EUNOMIA RIVISTA SEMESTRALE DEL CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE E DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI ANNO I N.S., NUMERO 1, 2012 2012 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Università del Salento Editor in Chief Antonio Donno (Università del Salento, Lecce, Italia) Scientific Board Furio Biagini (Università del Salento), Uri Bialer (Jewish University, Jerusalem, Israel), Ester Capuzzo (Università “La Sapienza”, Roma), Michele Carducci (Università del Salento), Daniele De Luca (Università del Salento), Ennio Di Nolfo (Università di Firenze), Antonio Donno (Università del Salento), Giuseppe Gioffredi (Università del Salento), Alessandro Isoni (Università del Salento), Giuliana Iurlano (Università del Salento), Vincenzo Lavenia (Università di Macerata), David Lesch (Trinity University, San Antonio, TX, USA), Amparo Lozano (Universidad S. Pablo Ceu-Madrid, Spagna), Monica Massari (Università di Napoli Federico II), Roberto Martucci (Università del Salento), Luigi Melica (Università del Salento), Luke Nichter (A&M Texas University, USA), Francesco Perfetti (LUISS “G. Carli”, Roma), Attilio Pisanò (Università del Salento), Fabio Pollice (Università del Salento), Bernard Reich (George Washington University, Washington, USA), Giuseppe Schiavone (Università del Salento), Teresa Serra (Università "La Sapienza", Roma), Antonio Varsori (Università di Padova), Manuela Williams (University of Strathclyde, U.K.) Editorial Staff Giuseppe Gioffredi, Giuliana Iurlano, Giuseppe Patisso, Fiorella Perrone, Bruno Pierri, Maurizia Pierri, Attilio Pisanò, Francesca Salvatore, Claudia Sunna, Lucio Tondo, Ughetta Vergari Editorial Office c/o Corso di Laurea di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Università del Salento-Lecce Via Stampacchia, 45 73100 Lecce (Italy) tel. 39-0832-294642 tel. 39-0832-294765 fax 39-0832-294754 e-mail: [email protected] ISSN 2280-8949 Journal website: http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia © 2012 Università del Salento – Coordinamento SIBA http://siba2.unisalento.it Sommario ANNO I n.s., NUMERO 1, 2012 Presentazione p. 5 ENNIO DI NOLFO Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina p. 9 ANTONIO DONNO La rivoluzione americana: evento locale o globale? p. 33 NON MULTA SED MULTUM Sezione docenti e studiosi MAURIZIA PIERRI Sistema fiscale e “inclinazioni” del federalismo p. 49 GIUSEPPE PATISSO Dall'asiento ai codes noirs: i tentativi di normativizzazione della schiavitù (sec. XV-XVIII) p. 65 ALESSANDRO ISONI Farewell to the European Community: The Lisbon Treaty and the Conceptual Shifts of a Sui Generis Public Law Experience p. 85 FRANCESCO MARTELLONI Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale: i rapporti italo-balcanici in uno studio di Carlo Maranelli del 1907 p. 99 PAOLO MACRÌ I quaccheri americani e le attività di soccorso in Europa e nella Russia bolscevica, 1917-1921 p. 131 GIULIANA IURLANO Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo: l'Amistad e il “misterioso caso della lunga e bassa goletta nera” p. 153 GRADUS AD PARNASSUM Sezione studenti FRANCESCA DE PASCALIS Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” p. 197 KATIA SCARLINO “Paidomazoma”: il rapimento dei bambini greci da parte dei ribelli comunisti durante la guerra civile (1944-1949) p. 227 FRANCESCA SALVATORE Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling p. 243 QUIS LEGET HAEC? Recensioni p. 269 GLI AUTORI p. 295 Presentazione Nell’ottobre 2007 uscì il primo numero dei quaderni editoriali di Eunomia, una rivista fortemente voluta da Attilio Pisanò e Giuseppe Gioffredi per ospitare alcuni fra i più meritevoli lavori finali svolti dagli iscritti al corso di laurea in Scienze politiche e delle Relazioni internazionali dell’Università del Salento. L’esperienza, ripetuta nel giugno 2008, confermò la validità dell’iniziativa, il cui scopo principale era quello di avviare una collana che potesse dare la possibilità ad ogni studente del corso “di veder riconosciuti i propri sacrifici e la propria capacità di ricerca”. Anche la scelta della denominazione della rivista, Eunomia, serviva a sottolineare, da un lato, l’alveo giuridico-internazionale in cui si collocavano i lavori pubblicati; dall’altro, ad individuare “un’immediata regola dell’agire tesa a premiare chi nel corso degli studi ha dimostrato passione, competenza, volontà di apprendere”. A distanza di quattro anni, Eunomia riprende le pubblicazioni in una nuova veste editoriale: si trasforma in un online journal, sia per facilitare e rendere più veloce la sua distribuzione, sia per abbattere i costi di pubblicazione, cosa che in precedenza aveva compromesso non poco l’esperienza editoriale. Ma non è questa l’unica novità: Eunomia, infatti, diventa la rivista del corso di studio di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali, modificando anche la sua struttura interna: oltre a mantenere la sezione “Gradus ad Parnassum”, dedicata ai lavori degli studenti – sezione allargata a un contesto più ampio, coincidente con tutte le aree disciplinari previste nei curricula degli studi –, la rivista prevede anche una parte, “Non multa sed multum”, dedicata agli studiosi, che potranno pubblicarvi i loro autorevoli contributi. Inoltre, vi sarà una sezione “Quis leget haec?”, che ospiterà le recensioni e le novità editoriali più interessanti per gli studenti del corso. Da questo punto di vista, Eunomia – concetto che, nelle intenzioni soloniane, doveva rendere tutto ordinato e perfetto, riequilibrando le tensioni all’interno della polis – cercherà di trascendere l’ambito puramente giuridico-politico, per rientrare a pieno titolo anche nella sfera dell’etica, un’etica della conoscenza oggi spesso trascurata di fronte all’idea di un sapere solo ed esclusivamente “pratico”. “Tutti debbono ricercare non ciò che è antico, ma ciò che è buono” (Pol. 1269a), scriveva Aristotele, anche in polemica col suo grande maestro: l’eunomia, infatti, non poteva fondarsi sull’immutabilità delle leggi, ma sulla continua ricerca di equilibrio e, soprattutto, sul piacere disinteressato della scoperta, sullo stupore che 5 spinge l’uomo alla ricerca, alla conoscenza e, dunque, alla sua crescita personale e sociale. In questo senso, Eunomia si propone di costituire una sede qualificata per riscoprire il valore del merito e il piacere dello studio, condizioni indispensabili per ottenere un riconoscimento reale, e non fittizio, da parte di una società tendenzialmente sempre più orientata alla semplificazione e alla superficialità. La Redazione 6 Non multa sed multum Sezione docenti e studiosi Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 9-32 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p9 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Ennio Di Nolfo Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina Abstract: The article reconstructs the events of the Italian project, strongly backed by Nenni, the Rumor Government’s Minister of Foreign Affairs in 1968, to recognize the People’s Republic of China. The Italian initiative alarmed the Nixon Administration, then just in office, thus arising for Washington the question to limit a process, which within the Western Bloc could have caused unpredictable repercussions on the large policy Nixon intended to pursue in light of a possible Sino-American rapprochement and of the consequent isolation of the Soviet Union. However, the hasty Italian action threatened to frustrate the long American diplomatic work, thus worsening the Taiwan problem, debated at length during the Italo-American talks. On October 25, 1971, the United Nations General Assembly voted by a large majority the replacement of Taiwan’s representative with that of Beijing. Italy abstained. Keywords: Italian-Chinese Popular Republic Relations; Italian-American Relations; CPS's Italian Recognition. 