettica fra religione e fede; dall’altro lato introduce la tematizzazione della nozione di speranza nell’ambito del pensiero di Ricoeur. Alla prima esigenza corrisponde l’impegno di spezzare il nesso fra il sacro e l’ideologia gnostica ed è proprio 62 a motivo di tale recondito connubio che, sulla scorta dell’eredità barthiana, si configura la distinzione fra religione e fede. Nel secondo percorso si cerca di chiarire che la nozione di speranza, in Ricoeur, non è oggetto di una mera speculazione teoretica, metodo che progressivamente viene abbandonato, ma il filo conduttore di un percorso esegetico fra le pagine del Grande Codice della cultura occidentale. 2.2 Ermeneutica filosofica del paradigma paolino L’estrinsecazione ermeneutica del pensiero di Paolo, e della sua incidenza sulla teologia protestante, procede di pari grado con l’acquisizione amara dell’insormontabile positività del male nel mondo e la contemporanea consapevolezza di poter conoscere una speranza a dispetto di questa positività. Pertanto il tema elettivo della giustificazione per fede assume le fattezze di una forma d’intelligenza dell’assenza di una logica di cui disporre per spiegare la natura della sofferenza e del non senso della malvagità. Alberga con forza, nel cuore di questa presa di coscienza, lo sguardo rivolto all’indirizzo della speranza cristiana intesa come segno di una libertà profondamente radicata nell’esistenza all’insegna della fede. In breve, una giusta collocazione del paradigma paolino, come presupposto fondamentale degli studi biblici di Ricoeur, prevede uno schema ben delineato che si snoda talvolta nel solco della riflessione ontologica talaltra nel solco della riflessione morale. 63 Il contesto di riferimento è prodotto in larga misura, come già accennato, dell’insistenza irrevocabile della grande aporia e soprattutto dal nodo tematico rappresentato dalle due fenomenologie, sicché è al cospetto delle difficoltà, insorte in materia di ermeneutica dei simboli religiosi, che il filosofo di Valence ricorre a un quadro di riferimento che incornici la questione superando le lacune e i limiti strutturali dell’interpretazione archeologica e teleologica. Se per un verso quest’inclusione, che potremmo considerare tutt’altro che estrinseca, è dettata dalle condizioni che ne determinano l’ingresso nel panorama ermeneutico ricoeuriano; per un altro verso essa si tramuta in un’occasione che propizia l’immissione di un’energia nuova in prospettiva anche teoretica. Detto più in sintesi, il paradigma paolino, convertito dal Nostro alla stregua di un presupposto fondamentale del suo pensiero, evoca due aspetti pertinenti alla filosofia in generale: esso è in primo luogo uno spazio ermeneutico e in secondo luogo diviene lo spunto per una teoresi che accompagna Ricoeur nelle successive fasi del suo iter di pensiero. Tanto è plausibile che i riferimenti testuali si espandono attraverso la stesura di scritti e opere lungo un arco di tempo decisamente ampio (dagli anni ’60 agli anni ‘90). Lo si ritrova infatti incardinato, oltre che nel testé citato De l’interprétation. Essais sur Freud, soprattutto ne Le conflit des interprétations, in cui gioca un ruolo notevole sulla struttura dell’opera37, nello scritto Le mal38 e nel sermone La logica di Gesù (1980) tenuto in occasione di un incontro svoltosi presso la comunità ecumenica di Taizè39. L’assunzione del paradigma paolino ha radici lontane e complesse. Alla luce dell’esegesi che ne fornisce Barth, nella sua opera più studiata e famosa, il Römerbrief, il passaggio che fa da cardine è Rm. 5, 12-21 in cui, come è universalmente noto, Paolo sostiene, in modo netto e con tutta la veemenza della sua retorica, che il primato della grazia di Cristo, sulle opere della Legge, si fonda essenzialmente sull’azione di Cristo stesso: l’azione salvifica sovrabbonda di gran lunga e senza misura l’ereditarietà del peccato 64 causata da Adamo e che circoscrive pur sempre l’ambito della Legge stessa40. Nell’economia generale del testo il concetto fondamentale è rappresentato dalla dottrina della giustificazione, mentre il tema narrativo è incentrato sul dualismo tipologico fra l’Uomo vecchio (Adamo) e l’Uomo nuovo (Gesù Cristo). Occorre, a questo punto, chiarire in che termini il piano esegetico intersechi quello squisitamente filosofico. Tenendo nel debito conto l’indiscussa centralità della locuzione “molto più” (pollô mallon), nella struttura di questo testo, che taluni esegeti sono soliti indicare come l’argomento a fortiori della dottrina paolina, vengono messe a confronto due realtà fra loro irriducibili e vigorosamente contrapposte, l’abbondanza (perisseia) del peccato e l’abbondanza iperbolica (hyperperisseia) della grazia che giustifica il peccatore. Orbene, il primo termine di paragone determina, a detta di una certa esegesi assodata, che la radice del peccato, ovvero il male nelle sue più svariate forme, non sia una meccanica e diretta conseguenza della trasgressione della Legge (in Paolo non è la Legge a determinare il peccato ma è il peccato a determinare la Legge), ma che anzi mantenga di per sé una propria misteriosa autonomia; cioè a dire che vi è una profondità, nelle ragioni che producono il peccato, che esorbita dal mero contesto dell’azione umana (è questo il senso della perisseia, intesa come assenza di un limite che possa essere circoscritto), sicché Ricoeur, da un punto di vista filosofico, scorge in quest’affermazione una plausibile attestazione del male radicale. Tanto vale, ma in misura maggiore, anche per la grazia. Essa, dal canto suo, non soltanto esorbita dai limiti dell’azione umana, come del resto il male nel mondo, ma travalica sia ogni misura legata al male commesso che ogni legame in generale con la realtà del male radicale, facendo così riferimento a un bene che è nonostante il male e che è, in ultima istanza, “molto più” potente ed eloquente di ogni male. In definitiva si stabilisce una cesura e viene resa nulla ogni connessione logica e consequenziale fra la radicalità del male e la profondità del bene41. 65 Ne sortisce la considerazione del fatto che l’affermazione di tali asserti rappresenti congiuntamente un motivo di scandalo, nell’ordine di una logica naturale delle cose, e un motivo di speranza nell’ordine di una logica sovrannaturale delle cose (qui sovrannaturale va inteso più che altro come sinonimo d’indisponibile). Ulteriormente ne consegue il rilievo del fatto che l’argomento a fortiori, nella sua implicita natura anti-gnostica, delinei e dia la misura di una dottrina che non ha soltanto una valenza teologica, bensì anche una valenza pre-filosofica che può sic et simpliciter sfociare in un preciso modello di pensiero alternativo in quanto simultaneamente speculativo e rivelativo. Non ci si deve limitare dunque al mero aspetto teologico, esso è sicuramente e ovviamente predominante ma non completamente esaustivo; talché, filtrando il formulario dottrinario e catechetico dell’argomento, viene assunto, da Ricoeur, un atteggiamento di originale apertura verso la Rivelazione cristiana, intesa non più soltanto come depositum veritativo, ma finanche come dono continuo di senso, laddove di questo sembrano perdersi le tracce. Il perno fondamentale di questa lettura, al contempo esegetica e filosofica, è ravvisabile in una sorta di regola della dismisura e della eccedenza. Inoltre questo esempio di ermeneutica filosofica del cuore pulsante della dottrina salvifica sancisce lo sforzo ricoeuriano di decostruire il senso di colpa42 attraverso la determinazione del concetto cristiano di salvezza, quale segno emblematico dello sforzo d’integrazione a una forma di giustizia non originaria ma originale (appunto la giustificazione e non il giudizio, secondo la nota distinzione introdotta da Lutero), la cui misura è la dismisura del bene a dispetto del male e l’infinita differenza qualitativa del male rispetto al bene. In un certo senso ciò è consono alla mentalità teologica barthiana laddove si dia vita a una dialettica spezzata che si pone in netto contrasto con l’artefatta conciliazione prevista dalla teodicea43. In virtù di tali presupposti, così fortemente radicati nell’ottica ricoeuriana, si evince il perché non basti la sola fenomenologia del sacro per comprendere appieno la dialettica religione/fede, poiché la dottrina salvifica, presupposta 66 del discorso filosofico dialogante con la Rivelazione, fornisce il quadro di riferimento per l’oltrepassamento della metodologia fenomenologica in tutti i suoi aspetti. Pertanto non si delinea un pensiero filosofico improntato al proclama del “ritorno alle cose stesse”, bensì un filosofare proiettato verso le “cose nuove”. Detto altrimenti, la oggettività del male è materialmente e sostanzialmente radicata nel mondo a tal punto da costituire il dissidio interno di tutto l’essere, pertanto allo sguardo eidetico si può e si deve contrapporre, secondo quanto sostiene il Ricoeur deluso dall’idealismo filosofico che di sé intride la fenomenologia, uno sguardo escatologico. Se si vuole è proprio la considerazione di tale cambio di prospettiva che induce Ricoeur ad abbandonare definitivamente la filosofia della volontà a vantaggio di una filosofia della speranza. Sviluppatosi in questa direzione appare finanche problematica l’adesione ricoeuriana alla fenomenologia husserliana, poiché all’impianto eidetico, programmaticamente recepito, subentra una modalità di filosofia per così dire esegetica ed euristica, in cui è la Parola a produrre una sorta di epoché delle logiche ateistiche e teistiche. Due considerazioni appaiono di grande rilevanza nella lettura barthiana e, conseguentemente, in quella ricoeuriana del pensiero paolino. La prima concerne il rinvenimento, ancora allo stadio embrionale, di una logica altra sottesa dalla la storia della salvezza e che pertanto non può essere assimilata a nessun’altra logica umana: è la cosiddetta logica della sovrabbondanza, attestata della giustificazione e che spiazza ed eclissa ogni parametro prospettico secondo un’idea mondana di giustizia o quant’altro44. La seconda considerazione concerne la corrispondenza che viene istituita fra una cotale logica e la nozione biblica di novitas (per intenderci si richiama l’attenzione alla ricorrenza di espressioni quali “cielo nuovo e terra nuova”, “legge nuova”, “comandamento nuovo”, “vita nuova” etc.). Si tratta peraltro di un’equipollenza che gioca un ruolo non indifferente nel testo barthiano e che Ricoeur accredita, come si vedrà di seguito, anche sotto il profilo speculativo e ontologico. Insomma, il rimando diretto è quello 67 pertinente alla categoria, fondamentale nell’ermeneutica biblica ricoeuriana, di essere nuovo45. Rapportando le linee di tale logica alla filosofia dell’assoluto, ne sortiscono le seguenti acquisizioni. La logica della sovrabbondanza ingenera un forte legame con la barthiana dialettica spezzata, pertanto non è proponibile pensare a un assoluto che contempli il male come momento negativo, giacché il male, di per sé, è assoluto e lo è anche il bene, quindi non vi è conoscenza dell’assoluto, in quanto bene e male sono, dal canto loro, due assoluti. E ancora, attraverso la prospettiva della novità nell’essere, si aprono nell’ontologia scenari che eludono in modo rimarchevole la pretesa idea di una totalità dell’essere stesso. L’essere non è una totalità e parimenti non è una dualità. Dunque, la scoperta del paradigma paolino, nel suo influsso sul pensiero ricoeuriano, rende ancor più acute ed evidenti le prerogative consone a una vera “filosofia senza assoluto”. L’assunzione del modello di un pensiero de-assolutizzante è in diretta connessione con la configurazione di un presupposto extra-filosofico che lo sorregga. Pertanto ci si sente in dovere di equiparare tale presupposto al paradigma paolino che tanta eco ha suscitato nella teologia protestante. Quel che risalta è che Ricoeur ha compiuto la sforzo di coniugare le suggestioni thévenaziane con le fonti barthiane, non del tutto esplicitate, della filosofia protestante francese. Il Nostro, da par suo, recepisce il mondo biblico alla stregua di una fertile risorsa e sente fortemente il bisogno di dare una versione filosofica adeguata della Parola che da sempre abita il mondo degli uomini con il suo fond révelant46. In altre parole, si tratta di sopperire, con una tale riserva di energia, al pericolo sempre incombente che la speculazione e la riflessione filosofiche possano involversi e inaridirsi in forme schematiche e asfittiche che facciano il paio con il dogmatismo teologico. Più incisivamente, tale fondo rivelante consente una lettura della Simbolica in alternativa e in drastica contrapposizione alla costruzione mitologica dell’interpretazione dei simboli religiosi e biblici. Costruzione che, a 68 detta dello stesso Ricoeur, sopravvive alla propria epoca, perpetuandosi in talune movenze del pensiero moderno che, per certi versi, continuano a insistere sulla linea dello gnosticismo antico, laddove pretendano di sollecitare una conoscenza più o meno razionale della sfera religiosa e della presenza del male nel mondo. In breve e in sintesi, si richiama l’attenzione alla concezione del rapporto fra simbolo e mito, rinvenendo in quest’ultimo la vigenza di una spiegazione statica e ipertrofica del simbolo stesso, pertanto per mito-logia, nel discorso ricoeuriano, s’intende essenzialmente la tendenza a imbastire un processo ermeneutico che si risolva sfociando nell’eziologia e nel ridimensionamento della ricchezza semantica e delle potenzialità speculative del simbolo47. Parimenti, questa tendenza ha cagionato in epoca antica il proliferare selvaggio della mitologia nello gnosticismo antico, il quale, a motivo della propria pretesa di collocare il male, fa in modo che questo inizi un pellegrinaggio fra le cose del mondo: il male è una divinità, il male è una razza umana (per esempio i cosiddetti uomini somatici), il male è una schiatta di demòni, il male è la materia; insomma, il male deve collocarsi pur sempre da qualche parte e una ratio deve averla in ogni caso. Conseguentemente il possesso di questa ratio determina il privilegio della gnosis. Questo processo individua un nucleo da incastonare nell’alveo di una concezione sistematica del rapporto fra bene e male. Il ricorso ricoeuriano al presupposto paradigmatico, desunto dal pensiero paolino, vuole esplicitamente ovviare a una tale tendenza e lo fa sostenendo congiuntamente le potenzialità speculative del simbolo e la possibilità di inquadrarle sotto il punto di vista di una logica altra (quindi in nessun modo conforme alla mito-logica) come quella cristiana della sovrabbondanza. L’elemento comune, che pone sullo stesso piano la gnosi antica e la gnosi moderna, rappresentata ai vertici dal sapere assoluto hegeliano e dalla teodicea leibniziana, è la costituzione rigorosa del problema del male come problema speculativo. Ricoeur considera la formulazione della domanda sul 69 male, quale domanda originaria (unde malum?)48 come il nucleo fondante le pretese gnostiche e razionalistiche, dalle quali non è immune neanche Agostino49, che influiscono sulla filosofia del male, sicché egli intende oltrepassare questo atteggiamento mentale con la proposizione che assume il simbolo come nexus di congiunzione fra un “pensare di più” e un pensare nel solco della tradizione biblica sceverata di ogni influsso gnostico e dogmatico. L’intento precipuo, che insiste su questa elaborazione filosoficoteologica, verte sostanzialmente sul progetto di una anti-gnosi moderna, della quale il Nostro rinviene il modello nel barthismo e, in generale, nelle teologie che si decidono a favore di una ricollocazione centrale della testualità biblica e dell’esegesi a essa legata, elaborando al contempo una graduale assimilazione di tale progetto alle linee generali della demitizzazione ermeneutico-esegetica della Bibbia. Tanto è cruciale da indurre lo stesso Ricoeur a un’ulteriore specificazione della demitizzazione in quanto “de-mitologizzazione”50. Come detto, l’operazione portata avanti è corroborata dalla convinzione dell’indisponibilità di una logica da esibire dinanzi al problema del male e della sofferenza; convinzione peraltro impostata sul presupposto della “abbondanza” o “dismisura” (perisseia) del male radicale, secondo quanto affermato dall’esegesi ricoeuriana della Lettera ai Romani. Nel medesimo riguardo, il graduale concepimento e la laboriosa maturazione del “pensare di più” registra, in Ricoeur, finanche l’esigenza di far proprie le movenze del pensiero tragico, ossia del pensiero che, per un verso, assume la sostanzialità del male nella sua ingiustificata presenza e, per un altro verso, rinuncia, di contro allo gnosticismo, alle pretese di pensarlo nella sua razionalità. Detto in altri termini, il “pensare di più” condensa in sé un movimento in avanti e un movimento all’indietro, tale da rileggere, con occhi diversi, le insidie della speculazione sul male. Tale doppio movimento verrà ulteriormente enucleato con la considerazione della libertà che si proverà di seguito a imbastire. 70 Per meglio comprendere la spinta in avanti occorre scaltrire ulteriormente tutte le implicazioni del paradigma paolino, assunto come il grande presupposto del “pensare di più”. Si tratta di delucidare, con una dose maggiore di chiarezza, le potenzialità squisitamente filosofiche che si deducono alla luce di un modello propositivo per il pensiero occidentale che, a detta di Ricoeur, vive della tensione continua fra una dimensione propriamente speculativa (d’impronta greca) e una dimensione propriamente rivelativa (d’impronta giudaico-cristiana). Il Nostro è il filosofo che incarna appieno il tentativo d’istituire una proficua elaborazione critica e non dogmatica di questa polarità culturale che egli considera aperta; basti menzionare l’alta considerazione che concede agli scritti Sapienziali, a suo dire segnati da evidenti elementi di contaminazione con la temperie filosofica ellenistica. La questione del male e del suo rapporto con il pensiero filosofico ha per Ricoeur anche una valenza nell’ambito della riflessione, cioè nel contesto di una filosofia del soggetto, ne è esempio il tema conduttore del desiderio d’essere51, il quale funge da punto di congiunzione per pensare in interconnessione fra loro sia la sfera del soggetto sia quella dell’origine opzionale della metafisica. Proprio in virtù di questa precisa scelta metodologica emergono i tratti salienti di un altro sbocco del “pensare di più” e dell’esplicazione filosofica del paradigma paolino. Si tratta di ritenere per certo che il filosofo di Valence ha in animo di superare la struttura ontoteo-logica della metafisica, avendo cura di delineare un modello salvifico di ontologia e lo fa promuovendo la considerazione di una prospettiva facente capo alla nozione di speranza (Hoffnung) come motivo scatenante la messa in crisi della struttura metafisica52. Per porre nel giusto ordine la questione e la conclusione che ne consegue è necessario indugiare sull’aspetto apparentemente più soggettivo del rapporto fra la filosofia e il male nel mondo. Per far ciò si deve prendere un primo spunto dalla critica serrata che viene indirizzata alla visione morale del mondo che, secondo l’interpretazione che ne fornisce lo stesso 71 Ricoeur, condiziona a più livelli la speculazione e la riflessione sul tema del male. Ottemperando a tale concezione della realtà, la presenza del male nel mondo è la conseguenza nefasta di un uso improprio della libertà: in altre parole, s’instaura un regime di reciprocità fra la condizione libera dell’uomo e la scaturigine dei mali e delle nefandezze che attanagliano la vita. Il filosofo di Valence propone e suggerisce di costituire una vera e propria ermeneutica della libertà e lo fa attraverso il ricorso alla nozione di speranza; si tratta, come pare del tutto evidente, di un’argomentazione che riveste un ruolo preminente nell’economia generale de Le conflit. Il primo punto da rilevare, a sfavore della visione morale e dal quale è agevole inferire una notevole carica aporetica, scaturisce dall’intollerabile presenza del male sotto forma di ingiusta sofferenza (è il fulcro, se si vuole, dell’esperienza jobica nella sua interezza), un tale elemento imprescindibile trova una non indifferente risonanza nella menzionata concezione della perisseia del male nella sua radicale disgiunzione dalla volontà umana. Ne sortisce il bisogno e l’incombenza di uno sradicamento totale e senza riserve del primo postulato della Moralische Weltenschauung secondo cui l’ordine naturale delle cose e del mondo è rivolto al mantenimento del bene originario che gli atti umani devono assecondare. Alla ricusazione di questa forma di stoicismo è connesso il tentativo, tutto ricoeuriano, di recuperare la nozione di libertà dal punto di osservazione della speranza cristiana. In questo senso, Ricoeur crede in una certa misura di riprendere anche un Kant che sta in mezzo fra la sua Critica della ragion pratica e La religione entro i limiti della sola ragione, ma soprattutto il Kant della domanda “che cosa posso sperare?”53. Pare che Ricoeur, a suo modo, abbozzi una risposta riformulando la domanda con un “come posso sperare?”. In ragione di un tale proponimento l’analisi della posizione ricoeuriana consente una tematizzazione del problema del male e della sofferenza a tuttotondo, senza escludere un’attenzione capace di soffermarsi sia sul versante riflessivo (che investe la soggettività) sia sul versante speculativo e ontologico. 72 In definitiva, la focalizzazione critica della cosiddetta visione morale del mondo, nella sua esemplarità, incarna una fase interlocutoria della demitologizzazione ricoeuriana, giacché viene messa in questione la reciproca implicazione di male e libertà. Questa, in prima istanza, è chiamata in causa come causa e, in seconda istanza, esonerata dalla piena responsabilità. In questa proposta, dal tono marcatamente giuridico, si evince una coloritura ideologica del pensiero sul male che è assai interessante descrivere per sommi capi: poiché non si vuole dare ulteriore adito alla concezione sostanziale e materialistica, caratterizzante certa gnosi di stampo manicheistico, si fa affidamento all’escamotage della chiamata in giudizio della condizione perversa dell’uomo visto come il massimo pervertitore del supremo dono della libertà. Tracce non indifferenti di questa visione inficiano la struttura dottrinaria del dogma del Peccato originale a partire dalla ricostruzione che ne fornisce Agostino. Questi, secondo l’interpretazione lasciataci da Ricoeur, inscrive inconsapevolmente il proprio insegnamento nell’ideologia di una certa patristica che volendo disapprovare lo gnosticismo è incorsa nella formulazione di una anti-gnosi che compendia in sé gnosticismo in senso stretto e visione morale del mondo54. Il movimento che include una stretta reciprocità fra libertà e questione del male diviene, nell’ottica ricoeuriana, una sorta di condizionamento che mina alla base la speculazione indotta dalla visione morale del mondo. Quest’ultima, parimenti, è inammissibile in ragione del fatto che estromette, talvolta incautamente talaltra proditoriamente, il non senso della sofferenza dei giusti e degli innocenti. Orbene, poiché tale ideologia è implicata anche nel mondo biblico, pensiamo ad esempio alle varie espressioni letterarie della cosiddetta lamentazione, il tema della sofferenza deve essere slegato dalla libertà e legato alla condizione ontologica della finitudine umana 55. Il che manifesta che, in virtù del precipuo intento contenuto in Finitude et culpabilité, al singolo uomo può essere unicamente imputata la colpa di un singolo atto malvagio, ma all’umanità intera non si può di certo ascrivere la 73 responsabilità di tutto il male del mondo (l’uomo è strumento relativo di un male assoluto e radicale che lo sovrasta)56. Tale considerazione è alla base della demitizzazione del senso di colpa (la culpabilité) e della convinzione che la finitude dell’esistenza sia il labile confine fra bene e male, posta com’è in tensione fra il male radicale e la possibilità di essere portatrice della speranza di un bene ancor più profondo. In sintesi, Ricoeur vuole confutare la visione morale del mondo al fine di sfatare il mito del male come conseguenza di una trasgressione (che invece è occasione e non causa) e riqualificare sotto tutt’altra luce la centralità della libertà dinanzi alla grande aporia. Inoltre non vanno eluse le implicazioni che entrano nel merito del piano eminentemente ontologico. Se il male non è né una forma oscura di privazione di essere, né tantomeno un deliberato consenso a tale presunto, e inconsistente sotto ogni aspetto, nonessere, ne deve conseguire logicamente che, a riprova di tale considerazione, finitudine e dolorosità confermino tragicamente che siamo sempre dentro l’essere e che pertanto non ha nessun fondamento l’essere della metafisica classica e neotomista, inteso come luogo in cui viene tutelata una sostanza separata e perfetta (il luogo della compiuta equivalenza di essere e bene). Allora si può concludere che il sostrato ontologico della Simbolica del male è decisamente intriso di tragedia e di speranza. La linea adottata dal Nostro, congiuntamente ontologica e morale, verte sulla concezione del rinnovamento della libertà secondo la speranza57. Del resto ciò è comprovato anche dallo stesso mondo biblico, nel quale si fa esplicito riferimento a una posizione preliminare e primordiale del male nel mondo a prescindere dalla Caduta di Adamo (il Serpente ne è il simbolo inequivocabile). Per rimanere ancora all’aspetto etico, con la critica della visione morale del mondo, si evince che lo stesso mondo biblico è insidiato da una reduplicazione di questa concezione: per Ricoeur si tratta della logica di retribuzione o altrimenti detta di equivalenza, vero e costante contraltare della logica della sovrabbondanza. Le figure della Legge e della Grazia 74 denunciano in modo parossistico questa tensione interna al mondo morale e spirituale raccontato nei testi biblici. La tematizzazione ricoeuriana del male, nel periodo impegnato nell’elaborazione della Simbolica, palesa dunque una caratterizzazione ambivalente del percorso teorico seguito, nel senso che, come si è tentato di anticipare preliminarmente, prevale un atteggiamento volto a comporre due metodologie fra loro complementari. Si focalizza un ambito di riflessione incentrato sulla critica del soggetto e che determina un’argomentazione ermeneutica intorno alla nozione di libertà; parimenti si focalizza un ambito di speculazione incentrato, a sua volta, sulla critica della nozione di essere58. Una terza componente, per così dire extra-filosofica, fa invece esplicito ricorso al tema immenso della Rivelazione cristiana. Ne deriva la nota dominante di un’analisi critica all’indirizzo delle filosofie che persistono nell’insano intento di costruire ad arte un sapere del male che leghi fra loro contaminazioni gnostiche, elementi metafisici e filosofie dell’assoluto. Ricoeur è fermo nel convincimento che tali forme di pensiero si condensino al massimo grado nel progetto filosofico, al contempo ambizioso e velleitario, che va sotto l’etichetta di teodicea. Allo stesso modo, sullo sfondo, perdura la necessità di non tralasciare le ragioni per un recupero della dimensione ontologica, in caso contrario verrebbero smarrite le finalità fatte proprie dall’ermeneutica del ‘900, che proprio sull’interscambio ermeneutica/ontologia profonde tutte le energie. Si tratta, pertanto, di un recupero dell’ontologia a dispetto della metafisica, alla quale lo stesso Ricoeur non lesina strali volti a smascherarne la natura opzionale, la quale, come testé accennato, è in stretta connessione con la tematizzazione della matrice della filosofia della finitudine, intesa malevolmente come luogo naturale del senso di colpa. Sotto questo profilo si evidenzia con vigore la portata decisamente antimetafisica che connota, nel suo insieme, il percorso filosofico ricoeuriano, seguendo il quale appare chiara la considerazione della metafisica alla stregua di una sofisticata e moderna ristrutturazione dell’antica gnosis. 75 Quest’ultima viene blandita a motivo di una doppia presunzione: dare le ragioni della natura e della presenza del male e, in ultima ma non meno importante istanza, promuovere una salvezza fondata interamente sulla conoscenza. In virtù di tale assunzione, Ricoeur si prodiga, con sempre maggiore sforzo, nel perseguire l’abiura completa e senza reticenze di quelle tracce, nelle sue latenti sopravvivenze nel pensiero moderno, che egli ritiene essere epigoni dello gnosticismo. Le finalità precipue e costanti del recupero post-metafisico, antignostico ed ermeneutico dell’ontologia s’indirizzano verso due ben precisi riferimenti polemici, che Ricoeur intende scovare e sottoporre a una critica serrata. Il riferimento polemico principale, nell’ambito della riflessione testé posta in disamina, si concentra intorno alla visione morale del mondo; mentre, nell’ambito concernente la speculazione, il riferimento prevalente tocca i nervi scoperti dell’idea di essere come sostanza (predominante in epoca antica e medievale) e come totalità (preponderante in epoca moderna). In fondo, tutta quanta l’intelaiatura della Simbolica del male interviene a sorreggere il significato autentico e originario di symbolon, nella misura in cui si vuole comporre la stessa disomogeneità dei simboli attraverso un’idea di legame che è un rimando alla funzione insita nel verbo symballo59. Un legame che tenta di tenere insieme l’uomo all’essere, non in quanto sostanza, bensì in quanto predicato e verbo che, in Ricoeur, assume le movenze di un lungo racconto (in un’ontologia dal tenore marceliano). In sintesi, al filosofo di Valence sta a cuore il progetto di delineare un’ontologia segnata dall’essere nelle sue epoche. Così ragionando, nell’ottica generale della Simbolica, si potrà rinvenire quasi uno schema in cui inserire di volta in volta quegli elementi che concorrono a costituire un’ontologia che è sì discorso sull’essere, ma nondimeno anche emancipazione dall’essere metafisico, a fronte del quale si propugna una storia del senso ultimo dinanzi allo scacco del male e delle innumerevoli aporie a esso subordinate. 76 L’ontologia che fa da sfondo è segnatamente intrisa di dramma: è espressione di un pensiero tragico. La narrazione è il luogo in cui si accede al senso delle cose del mondo. Da Ricoeur si evincono due direttrici che testimoniano l’atmosfera che si respira nelle grandi narrazioni. L’una è consona alla struttura di quella che il Nostro definisce mitologia; l’altra, in sintonia con la Parola che abita la nostra cultura, è la struttura della escatologia. Dalla lettura delle pagine ricoeuriane, si deduce che il loro discrimine non è determinato sic et simpliciter dalla sola relazione con il mondo biblico, giacché occorre scendere più in profondità. La differenziazione prende forma in riferimento al modello di rapporto con un simbolo afferente a un inizio e con un simbolo afferente a una fine. Il mito, nella concezione generale esposta nell’ermeneutica di Ricoeur, è una connessione sotto forma di narrazione fra l’esistenza umana o la storia di un popolo e l’implicazione ideologica di un inizio e di una fine, sotto il profilo di un’intenzionalità strumentale. Tornando alle due direttrici poste in evidenza, la mito-logia è strutturalmente sottoposta all’interpretazione archeologica e, congiuntamente, all’interpretazione teleologica. Ricoeur riconosce a entrambe le metodologie ermeneutiche la valenza di nodi critici rilevanti e propone un’ermeneutica che anziché confutarne i termini ne assuma l’imprescindibilità, se si vuole ripensare il cristianesimo e i testi biblici nell’alveo della modernità. Pertanto non è sufficiente un rigetto antimoderno del metodo archeologico e del metodo teleologico, le fede cristiana deve tramutarsi in convinzione (che vuol dire che deve pervenire a un’oggettiva consapevolezza di sé), emendandosi dal bagaglio di credenze, attraverso una sorta di auto-demitizzazione. In che misura ciò possa avvenire, mercé la dottrina della giustificazione, è determinato dalle implicazioni inerenti all’idea di una salvezza senza presupposti. Quel che emerge è che la demitizzazione ricoeuriana inquadra il proprio punto focale all’indirizzo dell’idea di originario nelle sue varie sfaccettature o, per farla breve, nei suoi occultamenti filosofici. Talché sostanza, fondamento, totalità sono maschere dell’idea di originario o del 77 ripristino dell’originario. Tale presunta condizione originaria, perduta nella sofferenza o lordata con la colpa, inficia anche la comprensione della salvezza nella sua essenzialità biblica. Dunque l’avallo della dottrina della giustificazione, come cifra emblematica della salvezza cristiana, consente l’approdo all’essenza profonda della salvezza stessa. In un certo qual modo sia Barth sia Ricoeur convergono su un punto assai significativo e prezioso: la giustificazione riecheggia e porta al dovuto compimento l’atto creatore in quanto la salvezza del mondo svela la creatio ex nihilo. L’atto salvifico, tipologicamente presagito nell’atto creatore, non riporta all’origine: la sua direzione è sempre inconsueta, è sempre in avanti. La creatio ex nihilo è una creatio ex novo e la dottrina paolina della salvezza, per mezzo della fede anziché delle opere, ne consente una lumeggiante lettura. D’altronde basti in proposito una focalizzazione delle argomentazioni di natura esegetica sagacemente esposte in Finitude et culpabilité, dalle quali emerge che da sempre il pensiero cristiano ha sostenuto che Cristo non è venuto in funzione di Adamo (vale a dire per il ripristino della condizione prelapsaria), ma è Adamo che è stato creato per annunciare Cristo, cioè una salvezza nuova. Tanto detto consente a Paolo d’impostare la propria dottrina della giustificazione alla stregua di una salvezza che è “molto più” della creazione yahvista narrata nel libro della Genesi60. Orbene, il modello narrativo sotteso dall’escatologia in larga misura attende all’argomentazione a fortiori di Paolo e, in modo più generico, alla promessa veterotestamentaria. Due aspetti s’impongono come costitutivi della dottrina salvifica paolina: il retroterra della concezione della creazione come separazione radicale fra Dio e il mondo e il cuore della dottrina stessa, ossia la nozione di giustificazione61. Cosa comporti l’assunzione di questi due pilastri è dato dal fatto che la separazione originaria posta a partire dalla creazione (separazione appunto creativa, nel senso che si svincola dall’origine) determina come indisponibile l’inizio (emendandolo dal condizionamento di un’origine da ricostruire) e, a seguire, la giustificazione, implicante una giustizia ultima, che salva a dispetto di tutto il peccatore, 78 coincide sostanzialmente con il convincimento che anche la fine (éschaton) risulti alquanto indisponibile. Talché se ne deduce la conclusione che l’argomento del paradigma paolino, ovvero l’argomento del “molto più”, forza al contempo e nel medesimo rispetto ambo le categorie di necessità e di totalità. In altri termini, sovverte i dettami che stanno alla base della logica di retribuzione, che è una decifrazione religiosa delle suddette categorie concettuali. E ancora, l’alta considerazione che riscuote la concezione cristiana del mondo, in Ricoeur, promuove un impianto di pensiero derivato anche dalla netta stroncatura della totalità, giacché il fine letto nell’éschaton, nella sua originale modalità d’interrelazione con il cominciamento, è decisamente a fortiori rispetto a ogni condizione di partenza. In definitiva, la visione cristiana e la convinzione che ne deriva sono scevre di assoluto e di totalità e rendono l’idea di una realtà aperta al novum. Parimenti tale concetto deve essere letto come misura della dismisura concepita mediante la logica della sovrabbondanza del bene; dal canto suo il bene diviene, nei contorni di tale logica sovrannaturale, termine ultimo del superamento totale e incondizionato dell’originario. Ciò permette, in altre parole, di qualificare un criterio che destituisca simultaneamente sia quello archeologico sia quello teleologico: tale criterio è appunto escatologico in quanto implica una logica che si proietta nell’ambito di una ontologia del totalmente nuovo. Da tutta questa serie di considerazioni basilari s’inferisce il radicale convincimento secondo cui il cosiddetto “pensare di più” scardina, a suo modo, anche un ipotetico impianto dialettico (volto a guadagnare una totalità), di conseguenza emerge l’adozione di un atteggiamento diacritico (più a che fare con lo spezzare della dialettica barthiana che in Ricoeur finisce con il qualificare la natura stessa del pensiero filosofico-teologico), non definitivamente assertivo bensì aporetico, cioè capace, in ultima istanza, di coesistenza con le aporie del mondo e del pensiero del male62. Dunque, per il Nostro, “pensare di più” equivale a mettere in atto un’operazione mentale prima ancora che teoretica. Parimenti, tale “di più”, del pensiero 79 ricoeuriano, lo si ribadisce ancora una volta, recepisce due parametri: la natura aperta e plasmabile, se vogliamo euristica, dell’aporia in sé e per sé e il margine fecondo di dialogo con l’extra-filosofico (nello specifico con il religioso), che Ricoeur qualifica positivamente come pre-filosofico (in un senso affine a quello di fonte per la filosofia) e che, come puntualizzato in precedenza, si condensa intorno a un presupposto che assuma le fattezze di una sorta di opzione fondamentale non tanto della filosofia in astratto quanto del singolo filosofo. La costante incidenza e presenza di un’assunzione previa, ma non sclerotizzata nelle forme di un greve dogmatismo, prevede la possibilità di un ingresso a latere della fede cristiana, secondo quanto si è testé ripetuto a più riprese, con tutto il suo corredo di espressioni-limite, quale, nello specifico, il “molto più” paolino che viene recepito oltre che alla stregua di cifra emblematica del paradigma della giustificazione anche come un’attestazione che certifichi, in un certo qual modo, il colmo dello scacco insito in ogni filosofia dell’assoluto e della totalità. Pertanto l’assunzione della logica di sovrabbondanza sancisce inequivocabilmente, in via del tutto definitiva, l’idiosincrasia ricoeuriana nutrita nei confronti delle nozioni di sistema, di assoluto e di totalità, rifiutandone la plausibilità non a causa della loro struttura logica, bensì a motivo della loro incongruenza in merito alla questione spinosa del male del mondo e della sofferenza ingiusta delle vittime innocenti, poiché risulta assai arduo il tentativo pretestuoso della teodicea, che vuole coniugare male e armonia prestabilita, male e sistema. Alla luce di questa sommaria ricostruzione, si tenta di seguito una dettagliata ermeneutica del paradigma paolino che risulta essere caratterizzata fortemente da una duplice connotazione, riflessiva per un verso, speculativa per un altro. La finalità filosofica prevalente, che funge da sfondo e dal quale mai Ricoeur intende declinare, è quella di estrapolare un’ontologia, più narrativa ed ermeneutica, dallo spazio della metafisica. Al fine di perseguire tale intento l’operazione interpretativa viene costellata di rimandi e di confronti, uno su tutti concerne la considerazione dell’origine 80 della metafisica secondo la visione heideggeriana. Ricoeur intende rintracciare anch’egli una Stimmung fondamentale: in vece del sentimento dell’angoscia (Angst) il Nostro, rimanendo fedele alla tradizione riflessiva francese e agli insegnamenti di Nabert, privilegia la focalizzazione del desiderio. Questo elemento fa in modo che la metafisica stessa non sia altro che una forma per rendere la nozione di essere sinonimo di persistenza. Da ciò il filosofo di Valence determina quella che in precedenza è stata definita la natura opzionale della metafisica. La radice profonda della metafisica risiede nel desiderio e tale elemento costituisce un fattore comune con la genesi delle velleità celate nella gnosi antica e nella gnosi moderna. Nello strenuo tentativo di trascendere questo orizzonte, che mal si compone alla spirale di contraddizioni innescata dal volere comprendere la natura del male, Ricoeur propone, sulla scia dell’insegnamento paolino, di tematizzare filosoficamente la speranza cristiana e la sua incidenza sul discorso ontologico, sicché il paradigma della giustificazione diviene giocoforza il cardine sul quale fare vertere il processo critico rivolto alla struttura onto-teo-logica della metafisica e lo fa prefigurando una prospettiva a suo modo originale. La modalità che s’intende privilegiare, per rendere più recepibile la generale impostazione sottesa da Ricoeur, è quella di tenere per ferma una contrapposizione schematica del modello biblico della salvezza (verso un‘ontologia narrativa) alla struttura della metafisica occidentale (in debito con l’onto-teo-logia). Per comprendere le coordinate fondamentali di questo rinnovamento all’insegna della speranza, l’emeneutica ricoeuriana del paradigma, che segna lo spartiacque dell’immane lavoro compiuto ne Le conflit des interprétations, deve esplicarsi diligentemente, cadenzando un susseguirsi di figure della speranza snocciolate attraverso la modulazione, per mezzo di varie traduzioni, della locuzione paolina del “molto più”. Si tratta di un’operazione che, a detta dello stesso Ricoeur, enuclea le articolazioni interne della locuzione, avendo cura, al contempo, di delucidarne le implicazioni filosofiche. 