1. Pietro Nenni propone di riconoscere la Repubblica Popolare Cinese Dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese, nell’ottobre 1949, e sino all’ottobre 1970, non esistettero relazioni diplomatiche normali tra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese. Condizionato dalla natura degli schieramenti dettati dalla Guerra Fredda e dalla risoluta scelta atlantica, il governo italiano ritenne nel 1949 di seguire l’orientamento di molti altri paesi europei (esclusa la Gran Bretagna), mantenendo il riconoscimento formale al governo della Repubblica di Cina, che frattanto, sotto la guida di Chang Kai-shek, si era rifugiato nell’isola di Taiwan, proclamando di essere l’unico governo legittimo della Cina, animato da una forte volontà di Ennio Di Nolfo recupero del controllo della terraferma. 1 Questa situazione rimase immutata per alcuni lustri, sebbene tra i due paesi si sviluppassero frattanto relazioni commerciali e industriali di una certa intensità. 2 Nel 1964 la Repubblica Popolare venne riconosciuta dalla Francia e questa svolta aprì la strada a un ripensamento italiano. Da principio si pensò a un accordo commerciale ma l’allora presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, diede ben presto a queste discussioni il significato di preparazione per un accordo politico. Del resto, eguale evoluzione aveva avuto luogo in Cina, proprio nella prima fase della cosiddetta “rivoluzione culturale”, quando in virtù dell’orientamento di Zhou Enlai, l’ambasciatore cinese a Parigi prese contatto con esponenti del corpo diplomatico della Repubblica di San Marino, per avviare con loro una pratica di riconoscimento che inevitabilmente sarebbe ricaduta sull’Italia. 3 La questione uscì dal vago dopo che Pietro Nenni, alla fine del 1968, divenne ministro degli Esteri nel governo presieduto da Mariano Rumor. Nenni intendeva procedere con rapidità verso il riconoscimento della Cina Popolare ma fu trattenuto dalla prudenza di Roberto Gaja, direttore degli Affari politici del ministero, il quale rilevava che la questione era intrecciata con il disconoscimento dei rapporti con Taiwan e che anche il Belgio e il Canada avevano intrapreso negoziati paralleli, del cui andamento era opportuno tenere conto. La situazione generale era profondamente cambiata. In Cina la “rivoluzione culturale” si avviava al tramonto; in Vietnam la guerra era ancora violenta ma i negoziati per porvi termine erano iniziati a Parigi. Ciò che però più di tutto dominava la scena era l’atteggiamento degli Stati Uniti, con il quale anche l’Italia avrebbe dovuto misurarsi. Ora gli Stati Uniti, dopo l’elezione di Richard Nixon alla presidenza, stavano elaborando una complicata revisione della loro strategia 1 Su questo tema esiste una letteratura piuttosto circoscritta. In particolare si vedano: P. OLLA BRUNDU, Pietro Nenni, Aldo Moro e il riconoscimento della Cina comunista, in «Le Carte e la Storia», X, 2, 2004, pp. 29-51; E. DI NOLFO, La normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica italiana e la Repubblica Popolare Cinese, in SENATO DELLA REPUBBLICAARCHIVIO STORICO, La normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica italiana e la Repubblica popolare cinese. Atti e documenti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 1-47. 2 Cfr. a tale proposito, Tra politica e impresa. Vita di Dino Gentili, a cura di G. LUTI, con prefazione di P. BARILE, Firenze, Passigli, 1988, pp. 30-31. Va tenuto presente il fatto che in Cina il Gentili era accompagnato da una certa diffidenza. 3 Cfr. DI NOLFO, La normalizzazione, cit., p. 6. 10 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina internazionale. Avevano avviato i negoziati con l’Unione Sovietica per creare il clima poi definito come détente ma intendevano questa azione come una delle mosse che avrebbero dovuto isolare l’Unione Sovietica, soprattutto grazie all’instaurazione di nuovi rapporti con la Cina, che da sempre essi avevano mostrato di voler contrastare. L’azione americana, complessa e laboriosa, era tale da non poter accettare passivamente iniziative parallele che potessero creare ostacoli imprevisti. Sicché l’iniziativa che Nenni avrebbe voluto assumere doveva tener conto di tale contesto e della netta ostilità manifestata dal segretario di Stato Rogers, «molto contrariato» dalle velleità italiane. 4 Questa durezza non durò tuttavia a lungo e, a mano a mano che le iniziative italiane acquistavano consistenza e precisione, a Washington si passò dal disinteresse a uno spiccato interesse. Ciò non significava che gli americani fossero ostili all’iniziativa italiana. Né avrebbero potuto, dato che essi stessi si muovevano nella medesima direzione. Ciò che li preoccupava erano le ricadute di un passo del genere, non solo per l’intreccio di processi che sarebbero dovuti rimanere paralleli ma distaccati e remoti, quanto per le modalità pratiche dell’azione italiana e per il grado di autonomia che la diplomazia italiana mostrava di voler adottare come criterio ispiratore della sua iniziativa. Questa diffidenza, che portò anche a momenti di vivace disputa diplomatica (per usare una terminologia misurata) si manifestò in relazione a tre aspetti diversi e successivi della situazione: la decisione italiana di prendere l’iniziativa senza prima consultare gli Stati Uniti ma solo informandoli; i problemi derivanti dalla situazione in cui il governo e i diplomatici di Taiwan si sarebbero trovati; la questione della rappresentanza cinese alle Nazioni Unite (dove sino a quel momento il delegato di Taiwan rappresentava la Cina, come membro permanente del Consiglio di Sicurezza, e valeva come un utile contributo al fronte guidato dagli Stati Uniti, secondo una “finzione giuridica” che continuava a considerarlo come rappresentante dell’intera Cina). La questione era da tempo adombrata nel dibattito politico italiano; Roberto Gaja, l’autorevole diplomatico italiano allora direttore dell’Ufficio Affari politici del ministero degli Esteri, ne aveva ridiscusso, il 10 gennaio 4 E. ORTONA, Anni d’America. La cooperazione 1967-1985, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 172. 11 Ennio Di Nolfo 1969, con i colleghi americani a Roma 5 come di un’ipotesi rispetto alla quale si nutrivano ancora esitazioni, poiché, diceva Gaja, si voleva evitare «l’umiliazione di offrire un riconoscimento che fosse poi respinto» e si pensava, con esagerato e forse apparente candore, che fosse anche possibile proporre al governo di Pechino l’avvio di rapporti diplomatici regolari che consentissero all’Italia di mantenere i suoi rapporti con la Repubblica di Cina (cioè Taiwan). Ma Gaja parlò di questo come di un processo che avrebbe richiesto ancora un paio di mesi e che, prima di essere avviato, sarebbe stato oggetto di nuove consultazioni con gli alleati e in particolare con gli americani. Viceversa, Nenni intendeva muoversi con maggiore rapidità e il 23 gennaio (il giorno prima delle sue dichiarazioni alla Camera dei deputati nel corso delle quali enunciò il proposito di riconoscere la Cina popolare) ne informò l’ambasciatore americano, non per averne un parere, ma per doverosa notizia. 