81 In primo luogo la locuzione può tradursi en dépit de: laddove pare non vi possa esserci più una logica o una direzione da dare al pensiero persiste tuttavia una storia di pensiero, quindi il “molto più” (pollô mallon) pone una sfida nel cuore dell’aporia. In secondo luogo la locuzione può tradursi grâce à: il peccato in sé non riesce a tracciare il perimetro del male circoscrivendolo alla sola condizione umana e poiché non dà ragione del male (esorbitante nella sua perisseia) non dà ragione ma prelude a un bene altrettanto esorbitante e illimitato. In terzo luogo la traduzione si accosta al significato autentico della locuzione con l’espressione combien plus: è il cuore stesso del “pensare di più” e funge da cerniera con la teologia della speranza (Hoffnung) di Moltamann63. Così procedendo, la traduzione combien plus, più fedele allo spirito paolino, assimila anche una certa dose di pensiero tragico, talché la realtà del male viene implicata dall’essere. Un’implicazione che esclude in modo drastico l’assimilazione del male a momento negativo (nozione eminentemente dialettica) e l’equiparazione alla peregrina nozione di privazione (concetto eminentemente metafisico). La considerazione generale dell’aspetto ontologico pone, di conseguenza, l’essere sotto tutt’altra luce, quella della logica della sovrabbondanza (hyperperisseia) che esclude perentoriamente la privazione d’essere, recependo di contro un’eccedenza che sovrasta congiuntamente la necessità e la possibilità. Tutto ciò permette, in ultima istanza, di stornare e recidere di netto finanche un altro caposaldo della teodicea, vale a dire le maglie che irretiscono l’essere nell’astrattezza del concetto di armonia prestabilita che non piace per nulla al Nostro. Armonia e angoscia polarizzano e immobilizzano la questione della religione e ostruiscono l’accesso all’intelligenza della speranza, che Ricoeur delinea come la chiave di volta della sua Simbolica del male. Tale chiave s’impone allo stesso tempo a mo’ di premessa e abbozzo per una ontologie biblique64. In un certo qual modo, questo topos del pensiero ricoeuriano costituisce l’approdo ultimativo del processo di désabsolutisation, ossia del processo di liberazione dalla 82 disperazione di chi pensa, incantato dall’assoluto,e soggiogato dal desiderio metafisico, il male senza passare attraverso il “nonostante” di Paolo. Per giungere a una maggiore e accurata comprensione del sottosuolo che fa da sfondo alla differenziazione di origine barthiana fra religione e fede, occorre recepire la centralità del paradigma paolino in qualità di discrimine fra le due logiche dominanti la questione del male, la logica della retribuzione, aspramente avversata dal Libro di Giobbe, e la logica della sovrabbondanza65. Alla prima fa capo, secondo l’ermeneutica che ne fornisce Ricoeur, una concezione dell’essere come totalità e alla seconda un’interpretazione dell’essere come gratuità. Se ne deduce una dicotomia esemplare e di chiara ispirazione luterana: la retribuzione è, a suo modo, cifra del paradigma del giudizio e afferisce naturaliter alla figura biblica della Legge e che, in via del tutto sommaria, costituisce il nucleo di un sentimento di dipendenza assoluta, elemento che fa da matrice all’idolatria. La sfera della religione è inglobata totalmente in quest’ottica focalizzata da Barth, il maggiore teorico della dicotomia religione/fede, in virtù della quale la critica ricoeuriana intende oltrepassare congiuntamente le due fenomenologie. Ciò impone una chiara linea di continuità del pensiero ricoeuriano con un filone teologico che, sulla scia di Lutero e di Barth, rinviene nella visione religiosa del mondo, senza che in questa vi sia una più nitida differenziazione rispetto alla fede biblica, la radice ambiguamente protesa verso la teodicea da un lato e l’ateismo dall’altro. In deciso contrasto a questa concezione si delinea il paradigma della giustificazione. Ricoeur concentra il suo sforzo sul rinvenimento di una certa continuità fra la linea jobica, che sperimenta un’icastica e caustica parodia della teologia della retribuzione, e la linea paolina, allo scopo di delucidare, con metodo ermeneutico, la coabitazione forzosa di questi opposti paradigmi finanche nel mondo biblico. Il movimento critico che viene innescato da Lutero e dai suoi epigoni consente una lettura della ricerca di Dio come di un fenomeno permeato da una polemica endogena al mondo biblico e che si caratterizza, 83 talvolta con la ridondanza dello scontro epocale, per mezzo di una linea continua di dicotomie (opere/fede in teologia, religione/fede in filosofia). Nondimeno Ricoeur cerca incessantemente uno sbocco squisitamente ontologico, in cui collocare la sua ermeneutica del male e la sua intelligenza della speranza, propiziato dall’assunzione del paradigma paolino. Il topos dell’ontologia biblica, pertanto, si fa strada quale modello aperto d’interpretazione della conoscenza cristiana; un modello che mira a un’approfondita analisi critica dell’onto-teo-logia. Il discorso imbastito nei termini della concezione ricoeuriana dell’essere volge a una rotta di collisione nei riguardi della nozione di essere come sostanza a vantaggio di una concezione dell’essere come racconto. 2.3 Nel cuore della teologia dialettica Orbene, in ragione di quanto finora esposto, sull’incidenza del paradigma paolino nei riguardi di un sua interpretazione squisitamente filosofica, si può pervenire en passant alla conclusione secondo cui tutto l’impianto, costituito da Ricoeur, non giovi a una sistematizzazione rigorosa del cristianesimo, bensì alla delimitazione di un percorso critico che renda plausibile l’orizzonte di senso della fede biblica anche nella contemporaneità. In un siffatto progetto il paradigma paolino si è imposto all’attenzione quale grande e imprescindibile presupposto dell’opera del filosofo di Valence, il quale individua anche la possibilità di costituire un forma sui generis di ontologia quando si esprime a favore di una collocazione centrale 84 della nozione di essere nuovo come cerniera fra l’ermeneutica filosofica (volta al recupero delle dimensione ontologica dei testi) e l’ermeneutica biblica (volta alla promozione di una compiuta demitizzazione/demitologizzazione del racconto biblico). Addivenendo all’acquisizione del paradigma paolino, quale chiave di volta della Simbolica, il processo di demitizzazione si determina come la principale opzione di metodo congeniale al pensiero ricoeuriano intriso di istanze protestanti. Mentre la ontologia biblica si profila come elemento implicito e speculativo della stessa Simbolica del male. Sicché, nel portare alla luce tutte le implicazioni filosofiche della Entmythologisierung, non può mancare un aperto confronto critico con Bultmann, il più autorevole e rinomato esponente dell’esegesi demitizzante del panorama teologico novecentesco. Ricoeur intende sviluppare una cospicua rivalutazione della demitizzazione e lo fa conferendo al metodo esistenziale un ruolo alternativo a quanto sostiene in merito Barth. Come è ampiamente documentato, questi ha lungamente polemizzato con Bultmann a proposito del ruolo della pre-comprensione filosofica in materia di esegesi biblica66. Nondimeno l’enucleazione della specificità ricoeuriana potrebbe fornire spunti assai fecondi alla questione ermeneutica e più in generale al rapporto fra filosofia e teologia. I due grandi protagonisti della teologia del primo ‘900 possono essere indicati, senza tema di smentita, come i più proficui ispiratori dell’ermeneutica esegetica di Ricoeur. Da loro trae i fondamenti della sua teoria del testo biblico; dalla loro contrapposizione evince inoltre la possibilità di ritrovare, nel mondo della Parola, un nuovo inizio della riflessione filosofica. Innanzitutto, secondo quanto è confermato dall’opinione ricoeuriana, non può essere elusa la natura eminentemente ermeneutica del fatto cristiano, talché si dovrà giocoforza concedere il giusto risalto alla dimensione kerygmatica insita nell’esegesi biblica. Ciò è dato per certo in quanto la stessa Scrittura è, in ultima istanza, espressione fissata per iscritto 85 (per dirla con Dilthey) della proclamazione della Parola che la precede, la fonda e che non la esaurisce in modo del tutto conclusivo. Sussumendo una tale costituzione, strutturalmente ermeneutica, viene chiamata in causa una circolarità comprensiva di evento/scrittura/evento; come dire che il rapporto, con l’aspetto propriamente vitale della Parola, rimane non sullo sfondo, ma costituisce l’essenza stessa dell’esegesi del testo biblico. La dimensione interpretativa del cristianesimo si delinea attraverso una serie di circoli ermeneutici concentrici, Ricoeur ne privilegia sostanzialmente due. In primo luogo il circolo che coinvolge l’interrelazione fra Antico e Nuovo Testamento (il tema della speranza in connessione con quello della promessa); in secondo luogo, il circolo specifico del kérygma, che coinvolge il credente e Cristo stesso. Facendo leva su tale scenario, si profila un’intersecazione, colta magistralmente da Bultmann, fra l’interpretazione esistenziale e il senso cristico della Scrittura. Alla base di questa opzione di metodo, operata da Bultmann e condivisa in una certa misura da Ricoeur, ci pare di scorgere non tanto l’impronta di Heidegger, accertata e assai conclamata da tutta la critica, quanto quella più profonda di Lutero. Ricoeur stesso non giunge a Bultmann passando per il filosofo di Sein und zeit, ma passando per il padre della Riforma. In un certo qual modo si profila la necessità, tutta ricoeuriana, di far emergere il filo rosso che congiunge la désabsolutisation thévenaziana alla Entmythologisierung bultmanniana. Tale operazione è resa possibile facendo convergere la specifica finalità di Thévenaz, cioè quella di aprire la soggettività alla novitas del devant Dieu (a scapito dell’astratta e boriosa nozione di assoluto) e la finalità di Bultmann che, da par suo, vuole questa soggettività in dialogo con il Regno annunciato da Cristo nel Vangelo. Tuttavia, va detto e confermato che, nello spirito dell’operato ricoeuriano, non va centrato lo scopo di ricostruire un pensiero esistenziale, bensì quello di ricostruirne uno squisitamente ed eminentemente biblico. Il presupposto dell’ermeneutica della speranza sposa appieno l’obiettivo di dar luogo a una vera ermeneutica della vita e lo fa ricorrendo in larga misura 86 alla meditazione luterana sul senso tropologico della Scrittura, che non assume come prevalente il criterio secondo cui la stessa Scrittura conterrebbe soltanto i precetti della vita morale del credente, bensì il criterio secondo cui nell’esistenza del credente opererebbe una dialettica della tensione fra lo spirito e la carne. Si tratta per certi versi di un criterio interpretativo affine più a una prospettiva ontologica in senso lato che a una morale in senso stretto. Il debito barthiano non sembrerebbe di primo acchito del tutto evidente. Benché il rapporto fra Ricoeur e l’autore del Römerbrief si limiti ad alcune occasionali citazioni, pare di capitale importanza rilevare il fatto che la correlazione fra filosofia e teologia, nel pensiero ricoeuriano, si possa calibrare su uno schema traslato dall’ermeneutica barthiana. In che termini è presto detto. In Barth (Kirchliche Dogmatik, I/2) la categoria dell’applicazione (Anwendung) del testo biblico è sorretta da una previa fase di “ripensamento” (Nachdenken) delle “forme di pensiero” (Denkweisen) che la storia ha forgiato e che l’interprete deve mettere a confronto con la sua esegesi della cosa biblica. Pertanto è nel carattere dialettico dell’esegesi biblica che si evolve e si concretizza la stessa teologia dialettica, della quale Barth è ritenuto il padre. Quest’ultimo ammetterebbe una forma di precomprensione, rovesciandone radicalmente la valenza: non più una congerie di presupposti con i quali filtrare oppure concettualizzare la Parola, bensì l’occasione per rendere effettivo un ripensamento delle visioni del mondo. Si tratterà dunque di esplicitare la cadenza di un procedere dialettico che interessa la pre-comprensione (Vorverständnis) e la post-comprensione (Nachverständnis). L’accostamento fra esegesi e la cosiddetta teologia dialettica viene ereditato dalla categoria ricoeuriana di distanciation (dimensione propria del testo) e dalla categoria di monde du texte, nel momento in cui esse vengono incorporate nell’elaborazione della teoria del testo biblico come luogo della distanza fra i sistemi di pensiero e la Parola. In Ricoeur le categorie ermeneutiche di pre-comprensione e di postcomprensione vengono assunte come condizioni preliminari della 87 distanziazione, intesa non più nel suo carattere alienante (problema aperto da Gadamer), bensì concepita nel suo carattere critico, finanche innovativo (dalla Verfremdung gadameriana alla Distanciation ricoeuriana)67. Si esplicita, in tal senso, un procedimento nel quale il mondo del testo assume il duplice ruolo di elemento naturale della intenzionalità del testo e di luogo deputato al ripensamento delle ragioni profonde che sorreggono le visioni del mondo. Pertanto si potrebbe tentare una prima linea comparativa Ricoeur/Barth: la nozione di mondo del testo esplicita, in un certo modo, la teologia dialettica, in quanto espressione di una concezione in cui il pensiero filosofico viene problematicamente posto dinanzi al suo altro. Procedendo al rilievo del debito bultmanniano, la riflessione intorno alla Simbolica del male entra a pieno titolo nella temperie ermeneutica e incrocia il proprio destino con le influenze della demitizzazione esegetica del testo biblico. Qui Ricoeur introduce nella questione e motiva un perentorio distinguo interposto fra demitizzazione e demitologizzazione. Tale presa di posizione pone l’attenzione sul fondamento dell’intera Simbolica: il mito è una forma (interpretativa) di discorso che, attraverso una narrazione, fa derivare da un simbolo primario una causa (funzione eziologica) posta oltre il tempo e lo spazio, riducendo l’originaria polifonia del simbolo stesso. Quest’ultimo di fatto non sarebbe, secondo la riflessione ricoeuriana, una forma primitiva di pensiero, bensì la testimonianza di un senso che ci precede, un elemento della materia incandescente della coscienza che il pensare è chiamato a elaborare. Nell’economia generale della Simbolica del male è di capitale importanza la polisemia simbolica e, in ragione di questo convincimento, Ricoeur configura l’ermeneutica come la tecnica che riporta alla luce la polivalenza del simbolo, rimarcando il fatto che la potenza significante di quest’ultimo è sempre riferita a un insieme di relazioni simboliche che s’intersecano nell’incessante processo della comprensione. Inoltre va detto che i simboli formano fra loro reti di rimandi e di correlazioni; queste reti forgiano le visioni del mondo. Giacché sussiste codesta sovrapposizione fra 88 relazioni simboliche (nella sfera significante del linguaggio) e visioni del mondo, ciò consente di mettere sullo stesso piano, a partire dalla specifica situazione della Simbolica del male, spiegazione (Erklären) e comprensione (Verstehen). Ne conseguirà che la suddetta Simbolica potrà essere rovesciata, se sovrapposta all’orizzonte di senso biblico (primo indizio di una post-comprensione filosofica del problema del male), in una Simbolica della salvezza. In altri termini, nell’ermeneutica coesistono due esigenze: l’una di carattere eminentemente epistemologico, legata al lavorio di una teoria del testo (Erklären); l’altra concentrata intorno al dispiegamento degli orizzonti di senso (Verstehen). Ed è quest’ultima che, per Ricoeur, concretizza l’aspetto speculativo e oggettivo, superando l’impostazione esistenziale di Bultmann, che per certi versi rimane ancorata alla sola sfera della soggettività. La demitizzazione non può limitare il proprio raggio d’azione alla rimozione del nascondimento mitico di una peregrina spiegazione cosmologica; essa deve assolvere il compito di ripensare i processi della riflessione simbolica e di comprenderne la sottesa visione del mondo. Similmente si tratterà di scoprire la pretesa velleitaria, guidata da una coscienza giudicante, di dare una veste razionale ed esaustiva all’interpretazione della presenza del male nel mondo. Tale processo è individuato, da Ricoeur (in primo luogo ne Le conflit des interprétations), come una sorta di latente gnosticismo, giacché si pensa di poter spiegare il male attraverso un modello di discorso che irretisca la ricchezza polifonica del simbolo e l’irriducibilità del pensiero biblico a precise categorie concettuali. Ciò ingenera un procedimento, come appunto quello mitologico, suffragato da una falsa scienza (la gnosi, secondo l’interpretazione che ne dà San Paolo nella Prima Lettera a Timoteo 6,20). La falsa scienza, che del male fornisce una speculazione razionale, è incarnata dalla triade teodicea leibniziana/onto-teo-logia/visione morale del mondo. Riassumendo, la scienza, nel momento in cui si fa carico di spiegare il male e la sofferenza, inevitabilmente non potrà che rovinare nell’illusione della 89 propria fallacia. A essa San Paolo contrappone il cosiddetto depositum fidei, richiamando l’attenzione sulla gratuità di un Annuncio di grazia che precede l’uomo e, traslato in termini filosofico-morali, libera l’uomo. Questo kérygma della speranza, nell’interpretazione che ne fornisce Ricoeur, si dispiega, nel Nuovo Testamento, mediante diversi modelli testuali che alternano narrazione e insegnamento. Uno di questi modelli è rappresentato appieno dalla dottrina paolina della giustificazione. Il mondo del testo (come dimensione costitutiva) e la distanziazione (come condizione preliminare) sono pertanto i punti nodali della teoria dell’interpretazione, elaborata da Ricoeur sulla scorta della nozione barthiana di ripensamento e su quella bultmanniana di demitizzazione, intesa come demitologizzazione. Ripensamento e demitologizzazione sono, a ragione, entrambe figure della post-comprensione filosofica. Pertanto si potrebbe parlare di distanziazione demitologizzante in stretta correlazione con il mondo del testo, consolidato nella sua proprietà di decostruire la visione morale del mondo68. Sono pertanto queste le coordinate essenziali del duplice debito ricoeuriano contratto nei confronti di Barth e di Bultmann. Di pari passo, da questo debito, procede un’equidistanza critica: Bultmann non si è posto il problema del passaggio dalla centralità della decisione esistenziale a quello del dispiegamento testuale; Barth non si è posto il problema del linguaggio, ossia del prezioso giacimento simbolico e metaforico in grado di lasciare intendere che il ripensamento delle filosofie non sia soltanto condotto sulla linea della confutazione, ma anche su quella, propriamente ermeneutica, dell’appropriazione. Entrambi hanno eluso la possibilità di restaurare il simbolo e di ripensare la cosa biblica come una frontiera aperta fra filosofia e teologia. Su questi cardini ruota tutta la dialettica fra pre-comprensione e postcomprensione e a partire da tali presupposti teorici si potrebbe riconfigurare il rapporto fra ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica. L’elaborazione della nozione di post-comprensione può suffragare l’ipotesi, tutta 90 ricoeuriana, del presunto rovesciamento del rapporto fra le due sfere dell’ermeneutica: quella biblica, progressivamente assumere la da funzione ermeneutica regionale, d’implementare può l’orizzonte filosofico. L’ermeneutica testuale di Ricoeur prospetta l’irrompere, nella questione del senso dinanzi allo scandalo del male, di un essere nuovo proposto dall’esegesi del mondo del testo biblico. Quasi come in una nuova alleanza, il pensiero filosofico innesca una traiettoria di lettura nei testi sacri che dispiegano un senso fondato su paradigmi alternativi e radicali. Uno di questi, quello paolino della giustificazione, quello che più di tutti caratterizza la riflessione ricoeuriana, dispiega il racconto biblico in direzione di un pensare altrimenti lo scandalo del male, cioè alla luce di un bene a dispetto del male, di un bene che investe l’uomo “molto più” del male. Tutta la Bibbia, secondo l’esegesi ricoeuriana, potenzialmente annuncia e progetta questo cambio di direzione. L’orizzonte di senso, contemplato nel cuore della dialettica fra religione e fede, è tratto dall’emblema della giustificazione, esperienza del dono di grazia. Se per ciò che concerne l’aspetto squisitamente teologico la giustificazione incarna il cuore stesso della dottrina paolina, da un punto di vista meramente filosofico, come accade nell’economia del testo ricoeuriano, siamo in presenza di una prospettiva alternativa, qual è il dispiegamento di un paradigma altro da spendere in favore di un’interpretazione più filosofica del mondo del testo biblico. Questo modello alternativo di lavoro ermeneutico viene nondimeno ripreso e assunto