6 Da Roma si informò immediatamente il dipartimento di Stato che realisticamente ma nettamente enunciò la sua posizione. Sebbene l’ambasciatore scrivesse che era «impossibile dissuadere il governo italiano dal compiere quel passo», qualora la risposta americana fosse stata troppo moderata, gli italiani l’avrebbero presa come un’autorizzazione a comportarsi secondo criteri e tempi propri. Perciò occorreva quanto meno influire proprio sui tempi prima che Nenni desse il suo annuncio. 7 2. L'opposizione degli Stati Uniti Questa interferenza fu immediata e mostrò chiaramente quanto il governo americano volesse condizionare l’inevitabile iniziativa italiana. Dalla Casa Bianca venne formulata la seguente dichiarazione: «L'Italia è interessata 5 Ackley to Department of State, January 13, 1969, in NATIONAL ARCHIVES, NATIONAL SECURITY COUNCIL, busta 694, College Park, MD, Top Secret (d'ora in poi NA, NSC, seguiti dall’indicazione di riferimento). Ringrazio la collega Liliana Saiu, dell'Università di Cagliari, per avermi fornito copia della documentazione da lei ritrovata presso i National Archives americani. 6 Sulla data di questa informazione, cfr. il documento allegato e segreto recante la cronologia delle discussioni in materia e destinato presumibilmente all’ambasciatore a Roma. S.R. Gammon of Department of State to Ambassador Martin, May 8, 1969, Secret Chronology, National Archives, Central Files, Record Group 59 (d'ora in poi RG), box 2235. 7 Meloy to Department of State, January 23, 1969, NA, NSC, 694. 12 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina alla pace. Anche gli Stati Uniti lo sono. Stiamo disperatamente adoperandoci perché i negoziati di Parigi sulla pace nel Vietnam abbiano successo. Perché l’Italia dovrebbe rendere questo problema ancora più difficile per noi scegliendo di riconoscere la Cina prima che un accordo di pace sul Vietnam sia raggiunto o, quanto meno, siano stati fatti progressi sostanziali in questa direzione?». 8 Il giorno successivo al discorso di Nenni, l’ambasciatore italiano a Washington, Egidio Ortona, incontrò il sottosegretario di Stato Bundy per rendere esplicite le motivazioni che avevano ispirato Nenni e dirgli della sensibilità degli italiani verso la questione del riconoscimento e verso ciò che accadeva nel Vietnam. Tuttavia, aggiunse la rassicurazione che «il governo italiano intendeva aspettare la reazione del governo comunista cinese prima di definire le procedure da adottare nella fase successiva». Bundy rispose confermando ciò che era stato scritto il giorno precedente sulla tempistica dell’operazione e aggiungendo che quanto si temeva era che il gesto italiano potesse rafforzare le opinioni più intransigenti in Cina e in Vietnam in ordine ai negoziati di Parigi. Ciò non significava, aggiunse Bundy, che da parte sua vi fosse una richiesta di sospendere ogni iniziativa ma solo la raccomandazione di soppesarne con grande serietà la portata e di tenere informato il governo statunitense delle iniziative che sarebbero state prese. Aggiunse però che le sue parole non dovevano essere overestimated mentre, forse, sarebbe stato utile che da parte italiana si informasse il governo giapponese, che era «assai preoccupato» dal gesto che stava per essere compiuto. 9 Qualche giorno appresso, Gaja riprese la questione conversandone con uno dei collaboratori dell’ambasciatore Martin. Forse con una certa trascuratezza o forse per tenere tranquillo il suo interlocutore, Gaja manifestò opinioni difformi da quelle di Nenni. Si mostrò infatti «preoccupato perché il ministro Nenni aveva manifestato l’intenzione italiana in maniera così precipitosa e senza un’accurata preparazione preliminare» e aggiunse di essere «sorpreso da ciò che gli appariva come una relativamente blanda reazione americana». Del resto, sperava che l’avventatezza fosse ridimensionata dalla risposta cinese poiché era certo che Pechino avrebbe chiesto agli italiani di rompere le relazioni con Taiwan, 8 9 Allegato al dispaccio di cui alla nota precedente, con indicazione archivistica Rome 366. Bundy to Martin, January 25, 1969, NA, NSC, 694. 13 Ennio Di Nolfo sebbene fosse poi sicuro che da parte italiana la richiesta sarebbe stata accolta. Era ciò che Gaja giudicava in modo negativo, poiché un passo del genere avrebbe aperto la strada alla successiva richiesta degli interessati, che «l’Italia riconoscesse la Germania orientale, ciò che sarebbe equivalso a infliggere un colpo fatale all’unità dell’Occidente». 10 Benché il comportamento diplomatico di Gaja fosse discutibile, le sue previsioni erano tuttavia fondate poiché i Cinesi raccolsero rapidamente l’apertura di Nenni e si mostrarono disposti a iniziare un negoziato a Parigi, dove sia l’Italia sia la Repubblica popolare cinese erano rappresentate. Iniziare ma a tre condizioni che corrispondono ai punti critici di tutta la vicenda qui analizzata. Infatti, l’incaricato d’affari cinese a Parigi, Yi Su Chich, chiese, come premessa del riconoscimento, che l’Italia riconoscesse il governo della Repubblica popolare come «il solo governo legale» del popolo cinese; che riconoscesse essere «la provincia di Taiwan parte integrante del territorio cinese»; e completò il quadro con la richiesta che l’Italia si impegnasse a sostenere la Cina popolare a ottenere il posto che «legittimamente le spettava» in seno all’Onu, cessando di sostenere i rappresentanti della “cricca” di Chang Kai-shek. 11 Così, sin dalle prime battute, le questioni preliminari erano sul tappeto diplomatico. La blanda reazione del governo degli Stati Uniti eliminava il rischio principale. Né avrebbe potuto essere diversamente poiché in quello stesso periodo la politica estera di Nixon si stava avviando a compiere quelle scelte politicoeconomiche che, tra il 1971 e il 1973, avrebbero poi segnato a lungo il percorso internazionale degli Stati Uniti. In questo ambito, il ristabilimento di un rapporto con la Cina comunista sarebbe stato, per Washington, un formidabile passo in avanti, poiché avrebbe isolato l’Unione Sovietica e il Vietnam dal loro potenziale (ancorché ostile) alleato e avrebbero reso possibile agli Stati Uniti di compiere scelte più che mai ardite in tutto l’Oceano Pacifico. Non era certo in contraddizione con tutto questo il passo che l’Italia si avviava a compiere; non da sola, del resto, ma preceduta o seguita dal Canada e dal Belgio, anch’essi fedeli membri dell’Alleanza atlantica. Forse, e davvero, a Washington sarebbe piaciuto di poter controllare più da vicino le scelte italiane, per evitare che anticipassero un 10 Meloy to Secretary of State, January 28, 1969, NA, NSC, 694. Cfr. su questa fase e per la relativa documentazione DI NOLFO, La normalizzazione, cit., pp. 15-16. 11 14 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina cammino che si voleva compiere in maniera più graduale, proprio per tenere la Cina comunista sotto controllo o, comunque, nella posizione di chi avrebbe dovuto aspettare, oltre che la ripresa dei contatti diplomatici con gli americani, anche un pieno reintegro nella Comunità internazionale. Ma questo era un risultato che Nixon e i suoi successori intendevano concedere gradualmente. 12 3. L'inizio delle trattative italo-cinesi. Le perplessità americane Le conversazioni italo-cinesi ebbero effettivamente inizio nell'aprile 1969 e si svolsero sempre a Parigi. Tuttavia, proprio nel medesimo periodo, Nenni ebbe l’opportunità, il 12 aprile, di incontrare il segretario di Stato Rogers, che accompagnava il presidente in Europa. Fu, questa, l’occasione perché il ministro italiano mettesse in chiaro gli obiettivi ai quali egli mirava. Invero, egli teneva a precisare al collega americano, il Consiglio dei ministri italiano non aveva ancora discusso formalmente la questione. Ma l’opinione pubblica vicina ai partiti di maggioranza (il Partito comunista era invece piuttosto in difficoltà a prendere una posizione precisa, non solo perché esso era ancora condizionato dalle reazioni interne alla crisi cecoslovacca dell’agosto 1968, ma anche e soprattutto perché la questione si poneva in un momento di così acuta ostilità tra Cina e Unione Sovietica che una chiara presa di posizione sarebbe stata incomprensibile per i militanti del partito) era convinta della necessità di procedere, non appena da Parigi fossero giunte notizie precise sulle posizioni cinesi. Posizioni rispetto alle quali Nenni aveva una sua personale visione che, se pienamente attuata, avrebbe portato a una rapida conclusione del negoziato. Pensava, infatti, che «l’esito inevitabile del negoziato» avrebbe segnato la fine delle relazioni dell’Italia con il governo di Taiwan, poiché la sua pretesa di rappresentare tutta la Cina era solo «una finzione diplomatica che non corrispondeva alla realtà» e aggiungeva che, una volta stipulato l’accordo con Pechino, nella successiva sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il rappresentante 12 Su questi temi esiste una sterminata letteratura. Qui si indicano solo due opere, una di carattere generale e una intesa a chiarire le fondamenta delle scelte di Nixon. Cfr., infatti, G.C. HERRING, From Colony to Superpower: U.S. Foreign Relations since 1776, New York, Oxford University Press, 2008, pp. 775-793; D. BASOSI, Il governo del dollaro. Interdipendenza economica e potere statunitense negli anni di Richard Nixon (1969-1973), Firenze, Polistampa, 2006, pp. 53-182. 15 Ennio Di Nolfo italiano, pur ammettendo che la questione rientrava nella categoria delle “questioni importanti”, cioè tali da richiedere una maggioranza di due terzi dei voti (art. 18 della Carta dell’Onu), avrebbe votato a favore di tale interpretazione, come chiedevano gli Stati Uniti, ma poi avrebbe votato a favore della proposta presentata molti anni prima dall’Albania perché il rappresentante di Taiwan fosse sostituito da quello del governo di Pechino. Rogers rispose allarmato. L’espulsione della Cina nazionalista da un organo del quale aveva fatto parte sin dalla nascita delle Nazioni Unite gli pareva così grave che egli «non trovava parole sufficientemente forti» per disapprovarla, tanto più che in quel periodo la polemica dei comunisti cinesi verso l’Onu mostrava il loro disprezzo verso l’organizzazione. 13 La distanza non sul principio del riconoscimento ma sui modi e sulle conseguenze non poteva dunque essere più ampia. Né poteva colmarla ciò che Gaja disse ad Ackley qualche giorno appresso. Si trattava, ancora una volta, della manifesta evidenza del fatto che tra il ministro e il suo collaboratore non esisteva una piena e consapevole identità di vedute, come Gaja apertamente rivelava, valendosi di espressioni divergenti. Gaja, che era stato presente all’incontro fra Nenni e Rogers del 12 aprile, affermò di essere «sicuro che Nenni non aveva letto il testo della risoluzione albanese e dunque non era consapevole delle implicazioni che essa aveva». Per un voto del genere sarebbe stata necessaria l’approvazione del Consiglio dei ministri e Gaja affermava che questa non era ancora stata concessa. Aggiunse poi che Nenni aveva dato assicurazioni a Rogers, durante la presenza di Nixon a Roma, che l’Italia non avrebbe riconosciuto le pretese di Pechino su Taiwan; poi, proseguì Gaja di suo, «l’Italia non sarebbe stata così folle da accettare una condizione che la poteva portare a uno scontro con gli Stati Uniti nel caso, per esempio, di una richiesta cinese che gli Stati Uniti ritirassero le loro forze da Taiwan». Piuttosto, pensava il diplomatico italiano, era possibile che il governo di Taiwan rompesse le relazioni diplomatiche con l’Italia. Era, quella di Gaja, una rettifica solo ufficiosa, alla quale si aggiunse l’opinione del ministro Staderini, consigliere diplomatico di Saragat, allora presidente della Repubblica, anche lui nettamente avverso al riconoscimento della Cina prima di un accordo sul Vietnam. 14 13 14 Rogers to Various Embassies, April 12, 1969, NA, NSC, 694. Ackley to Department of State, April 24, 1969, NA, NSC, 694. 16 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina Pareva a Washington che esistesse una buona dose di ambiguità, accompagnata da molte oscillazioni, circa i progetti cinesi di Nenni. Si trattava probabilmente di un gioco delle parti, poiché le affermazioni di Gaja erano alquanto paradossali, se paragonate con ciò che Nenni aveva detto al Segretario di Stato americano. In una memoria inviata dal dipartimento di Stato all’ambasciata a Roma si faceva un’accurata enumerazione delle prese di posizione italiane che apparivano «non del tutto sincere». Il 27-28 febbraio, Nenni aveva detto a Rogers, in una sua precedente visita a Roma, che i negoziati erano da poco stati avviati, che sarebbe stata necessaria una certa attesa per conoscere il parere cinese, che l’Italia intendeva appoggiare l’ammissione della Cina comunista alle Nazioni Unite, ma che avrebbe votato a favore della tesi che inseriva la decisione tra le “questioni importanti” da decidere con maggioranza qualificata e avrebbe votato contro la proposta dell’Albania per un’immediata sostituzione di Taiwan con Pechino. Ma su questo tema, ancora Nenni si mostrava o poco informato o reticente, poiché, discutendone ancora con Rogers, nell’aprile, come già si è visto, affermava che l’Italia avrebbe votato a favore della stessa proposta, dopo averne ottenuto l’approvazione del governo tutto e tenendo conto degli orientamenti dell’opinione pubblica. Tesi, questa, che, come si è appena visto, contraddiceva il parere di Gaja. 15 Il giorno successivo all’invio del memorandum sopra citato, Ackely ebbe un lungo colloquio con Nenni che lo mise al corrente dello stato delle cose. Egli non aveva notizie nuove sulle intenzioni cinesi, salvo quelle riguardanti le tre condizioni preliminari indicate da Yi Su Chich, e restava in attesa di quel passo cinese che tardava a arrivare forse a causa, reputava giustamente Nenni, della tensione con i sovietici o della situazione interna cinese, dopo la fine della “rivoluzione culturale” e in attesa del Congresso del Partito comunista (che, tra l’altro, avrebbe visto crescere l’influenza dell’ambasciatore a Parigi, Huang Zhen, richiamato in patria ma avviato a entrare nel Comitato centrale del partito stesso). Nenni ribadì di aver preso nella più seria considerazione le obiezioni mossegli da Rogers e che solo il governo nel suo complesso avrebbe potuto prendere una decisione. Tuttavia, 15 Memorandum by Department of State to U.S. Embassy in Rome, May 8, 1969, allegato B, NA, Central Files, RG 59, Box 2235. Nello stesso senso cfr. anche Richardson to U.S. Embassy in Rome, May 13, 1969, NA, NSC, 694. 