in guisa di schema decostruttivo dello gnosticismo sopravvissuto nel pensiero moderno (che ha fatto del Cogito il principio dell’autosufficienza del soggetto). Detto altrimenti, la presenza del male non assume solamente i netti contorni dello scandalo e dello scacco: essa incarna una sfida perentoria per il pensiero filosofico e, congiuntamente, per il pensiero teologico. La sfida è duplice, ma è anche un’occasione per ripensare le convergenze fra visione morale del mondo e visione religiosa del mondo. La proposta ricoeuriana 91 non auspica una soluzione pacifica nel rapporto fra filosofia e teologia, ma guarda con favore a una proficua tensione. Il filosofo francese, conscio del fatto che il problema del male metta in scacco nel contempo filosofia e teologia, riformula tale duplice sfida mediante la possibilità d’imbastire una contro-sfida. Il paradigma paolino risponde in pieno a quest’esigenza: la giustificazione confuta la coscienza giudicante e affranca il Cogito dall’inganno dell’auto-trasparenza e dell’auto-referenza. In Ricoeur ritorna un motivo conduttore del pensiero teologico di derivazione luterana: la visione della condizione umana stretta fra due poli, quello del giudizio e quello della giustificazione. Al primo polo fanno capo, in un certo senso, le forme gnostiche di pensiero, che Ricoeur ritiene espressioni storiche della coscienza giudicante, nelle cui pieghe si possono scorgere la forma dello schema della consolazione (principio della teodicea) e la forma dello schema dell’accusa (principio dell’ateismo). Tutta l’ermeneutica del conflitto (che coinvolge ateismo e teodicea e, più profondamente, religione e fede) è improntata alla decostruzione di questa coscienza attraverso la riflessione sulla Simbolica del male, parte anch’essa di questo discernimento critico69. La stessa palinodia jobica, commentata ne Le conflit des interprétations, assolve in pieno questo compito; essa è, in ultima istanza, una critica della coscienza giudicante sedimentata sul fondo della religione arcaica e contro la quale sferrano i propri strali gli autori del Libro di Giobbe e del Qoèlet. Con codesto preciso riferimento scritturistico, il filosofo francese prova a corroborare la sua interpretazione kerygmatica del male. Egli intende costruire, a suo modo, una sorta di parallelismo fra la sua riflessione critica, esercitata sull’accusa (ateismo) e sulla consolazione (teodicea), e la riflessione sapienziale. La motivazione di fondo è quella di enucleare una confutazione della coscienza giudicante come coscienza impura. Si toccano pertanto i nervi scoperti di due conflitti concentrici, quello fra ateismo e teodicea e quello, assai più complesso e per questo meno evidente, fra religione e fede. L’intento di Ricoeur è quello di dimostrare che il contenuto 92 dell’accusa ateistica e il contenuto della consolazione teistica hanno una matrice comune nella visione religiosa e morale del mondo dominata dalla logica retributiva: convincimento assai distante dal Dio della fede biblica, il quale debolmente annuncia agli uomini la sua forza “a dispetto”(en depit de) del male. Il Libro di Giobbe è il testo chiave per delucidare una prima distinzione fra la religione (negli amici di Giobbe ancorata alla rigida logica retributiva) e la fede (in Giobbe ancorata all’impossibilità della speranza). Pertanto la nota esortazione ricoeuriana a pensare “nonostante” il male e la sua sfida incontra, sulla sua strada, un contenuto rivelativo capace di ripensare nella direzione di una post-comprensione (condizione a cui sottoporre il pensiero filosofico), vale a dire di un pensare secondo la logica di una nuova visione del mondo che non trascende ma rinvigorisce la filosofia. Si ribadisce perentoriamente il fatto che per post-comprensione si deve intendere quel processo decostruttivo che investe primieramente la teodicea leibniziana, l’onto-teo-logia e la visione morale del mondo. Qui risulta ancor più evidente il rovesciamento dei ruoli nel confronto fra ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, dal momento che quest’ultima assume la direzione di un vero e proprio processo di metamorfosi (mediante appunto la post-comprensione) della coscienza giudicante in coscienza affrancata dalla visione morale del mondo. Il mondo del testo biblico incrementa quest’affrancamento prospettando l’oltrepassamento congiunto della requisitoria dell’ateismo (in cui Dio sarebbe oggetto di una sentenza di condanna) e dell’arringa della teodicea (in cui Dio sarebbe oggetto di una sentenza di completa assoluzione). Entrambe le prospettive condurrebbero di fatto a un dissolvimento della fede autentica. Dal conflitto fra le interpretazioni emerge un’ermeneutica per certi versi decostruttiva, per altri versi ricostruttiva; in gioco vi sarebbero le sorti della possibilità di pensare “a dispetto” e al cospetto dello scandalo del male. Il mondo del testo biblico prospetta un essere nuovo nella misura in cui si fa promotore di un deposito (donazione) di senso radicalmente nuovo. Di 93 conseguenza, in quest’ordine di considerazioni, rientrerebbe finanche l’esigenza, di derivazione barthiana, di riconfigurare la dialettica fra religione e fede. In Ricoeur, pare di poter dire, emerge in modo perentorio l’esigenza teorica di porre in rilievo questa distinzione fra il carattere storico della religione e il carattere profetico della fede. In sintesi, si tratterà di ridimensionare la religiosità, suffragata da un sentimento di dipendenza vagamente nutrito nei confronti di un ancor più vago assoluto, a vantaggio di un evento profetico destabilizzante che si fonda su una Parola che ci precede e ci investe “a dispetto” (e “molto più”) delle more di una coscienza giudicante e delle aporie del filosofare. La proposta ricoeuriana si concretizza e si condensa intorno a un’idea-limite (contenuta nel mondo del testo), il paradigma paolino della giustificazione. La sfida del male può essere raccolta se s’intraprende una sfida ancor più radicale, quella della dismisura del bene raccontato nel mondo biblico. Su questa linea prende forma compiutamente l’esplicitazione della post-comprensione, vale a dire la realizzazione di un approccio al testo biblico che vada coraggiosamente ben oltre la dinamica della lettura soggettiva (ancora dominante nella comprensione esistenziale di Bultmann). Si tratterà dunque di assumere un approccio pre-filosofico che coinvolga la storia delle filosofie intrappolate nel dualismo ateismo/teodicea. In un certo senso questa contro-sfida vuole assumere il coraggio di pensare il paradigma della giustificazione come uno scandalo per la teologia razionale e come una stoltezza per quella filosofia che si mostra incapace di dialogare con l’Altro da sé. 94 26 Per la verità un primo nucleo viene già abbozzato in Finitude et culpabilité, allorché comincia a farsi strada l’esigenza di ritrovare nel pensiero paolino una logica che dia contezza delle peculiarità della storia della salvezza e della correlazione fra Adamo e Cristo. Cfr. Finitude et culpabilité: II La symbolique du mal, Aubier, Paris 1960, trad. it., Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pagg. 539-542. 27 De l’interprétation. Essai sur Freud, Éditions du Seuil, Paris 1965, trad. It. Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1997. 28 Sulla considerazione critica delle epistemologie rivali cfr. Ivi pagg. 503-536; cfr. Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 285-380. 29 Lo statut de la Vorstellung dans la philosophie hégélienne de la religion, in Lectures 3, op. cit., pagg. 42-52. 30 De l’interprétation, trad. it. op. cit., pagg. 565-573. 31 Ibidem. 32 Si deve tenere in considerazione che tutta la parte V de Le conflit è consacrata alla rielaborazione della dicotomia barhiana religione/fede. 33 De l’interprétation, trad. it., op. cit., pag. 567. 34 Le conflit, trad. it., op. cit., pag. 305. 35 Ivi, pag. 304. 36 De l’interprétation, trad. it., op. cit., pag. 567. 37 Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 325-330. 38 Le mal: un défi à la philosophie et à la théologie (1986) in Lectures 3, op. cit., pagg. 211-233(trad. it., Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993). 39 Pubblicato per la prima volta in italiano in un volume curato da E. Bianchi dal titolo, Paul Ricoeur: la logica di Gesù, Edizioni Qiqaion, Magnano BI 2009. 40 K. Barth, Der Römerbrief, Zürich 1954 (trad. it., L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 2002, pagg. 155-159). 41 Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit.,, pagg. 414-415. 42 Ivi, pagg. 353-395. Cfr. anche Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 439-450. 43 Le mal, op. cit. pagg. 226-227. 44 Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 422-423. 45 Exegesis. Problèmes de méthode et exercices de lecture, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1975, trad. it., Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1983, pagg. 89-95. 46 Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pag. 315. 47 Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit.,, pagg. 419-429. 48 Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pag. 289. 49 Ivi, pagg. 290-291. 50 Ivi, pagg. 400-402. 51 Ivi, pagg. 355-360. 52 Ivi, pagg. 417-418. 53 Ivi, pagg. 424-429. 54 Ivi, pag. 287. 55 Ivi, pagg. 349-366. 56 Ivi, pagg. 229-302. 57 Ivi, pagg. 415-438. 58 Ivi, pagg. 312-330. 59 Ivi, pagg. 303-319. 60 Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit., pagg. 497-547. 61 Thinking biblically, trad. it., op. cit., pagg. 51-63. 62 Le mal, op. cit. pagg. 226-228. 63 Le conflit des interprétations, trad. it., op. cit., pagg. 329-330. 64 D’un Testament à l’autre, op. cit., pag. 365. 95 65 Ivi, pagg. 469-472. In merito alla diatriba fra Barth e Bultmann si veda A. Aguti, La questione dell’ermeneutica in Karl Barth, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, pagg. 205-276. Invece per quanto riguarda la collocazione di Ricoeur, nell’ambito di tale questione, si veda W. G. Jeanrond, Theological Hermeneutics. Development and Significance, Macmillan, London 1991, trad. it. L’ermeneutica teologica. Sviluppo e significato, Queriniana, Brescia 1994, pagg. 202-268. 67 Exegesis. Problèmes de méthode et exercices de lecture, trad. it. op. cit., pagg. 53-79. 68 Le conflit des interprétations, trad. it. op. cit., pagg. 406-412. 69 Ivi, pagg. 457-473. 66 96 97 CAPITOLO III UNA FILOSOFIA DAL PERCORSO BIBLICO 3.1 Ontologia spezzata La profonda consonanza del pensiero filosofico e teologico di Ricoeur al Nachdenken barthiano è suffragata dalla considerazione di due ambiti d’indagine: l’uno, propriamente ermeneutico, permette di compiere con maggiore dovizia l’oltrepassamento dei limiti strutturali dell’ermeneutica di Bultmann; l’altro permette nondimeno di esplicitare le risorse ontologiche insite nella linea di confronto vigente fra il percorso ricoeuriano e l’eredità barthiana. Lo spolvero novecentesco del paradigma paolino è tutto condensato intorno al capitolo V del Römerbrief di Barth, in cui si concentrano tutte le implicazioni filosofiche derivanti dall’attenzione prestata al celeberrimo passo sulla giustificazione per fede. Il teologo svizzero, sulla scorta di un’esegesi proposta da Julicher70, evidenzia con acume il carattere rivoluzionario, e difficilmente riconducibile a delle precise formulazioni dogmatiche, della locuzione “molto più”. Tale espressione, si lascia intendere, racchiude un potenziale esplosivo in grado d’imporre una netta e inequivocabile dicotomia fra il mondo e la grazia, per un verso, e le conseguenti forme di pensiero implicate dai due termini dicotomici, per un altro verso. Inoltre, Barth sottolinea, in modo perentorio, che la diastasi che intercorre fra l’azione di Adamo e l’azione di Cristo propone non un dualismo metafisico, bensì una dialettica spezzata tutta interna all’essere del mondo. A ulteriore conferma si aggiunga che attraverso una demitizzazione delle figure di Adamo e Cristo, per il resto avviata dallo stesso Paolo e che Ricoeur appronta per la prima volta in Finitude et culpabilité71, si evince che il leitmotiv che tiene insieme la storia della salvezza (Adamo e Cristo sono i poli imprescindibili di questa storia) non poggia su di una corrispondenza logica (l’azione di Adamo è causa di quella di Cristo), ma su di una corrispondenza tipologica, per dirla nei termini del metodo esegetico. Vale a dire che Adamo è un archetipo che anticipa, senza presupporlo, l’inatteso e l’impossibile, dunque Cristo non è un altro uomo, ma un uomo che è altro rispetto al primo, che è nuovo rispetto al vecchio. Qui il conoscere umano, indotto a pensare che tutto sia soggiacente a una logica di equivalenza, del resto riconducibile a sprazzi a certe espressioni della religione veterotestamentaria, deve ridimensionarsi drasticamente e compiere un atto d’ammissione nei riguardi dell’indisponibilità, tutta umana, di una logica stringente e cogente che sappia dare contezza dell’evento salvifico di per sé stesso. Pur tuttavia, la diastasi implicata dalla sygkrisis Adamo/Cristo72, non poggiando su di una misura comune alle due figure, fra loro inconciliabili, non è una stasi: la via della salvezza passa attraverso l’inconsueto legame fra il vecchio e il nuovo, giacché quello non preclude questo in virtù di una logica debordante la stessa dicotomia, nel pieno rispetto, comunque, della non reciprocità. Barth, e Ricoeur su questo punto lo riecheggia, vuole individuare, nell’assenza di una logica di equivalenza o retribuzione nella storia di salvezza, nello stesso tempo un elemento di rottura con la religione delle fenomenologie e dell’antropologia e un elemento che apra la strada a una conoscenza che si fondi soltanto sulla Rivelazione. Ne deriva la 100 conseguenza secondo la quale quest’ultima sarebbe l’unico criterio disponibile per stabilire quale ente sia degno del sì di Dio (è il principio alla base dell’elezione) e quale del suo no (è il principio alla base della reiezione), giacché la logica del mondo, e per Paolo la stessa Legge mosaica, da sola e nella sua esteriorità esula dallo stabilire le norme dell’elezione divina. Si attesta, su questa linea, il pieno riconoscimento della forza propulsiva della “crisi della fede” (la fede in quanto krisis), che è poi la motivazione di fondo che anima per intero la struttura portante del Römerbrief. Si delinea una considerazione della fede cristiana come forza che è al contempo critica, poiché immersa nella storia di salvezza in cui l’essere oscilla fra l’ente eletto e l’ente reietto; ma anche kerygmatica, poiché la diastasi non è affatto sodale con la stasi. Ne consegue che, ancora una volta va ribadito, la ricusazione netta e decisa del sapere assoluto equivale ad ammettere a fortiori che il bene è un assoluto in sé irrelato al male, a sua volta altrettanto assoluto in sé. Pertanto non vi è una misura oppure una proporzione nel male in quanto prova del bene; non vi è una misura oppure una proporzione nel bene in quanto compensazione del male. Entrambe le forze, da sempre operanti nel mondo, vanno direttamente rapportate a Dio in modo distinto e nella loro singolarità. L’intento paolino, e sulla sua scia luterano-barthiano, è primieramente quello di liberare il male, che è mistero dell’ostilità a Dio, allo scopo di liberare il bene, che ha la propria scaturigine nell’azione sovrabbondante di Dio. Da quest’ordine di idee e considerazioni si evince una concezione tutta donativa e rivelativa alla base della locuzione “molto più”, cosicché se ne trae la conclusione secondo cui in Barth ci si collocherebbe lungi da una concezione in odore di manicheismo, ciò vale in contrapposizione a quanto asserito da taluni teologi, specie gli assertori dell’analogia entis, che ravvisano in Barth gli indizi di una sorta d’insormontabile dualismo, anche metafisico, fra l’uomo e Dio. Con Pareyson73 ci si può persuadere che nel Römerbrief non si celi affatto alcun dualismo, semmai una peculiare forma di monismo, per la 101 precisione di monismo escatologico o ancora di monismo spezzato, a suffragio del quale si può ricorrere a una plausibile interpretazione ontologica dell’articolo barhiano Gott und das Nichtige (KD, III,3)74 e al quale fa esplicito riferimento anche Ricoeur75. Prima di entrare nel merito di tale testo è d’uopo intercettare una categoria che faccia da cardine al discorso sull’essere di seguito esposto. La categoria chiave, da spendere in vista di una maggiore chiarificazione di questo monismo sui generis, è ben rappresentata dalla concezione del mondo nuovo76 che funge da tema dominante del Capitolo V del Römerbrief. Essa consente, in una certa maniera, d’imbastire un discorso congeniale al piano ontologico, allorché nel paragrafo II del capitolo V tale categoria teologica dà lo spunto per innescare una digressione dai risvolti ampiamente filosofici e, in ragione dei quali, si determina una congiunzione fra il rinnovamento dell’uomo e una visione d’insieme più incline a coniugare il paradigma paolino con un’ermeneutica dell’escatologia e, perché no, con un’ermeneutica dell’ontologia, secondo una linea direttrice che viene seguita anche da Moltmann. Il fulcro della questione è costituito dall’implicazione dell’éschaton (cifra emblematica del cosiddetto mondo nuovo) nell’ambito del Verstehen ermeneutico. La prima e fondamentale connotazione dell’éschaton è che noi non ne abbiamo conoscenza in alcun modo e non ne possiamo presagire la reale portata se non attraverso il simbolo. Tuttavia, lungi dal confinare quest’esperienza nell’antro oscuro del misticismo, questa dimensione di novità sconvolge il modo di concepire il nostro esistere nel mondo e lungo il tragitto della storia dell’umanità. Inoltre, così come l’uomo vecchio e l’uomo nuovo non possono essere giustapposti, allo stesso modo mondo vecchio e mondo nuovo non possono esserlo altrettanto, a motivo del fatto che alla novitas delle “cose” che hanno da essere (ta éschata) non compete affatto il ruolo di possibilità insita e potenzialmente contenuta o presupposta dalle “cose di prima” (ta prota). La polarità va derubricata in ragione del fatto che essa tende a ritenere insuperabile la correlazione logica fra “primo” e “ultimo”, fra Adamo e 102 Cristo, fra bene e male, moltiplicandone paradossalmente, all’infinito e per inerzia, le opposizioni e le contraddizioni aporetiche. La novitas non dissolve affatto nell’unità la demarcazione netta del discrimine fra vecchio mondo e nuovo mondo. La novitas è la cifra della dialettica brisé, anzi dello spezzare la dialettica, in virtù della considerazione della grazia che sì presuppone la natura, ma non già come sua causa naturale, bensì a motivo della sua gloria. In termini di un nuovo prospetto per l’ontologia, il monismo escatologico di Barth rimane dualismo se non si consolidano le movenze della sovrabbondanza (hyperperisseia), giacché il bene e il male, se posti l’uno in corrispondenza all’altro, inducono a persistere nell’ambito di una loro collocazione logica, così come di fatto accade nella teodicea. Invero, a voler dare contezza della fallacia contenuta in quest’ultima dottrina, confutando i lineamenti teorici dell’armonia prestabilita, che è poi l’equivoco precipuo della teodicea leibniziana, si deduce che bene da una parte e male dall’altra stridono a tal punto fra loro che s’innesca un processo di graduale comprensione, secondo cui quanto più conosciamo il male tanto più ne ravvisiamo la radicale difformità e lontananza abissale dal bene. Pensando in siffatto modo, l’éschaton si configura progressivamente come ultima conoscenza, come ultima ratio, estrema conoscenza dell’estrema sovrabbondanza del bene e della grazia e s’impone non tanto come risoluzione dialettica quanto come risposta in atto, se vogliamo a dispetto e nonostante il male e la sofferenza. Dunque l’escatologia è conoscenza, a scapito di una insormontabile indisponibilità alla ragione umana, della dismisura del bene che non soppesa nessun male, ma inonda di sé il mondo eccedendone la logica, mercé la totale cesura instaurata dall’azione salvifica di Cristo. Tutto ciò viene calato in relazione all’essere senza metafisica, inteso come storia della ricerca di un senso ultimo e non come sostanza e fondamento. Il monismo escatologico barthiano, recepito come prodromo della ricoeuriana ontologie biblique, pone nel cuore della profezia del 103 mondo nuovo il dramma tutto mondano dell’essere, la cui condizione di vanitas non è mera indeterminazione concettuale (l’essere è il più vuoto dei concetti), bensì condizione di fragilità, di oscillazione senza conciliazione fra il bene che non ha solidi presupposti ontologici (l’equivalenza bene/essere contenuta nella formula omne ens est bonum qui non ha più motivo di reggere) e il male che non è privazione e non ha niente di metafisico. Pertanto la vanitas comporta il paradosso di una condizione che sta al centro fra due pienezze (la perisseia del male e quella sovrabbondante del bene). Ciò nondimeno, si determina finanche un deciso oltrepassamento del Dio causa efficiente del bene compensazione del male e causa efficiente del male prova del bene, giacché in ragione del paradigma istituito dalla Lettera ai Romani il kérygma annuncia Dio come principio inconcusso della cesura e della sproporzione fra bene e male più che della loro regolamentazione. Il dramma dell’essere viene denunciato da Barth, prontamente ripreso da Ricoeur nel suo saggio Le mal, tramite la considerazione del Nichtige77 nella sua onticità in quanto ente-no e non in quanto ni-ente: il male non è un nulla metafisico che insidia da chissà quale remota regione l’essere; il male è una realtà sostanziale, cioè una solida concrezione della negazione (ente-no), anziché astratto momento negativo (ni-ente). Dunque una concrezione e non già una negatività che si presti ai giochi e alle elucubrazioni della dialettica. Ne sortisce la considerazione del carattere per nulla metafisico della conoscenza imposta con il punto di vista escatologico sulle cose del mondo in generale; escatologia vuol dire anche estirpazione del dualismo gnostico che colloca il bene tutto da una parte e confina il male tutto da un’altra parte. Il bene e il male si fronteggiano in ogni momento (senza la differenziazione in momenti distinti della dialettica) nel continuum del dramma dell’essere. Riguardo ancora alle implicazioni ontologiche del dualismo gnostico, va ulteriormente ribadito che le considerazioni, sopra prodotte, corroborano la teoria, che ha sempre accompagnato l’iter filosofico di Ricoeur, della natura opzionale della metafisica, secondo cui 104 l’essere-sostanza contiene una sublimazione ipertrofica di un desiderio, insieme arcaico e moderno, di persistenza che lo alieni dal feticcio del nonessere incarnato dal male. La peculiare e sfuggente natura delle giustificazione senza condizione apre all’essere nuovo nella misura in cui pone sull’essere vecchio uno sguardo disincantato e riconosce nel male non la privazione di una sostanza, ma una piega oscura celata in ogni ente, rendendo tensionale la natura dell’essere medesimo. Pervenire a una seria considerazione filosofica del significato dell’éschaton equivale, in ultima analisi, ad ammettere la presenza del male in seno all’esistenza e all’essere, cagionando la visione di un’ontologia, così come la rielabora Ricoeur, di stampo narrativo come storia della ricerca di un senso ultimo, il che si accosta, in maniera congeniale, al sostrato ontologico ricoeuriano che dice l’essere come predicato o verbo e non già come sostanza o fondamento. In definitiva viene ripreso il convincimento che supporta un’ontologia brisé determinata e attraversata dal conflitto endogeno (ente-sì/ente-no) e dal conflitto esogeno (lo scontro fra architetture di senso rivali), tutto questo costituisce l’assetto fondamentale del discorso sull’essere intrapreso nel percorso filosofico del Nostro. Tenendo conto di quanto delineato, si attesta il fatto che portare a evidenza e a disamina il barthismo non troppo latente di Ricoeur permette l’enucleazione di tale sottesa ontologia, così proficuamente intrisa di contaminazioni con la storia delle idee, con le culture e con la religione. In modo pregnante e sintetico questi elementi forniscono il senso profondo di tutto il ricoeurismo, cioè di un pensiero filosofico che vive sulle frontiere aperte e sconfinate del pensiero della profondità del bene. Non pare del tutto peregrina l’ipotesi, fin qui sostenuta, della continuità fra la concezione barthiana del mondo nuovo e il progetto ricoeuriano di portare a compimento l’uscita dalla metafisica, della quale il topos del mondo nuovo di Barth è, a detta di Ricoeur, una ben precisa figurazione. A ben guardare è proprio in ragione di questo lascito che Ricoeur tenti la strada di forgiare un’ermeneutica del mondo del testo biblico, tentativo che 105 si snoda a cavaliere fra gli anni ’70 e gli anni ’80. Come già s’è fatto cenno in precedenza, è fin troppo chiaro quanto la categoria fondamentale dell’ermeneutica ricoeuriana, ossia quella di essere nuovo, sia un’implicita citazione del Römerbrief. Pertanto l’esplicazione critica dei punti di contatto fra il topos barthiano del mondo nuovo e il topos ricoeuriano dell’essere nuovo ci obbligano a scandagliare in che rapporto stiano la ontologia biblica del filosofo di Valence e il monismo escatologico del teologo svizzero. Un rapporto che appare in tutta la sua chiara imprescindibilità, tenendo nel debito conto anche i vuoti lasciati dall’ermeneutica bultmanniana, tant’è che Ricoeur stesso recepisce lo spirito della Entmythologisierung come una forma di Nachdenken, che è poi incarnato appieno dalla necessità di produrre una contro-sfida da opporre alle sfide del male. Il male, con le sue aporie metafisiche, ontologiche e con lo sgomento che provoca nell’animo umano, è recepito in forma filosofica alla stregua di una sfida78 che non lasci scampo e non conceda quartiere al pensiero e alla ricerca di un senso ultimo. Incalza allo stesso tempo e nel medesimo riguardo le dottrine teologiche e il continuo fiorire delle filosofie di ogni tempo, minacciandole incessantemente con il baratro del non-senso. Ricoeur accetta la sfida alla filosofia e alla teologia e non intraprende la strada di una facile risoluzione teorica e schematica, bensì quella più nobilmente teoretica del penser plus79. Come già ampiamente descritto, egli cerca risorse in grado di approvvigionare di continuo il pensiero e lo fa attingendo al mondo biblico, a suo dire segnato in lungo e in largo dallo scandalo del male e dallo scandalo, altrettanto sconcertante, di un bene a dispetto del male e di ogni male. Il male lancia la sua sfida congiuntamente al filosofo e al teologo ed entrambi sono tenuti a pensare ancora e nonostante, lasciando che il loro pensiero esprima e sprigioni tutto il proprio potenziale e tutta la propria debolezza. Di fatto un tale atteggiamento ripercorre per sommi capi la forma mentis neobarthiana da Mehl e da Thévenaz, allorché già fra le loro righe si chiedeva alla teologia di farsi interrogare dalla Parola senza lo schematismo 106 dogmatico sedimentatosi nei secoli e alla filosofia di farsi interrogare ancora dall’essere senza lo schematismo della metafisica. Prospettando, in definitiva, una teologia da fare ancora che sappia uscire dalla teologia fatta finora e una filosofia da fare ancora che sappia uscire dalla filosofia fatta finora. Tali inderogabili esigenze hanno stimolato in Ricoeur la volontà di addentrarsi sul versante filosofico fra le pieghe del linguaggio, conscio dell’importanza di contribuire non tanto al costituirsi di una ontologia ermeneutica (come avviene in Gadamer) quanto al delineare un’ermeneutica dell’ontologia; mentre sul versante teologico di prodigarsi a vantaggio di una maggiore comprensione esegetica del mondo del testo biblico. I due versanti fanno da oggetto della ricoeuriana riflessione sul rapporto fra ermeneutica filosofica (generale) ed ermeneutica biblica (regionale)80. 3.2 Dalla metafisica alla metafora In linea del tutto generale, la presa di posizione ricoeuriana si assesta, nell’ambito filosofico, in sintonia con quella che Greisch ha definito l’età ermeneutica della ragione, profilando un’età ermeneutica dell’ontologia volta al recupero della nozione di essere-verbo; mentre, nell’ambito teologico, si assesta in sintonia con l’età ermeneutica della predicazione della Parola volta al recupero dell’esegesi demitizzante. La prima posizione lascia trapelare in che termini possa venire formulata la contro-sfida della filosofia; la seconda posizione, da par suo, lascia intravedere in che termini la teologia sia in grado di accogliere la medesima sfida. Secondo il Nostro, il progetto di penser plus contempla un fronte 107 ermeneutico, con basi che poggiano su di un’epistemologia che faccia proprie le istanze della spiegazione e della comprensione, e un fronte più teoretico che consenta d’instaurare un circolo fra dimensione speculativa e dimensione rivelativa. Ma soprattutto, e in maniera più incisiva, la controsfida ricoeuriana è mossa nei confronti della finitudine e della condizione di potenziale sofferenza in cui si ritrova per intero l’umanità, in risposta a tale inoppugnabile dato di fatto sia la teologia sia la filosofia devono saper cogliere che la verità del cristianesimo non può essere esperita e pensata mediante una dottrina, ma nella sua potenza evocativa che sfugge al pensiero sistematico, al quale va contrapposto un pensiero debole che seguiti a pensare “a dispetto” del male e a ispirare anche un’azione profondamente radicata nella compassione “nonostante” la sofferenza81. Entrambe le prospettive incarnano il proposito, che Ricoeur recepisce dagli Scritti Sapienziali, di promuovere una operosa spiritualizzazione della lamentazione come contropartita alle illusioni della teodicea. A motivo della perspicua prevalenza di tali note dominanti dalla lettura del Ricoeur successivo a Le conflit des interprétations si desume un crescendo dell’interesse a tessere il canovaccio di un’ontologia tesa a superare, come detto, gli schemi delle metafisica e dell’onto-teo-logia medievale e moderna per far proprio il convincimento che il nommer Dieu82 non determini la previa assunzione di un fondamento (Grund) dell’essere astratto, bensì la promessa di ritrovare nell’essere la storia di una speranza (Hoffnung) capace di far pensare il bene nonostante tutto. Ciò si pone stabilmente e creativamente nell’alveo del barthiano Nachdenken e lo fa accogliendo coraggiosamente i rischi di elaborare un’ermeneutica dell’ontologia, riproponendo cioè un pensiero post-metafisico e capace di ripensare l’essere nella novitas del mondo biblico (mondo nuovo/essere nuovo). Il modello ermeneutico che se ne ricava è decisamente improntato a rivalutare l’ermeneutica esistenziale del kérygma di Bultmann che, al di là del superficiale debito contratto con Heidegger (come gli viene rimproverato da Barth), racchiude in sé le stesse potenzialità speculative che 108 Ricoeur riconosce nel metodo barthiano della “sperimentazione” filosofica. Entmythologisierung e Nachdenken delle dottrine teologiche e filosofiche, presenti nella storia del pensiero occidentale, incrociano il proprio destino sulla via di un’ermeneutica dell’ontologia, all’insegna dell’incremento di senso che può sortire a loro beneficio dalla storia biblica dell’essere. Pertanto assume contorni sempre nitidi il proposito di far sì che il Nachdenken prenda forma e vita in una onto-teologia della salvezza contrapposta alla struttura onto-teo-logica della metafisica. In sintesi, si tratterebbe non soltanto di una confutazione tout court dell’onto-teo-logia in quanto tale, ma soprattutto di una sua reinterpretazione alla luce di una lucida comparazione con il percorso biblico della storia dell’essere, notoriamente avviato con la teofania del Roveto ardente narrata in Esodo 3,14. Ricoeur, a suo modo, lascia intendere che sia possibile ripercorrere la scia barthiana del processo alla struttura onto-teo-logica della metafisica, che è concentrata intorno alla confutazione della analogia entis, a tutto vantaggio di un ritorno in auge, in ambito teologico e filosofico, del concetto paolino di analogia fidei (Rm. 12,6). A tal fine, l’esplicazione ermeneutica e filosofica del paradigma della giustificazione attende all’esigenza di coniugare i risvolti ontologici dell’ermeneutica biblica, con il chiaro progetto di tracciare un cammino alternativo al processo heideggeriano all’onto-teo-logia, lasciando aperto un ampio spettro d’interpretazioni nel cuore della relazione fra la nozione di essere e la Rivelazione giudaico-cristiana, in virtù della concezione, tutta ricoeuriana, dell’essere assunto non come fondamento dell’ente, bensì come racconto che l’ente dà di sé (compiendo il passaggio dalla concezione sostanziale alla concezione predicativa). In proposito emerge l’obiettivo di arricchire l’ermeneutica dell’ontologia con l’applicatio del mondo del testo biblico in ambito filosofico e per perseguire tale ambizioso fine l’impianto del discorso ricoeuriano sull’essere narrato nella Bibbia conduce a una biforcazione di metodo. Sono infatti due gli schemi interpretativi nei quali il 109 filosofo di Valence inscrive il nocciolo della questione ontologica: il metodo della verità metaforica contrapposta alla verità metafisica (sviluppato negli ‘70)83 e il metodo della traduzione (sviluppato negli ultimi scritti) come elemento di completamento dell’ermeneutica dei simboli inaugurata negli anni ’60. Orbene, per mezzo del primo metodo, viene elaborata una strategia che verte sull’obiettivo di esplicitare le implicazioni ontologiche del mondo della metafora, nel quale Ricoeur scorge i principi attivi di un vero pensiero speculativo. Nel perseguire tale scopo il Nostro prende lo spunto dalla critica, testé menzionata, che Barth muove accanitamente nei confronti della analogia entis84. Lo studio delle conseguenze teologiche e filosofiche, addivenute con la formulazione di tale dottrina, porta Ricoeur a rielaborare una concettualizzazione dell’essere e delle metafora che per certi versi riecheggiano il sentire del teologo svizzero. L’analisi critica prende le mosse dal rilievo di un primo movimento erroneo innescato, a giudizio di Ricoeur, dalla genesi scolastica di tale dottrina analogica. Quest’ultima, infatti, avanza l’inveterata pretesa di istituire una scienza di Dio e del dato rivelato (basti pensare, all’apice di questo progetto, al concetto tomista di doctrina cristiana). Al colmo di tale graduale laborioso processo Ricoeur pone il sempre crescente divario fra il mondo della lectio e quello della quaestio, il quale incede al punto tale da pervenire a una quasi totale prevalenza, negli ambienti scolastici, del secondo sul primo. Colmare tale divario è lo scopo perseguito dal recupero della natura squisitamente ermeneutica del fatto cristiano in sé. Scopo che, come si cerca di dimostrare in queste pagine, riassume l’iter filosofico e teologico del nostro autore di riferimento, stante a quanto scritto e teorizzato negli anni ’90 con gli ultimi saggi d’ermeneutica biblica e soprattutto con la stesura del libro, scritto a quattro mani con l’esegeta LaCocque, Thinking biblically (1998). La dicotomia quaestio/lectio85 può essere tradotta in una dialettica i cui termini sono la analogia entis e la analogia fidei; termini che 110 vengono estrapolati l’uno dall’altro mercé l’assunzione critica del paradigma paolino e del mondo concettuale che ne deriva. Ma il motivo dominante non risiede semplicemente ed esclusivamente nel fatto che si voglia approdare a un pensiero proporzionato al contenuto della fede, perché in fondo non emergerebbe nessuna differenza rispetto al progetto di una filosofia cristiana, talché si tratta invece di porre una proficua mediazione fra filosofia e Rivelazione in vista di una prospettiva alternativa, nel qual caso ontologica. La analogia fidei è un’assunzione del paradigma ed è pertanto interpretata come previa adozione di un parametro in deciso contrasto con la petizione di principio della analogia entis, vale a dire quella pertinente all’omne ens est bonum, in cui il male sta fuori e sospeso come un nulla. Assodato che la hyperperisseia del paradigma paolino sancisca la messa a fuoco decisa della dismisura che intercorre fra bene e male, ne sortisce che anche la perisseia del male coinvolge direttamente la realtà globale dell’essere, segnando lo sconfinamento radicale della stessa realtà del male, pervasiva e giammai astratta. Proprio questo parametro sfuggente e pregnante sta alla base dell’ontologia brisé che condiziona in profondità il barthismo, il pensiero teologico-filosofico di Ricoeur e tutte le espressioni che gravitano intorno a uno specifico modo paolino di riflettere sulla teologia in generale e sulla questione del male e della sofferenza in particolare. Inoltre, la sovrapposizione fra questi due elementi, il paradigma della hyperperisseia e l’ontologia spezzata, ingenera il processo ultimativo della completa e irreversibile dissoluzione della teodicea, che si snoda attraverso il farsi carico di una coscienza tragica (pensiero tragico nell’ontologia) che mediante il concetto di sofferenza e di speranza estromette d’un sol colpo il connubio analogia entis e teodicea. E ancora, colpendo un altro caposaldo della analogia entis, ovvero la nozione centrale di partecipazione86 si evincono conseguenze che ricadono su di un'altra nozione chiave della teodicea, quella per intendersi della permissio. Per rendere più perspicua questa consonanza dovrà dapprima chiarirsi in che termini il paradigma 111 paolino rimandi a una precisa ricusazione della nozione metafisica di partecipazione. Lo stretto legame, intercorrente fra la analogia entis e l’ontologia della partecipazione, rappresenta il nocciolo duro della metafisica scolastica ed è d’uopo metterne a nudo l’inconsistenza biblica se l’obiettivo che s’intende raggiungere ne contempla una netta e inequivocabile stroncatura. In altre parole, Ricoeur colpisce al cuore la metafisica scolastica allo scopo di rinverdire i riferimenti biblici di quella che egli prefigura come la modalità più consona onde tenere insieme analogia e Sacra Scrittura, ossia quella di verità metaforica a scapito di quella di verità metafisica. In breve, si tratterà si salvare la analogia, in quanto discorso in linea con la condizione d’indisponibilità della fede, e di rigettare la specificazione entis. La confutazione della nozione di partecipazione verte per intero sulla cogenza di un solo inoppugnabile argomento, la kenosis di Cristo. La nozione in oggetto è, da quello che se ne può sapere, in debito nei confronti della concezione della imitatio. Questa è sorretta dal principio a primo ente descendit87 secondo cui l’essere dell’ente, che partecipa dell’essere del fondamento, imita il primo essere in conformità del grado gerarchico che gli compete. Il fatto della kenosis fornisce il modello generale del rovesciamento completo di quest’impostazione. In Cristo conosciamo di Dio non già la natura, l’essenza o se si vuole l’essere, giacché essa con la Croce ci appare svuotata e questo dato rivelato precede tutte le formulazioni dogmatiche che con il Credo niceno-costantinopolitano suggellano la dottrina della natura umano-divina del Figlio di Dio. Sicché l’azione salvifica compie, per così dire, il tragitto inverso: è Cristo che imita, con l’incarnazione (assumptio), la natura dell’ente-uomo; e così facendo, Egli si svuota del proprio ente e incontra il nulla dell’ente da salvare, che non è e non ha un vuoto metafisico, bensì è la condizione dell’umanità nel suo essere ente-no dinanzi a Dio (qui erompe tutta la drammaticità del Nichtige di Barth). 