17 Ennio Di Nolfo quale che fosse il suo orientamento personale, egli non aveva ancora potuto prendere una decisione definitiva. Ottorino Borin, consigliere diplomatico di Nenni, sapeva bene che l’aspetto critico della decisione italiana riguardava il problema delle Nazioni Unite e del voto sulla mozione albanese, ma confermava a Ackley che in proposito gli italiani (Nenni compreso) non avevano ancora preso una decisione definitiva e ciò spiegava le oscillazione e le ambiguità dei discorsi. A suo parere, l’Italia avrebbe votato a favore della risoluzione sul concetto di “questione importante” e, quanto alla proposta albanese, o avrebbe votato a favore o si sarebbe astenuta, sulla base della convinzione che la tesi albanese non avrebbe raggiunto i due terzi dei voti necessari. 16 Del resto, nemmeno il presidente del Consiglio del tempo, Rumor, si sarebbe adoperato, come suggeriva il suo consigliere diplomatico, ministro Catalano, per trovare una soluzione soddisfacente a un problema che era ancora «molto aperto». 17 I primi contatti con l’incaricato d’affari cinese a Parigi ebbero luogo all’inizio di aprile ma non portarono ad alcun esito pratico poiché, delle tre questioni poste sul tappeto in via preliminare, l’unica effettivamente risolta e, d’altra parte, mai messa in discussione se non per i tempi nei quali formalizzare le decisioni, riguardava la disponibilità dell’Italia a riconoscere la Repubblica popolare cinese come l’unico governo cinese, mentre sulle altre la discussione restava aperta. Due motivi convergenti contribuivano al rinvio: le difficoltà interne all’Italia, la crisi del governo Rumor, i dibattiti nel partito della Democrazia cristiana e l’acuirsi dello scontro sociale che avrebbe portato ai cosiddetti “anni di piombo”; e le difficoltà interne alla Cina, dove Mao Zedong e Zou En-lai stavano adoperandosi nel superamento dei danni provocati dalla “rivoluzione culturale”, nonché nel problema del rinnovamento delle gerarchie di partito, per non dire dell’inasprirsi dello scontro con l’Unione Sovietica. 4. Aldo Moro prosegue le trattative La dilazione contribuì sia a dar corpo a una più definita posizione cinese sia a rendere possibile che in Italia la crisi di governo fosse superata con la formazione di un nuovo governo presieduto ancora da Mariano Rumor ma 16 17 Ackley to Department of State, May 10, 1969, NA, NSC, 694. Ackley to Department of State, May 14, 1969, NA, NSC, 694. 18 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina nel quale il ministero degli Esteri era affidato alla personalità divenuta dominante nella Democrazia cristiana, cioè a Aldo Moro. A Washington, l’ambasciatore italiano, Egidio Ortona, presentò la novità come tale da non provocare cambiamenti 18 e, in effetti, la previsione di Ortona non era infondata quanto alla sostanza ma piuttosto quanto ai modi. Moro non aveva l’indole diretta e quasi aggressiva di Nenni; era invece propenso a operare con estrema cautela, dopo matura riflessione e attenta consultazione dei suoi collaboratori. Questi, frattanto, erano in parte cambiati, poiché Roberto Gaja venne subito nominato Segretario generale del ministero degli Esteri, mentre la direzione generale degli Affari politici veniva affidata a Roberto Ducci. A Parigi era rientrato l’ambasciatore Francesco Malfatti, che seguì da vicino il negoziato, lasciandone tuttavia la gestione pratica al suo principale collaboratore e già incaricato d’affari, Walter Gardini, mentre all’ambasciata cinese era prossimo a fare ritorno il titolare Huang Zhen. Moro si rese subito conto della reticenza degli americani. Il 2 settembre ricevette l’incaricato d’Affari americano a Roma, Wells Stabler, e con lui ebbe una lunga e, per certi aspetti, serrata conversazione. Stabler ribadì il punto di vista del suo governo, affermando che gli Stati Uniti erano «vigorosamente ostili» a qualsiasi minaccia rispetto alla posizione della Repubblica cinese (cioè di Taiwan) alle Nazioni Unite e sottolineò i rischi e le conseguenze devastanti di un'ammissione della Cina comunista secondo i termini che questa proponeva. Aggiunse che si aspettava che l’Italia avrebbe continuato a seguire l’orientamento americano in relazione al problema della “questione importante” e contro la proposta di risoluzione albanese. Moro lo deluse, almeno in parte. L’Italia avrebbe votato a favore della tesi di “questione importante” ma quanto alla proposta albanese, il governo, nel suo insieme, non aveva ancora preso una decisione. Personalmente era favorevole a un’astensione ma questa sarebbe stata presa in considerazione solo dopo che l’accordo con Pechino fosse stato definito nella forma e nei particolari. 19 Del resto, egli non aveva davvero nessuna intenzione di procedere rapidamente e, diversamente da Nenni, il quale prendeva posizione e poi disponeva che i suoi collaboratori ne tenessero conto, costituì una commissione di studio che si riunì già il 3 settembre. Stabler ebbe notizia dei termini della discussione da una fonte diretta, cioè, 18 19 Rogers to U.S. Embassy in Rome, August 28, 1969, NA, NSC, 694. Stabler to Rogers, September 2, 1969, NA, NSC, 695. 19 Ennio Di Nolfo verosimilmente, o da Gaja o da Ducci. Seppe, perciò, che Moro aveva ribadito la volontà del governo di riconoscere la Cina popolare ma «secondo una procedura più lenta». E seppe che il gruppo considerò accettabile la prima delle richieste cinesi ma inaccettabili le condizioni successive, talché, per il momento, la decisione da prendere fu quella di non fare altri passi. L’Italia avrebbe votato a favore della “questione importante” e si sarebbe astenuta sulla proposta albanese. Ma su questa intenzione doveva tenersi il più completo segreto, per evitare che la decisione italiana potesse influire sugli orientamenti di altri paesi. 20 Un passo fondamentale per il chiarimento (ma forse sarebbe più corretto dire: per il mancato chiarimento) della maniera in cui Italia e Stati Uniti si preparavano ad attuare una decisione già presa, almeno in linea di principio, fu offerto dall’incontro che Moro ebbe il 9 ottobre con il presidente Nixon a Washington, dove il ministro italiano si era recato in attesa dell’imminente riunione annuale dell’Assemblea Generale dell’Onu. Come d’abitudine, in questi casi, i due personaggi avrebbero compiuto una rapida rassegna delle questioni bilaterali per affrontare poi temi di portata più generale, come per l’appunto, il tema della rappresentanza cinese alle Nazioni Unite. A quanto risulta dalle note di lavoro per il colloquio, Nixon ribadì la posizione degli Stati Uniti in proposito. Aggiunse che gli Stati Uniti erano «fortemente ostili» all’abbandono o all’espulsione del governo di Taiwan alle Nazioni Unite, dove esso aveva svolto un «ruolo costruttivo», per lasciar posto alla Cina comunista. Moro rispose che l’Italia avrebbe votato a favore della tesi sulla “questione importante” ma che, per ragioni di politica interna, si sarebbe quasi certamente astenuta sul voto della proposta albanese. 