112 Dunque, questo nulla dell’uomo, che Cristo riconosce e redime, è la cifra essenziale della condizione dell’ente dell’uomo drammaticamente ambigua e oscillante fra l’ente-sì e l’ente-no (Nichtige), talché ne consegue, come dura contropartita, una sorta di smarrimento metafisico, anzi di smarrimento della metafisica, specie quella sulla quale è fondata ogni dottrina facente capo alla analogia entis e all’ontologia della partecipazione. Anche il concetto, fondamentale nella teodicea, di permissio rimane sconvolto da questa sorta di rovesciamento: l’unica forma di permissione del male che è dato conoscere alla luce della Scrittura è quella della Croce in cui si manifesta l’amore del Padre che permette al Figlio di morire per il peccatore. In questo modo soltanto la permissio della Croce si staglia come discrimine assoluto nel bel mezzo dell’ontologia spezzata dalla elezione e dalla reiezione. L’unica forma plausibile di comunicazione fra l’uomo e Dio è costituita, seguendo la scia barthiana vigente nel pensiero ricoeuriano, dal non afferire al principio della partecipazione per imitazione. A motivo di quanto si evince dal paradigma paolino si deve percorrere un’altra via analogica, quella della fede e quella della rivelazione. In fondo si tratta di comprendere che l’avversione barthiana nutrita nei confronti della analogia è dettata dalla volontà di recuperare la dimensione più propria e la più fedele possibile del discorso analogico e tale fine va perseguito sotto un profilo radicalmente anti-metafisico, recependo il livello metaforico di tale discorso, in quanto modello plausibile in cui attecchisce più agevolmente il leitmotiv che attraversa la pluralità di linguaggi del mondo del testo biblico, ossia il nommer Dieu. Mediante l’individuazione di tale motivo conduttore, Ricoeur intende porre nel giusto risalto il carattere nello stesso tempo unitario e sfuggente del topos del Nome nell’economia generale del linguaggio utilizzato dai due Testamenti. Il Nome-Dio è un catalizzatore del racconto i cui limiti si muovono e mutano di continuo, la stessa risposta contenuta nella teofania sinaitica (ehyeh aser ehyeh) segna l’inizio di un tragitto che l’uomo e Dio iniziano a 113 compiere insieme, ma del quale non è dato conoscere il punto terminale, sempre in avanti, sempre sfuggente. Su questa base mobile, se condotta fino alle sue estreme conseguenze, si snoda l’asse portante della ontologie biblique in quanto ontologia narrativa. Narrativa perché racconto della coabitazione, nella storia della salvezza (senza uno schema sistematico fra finito e infinito), fra essere-uomo/essere-Dio. In un certo qual modo, si vuole consolidare il discorso onto-biblico, nel suo dare forma alla analogia fidei, come humus su cui far ripartire il rapporto con la filosofia, non più reclutata come ancilla bensì, capovolgendo le gerarchie implicite nella filosofia cristiana dal sapore tomista, come limes, come terra di frontiera. Detto altrimenti, il recupero della analogia deve e può passare attraverso l’ingaggio di un proficuo dialogo con le risorse poetiche del linguaggio; deve e può passare attraverso un raccontare l’essere aperto alle incursioni del raccontare Dio e ciò è in larga parte consentito prendendo posizione dinanzi all’antitesi, posta lucidamente in evidenza da Ricoeur, che si determina fra il modus argumentativus e il modus symbolicus88. Nell’un caso predomina la centralità della quaestio, quindi del porre la questione veritativa nei termini della dimostrazione razionale in cui il testo assolve il compito di una auctoritas suggellante, nell’altro caso predomina l’urgenza della lectio, suffragando quindi il privilegio accordato a un approccio più esegetico a scapito di un approccio più teologico e speculativo, in cui, per farla breve, la Parola, anziché scompaginare le nostre velleità, prima fra tutte quella del desiderio, si accomoda presso la razionalità sistematica. In quest’ordine d’idee trova l’innesto migliore l’utilizzo della metafora quale strumento d’espressione, poiché essa non è sic et simpliciter una figura letteraria mutuata dal repertorio retorico, ma un livello di discorso che dà pronta contezza dello spessore anche filosofico della narrazione in generale e del racconto biblico in particolare. La metafora concorre con il racconto a rendere l’idea di un discorso che è mutamento e movimento continuo verso un punto mirato da lungi, ancorché 114 inatteso, ancorché indisponibile. Il Nome che pervade il mondo del testo biblico è, per il Ricoeur degli anni ’70, che ha scoperto la metafora e sta iniziando un laborioso studio sul racconto, il punto di fuga per antonomasia. Il filo rosso che compone la trama del lavoro ricoeuriano sulla metafora corre fra Metapher89 e La métaphore vive e segna la piena confluenza del livello dell’enunciazione metaforica in sé e per sé con il prosieguo della progettuale ermeneutica dell’ontologia; una tale struttura di metodo consente la tematizzazione del cosiddetto pensiero-limite, argomento assai ricorrente negli studi biblici ricoeuriani. Espressione che, al di là del suo vago sentore jaspersiano, conduce direttamente a decifrare tutte le istanze della metafora biblica intorno al nucleo della tensione viva e vigente fra il linguaggio umano e la Rivelazione; tensione che non si concretizza tanto nei termini di un’ispirazione quasi psicologica che rappresenta il dato rivelato come infusione di verità nella mente dell’agiografo, quanto nella misura di un orizzonte aperto di senso che ha sempre da essere costruito, delineato e proposto alla storia degli uomini. Dalla nozione di Rivelazione Ricoeur espunge ogni influsso psicologizzante e assume invece il carattere più pregnante della cooperazione per la salvezza. In definitiva, la linea addotta da Ricoeur può sintetizzarsi intorno alla ricognizione delle espressioni-limite in vista di un’organica visione d’insieme capeggiata dal progetto di qualificare il linguaggio biblico, quindi la costituzione ermeneutica della fede giudaico-cristiana, come una forma eminente di pensiero-limite. Sul piano squisitamente ontologico, tale posizione configura una precisa alternativa teoretica nell’ambito del famigerato processo all’onto-teo-logia: un’alternativa che caldeggia l’effetto di soppiantare la struttura metafisica del discorso sull’essere con il modello dell’enunciazione metaforica, secondo un livello di recezione della nozione di essere non come sostanza bensì come verbo, come predicazione estrema. L’analisi critica della analogia s’inscrive nell’ambito di due questioni concentriche, focalizzate testualmente nella raccolta di saggi Metapher (‘74), scritto con Jüngel, e nell’ottavo studio de La métaphore vive (‘75). Si 115 tratta, in larga misura, di dare le ragioni di una teoria filosofica del concetto di “verità metaforica” contrapposta al concetto di “verità metafisica” e di coordinare tale sforzo con la linea tracciata, insieme a Jüngel, in merito alle possibilità d’interporre, nelle movenze del processo novecentesco all’ontoteo-logia, l’apporto delle scienze bibliche. Pertanto, è assai significativo il fatto che Ricoeur contemporaneamente si prodighi, sul versante linguistico, nella riconfigurazione delle implicazioni filosofiche e ontologiche della metafora e, sul versante biblico, nell’approfondimento del parler Dieu nel mondo del testo biblico e nelle sue implicazioni altrettanto ontologiche. Tuttavia, si deve tenere in conto che sul finire degli anni ’90 il filosofo di Valence progressivamente si scosta da questa linea comune a Jüngel, poiché cresce in lui la consapevolezza che lo schema della metafora perpetua, a suo modo, la tendenza a privilegiare un’impostazione per così dire sistematica, mentre l’approdo ulteriore sarà quello di incrementare sempre più il contatto con l’esegesi in quanto scienza non soltanto dell’interpretazione ma anche della traduzione. Prima di considerare in che misura si delinei tale svolta è d’uopo porre in disamina i limiti stessi dell’enunciazione metaforica, così come viene focalizzata nell’ottavo studio de La métaphore vive. Se da un lato l’inquadramento della metafora, secondo la retorica classica, prevede l’adozione del principio di sostituibilità, dettato peraltro da esigenze il più delle volte estetiche (A al posto di B), da par suo Ricoeur ne rivendica la funzione euristica, facendo capo alla natura copulativa dell’essere in quanto predicato; in altri termini, si tratta di rinunciare alle pretese identificative della banalizzazione della metafora (A=B) e di addurne, di contro, il carattere di enunciato aperto: lo schema configurato da Ricoeur prevede la formula A è come è B. Da queste coordinate viene fuori che l’enunciazione metaforica è una proposizione biunivoca in cui non vi è un soggetto e un predicato che confezionano l’enunciato, bensì due soggetti e due predicati che ristrutturano l’enunciato. Parimenti si procederà secondo una considerazione della referenza non più sotto i canoni della mera 116 descrizione ostensiva, ma secondo quelli dell’immaginazione. Nella metafora ricoeuriana si assiste a una biforcazione della referenza, nel senso che A dirà di B ciò che di B non si è ancora detto e B dirà di A ciò che di A non si è ancora detto. Si potrebbe dire, in altre parole, che si è dinanzi a una sorta di coniugazione relazionale che accosta due non-detti e in cui la copula funge da flusso canalizzatore di nuovi modi per dire nuovamente i due termini. In tal modo alla funzione descrittiva-ostensiva subentra a pieno regime una funzione, per così dire, più speculativa, che abbia in sé un margine di pensiero ancora e sempre da sviluppare. La “metafora biblica”, che fa da matrice fondamentale di tutta la galassia di espressioni-limite che costellano la Sacra Scittura, è secondo Ricoeur forgiata su di una duplice proposizione: “Dio è colui che è”(Es. 3,14), nell’Antico Testamento, e “Dio è amore” (1Gv. 4,8), nel Nuovo Testamento. Nel ’92, con l’ultimo saggio di ermeneutica biblica dal titolo Da un testamento all’altro, il filosofo di Valence mette in evidenza il predominio esercitato dalla metafora nell’economia generale del mondo biblico. Attraverso l’enunciazione metaforica Dio ed essere vengono accostati al fine di modificarne le rispettive referenze primarie; il che significa che nella dimensione metaforica che li coinvolge Dio diviene il punto di fuga dell’essere o il terminale ultimo della storia dell’essere e, sul versante opposto, l’essere diviene per Dio il luogo dell’incontro con la storia dell’uomo. Valgono le medesime considerazioni anche nei confronti della metafora neotestamentaria “Dio è amore”, giacché l’amore, dinanzi a Dio, si qualifica in virtù dell’azione di Cristo che ne rivela le potenzialità sconfinate e inaspettate, e Dio, dinanzi all’amore, rivolge la sua azione all’uomo e alla sua storia. Gli enunciati metaforici lasciano intendere che occorre trascendere la referenza meramente ostensiva, la quale avrebbe la pretesa di dirci l’essenza dei termini della metafora: ciò che realmente ci dice la metafora è l’intersecarsi continuo dei campi semantici o, se si vuole, l’incrociarsi continuo del linguaggio di cui disponiamo con la realtà annunciata di ciò di cui non disponiamo affatto. 117 In sintesi, la metaforicità del linguaggio, contenuto e utilizzato nel mondo biblico, è una sorta di sospensione del baratro che separa l’uomo dalla novità continua della Rivelazione giudaico-cristiana. In questi termini e in questa misura è ravvisabile la diastasi fra le velleità della “verità metafisica” e le feconde innovazioni della “verità metaforica”. 3.3 La sfida della traduzione all’ontologia Occorre infine coordinare la portata reale di questi studi, sulla metafora e sulla loro incidenza in ambito ontologico, con le fasi di pensiero dell’ultimo Ricoeur, che uno studioso di spicco come Jervolino ha recentemente definito il “filosofo della traduzione”90. Quest’ultimo esito, anche nell’economia generale della ricostruzione del paradigma paolino, ricopre un ruolo non indifferente, conferendo una dose di maggiore chiarezza ai percorsi biblici dell’ontologia. Lo schema della traduzione è in larga misura un vero e proprio modello di pensiero che fa il paio con l’adozione del paradigma paolino, in quanto giustifica l’opportunità di un confronto aperto con una logica altra, nel caso specifico della sovrabbondanza (hyperperisseia), e con una lingua altra, è il caso in esame, cioè dell’effetto del verbo ebraico ehyeh nella prospettiva di dare un’impronta biblica all’ontologia intesa come storia dell’essere. La traduzione si propone alla stregua di una cifra emblematica del filosofare ricoeuriano nella sua interezza, la quale si profila, come si è più volte ribadito, nei termini di un pensiero di frontiera fra l’istanza creativa della dimensione speculativa della sfera filosofica tout court e l’istanza recettiva 118 richiesta della dimensione rivelativa del mondo giudaico e cristiano. Dunque il paradigma paolino e la prospettiva di un’ontologia inscritta nell’ambito della analogia fidei sono espressioni vive e concrete di questo stare alla soglia della novità annunciata dalla Parola e sviscerata dalla filosofia ermeneutica, pertanto è d’obbligo porre nel giusto rilievo lo sforzo, prodigato negli anni da Ricoeur, di condurre presso di sé la logica e la lingua della sapienza biblica del “nonostante”. Ripercorrendo questa evoluzione si evince un passaggio fondamentale. Negli anni ’70 prevale, nell’ottica generale del Ricoeur filosofo del linguaggio, quale vero motivo conduttore di quell’epoca, lo schema della metafora e delle sue esplicazioni filosofiche, senza dimenticare il notevole influsso prodotto dal confronto e dalla collaborazione con Jüngel. Tuttavia le posizioni sulle quali si attesta il pensiero ricoeuriano in quegli anni hanno da essere reinterpretate alla luce di un sempre crescente interesse per l’esegesi biblica, a scapito dell’impostazione un po’ più speculativa della precedente teologia filosofica. L’elaborazione della teoria del mondo del testo, e nel caso specifico del mondo del testo biblico, comporta l’esigenza di approfondire e vivificare il contatto con il testo in sé; d’altro canto, l’incremento del lavoro esegetico, favorito dal fecondo contatto con esponenti della scuola di Chicago, primo fra tutti LaCocque, getta le basi per l’elaborazione di uno schema nuovo e più accurato che impegnerà, come accennato, l’ultimo Ricoeur sul fronte della nozione di traduzione91, intesa sia come tecnica sia come forma mentis della suo pensiero a cavaliere fra filosofia ermeneutica e teologia biblica92. Gettate le basi per fruire al meglio di un più consolidato presupposto di natura filosofica ed esegetica, Ricoeur profonde, negli anni ’80, le sue fatiche esegetiche in direzione di tale presupposto e ne trae considerazioni sul piano metodico alle quali è d’uopo ricorrere a piene mani, se si vuole, come nel caso della prospettiva generale testé focalizzata, lasciare aperta una propaggine squisitamente ontologica alla tesi finora esposta. Dunque non è del tutto marginale il ruolo di questo aspetto per la verità poco valorizzato, ma che a ben guardare condiziona la 119 peculiare presa di posizione del Nostro nel merito della questione del processo novecentesco alla onto-teo-logia. Compiendo un lieve passo indietro, ci si dovrà soffermare con maggiore attenzione allo snodo cruciale fra ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica. Il carattere fortemente ontologico dell’ermeneutica, emerso nel corso del Novecento filosofico, è vigente anche nell’ermeneutica biblica, allorché le prerogative del kérygma lascino spazio aperto alla possibilità di pensare l’esistenza in relazione alla categoria di essere nuovo. Tale assunto basilare consente a Ricoeur di capovolgere, a suo modo, il rapporto gerarchico fra le due ermeneutiche, laddove si è sempre ritenuta la prima alla stregua di un’ermeneutica generale e la seconda come un’ermeneutica regionale. Il cosiddetto essere nuovo pone in evidenza e concretizza l’immissione della speranza cristiana nell’ambito del pensiero filosofico esistenziale e ontologico in senso lato. Tuttavia l’operazione si compie attraverso la coniugazione di due aspetti: in primo luogo la novità è innanzitutto quella apportata da una logica, come quella della sovrabbondanza della grazia, che è altra rispetto alle logiche della metafisica e della teodicea; in secondo luogo la novità consiste anche nel fornire il modello di un’apertura a una lingua altra, come quella dell’essere ebraico, che può parlarsi ancora nella lingua filosofica dell’occidente che comunque radica la propria grammatica ontologica tanto nel mondo greco quanto nel mondo giudaico-cristiano. La questione sui termini che impongono uno spiraglio all’indirizzo di una lingua che dice altro dell’essere viene più accuratamente e sistematicamente posta e analizzata nel saggio Dall’interpretazione alla traduzione, contenuto nella raccolta scritta con LaCocque, Penser la Bible, nel quale si fornisce la più chiara presa di posizione nel merito delle questioni inerenti al rapporto fra il Nome biblico di Dio e la nozione filosofica di essere. Il testo, oltre a essere corredato di una buona dose di rimandi al mondo dell’esegesi biblica, determina anche un più preciso inquadramento filosofico del rapporto fra il mondo concettuale della Sacra 120 Scrittura e le aporie dell’ontologia a partire da quell’evento del pensiero occidentale che con Gilson si suole definire la métaphysique de l’Exode (con l’esplicito riferimento testuale a Es. 3,14). Tale tematizzazione concerne in modo eminente la disamina delle controversie legate al processo della struttura onto-teo-logica della metafisica93. Nondimeno la questione viene discussa, in queste pagine, in termini meno perentori nei confronti di ciò che Ricoeur considera un ineludibile dato storico, vale a dire la connotazione filosofica dell’essere e la sua correlazione con il Dio della Rivelazione biblica. L’argomento ricoeuriano dà prova di una certa elasticità; avendo cura di tenere per ferma la convinzione che non può comunque essere saltata a pie’ pari tutta la storia della filosofia, egli tenta di percorrere una via originale in seno al suddetto processo all’onto-teo-logia, e lo fa affinché possa costituirsi una direttrice rispettosa al contempo dell’eredità fornita dalle varie scuole e dell’incremento di senso ravvisabile nella novità biblica. Il filosofo di Valence procede determinando un aspetto, a suo modo di vedere, preliminare e significativo, il cui esito è quello di concepire e recepire il carattere proficuo dello scarto, per certi versi abissale, fra il campo semantico inerente al greco einai (e conseguentemente al latino esse) e quello afferente all’ebraico ehyeh. Se è consentito farlo, va da sé che alla onto-teo-logia subentra, per dirla con Von Balthasar, una sorta di onto-teo-drammatica, ossia una ricognizione storica e concettuale del connubio Deus/esse, alla base del pensiero occidentale, che non si consolida soltanto su basi metafisiche ma, a detta di Ricoeur, su di una base più che altro narrativa. I punti cruciali dell’argomentazione avanzata nel saggio esegeticofilosofico, sulla traduzione del Nome proclamato nell’Esodo, possono essere compendiati nel modo seguente. In primo luogo vanno evidenziati gli aspetti critici che concernono un’impostazione classica, la quale com’è noto propugna la piena associazione vigente nel connubio Deus/esse. Come si è esposto sopra, quest’ultimo va destrutturato anche sulla base del carattere metaforico dell’ontologia cristiana94. In secondo luogo Ricoeur non si sente 121 di sposare incondizionatamente la piena dissociazione fra Deus ed esse, così come viene fatto nella contemporaneità post-metafisica da Heidegger a Lévinas. A questo proposito l’argomentazione devia sulla considerazione critica della causa efficiente di tale dissociazione, che deriverebbe dalla nietzscheana “morte di Dio”95. Di fatto a morire sarebbero la metafisica e il dio metafisico. Tuttavia Ricoeur non giustifica la connessione fra questo evento del pensiero e la heideggeriana marginalizzazione del mondo biblico. Quel che poi sorprende e che sovente non si pone nel giusto risalto è che, secondo quanto sostiene il filosofo francese, in buona sostanza finanche la “metafisica dell’Esodo” e la “filosofia cristiana” neotomista partecipano anch’essi, e a loro modo, di questa marginalizzazione, anteponendo all’esegesi del testo biblico un ricorso a esso più che altro dettato dall’esigenza di avere il supporto di una auctoritas. Orbene, alla dissoluzione della metafisica e alla conseguente mortificazione della sua propaggine teistica subentrano talune alternative che nel Novecento filosofico hanno fatto e continuano a fare scuola. Si tratta della via etica lévinasiana, che di fatto dissolve il Nome Dio nella dimensione dell’alterità orizzontale, e della via seguita da Marion, il quale proponendo un Dio senza essere auspica un ritorno alla teologia apofatica, sulla scorta della quale si afferma che di sensato su Dio si può soltanto dire che è Amore96. Ricoeur intende distanziarsi da entrambe le prospettive in virtù del fatto che alla prima si può imputare l’accusa di non concedere nulla alla storia dell’ontologia occidentale, mentre alla seconda s’imputa un’irricevibile e non del tutto giustificabile cesura fra l’Antico Testamento (Es, 3,14) e il Nuovo Testamento (1Gv. 4,8). Ponendo tali punti di vista sul piano dell’equipollenza, il Nostro rigetta congiuntamente sia l’etica senza ontologia di Lévinas sia l’apofasi senza esegesi di Marion. In questo modo si tenta e si auspica un recupero dello spessore ontologico del mondo del testo biblico, senza tuttavia indulgere alle varianti ideologiche che condizionano la storia del connubio Deus/esse97. Ancora una volta va 122 ribadito che quest’ultimo, nell’ottica ricoeuriana, è non già uno schema veritativo, bensì l’innesco di una storia e di una ricerca di senso. Nella fattispecie la proclamazione giovannea, tanto cara a Marion, non giova alla comprensione generale della storia salvifica (che connette e interconnette Antico Testamento e Nuovo Testamento) se estrapolato e alienato dall’aspetto metaforico che lo sorregge. Dunque un percorso ontologico nell’esegesi biblica è possibile purché ciò avvenga sempre nell’ambito di un’ontologia spezzata e di un’ontologia senza metafisica e difforme dalla struttura onto-teo-logica. Ricomporre queste istanze equivale alla messa in atto di un percorso che sappia far propria una sorta di coabitazione di ontologia e logica della hyperperisseia. La traduzione del verbo essere ebraico può consentire una proficua immissione del “molto più” nella storia dell’essere. Mantenere vivo il contatto fra ontologia e hyperperisseia consente anche e soprattutto di valersi di un cospicuo strato filosofico che impedisca al pollô mallon di non scadere nell’irrazionalismo e nel misticismo. In definitiva, il “molto più” dà forma e abita lo scarto fra l’essere greco e l’essere ebraico98. Lo scarto o il baratro fra i due campi semantici chiama in causa la disomogeneità fra la referenza primaria del greco einai e quella, per certi versi non del tutto esplorata, dell’ebraico ehyeh. La referenza ellenica è incentrata sull’idea di presenza e verte sulle possibilità di poter disporre di ciò che esiste, di ciò che è, se ciò non fosse verrebbe preclusa ogni possibilità di conoscenza. Di contro la referenza semitica è incentrata sull’idea di promessa (o di attestazione) e ciò è dato supporlo in virtù della peculiare fraseologia alla base della Ur-theophanie sinaitica. In quanto la reduplicazione della risposta ehyeh in ehyeh aser ehyeh lascia intendere che non ci si trovi sic et simpliciter innanzi a un’evanescenza della presenza di Dio, bensì al cospetto di una reiterazione che apre al tempo dell’attesa; si potrebbe così tradurre: “Io ci sono/mi mostro quindi Io ci sono/mi mostro”. Di primo acchito si pone all’attenzione un’apparente aspetto tautologico, tuttavia, nel modo si pensare di questa lingua così remota eppure alla base 123 della nostra tradizione culturale, l’aspetto che si vuole esprimere è lo scarto di tempo che la manifestazione di Dio, presso la storia d’Israele e presso la storia dell’uomo, innesta nel tempo dell’uomo inabitato dalla speranza. In altre parole, la traduzione del verbo ebraico concretizza e determina l’esplicito ricorso a una scelta segnata dall’esigenza di condurre a sé (tradurre) da lungi un significato estraneo che apra il discorso sull’essere all’accoglienza di una promessa testimoniata nel mondo del testo biblico. Inoltre si profila un motivo non trascurabile, se si vuole perseguire, in virtù della disomogeneità delle referenze, una distanziazione della ousia dalla para-ousia. L’operato del traduttore deve avere l’accortezza di saper cogliere la differenza fra il già detto e il non ancora detto implicito nella varietà di senso che può schiudersi dinanzi al testo; deve inoltre porgere la giusta attenzione alla lettura dell’eccedenza del Nome rispetto al verbo e rispetto a un’oggettività che trascende il desiderio d’essere e le pastoie della metafisica. Se è vero che la cosiddetta “metafisica dell’Esodo”, su cui si tenta d’imperniare una “filosofia cristiana”, sia storicamente un punto d’inizio per la riflessione filosofica tradizionale, sarà altrettanto vero, a detta del Nostro, che Es. 3,14 può essere ricollocato, nel cuore pulsante della filosofia, sotto due aspetti ancora non sufficientemente esauriti (e mai lo saranno): lo si può considerare un punto di fuga del discorso sull’essere e lo si deve contestualizzare come locus della voce del Roveto ardente, ovvero del grido di dolore d’Israele, quindi dell’umanità intera, che imbrigliato fra le spine della storia accoglie uno spirito di forza inestinguibile che arde sotto forma di una speranza di giustizia e di un bene che è nonostante il male che è e che attanaglia il mondo (secondo un Midrash che riscuote consensi anche nella più recente esegesi cristiana). L’assunzione di questa lettura, se si vuole così affine al paradigma paolino, rende in modo eminente l’idea di quale direzione Ricoeur voglia imprimere alla sua ontologia biblica, ossia alla storia dell’essere raccontata con la lingua della fedeltà e della speranza, 124 ossia con una lingua capace di esorbitare (con la logica della hyperperisseia) dal dramma dell’essere spezzato fra il bene e il male. Insomma, l’ermeneutica da sola non basta, nel senso che non di rado l’interpretazione soggiace a una ideologia di sorta che ne preclude la continuità nel tempo. Se l’ermeneutica è insieme interpretare e pensare deve aprire uno spiraglio fra il mondo del testo e il mondo della lingua da cui il medesimo testo proviene a noi, che ne accogliamo, quasi gratuitamente, le istanze e la novità. Parimenti l’opzione di metodo che adduce la traduzione come orizzonte per penser plus (e come concretizzazione del barthiano Nachdenken) incarna lo sbocco finale del lungo processo di désabsolutisation intrapreso in tempi non sospetti dal primo Ricoeur. Detto in altri termini, gli albori del pensiero ricoeuriano hanno conservato fino alla teorizzazione del metodo della traduzione il medesimo spirito di libertà da ogni pretesa sistematica. E ancora, in fondo si è rinvenuto nella hyperperisseia la legge fondamentale della de-assolutizzazione del rapporto bene/male nell’essere e l’elemento di rottura esibito nei confronti di un’idea di essere come totalità. Accogliere, nella prospettiva di un’ontologia plurale, un’altra lingua dell’essere equivale a mantenere vivo questo proponimento e questa idiosincrasia verso la totalizzazione. Ma di fatto ci si ritrova dinanzi alla prospettiva che al contempo comporta una parziale rivalutazione dello spirito dell’onto-teo-logia, non nella sua essenza strutturale, bensì nel suo accordo con il tema immenso di comprendere l’essere per mezzo del Nome di Dio e di accostare il mistero di Dio per mezzo della nostra esistenza, e l’assunzione dello scarto, quasi aporetico che vige fra lingue diverse, come occasione per esercitare la libertà del pensiero e la libertà d’introdurre la dismisura della speranza. In Ricoeur modellare una filosofia ermeneutica, secondo i dettami della traduzione, equivale a insistere sul rifiuto dell’idea di totalità per anteporre un’idea di accoglienza e apertura ed è in questi termini che si sviluppa e si compie il suo esodo dalla metafisica. In altre parole, il verbo ebraico ehyeh è assunto e tradotto come cifra del “molto più” paolino, conducendone, fino 125 alle estreme conseguenze, tutte le potenzialità finanche filosofiche. Va inoltre considerato il fatto che esplicitamente il metodo della traduzione consente di acuire il divario fra lo stesso Ricoeur e Heidegger nei termini di una precisa contrapposizione polemica. Occorre evidenziare che il filosofo di Valence è decisamente critico nei confronti della linea heideggeriana di de-giudaizzazione, ovvero della marginalizzazione del mondo biblico e della Sacra Scrittura. L’ultimo Ricoeur non assurge a testimone di una nuova filosofia che sappia rimettere al centro la natura veritativa del dato rivelato, come accade invece nel neotomismo francese e italiano. L’ultimo Ricoeur propone una nuova alleanza fra un pensiero filosofico mai concluso e le risorse, ancora in larga parte inesplorate, celate nella radice biblica della cultura europea. Si può dire del proponimento ricoeuriano, nella sua interezza, che esso è depositario di una recondita analogia con quanto è rassegnato da Quinzio per descrivere i tratti salienti del pensiero cristiano del Novecento: “si va oggi a cercare il cristianesimo là dove è più lontano dal moderno, per le vie traverse di gnosi, alchimie e simbolismi che ricompongono armonie perdute, mentre il cristianesimo si può riconoscerlo solo nella modernità, la modernità che la morte inghiotte, come l’abisso inghiotte chi osa fissarlo.”99 A tutto ciò Ricoeur ha dedicato studio ed energie, protendendo ogni fibra del proprio filosofare alla strenua ricerca di una lingua che sapesse raccontare il bene. 126 70 K. Barth, Der Römerbrief, trad. it., op. cit., pag. 155. Finitude et culpabilité, trad. it., op. cit., pagg. 533-547. 72 Ibidem. 73 L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Mursia, Milano 2004, pagg. 91-92. 74 K. Barth, Gott und das Nichtige, trad. it. Dio e il Niente, Morcelliana, Brescia 2003. 75 Le mal, op. cit., pagg. 226-228. 76 K. Barth, Der Römerbrief, trad. it., op. cit., pagg. 142-150. 77 Le mal, op. cit., pag. 233. Cfr. anche K. Barth, Gott und das Nichtige, trad. it., op. cit., pagg. 145-157. 78 Ivi, pagg. 112-113. 79 Le mal, op. cit., pag. 47-48. 80 Exegesis. Problèmes de méthode et exercices de lecture, trad. it. op. cit., pagg. 79-80. 81 Le mal, op. cit., pagg. 229-233. 82 Entre philosophie et theologie II: nommer Dieu, in Lectures 3, op. cit., pagg. 281305. 83 La métaphore vive, Editions du Seuil, Paris 1975, trad. it. La metafora viva, Jaca Book, Milano 2001, pagg. 372-391. 84 Ivi, pagg. 359-366. 85 85 Thinking biblically, trad. it., op. cit., pagg. 336-342. 86 La métaphore vive, trad. it., op. cit., pag. 368-369. 87 Ivi, pag. 363. 88 Ivi, pag. 370. 89 P. Ricoeur, E. Jüngel, Metapher. Zur Hermeneutik religiöser Sprache, München 1974, trad. it., Dire Dio, Queriniana, Brescia 2005. 90 D. Jervolino, Introduzione a Ricoeur, Morcelliana, Brescia 2003, pagg. 66-76. Cfr. anche, Id., Per una filosofia della traduzione, Morcelliana, Brescia 2008, pagg. 201-223. 91 La traduzione. Una sfida etica, Morcelliana, Brescia 2002. 92 Si fa riferimento al contenuto e all’impostazione del saggio Dall’interpretazione alla traduzione, in Come pensa la Bibbia (trad. it. di Thinking biblically, op. cit.), pagg. 321348. 93 Ivi, pagg. 342-346. 94 Ivi, pagg. 342-343. 95 Ivi, pag. 344. 96 Ivi, pag. 345. 97 Ivi, pag. 346. 98 Ivi, pag. 347. 99 S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 2006, pag. 104. 71 127 128 APPENDICE Paul Ricoeur DA UN TESTAMENTO ALL’ALTRO (trad. di Giovanni Todaro) L’intento di questo saggio è quello di interpretare congiuntamente la famosa proclamazione di Es. 3,14 “Io sono colui che sono” e quella di 1Gv 4,8 “Dio è amore”. Più precisamente intendo mostrare che la formula giovannea diventa più significativa nel momento in cui viene interpretata come un’estensione della formula ebraica. Proverò a dire, in conclusione, quale arricchimento può ricavare una filosofia teologica (o una teologia filosofica) da un tale accostamento apparentemente incongruo. “IO SONO COLUI CHE SONO” Suggerisco di procedere in più tappe nella direzione dell’enigmatica proclamazione contenuta in Es. 3,14. La prima tappa ci viene fornita dalla più breve di tutte le formule ebraiche capaci di scuotere il primato dell’ontologia greca. Questa formula, che gli esegeti designano con il termine “autopresentazione” o “autointroduzione” di Dio (Selbst-Vorstellung o Selbst-Verkündigung), si riduce a questa: “Io [sono] Jahvé” (Lev. 18,5-21). Una formula leggermente diversa: “Io [sono] Jahvé, il vostro Dio” – con l’aggettivo possessivo “vostro” – aggiunge all’auto-introduzione una richiesta di riconoscimento. Come confermato da ulteriori approfondimenti, non esiste alcuna asserzione biblica che riguardi Dio in sé e per sé. Al contrario, proclamare il nome di Dio ingenera immediatamente un doppio processo esplicativo, l’uno narrativo, l’altro prescrittivo. “Sono io Jahvé, il tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altro Dio all’infuori di me” (Es. 20, 2-3). La proposizione relativa di forma narrativa “Sono io che […] ti ho fatto uscire” – e il grande comandamento che segue immediatamente costituiscono insieme ciò che si può chiamare la denominazione predicativa di Dio, la quale esplica e manifesta il nome puramente appellativo contenuto nella clausola dell’autopresentazione: “Io [sono] Jahvé.” La seconda tappa è introdotta attraverso il testo paradigmatico, conosciuto, nella letteratura ebraica, sotto il titolo di Shema (Ascolta!): “Ascolta Israele, Jahvé nostro Dio [è] uno solo” – oppure: “Jahvé nostro Dio [è] il solo” (Dt. 6,4). Questa proclamazione, enunciata alla terza persona, porta l’autopresentazione più lontano, verso il grande comandamento che la segue, o che piuttosto la spiega: “Tu amerai Jahvé il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze”. In entrambi i casi Jahvé e Israele –, viene formulata una rivendicazione esclusiva: così come Jahvé è il solo a escludere gli altri dei, allo stesso modo l’amore umano verso Dio esclude tutti gli altri oggetti d’amore. Si può anche discutere la questione se tale proclamazione dell’Unico, piuttosto che dell’Uno, implichi la non esistenza degli altri dei. L’accento, ci sembra, non cade sullo statuto 130 ontologico dell’idolo, bensì sul carattere “esclusivo” della fedeltà dovuta a Jahvé. La terza tappa è particolarmente disseminata di insidie. Essa ha come posta in gioco l’implicazione ontologica dell’atto del discorso che proclama il nome di Dio, sia nel modo appellativo sia nel modo predicativo. Infatti, si può dire che né l’autopresentazione di Jahvé né lo Shema permettano di distinguere tra essenza ed esistenza, nel senso dell’ontologia greca e successivamente di quella scolastica. In tal modo l’autodichiarazione rinvia all’auto-manifestazione. La proclamazione dell’unicità di Dio non si lascia scomporre in due enunciati: in primo luogo, “Dio esiste”; in secondo luogo, “Egli è uno [solo]”. I predicati etico-narrativi, che esplicano lo Shema, equivalgono a un atto di fiducia nell’efficacia del nome senza alcuna intermedia asserzione di esistenza. Questa doppia fiducia nell’efficacia storica ed etica del nome rende superflua ogni asserzione che pretenda di distinguersi dall’esistenza. Detto ciò, che ne è della famosa proclamazione di Es. 3,14: Eyeh asher eyeh, “Io sono colui che sono” (LXX: Ego eimi ho ôn; Vulg.: Ego sum qui sum)? Non abbiamo forse qui a che fare con ciò che Étienne Gilson designa come il nucleo della “metafisica biblica”? Dovremmo piuttosto aver cura di non confondere troppo avventatamente l’ebraico eyeh (“Io sono”) con il greco einai. Il semplice fatto che il verbo “essere” sia enunciato alla prima persona del presente mette in guardia contro una tale assimilazione. È il caso di ricordare che il passaggio dal mythos al logos è reso dai Greci sotto l’egida dell’articolo neutro to (to sophron). Inoltre è soprattutto il peculiare contesto di Es. 3,14 che deve essere preso in considerazione, cioè il racconto della “vocazione di Mosè”, il quale appartiene a uno specifico genere letterario, quello appunto dei “racconti di vocazione”. Che ne è allora della pretenziosa “metafisica dell’Esodo”? Si può oscillare tra un approccio puramente esegetico, secondo cui la cornice stessa del racconto di vocazione impedisce di sopravvalutare e d’ipostatizzare il triplice “Io sono”, culminante nel nome “Jahvé”, e un approccio più 131 teologico dove sarà sottolineata la stranezza di una risposta che sembra eccedere rispetto al meccanismo delle domande e delle risposte, delle obiezioni e delle rassicurazioni e nel cui ambito la proclamazione è inserita. Tale eccedenza, posta in evidenza dal sottile crescendo dei tre eyeh, non ingenera una situazione ermeneutica unica nel suo genere, ovvero l’apertura del verbo “essere” a una pluralità di interpretazioni? Grazie a questa eccedenza e a questa apertura, il significato di Es. 3,14 non può più essere separato dalla storia dei suoi effetti, dalla sua Wirkungsgeischichte. In quest’ottica, l’interpretazione tomista non è che una fra le tante, pur essendo quella che ha modellato maggiormente la metafisica occidentale. Certamente la questione non è quella di riscoprire una qualche perduta univocità, la quale può non essere mai esistita, ma precisamente di preservare la plurivocità, addirittura l’indeterminatezza (“Io sono cului che sono” diviene in termini hegeliani una proposizione indeterminata), a prescindere se tale plurivocità sia stata o meno interpretata dallo scrittore, chiunque egli sia. La meditazione filosofica innestata sull’Esodo (3,14) si arricchisce così di opposte suggestioni. Se si insiste sullo sfondo narrativo del racconto di vocazione, si inclinerà a negare la portata ontologica della formula, che si manterrà nei limiti della dimensione etica di cui parla la nozione di vocazione, l’Eyeh asher eyeh non mirerà che a una sottolineatura solenne dell’autorità del mandante. Se, di contro, si sottolinea la stranezza di una proclamazione che sembra oltrepassare i limiti del racconto classico di vocazione, ci si sentirà tentati di esplorare la sovrabbondanza di senso incontrata nella strana sequenza eyeh, eyeh, eyeh, Jahvé. Allora si aprirà a una pluralità di interpretazioni oltre la chiusura dell’ontologia greca, ma senza temere il rischio di una interpretazione sconcertante, vale a dire che la risposta di Jahvé è una non-risposta, nella quale il mistero dell’inconoscibilità di Dio è preservato – la formula ha valore di enigma nel contesto di un semplice racconto. Sennonché per uno spirito occidentale, 132 educato alla tradizione dell’ontologia greca, queste linee interpretative sembreranno fra loro opposte. “DIO È AMORE” Nel passaggio dalla Bibbia ebraica al Nuovo Testamento è importante evidenziare la continuità più che la discontinuità tra i due Testamenti. La scelta della proclamazione giovannea: “Dio è amore” sembra suggerire che la discontinuità prevalga sulla continuità. Ciò è manifesto in diversi modi. Innanzitutto il contesto cristologico di questa asserzione è evidente: Dio ha manifestato il suo amore identificandosi con l’uomo Gesù; l’amore esprime allora quello che l’ultimo Barth, seguito in questo da E. Jüngel, chiama l’ ”umanità di Dio”. In seguito, la teologia cristiana ha ipostatizzato il processo di differenziazione e la re-identificazione parlando di Dio come trino; ora la dottrina trinitaria non sembra forse contraddire lo Shema ebraico: “Ascolta Israele, Jahvé il nostro Dio è uno [solo]” ? Senza sottovalutare tale discontinuità, il mio proposito è di porre l’accento su una nuova forma di continuità, capace di edificarsi proprio su questa discontinuità. Questa continuità di secondo grado tra “Dio è uno [solo]” e “Dio è amore” può essere ricostruita in tre tappe. Prima tappa: la continuità s’impone una prima volta se si legge la frase “Dio è amore” come un enunciato metaforico. Questa interpretazione metaforica non poggia sulla teoria aristotelica della metafora nominale, che consiste nel dare a una cosa il nome di un’altra sulla base di qualche forma di somiglianza fra le due. Intendo qui per “metafora” una predicazione bizzarra a favore della quale una nuova attribuzione pertinente procede dal crollo dell’attribuzione diretta, letterale e per nulla pertinente. La forza di questa predicazione bizzarra risulta dal fatto che essa accresce il significato 133 tanto del soggetto quanto del predicato. Applichiamo questa idea alla frase “Dio è amore”. Vedendo Dio come amore e l’amore come Dio, noi pensiamo di più, sia a proposito di Dio che a proposito dell’amore. In che cosa questo è in relazione con il nostro problema della continuità tra la comprensione ebraica e la comprensione cristiana di Dio? Nella seguente maniera: qualcosa che concerne Dio è presupposta nella posizione di Dio come soggetto; e cos’altro bisogna presupporre se non che Dio è uno [solo], tenuto conto delle narrazioni e delle legislazioni che contribuiscono alla denominazione predicativa e, attraverso di essa, al nome appellativo Jahvé (per non dire nulla di quello che profezie, inni, proverbi aggiungono alla denominazione legislativa e narrativa)? Sì, tutto questo è posto nuovamente nel soggetto Dio (è per questo che Pascal, il cristianissimo Pascal, ha potuto invocare Dio come il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe). È questo stesso Dio che ora è chiamato “amore”. Tale denominazione implica che nella dottrina trinitaria “tre” non sostituisca semplicemente l’unità numerica, e che nello Shema ebraico Dio non è numericamente uno, ma l’oggetto esclusivo dell’amore: da cui la traduzione “Dio è il solo” piuttosto che “Dio è uno”. Simmetricamente, nella frase “Dio è amore”, tutto quello che abbiamo precedentemente compreso o precompresso riguardo all’amore è ugualmente posto, cambiato e preservato nella e per l’attribuzione a Dio. Ciò che viene sostenuto, come ho provato a dire in un saggio dedicato alla dialettica dell’amore e della giustizia, è il primato della logica della sovrabbondanza che governa l’economia del dono, rispetto alla logica della equivalenza, che regge la giustizia intesa come vendetta o legge del taglione. Applicata a Dio, questa precomprensione della legge che governa l’economia del dono, accresce e arricchisce la nostra comprensione preliminare di Dio come il solo (o l’unico). La frase allora vuol dire ciò: questo Dio, che voi conoscete già come Dio d’Israele e che richiede da voi un amore esclusivo è lui stesso quest’amore esclusivo. Questo mutuo accrescimento di significato tra Dio e l’amore ci autorizza a dire che, lungi 134 dall’essere abolita attraverso la frase “Dio è amore”, la proclamazione dello Shema “Dio è il solo” è rilanciata a vantaggio di quest’incremento iconico dei due termini fra loro. A conclusione di questa prima tappa, l’interpretazione metaforica dell’espressione “Dio è amore” preserva il Dio dell’ ”Io sono colui che sono” in seno allo stesso processo metaforico. La seconda tappa, che va in direzione della lettura trinitaria e cristologica, è svolta attraverso l’interpretazione dialettica dell’amore stesso. Una tale interpretazione