21 Erano, questi, temi sui quali il ministro degli Esteri italiano ritornò poi a discutere, senza cambiare linea, anche con il segretario di Stato Rogers. 22 Questa lunga fase di lentezza nel negoziato permise allo stesso Moro di formarsi un’opinione più approfondita, anche sulla base di motivazioni 20 Stabler to Rogers, September 3, 1969, NA, NSC, 695. È interessante aggiungere che poco appresso Stabler incontrò l’ambasciatore di Taiwan e gli menzionò sia la volontà di Moro di agire lentamente, sia l’impressione che il voto italiano sulla risoluzione albanese si sarebbe tradotto in un’astensione. Ciò che mostrava come il segreto sui propositi italiani avesse avuto vita assai breve. Stabler to Rogers, September 6, 1969, NA, NSC, 695. 21 Memorandum preparatorio del dipartimento di Stato in vista del colloquio Nixon-Moro del 9 ottobre 1969, con allegati relativi ai temi in discussione, NA, Central Files, RG 59, box 2233. 22 Rogers to Various Embassies, October 10, 1969, NA, RG 59, box 2233. 20 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina giuridiche, 23 dei termini del problema. Una serie di sintomi, e soprattutto le conversazioni informali in corso a Parigi tra diplomatici italiani e cinesi e, in particolare, tra l’ambasciatore Malfatti, il ministro Gardini e l’ambasciatore cinese, Huang Zhen, accompagnato dal nuovo incaricato d’Affari della Repubblica popolare, Song Qi-guang, lasciavano prevedere che il momento di por fine alle sottigliezze diplomatiche per prendere decisioni precise si avvicinava. Malfatti ebbe, in quei giorni, la possibilità di scambiare idee con l’ambasciatore Huang Zhen, il quale si espose con lui in dichiarazioni piuttosto inconsuete contro l’Unione Sovietica, che definì come una potenza imperialistica che seguiva la stessa politica degli zar. Invece, esisteva «fra il popolo cinese e quello americano una antica e tradizionale amicizia». 24 Erano, queste, parole che sembravano destinate a placare qualsiasi preoccupazione italiana rispetto alle reazioni americane verso il riconoscimento. Gardini pensò che il momento fosse dunque più che mai favorevole e sostenne subito con Moro la tesi della necessità d’agire rapidamente. 25 Il suo ottimismo non era tuttavia condiviso da Roma, dove Moro confidava ancora che con il trascorrere del tempo la posizione italiana sarebbe migliorata: «Da parte nostra – scrisse a Malfatti – data la situazione, non ci sembra conveniente dimostrare alcuna fretta di stringere i tempi». 26 La tesi di Moro era che Nenni si fosse spinto innanzi con troppa fretta, concedendo tutto ciò che i cinesi avevano chiesto, mentre invece si dovevano confermare le intenzioni senza accompagnarle con riconoscimenti formali e pretese territoriali. 27 Invero, la lettura che Moro dava alle concessioni che Nenni intendeva fare appare, alla luce di ciò che risulta dalle fonti e a meno che il ministro non avesse altre notizie dirette, alquanto forzata. Ma in quel modo egli prendeva tempo e si sottraeva alle difficoltà contingenti, lasciando che l’Assemblea Generale votasse ancora una volta sulla questione cinese come “questione importante” e istruendo la delegazione italiana perché si 23 Cfr. DI NOLFO, La normalizzazione, cit., pp. 29-30. Malfatti a Moro, 30 settembre 1969, in ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO (d'ora in poi ACS), Roma, Fondo Moro, Serie 5, s.serie 2, fasc. I, s.fasc. 2. 25 Cfr. DI NOLFO, La normalizzazione, cit., pp. 28-29. 26 Moro a Malfatti, 1° ottobre 1969, ACS, Fondo Moro, collocazione citata. 27 Annotazione di Moro, 8 novembre 1969, ACS, Fondo Moro, collocazione citata. 24 21 Ennio Di Nolfo astenesse dal voto sulla risoluzione albanese, per contribuire alla sua mancata approvazione. Così, si otteneva un anno di respiro, durante il quale, sperava il ministro italiano, sarebbe stato possibile eliminare il divario che separava le tesi italiane da quelle americane e, al tempo stesso, riprendere formalmente i negoziati, che dal precedente mese di aprile non avevano fatto alcun progresso. 5. Moro prospetta una soluzione di compromesso Durante questa parentesi, Moro e i suoi collaboratori escogitarono una soluzione che in linea di principio potesse apparire soddisfacente per i cinesi. Dopo tutto, egli affermava e incaricava Malfatti di affermare, la questione di Taiwan si poneva in due modi: come problema giuridico e come problema geografico. Questo secondo aspetto non poteva essere oggetto di discussione diplomatica; quanto alla questione giuridica, essa riguardava un tema che esulava dalla competenza italiana, poiché Roma poteva solo prendere atto del punto di vista cinese, senza necessariamente farlo proprio. Di qui scaturiva l’idea di risolvere la situazione con un tipico escamotage diplomatico. Secondo questa tesi, sarebbe stato opportuno che fosse elaborato un documento generico nel quale le parti annunciassero il reciproco riconoscimento. Questo documento sarebbe stato accompagnato da due dichiarazione parallele ma distinte, dal tenore omogeneo. Il punto critico restava però il caso di Taiwan poiché la tesi italiana era che i cinesi affermassero il loro punto di vista, secondo il quale Taiwan era “parte integrante” del loro Stato, e gli italiani esprimessero “rispetto” per questa affermazione. Ma è evidente che il “rispetto” era una dizione troppo evanescente per essere accettabile. Quando la proposta fu portata a conoscenza in modo informale ai cinesi, questi chiesero che l’espressione fosse cambiata con quella, ben più cogente e puntuale, secondo la quale gli italiani “riconoscevano” la fondatezza dell’affermazione cinese. Dietro l’apparenza di una sottigliezza diplomatica si celava pertanto un problema i cui termini non erano modificati. Era il problema di fare in modo che, nel riconoscere la Cina, anche accettando la sua ammissione all’Onu, l’Italia non disconoscesse ufficialmente Taiwan e rendesse possibile il conseguimento di due risultati importanti: il mantenimento di una rappresentanza ufficiale o ufficiosa cino-nazionalista a Roma e l’acquiescenza ai desideri della diplomazia americana, che apprezzava lo 22 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina sviluppo economico di un'isola che negli anni era divenuta un laboratorio industriale e un serbatoio di manodopera a basso costo per l’industria elettronica americana. L’ambasciata degli Stati Uniti a Roma venne costantemente informata delle varianti in corso di preparazione. Si trattava delle formule già citate oppure di formule come quella che immaginificamente ipotizzava la possibilità che la clausola del riconoscimento fosse “ammorbidita” aggiungendo l’espressione che la Repubblica popolare era riconosciuta «as sole representative of China», un’espressione improponibile poiché tale da non escludere la possibilità che esistesse un’altra Cina, non riconosciuta dall’Italia ma pur sempre esistente. 