non si sostituisce certo a quella metaforica, ma la sviluppa esplicandola. È il predicato “amore”, metaforicamente applicato a Dio, che ora richiede una nuova interpretazione di tipo dialettico. Alla soglia di questa seconda tappa sottolineo il mio debito riguardo a Jüngel, in Dio mistero del mondo, e riguardo alla sua attenzione di conservare qualcosa del tono hegeliano sulla transizione che conduce da una comprensione iniziale dell’amore a ciò che si può chiamare una valutazione pensante di cosa sia l’amore. Infatti, fino a quando si è solamente parlato dell’economia del dono in termini di logica della sovrabbondanza, non si è ancora detto ciò che conta: vale a dire che l’amore è abnegazione di sé verso l’altro, che conferisce al sé iniziale una dimensione che non sarà possibile se esso rimane solo con sé medesimo. Cito Jüngel: “A giudicare formalmente, l’amore ci appare come evento di una sempre maggiore abnegazione di sé in relazione a un sé a pieno titolo. A giudicare materialmente, l’amore è compreso come l’unità della vita e della morte a vantaggio della vita”. Questo enunciato, preso in se stesso, parla dell’amore senza attribuirlo esplicitamente a Dio. Parla cioè dell’amore in sé, come nell’inno paolino di 1Cor. 13. A tal riguardo, non importa sapere chi è l’amante né chi è l’amato. È solamente grazie all’attribuzione metaforica “Dio è amore” che lo sviluppo dialettico dell’amore è attribuito a Dio, in un modo che è Dio stesso, –parlando formalmente – questo rovesciamento della relazione a sé nell’abnegazione di sé in vista di una più profonda relazione al sé e – parlando materialmente – questa unità della vita e della morte a vantaggio della vita. 135 Se c’è un punto in cui siamo lontani da Lévinas è proprio questo: un iniziale rapporto al sé è presupposto attraverso l’abnegazione di sé, in vista di un rinnovato rapporto al sé. Per Jüngel, la dialettica dell’amore trae la sua forza da questa alternanza fra Abwendung (allontanamento) e Zuwendung (avvicinamento). È ciò che Jüngel chiama “l’amore giudicato formalmente”. Mentre lo è materialmente (nel senso di materia opposta alla forma) quando la stessa cosa è detta nel vocabolario della vita e della morte: “l’evento dell’unità della vita con la morte a vantaggio della vita”. In effetti, la figura formale (l’abnegazione di sé in relazione a un sé a pieno titolo) prende in qualche modo corpo allorché vita e morte sono affrontati non come contrari, bensì come un unico cammino: dalla vita verso la vita attraverso la morte. A questo proposito Jüngel richiama opportunamente S. Agostino, dicendo dell’amore che esso fa venire in noi la morte (Sal. 121,12): Facit in nobis quamdam mortem. A cui fa eco il Cantico dei cantici: “l’amore è forte come la morte” (8,6). Pertanto, una fenomenologia dell’amore può nello stesso tempo arrivare a riconoscere che la sofferenza dell’amore non è di non amare abbastanza, ma di soffrire della propria impotenza dinanzi a ciò che non è lui stesso; che non tutto sia amore, ecco ciò di cui soffre l’amore. È questa fenomenologia dialettica dell’amore, se così la si può definire, che l’enunciato metaforico “Dio è amore” implica con il predicato “amore” in quanto attribuito a Dio. Ma il Dio, di cui si dice che sia l’amore, è lo stesso Dio d’Israele reinterpretato alla luce di questo nuovo e complesso predicato. Qui a Dio vengono contemporaneamente trasferite sia la struttura formale sia la struttura materiale della dialettica dell’amore. Parlando formalmente “Dio si differenzia in quanto egli ama se stesso” o meglio: “egli ama un altro e in tal modo è e resta sé stesso”. Parlando materialmente, Dio non è ancora amore finché non è il Dio sofferente e morente. Ciò può essere inteso come la precomprensione – il Vorgriff, per dirla come Karl Rahner – del Dio trino, una bozza della dottrina classica della trinità “immanente”. L’ultima tappa riguarda l’asserzione cristologica che si riferisce all’uomo Gesù, in cui Dio stesso si è identificato, al fine di effettuare storicamente 136 l’auto-esplicazione metaforica e dialettica che Dio è in sé stesso. Un nuovo passo nell’interpretazione è qui operato verso quella che si può chiamare interpretazione narrativa della frase “Dio è amore”. Tuttavia l’interpretazione narrativa non si comprende da sola, ma si deve congiungere all’interpretazione dialettica, la quale a sua volta sviluppa l’interpretazione metaforica, che resta la base. Dunque bisogna seguire l’intero percorso: inizialmente il Dio uno/solo è metaforicamente amore. Ed è così nella misura in cui l’amore è l’unione della vita e della morte a vantaggio della vita. Infine, l’amore non è una tale unione che nell’evento storico della Croce, secondo la simbolica cristiana. Che una componente narrativa sia essenziale al senso dell’amore lo desumiamo anche da una certa precomprensione nella vita quotidiana. Parlare dell’amore è raccontare una storia d’amore. La narrazione sviluppa la dimensione temporale, storica e già storicamente legata, se si può osare dirlo alla storia dell’Esodo e alla storia drammatica delle relazioni dell’Alleanza di Dio con il suo popolo. Ricordiamolo: la denominazione predicativa di Jahvé è insieme prescrittiva e narrativa. In questo senso Dio si lascia raccontare: questa è una delle maniere di dire che è rivelato, che è aperto (Offenber), e non interamente inconoscibile, ma ben conosciuto nelle storie ove egli stesso è invischiato. La peculiarità dei racconti evangelici è di esemplificare in modo narrativo la dialettica della vita e della morte a vantaggio della vita. A questo riguardo, il genere letterario del Vangelo è costituito tramite lo sviluppo narrativo di un breve kerygma, in attesa di uno sviluppo narrativo: “Egli è morto, è stato sepolto, è resuscitato ed è stato visto da molti”. In questo senso i racconti evangelici possono essere considerati come “racconti interpretativi” in virtù della struttura dialettica dell’amore, in cui il kerygma dice metaforicamente chi è Dio. Così, attraverso l’interpretazione metaforica e l’interpretazione dialettica, è la stessa narrazione che assicura il pieno sviluppo della formula “Dio è amore”. Nei Vangeli questa preoccupazione di raccontare ha assunto la forma specifica evidenziata da Weinrich: vale a dire che Gesù, il narratore 137 delle parabole, diviene il narratore raccontato del Vangelo; sicché egli stesso diviene la parabola raccontata di Dio. Ma questa formula abbreviata diventerebbe ingannevole se l’interpretazione narrativa della formula “Dio è amore” non rientrasse nell’economia dell’interpretazione dialettica, che unisce la vita alla morte in seno all’amore, e dell’interpretazione metaforica, che attribuisce bizzarramente l’amore a Dio. Vorrei, per concludere, trarre alcune considerazioni finali da questo esercizio di ermeneutica biblica, inquadrata nella prospettiva di una filosofia teologica o di una teologia filosofica. Ho innanzitutto avuto costantemente in animo la polarità su cui si edifica la filosofia hegeliana della religione, cioè la coppia Vorstellung/Denken, che traduco con “pensiero figurativo”/”pensiero concettuale” o “speculativo”. Per Hegel la religione, ivi compresa la “religione compiuta” (Vollendete) del libro III della Filosofia della religione, resta figurativa in tutto e per tutto, fin nelle sue elaborazioni dogmatiche e fondamentalmente trinitarie. È alla filosofia del pensiero concettuale che spetta di chiarire ciò che anche per la teologia rimane figurato. Emerge, dalle interpretazioni proposte a proposito di Es. 3,14 e 1Gv. 4,8, che il modo speculativo di pensare non è imposto dal di fuori ad affermazioni che rimangono pur sempre figurate, ma che è già costitutivo di quella che si potrebbe indicare come una intrinseca dimensione sapienziale. Riguardo all’aspetto dichiaratamente “figurato” della coppia considerata, occorre slegarlo dalla nozione d’immagine per ricollegarlo piuttosto a quella di gioco linguistico, nel senso desunto da Wittgenstein. Sono qui in gioco tre campi d’indagine. Innanzitutto quello degli atti linguistici, propriamente detti, e utilizzati nella proclamazione del nome di Dio: invocazione, lode, lamentazione e interrogazione; di seguito abbiamo quello delle forme retoriche, per la precisione quello dei tropi: metafora, metonimia, sineddoche, ironia; infine quello dei principali generi letterari applicati ai testi biblici: racconti, comandamenti, profezie, inni e proverbi. Presi insieme, atti linguistici, tropi e generi letterari contribuiscono alla 138 proclamazione del nome di Dio. Una tale conseguenza è offerta dalla nozione hegeliana di rappresentazione. Tutte le frasi considerate in questo studio, da “Io sono Jahvé” fino a “Dio è amore”, possono essere inserite in ciascuna di queste tre rubriche. La tesi che mi sembra risultare, dall’interpretazione delle frasi chiave prese in considerazione, è che un autentico pensiero speculativo è già implicito nella proclamazione del nome di Dio. Quello che, nella prima parte, ho chiamato il “passaggio dal nome appellativo al nome predicativo”, sotto la duplice forma narrativa (Io sono Jahvè che ho fatto tutto) e prescrittiva (Tu non avrai altro Dio all’infuori di me) costituisce una vera esplicazione del Nome e innesca così un processo speculativo che si può seguire dicendo: 1) che il Dio d’Israele è un Dio relazionale, di cui nulla si sa se non all’interno delle relazioni Dio/uomo, Dio/popolo, Dio/mondo; 2) che questa relazione comporta un momento critico, di cui si è conosciuto il segno nelle “obiezioni di Mosè alla chiamata” e che si esprime pienamente nella lamentazione, nel pianto, nell’accusa dei Salmi, per esplodere letteralmente nella polemica di Giobbe. Quanto alla proclamazione del nome di Dio, inclusa nella enunciazione giovannea, essa sviluppa al proprio interno un movimento speculativo che si articola sulla base di quello inaugurato da Es. 3,14, nella misura in cui il Dio uno/solo della Bibbia ebraica può essere ritenuto il soggetto grammaticale della frase “Dio è amore”, nell’interpretazione metaforica che ne è stata proposta. Il movimento speculativo prosegue nel passaggio all’interpretazione dialettica e all’interpretazione narrativa; e potrebbe essere prolungato sulla base dell’espressione “Gesù parabola di Dio”, tramite una riproposizione della vecchia querelle sull’analogia secondo Jüngel (la più grande dissomiglianza in seno a una tanto grande somiglianza). Sarà così confermata l’unione del piano figurativo col piano speculativo nel discorso cristiano, prima dei grandi risvolti teologici conciliari. 139 Un secondo campo d’indagine sarà quello dell’ontologia biblica. Ci si sposterà qui al seguito di un’altra querelle, non più quella della polarità rappresentazione/concetto, ma in quella dell’onto-teologia, inaugurata da Heidegger e risolta, come è noto, da Lévinas, mediante la rottura tra pensiero dell’Altro e pensiero dell’Essere. Le interpretazioni alternative che abbiamo considerato, a partire dal celebre “Io sono colui che sono”, fanno posto all’ipotesi di una ontologia sui generis, in cui il verbo “essere”: 1) è sempre pronunciato con una persona grammaticale, a partire dall’ “Io sono”; 2) preserva una insuperabile plurivocità, fino alla frontiera dell’inconoscibilità divina; 3) vieta di separare manifestazione del sé, in un senso che si può ancora dire ontologico, e ingiunzione, in un senso schiettamente etico. Se è vero che la frase “Dio è amore” può essere ritenuta come uno sviluppo interpretativo della frase “Io sono colui che sono”, allora l’asserzione, ontologicamente sui generis di Es. 3,14, si trova contenuta e ripresa nella frase giovannea. A essa si aggiunge, in primo luogo, ciò che si potrebbe chiamare l’ “essere come” dell’interpretazione metaforica, vale a dire una modalità specificamente rilevante la verità metaforica. Da questo momento in poi, se si è potuto scrivere “Dio è amore”, mettendo l’accento sul predicato, si è anche potuto scrivere “Dio è amore”, per affermare che lo è veramente. È questa veemenza ontologica che si comunica all’interpretazione dialettica. Secondo un’espressione forte di E. Jüngel: “Dio è l’evento dell’unità della vita e della morte a vantaggio della vita”. Dio è questo movimento dialettico. Quanto all’interpretazione narrativa, essa inscrive, nella dimensione storica dell’evento, l’essere metaforico e dialettico, senza che sia mai richiesta una versione greca del verbo “essere”. Nell’espressione “Dio è amore” non si dovranno distinguere due asserzioni: 1) Dio esiste; 2) Dio esiste come amore. Questa scomposizione è caratteristica di una ontologia nella quale è possibile appunto distinguere l’essenza dall’esistenza e dunque inferire o meno l’essenza dall’esistenza. È 140 lo stesso amore che, in Dio, si manifesta, in qualche modo, in un unico plesso come sorgente di manifestazione e sorgente d’ingiunzione. 141 BIBLIOGRAFIA Opere di Paul Ricoeur - Philosophie de la volonté I. Le volontarie et l’involontaire, AubierMontaigne, Paris 1950 (trad. it., Filosofia della volontà. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990) - Culpabilité tragique et culpabilité biblique, in Revue d’histoire et de philosophie religieuses 33/4, 1953 - Histoire et vérité, Éditions du Seuil, Paris 1955 - Le symbole donne à penser, in Esprit 27, 1959 - Philosophie de la volonté II. Finitude et culpabilité, I. L’homme faillible, II. La symbolique du mal, Aubier-Montaigne, Paris 1960 (trad. it. in un solo volume, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970) - De l’interprétation. Essai sur Freud, Éditions du Seuil, Paris 1965 (trad. it., Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967) - Entretiens Paul Ricoeur – Gabriel Marcel, Aubier-Montaigne, Paris 1968 (trad. it., Per un’etica dell’alterità. Sei colloqui, Edizioni Lavoro, Roma 1998) - Le conflit des interpretations, Éditions du Seuil, Paris 1969 (trad. it., Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1999) - La sfida semiologica, Armando, Roma 1974 - P. Ricoeur, E. Jüngel, Metapher. 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Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993) - Soi-même comme un autre, Éditions du Seuil, Paris 1990 (trad. it., Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1990) - Amour et Justice, JCB, Tübingen 1990 (trad. it., Amore e Giustizia, Morcelliana, Brescia 2007) - Lectures 3, Éditions du Seuil, Paris 1994 - Esperienza e linguaggio nel discorso religioso in Filosofia e Teologia (Anno IX, n. 1, 1995) - La critique et la conviction, Calmann-Lévy, Paris 1995 (trad. it., La critica e la convinzione, Jaca Book, Milano 1997) - Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éditions Esprit, Paris 1995 (trad. it., Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 1998) - Le juste, Editions Esprit, Paris 1995 (trad. it. Il giusto, Effatà, Torino 2005) - P. Ricoeur, A. LaCocque, Thinking biblically, The University of Chicago Press, Chicago 1998 (trad. it., Come pensa la Bibbia, Paideia, Brescia 1998) - La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditions du Seuil, Paris 2000 (trad. it., La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003) - Parcours de la reconnaissance, Éditions Stock, Paris 2004 (trad. it., Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005) 144 - Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, Bologna 2006 - Etica e morale (antologia a cura di D. Jervolino), Morcelliana, Brescia 2007 - Vivant jusqu’à la mort. Suivi de Fragments, Editions du Seuil, Paris 2007 (trad. it. Vivo fino alla morte. Seguito da Frammenti, Effatà, Torino 2008). Saggi e articoli su Paul Ricoeur AA. VV., L’io dell’altro. Confronto con Paul Ricoeur (a cura di Attilio Danese), Marietti, Genova 1993 AA. VV., Paul Ricoeur. Etica, giustizia, convinzione (a cura di Daniella Iannotta), Effatà, Torino 2008 O. Abel, Paul Ricoeur. La promesse et la règle, Michalon, Paris 1996 J. C. Aeschlimann, Étique et responsabilité. Paul Ricoeur, La Baconniere, Neuchatel 1994 O. Aime, Senso ed essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur, Cittadella Editrice, Assisi 2007 L. Altieri, “Je est un autre”. Una lettura del Parcours de la reconnaissance di Paul Ricoeur, in Per la filosofia 21, 2004 F. Amherdt, L’herméneutique philosophique de Paul Ricoeur et son importance pour l’exégèse biblique, Éditions du Cerf, Paris 2004 A. Argiroffi, Identità personale, giustizia e affettività. Heidegger e Ricoeur, Giappichelli, Torino 2002 J. A. Barash, M. Delbraccio, La sagesse pratique. Autour de l’oeuvre de Paul Ricoeur, Amiens 1998 145 R. Bergeron, La vocation de la liberté dans la philosophie de Paul Ricoeur, Éditions Bellarmin, Montreal Fribourg 1974 E. Bonan, Tra reciprocità e dissimmetria. La regola d’oro nel pensiero di Paul Ricoeur, in C. Vigna, S. Zanardo, La regola d’oro come etica universale, Vita e Pensiero, Milano 2005 F. Brezzi, Introduzione a Ricoeur, Laterza, Roma Bari 2006 - Filosofia e interpretazione. Saggio sull’ermeneutica restauratrice di Paul Ricoeur, Il Mulino, Milano 1969 - Ricoeur. Interpretare la fede, Edizioni Messagero, Padova 1999 V. Brugiatelli, Potere e riconoscimento in Paul Ricoeur, Uniservice. Trento 2008 D. Canale, Ricoeur e la dialettica del riconoscimento, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 2000 P. Capelle, Éthique et religion. Nabert et Ricoeur, in Transversalités 96, 2005 G. Cucci, Ricoeur oltre Freud. L’etica verso un’estetica, Cittadella Editrice, Assisi 2007 F. Dosse, Paul Ricoeur. Le sens d’une vie, La Découverte, Paris 1997 G. Fiasse, L’autre et l’amitié chez Aristote et Ricoeur, Éditions Peeters, Leuven 2006 M. Foessel, O. Mongin, La pensée Ricoeur, in Esprit 323, marzo-aprile 2006 M. Gervasoni, La poetica nell’ermeneutica teologica di Paul Ricoeur, Morcelliana, Brescia 1985 M. Gilbert, L’identité narrative. Une reprise à partir de Freud de la pensée de Paul Ricoeur, Labor et Fides, Genève 2001 G. Grampa, Paul Ricoeur: filosofia e scienze umane, in AA. VV., Gli dei in cucina. Vent’anni di filosofia in Francia, Queriniana, Brescia 2004 J. Greisch, Paul Ricoeur. L’itinérance du sens, Éditions Jérome Million, Grenoble 2001 146 - Les arrhes de l’espérance. L’hermenutique de la religion entre la critique et la conviction. Paul Ricoeur, in Id. Le buisson ardente et le lumières de la raison, Éditions du Cerf, Paris 2004 D. Jervolino, Introduzione a Ricoeur, Morcelliana, Brescia 2003 - Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur, Marietti, Genova 1993 - P. Ricoeur. L’amore difficile, Studium, Roma 1995 - P. Ricoeur. Trovare Cristo nella fraternità degli uomini, in AA. VV., Cristo nella filosofia contemporanea II, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001 P. Kemp, Éthique et narrativité. À propos de l’ouvrage de Paul Ricoeur: Temp et récit, in Aquinas 29, 1986 V. Melchiorre, Il metodo fenomenologico di Paul Ricoeur, in P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970 J. Michel, Paul Ricoeur, une philosophie de l’agir humain, Éditions du Cerf, Paris 2006 O. Mongin, Paul Ricoeur, Éditions du Seuil, Paris 1994 F. Moncada, Etica e intersoggettività. Riflessioni su “Soi-meme comme un autre”, in Archivio di filosofia 60, 1992 B. Müller, L’histoire entre mémoire et épistémologie, Payot, Lausanne 2005 T. Nkeramihigo, L’homme et la trascendence. Essai de poétique dans la philosophie de Paul Ricoeur, Culture et Vérité, Paris 1984 J. M. Pohier, Au nom du Père…, in Esprit 34, 1966 A. Rigobello, Paul Ricoeur e il problema dell’interpretazione, in La filosofia dal ’45 ad oggi, a cura di V. Verra, ERI, Torino 1976 M. Salvi, Paul Ricoeur: prospettive di ontologia ermeneutica, in AA. VV., Teologia e filosofia. Modelli, figure, questioni, Glossa, Milano 2008 C. Theobald, La Règle d’Or chez Paul Ricoeur. 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L’entreprise philosophique de Ricoeur, in Archives de philosophie 24, 1961 A. de Waelhens, La force du language et le language de la force, in Revue philosophique de Louvain 63, 1965 Hommage à Paul Ricoeur, in Etudes Théologique et religieuses 80, 2005 L’ultimo Ricoeur, in Per la filosofia 21, 2004 Paul Ricoeur, in Esprit 140-141, 1988 * Per una bibliografia ancora più ricca e dettagliata si segnala il sito www.fondsricoeur.fr 148 INDICE INTRODUZIONE Una filosofia devant Dieu 5 CAPITOLO I Una filosofia senza assoluto 1.1 Approdi aperti 17 1.2 Preludio filosofico e teologico 23 1.3 Radicalità del cristianesimo 32 CAPITOLO II Una filosofia a dispetto del male 2.1 Dentro e oltre la Simbolica del male 51 2.2 Ermeneutica filosofica del paradigma paolino 63 2.3 Nel cuore della teologia dialettica 84 CAPITOLO III Una filosofia dal percorso biblico 3.1 Ontologia spezzata 99 3.2 Dalla metafisica alla metafora 107 3.3 La sfida della traduzione all’ontologia 118 APPENDICE Paul Ricoeur, Da un Testamento all’altro 129 BIBLIOGRAFIA 143 149