28 Poche settimane dopo questa “pausa di riflessione”, i negoziati italocinesi vennero ripresi in serrate conversazioni, svolte tra il 4 e l’8 dicembre e ben rappresentative della difficoltà di superare ostacoli immaginari o, se si vuole, dell’abilità dei diplomatici di complicare le questioni semplici. Quando la delegazione cinese ebbe notizia del progetto italiano di “rispettare” il punto di vista degli interlocutori, il negoziato fu sul punto di fallire. Nenni non aveva formulato nessuna ipotesi analoga, si osservò, e le nuove proposte italiane erano inaccettabili. Il rischio che tutto fosse frenato da una sola parola colpì Moro, che raccomandò a Malfatti e Gardini di evitare questo fiasco. Moro sentì il bisogno di consultare il presidente del Consiglio Rumor e questi raccomandò prudenza. Da parte americana si fece notare che la questione di Taiwan era davvero importante per Washington, ma appariva dubbio che avesse un’effettiva importanza per l’opinione pubblica italiana. 29 Così, per qualche tempo, le diplomazie dei due paesi valutarono la diversità ma anche l’irrilevanza dei punti di vista. 30 A quella fase di intensa consultazione seguirono alcuni mesi di silenzio. I cinesi chiesero una dilazione, per consultare Pechino sull’ipotesi di affidare il riconoscimento a tre documenti separati. Al tempo stesso l’Italia venne investita dalla prima fase della lunga crisi interna, aperta dall’attentato compiuto il 12 dicembre contro la Banca nazionale dell’Agricoltura a Milano. Il governo Rumor dovette dimettersi ma Moro rimase ministro 28 Stabler to Rogers, November 21, 1969, NA, NSC, 695. Martin to Rogers, December 17, 1969, NA, NSC, 695; cfr. anche Martin to Rogers, December 19, 1969, NA, NSC, 695. 30 Martin to Rogers, December 19, 1969, NA, NSC, 695. 29 23 Ennio Di Nolfo degli Esteri nel governo successivo, formato ancora da Rumor, così come in quello guidato, mesi dopo, da Emilio Colombo. Perciò la direzione della politica estera non cambiò mano. Solo nel marzo 1970 le cose ripresero a muoversi e, nonostante le incertezze, non incontrarono più ostacoli, se non quelli che lo stesso Moro aveva costruito con le sue formule. Lo scontro sui termini “rispetto” e “riconoscimento” continuò per alcuni mesi. Da principio parve che i cinesi fossero disposti a accettare formule intermedie tali da non costringere l’Italia a una brusca rottura con Taiwan. Gradatamente si fece però strada il concetto che Pechino non avrebbe fatto alcuna concessione su un tema che, posto nel modo in cui lo proponevano gli italiani, avrebbe portato a una soluzione umiliante. Si trattò di un negoziato lungo e, per molti aspetti, estenuante. Quando esso si avvicinò alla conclusione, il presidente del Consiglio, Colombo, che nutriva più di Rumor interesse per le questioni di politica internazionale, volle verificare la posizione americana. Alla fine dell’ottobre 1970, accompagnato dal suo consigliere diplomatico, Bottai, ebbe un lungo incontro con Stabler che gli trasmise i precisi orientamenti americani. A Washington si auspicava che il governo italiano rinviasse le sue decisioni sino a dopo l’imminente Assemblea Generale dell’Onu. Visto il margine ristretto con il quale, l’anno prima, le tesi americane si erano affermate, esisteva infatti la possibilità che un mutato atteggiamento italiano potesse capovolgere l’esito della votazione. Ciò anche in vista dell’opportunità di ritardare il momento in cui l’ambasciatore di Taiwan, una volta privato di piena legittimità, decidesse precipitosamente di lasciare Roma. La risposta di Colombo non fu del tutto soddisfacente. Per il governo italiano si trattava di non provocare reazioni “spiacevoli” da parte dei suoi interlocutori cinesi. Tuttavia, non vi sarebbe stato, da parte italiana, alcun gesto tale da spingere Taiwan a decisioni frettolose e Roma avrebbe atteso che fossero i cinonazionalisti a prendere le decisioni che ritenevano corrette. Stabler opinava che se nel testo dell’accordo italo-cinese non vi fossero state allusioni a un impegno di rottura delle relazioni con Taiwan, non vi sarebbe stato motivo perché l’ambasciatore del governo di Taipei si ritirasse da Roma. Tuttavia, questa era una lettura troppo ottimistica delle stato delle cose. Una volta che l’Italia avesse riconosciuto la Repubblica popolare cinese, quale che fosse la 24 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina formula del documento, era ovvio che i cino-nazionalisti avrebbero considerato interrotte le relazioni con Roma. 31 Le preoccupazioni americane erano per il momento infondate. Ancora una volta il negoziato, che non incontrava più se non marginali ostacoli obiettivi, salvo ciò che riguardava l’ambiguità italiana nella scelta se “riconoscere” o “rispettare” le tesi cinesi, venne interrotto. Nella Repubblica popolare, superata la rivoluzione culturale, era in pieno svolgimento lo scontro tra Mao Zedong e la cosiddetta “banda dei quattro”, capeggiata dal generale Lin Biao, il quale godeva dell’appoggio dell’esercito. Questo conflitto interno, accompagnato dal riaccendersi della tensione nella penisola indocinese, dopo il colpo di stato compiuto dal primo ministro cambogiano Long Nol, il quale, appoggiato dagli Stati Uniti, aveva detronizzato il re Norodom Sihanouk nella speranza di frenare la neutralità cambogiana rispetto alla guerra nel Vietnam e, in particolare, nel desiderio di impedire che il “sentiero di Ho Ci Minh”, situato in gran parte nelle foreste e nelle montagne cambogiane, fosse utilizzato dai vietnamiti per sostenere la guerra nel sud del paese, poneva una serie di problemi che si riflettevano sulla capacità generale del governo cinese di prendere decisioni rispetto ai rapporti con gli Stati Uniti e con i loro alleati. Solo nella tarda estate del 1970 queste difficoltà interne e internazionali furono superate con un pieno successo di Mao Zedong, appoggiato da Zhou En-lai e da Deng Xiaoping (che da ultimo aveva recuperato la sua influenza), e divenne dunque possibile riprendere i negoziati, che entrarono, questa volta, nella fase conclusiva. Non era chiaro se i cinesi fossero ancora d’accordo sull’ipotesi di formulare tre documenti separati: un comunicato recante la notizia del reciproco riconoscimento e due dichiarazioni parallele ma conformi, che indicavano le rispettive interpretazioni del riconoscimento. Da parte cinese venne infatti presentato un testo che esprimeva tre concetti ma, ancora una volta, definiva il proprio punto di vista in maniera molto netta. Se il governo italiano riconosceva quello cinese, esso doveva anche seguire il concetto per cui «riconosceva che il governo della Repubblica popolare di Cina era l’unico governo legittimo della Cina». 32 Si ripeteva, ancora una volta, il discrimine fra le due tesi. Dato che la questione non riguardava solo un 31 32 Stabler to Rogers, October 26, 1970, NA, NSC, 695. Cfr. DI NOLFO, La normalizzazione, cit., p. 39. 25 Ennio Di Nolfo tema geografico ma presupponeva che l’Italia rispettasse anche «la sovranità e l’integrità territoriale» della Cina comunista, l’assunzione di questo principio esprimeva indirettamente che l’Italia riconosceva l’appartenenza di Taiwan alla Repubblica popolare. A tutto questo si rispose da parte italiana avanzando una serie di questioni minori riguardanti i beni e gli interessi italiani in Cina. Nessuno di questi temi toccava l’aspetto critico del negoziato. Gradualmente il negoziato si spostò allora su un piano diverso. I cinesi avrebbero accolto la tesi italiana dei tre documenti separati, ma di questi solo il primo avrebbe avuto un contenuto del tutto conforme al punto di vista cinese; le dichiarazioni separate, sull’accoglienza del principio generale del riconoscimento, avrebbero espresso l’interesse delle parti a dirimere le controversi minori, di carattere tecnico o patrimoniale. In termini diversi, si deve dunque osservare che, nelle parentesi del negoziato, Moro e i suoi collaboratori si erano gradualmente avvicinati alla tesi di una piena acquiescenza verso i desiderata della diplomazia cinese. Il che pone la questione di capire le motivazioni interne e internazionali di tale svolta e di considerare come da parte degli Stati Uniti questo cambiamento fosse accolto. A tale proposito è sufficiente osservare che da parte dell’opinione pubblica italiana non direttamente interessata ai termini particolareggiati dei documenti diplomatici, le diverse formulazioni non avevano che una rilevanza marginale. Nella direzione dei partiti vi fu una certa contrapposizione poiché il Partito repubblicano, e in particolare Ugo La Malfa, era favorevole a un rinvio ma, visto l’orientamento del governo, auspicava solo che la delegazione italiana votasse ancora a favore della mozione “questione importante”, così da dilazionare l’ammissione della Cina comunista all’Onu e mostrare solidarietà verso le tesi degli Stati Uniti. 33 Per i socialdemocratici, Saragat, allora presidente della Repubblica, accolse le notizie inviategli da Moro in termini aspri e polemici. A suo parere, si doveva riconoscere la Repubblica popolare cinese (come del resto egli aveva sostenuto sin dal 1964) ma non si doveva accettare che Taiwan fosse espulsa dalle Nazioni Unite. 34 Tuttavia, né i repubblicani né i 33 Stabler to Rogers, October 30, 1970, NA, NSC, 695. Lettera manoscritta di Moro a Saragat, 2 novembre 1970 e risposta di Saragat a Moro, 3 novembre 1970, ACS, Fondo Moro, collocazione citata. 34 26 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina socialdemocratici avevano una forza politica sufficiente per affermare il loro punto di vista. 6. L'esito del negoziato Da parte statunitense si ebbe invece un graduale cambiamento di opinioni che rese più facile la decisione di Moro, pur senza contribuire a spiegarne le reali modificazioni. Un primo lievissimo sintomo del cambiamento si ebbe alla fine del mese di ottobre quanto Stabler ammise che la diversità di opinioni esistente in seno al governo italiano non era tale da modificare le decisioni già prese. Perciò, le riserve americane si riducevano alla raccomandazione che la delegazione italiana all’Onu votasse a favore della tesi “questione importante”, e facesse poi ciò che riteneva opportuno in relazione alla proposta albanese. Ciò significava che da parte statunitense si sperava ancora che l’Assemblea Generale tenesse fermo l’ostacolo della votazione a maggioranza di due terzi, così da rendere irrilevante il progetto albanese. Un’altra raccomandazione era che la notizia del riconoscimento fosse data al governo di Taiwan «con il minimo di informazioni necessarie», così da evitare una rottura precipitosa. 35 Importava agli americani che l’ambasciata taiwanese a Roma non fosse messa nella condizione di prendere brusche decisioni. Una tesi, questa, alla quale Gaja rispose affermando che gli italiani si attendevano che da parte degli Stati Uniti non vi fossero pressioni sui cino-nazionalisti perché pretendessero di mantenere aperta la loro ambasciata a Roma, dato che ciò si sarebbe ripercosso sui nuovi rapporti italiani con la Cina comunista. L’ambasciatore nazionalista a Roma sarebbe stato trattato con ogni forma di cortesia, e per un certo tempo avrebbe continuato a godere dei privilegi e delle immunità diplomatiche. Tuttavia, subito dopo il riconoscimento formale della Repubblica popolare, egli sarebbe stato considerato come privo di qualsiasi funzione di rappresentanza. 36 Ma negli stessi giorni, l’ambasciatore italiano a Washington, Ortona, incontrava il sottosegretario di Stato, Johnson, e discuteva con lui anche della questione cinese. Il tenore della conversazione fu, in proposito, tutt’altro che ostile alle decisioni che il governo italiano si apprestava a prendere. Così Johnson, se quanto riferisce Ortona nelle sue 35 36 Stabler to Rogers, October 30, 1970, NA, NSC, 695. Stabler to Rogers, November 2, 1970, NA, NSC, 695. 27 Ennio Di Nolfo memorie corrisponde alle parole dette dal suo interlocutore, caldeggiò l’iniziativa dell’Italia come promotrice di «una svolta nei rapporti con la Cina comunista», e aggiunse persino: «La diplomazia italiana è certo capace di tentare tanto: sarà un ponte gettato per tutti a cominciare dagli Stati Uniti». 37 L’unica condizione era che l’iniziativa italiana non contribuisse all’espulsione di Taiwan dalle Nazioni Unite. Spiegare il cambiamento statunitense è, in definitiva, sufficientemente facile, se si tien conto del fatto che da mesi tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese erano ripresi quei segreti contatti che, nel 1971, avrebbero portato al palese riavvicinamento tra le due potenze. Spiegare il cambiamento italiano appare invece più arduo. Un certo peso poteva essere stato esercitato dal fatto che i paralleli negoziati tra la Cina popolare e il Canada fossero stati conclusi rapidamente, prima che, all’inizio di novembre, fossero resi pubblici i documenti riguardanti l’Italia. Tuttavia, a ben guardare, questo era solo un aspetto esteriore della questione, poiché al cuore del negoziato italo-cinese vi erano problemi intrinseci, non collegati al contesto diplomatico. Quando i documenti congiunti furono sottoscritti, il 5 novembre 1970, e resi pubblici, risultò evidente che, sul piano dei rapporti tra l’Italia e Taiwan, l’Italia aveva ceduto alla versione cinese e aveva accettato di “riconoscere” e non solo “rispettare” la tesi secondo la quale il governo di Pechino rappresentava tutta la Cina, intesa in senso geografico, cioè comprendente anche Taiwan. Era una tesi che Nenni aveva sposato sin dall’inizio e rispetto alla quale si erano poi svolti due anni di estenuanti trattative, ma che ora veniva pienamente rispolverata e solennemente affermata. Quasi ciò non bastasse, anche i problemi collaterali furono risolti in modo difforme dai desideri americani. L’ambasciatore di Taiwan a Roma, Hsu, sperava che gli fosse concessa la possibilità di restare a Roma ancora per qualche tempo, fruendo del passaporto cino-nazionalista. 38 Poche ore dopo, Stabler, l’incaricato d’affari americano, chiese a Gaja di riprendere la tesi adombrata da Colombo, che il governo italiano non compisse «alcun gesto» tale da costringere il rappresentante cinese a lasciare Roma. Gaja ribatté che «it was too late to tray such a ploy»; troppo tardi perché un atteggiamento del genere avrebbe riportato le cose al loro inizio e ciò non 37 38 ORTONA, Anni d’America. La cooperazione 1967-1985, cit., pp. 257-259. Stabler to Rogers, November 3, 1970, NA, NSC, 695. 28 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina era tollerabile, visti i pareri dominanti nella situazione interna italiana: «Gli uomini politici si preoccupavano poco dei termini e delle condizioni riguardanti la creazione di una rappresentanza italiana a Pechino. Ciò che essi desideravano era il riconoscimento della Repubblica popolare cinese, con tutte le conseguenze che ciò implicava». Mantenere rapporti con Taiwan era ormai impossibile e anche il desiderio dell’ambasciatore Hsu di restare forse a Milano, con funzioni commerciali, avrebbe suscitato subito reazioni politiche. 39 Alla successiva Assemblea Generale dell’Onu l’Italia avrebbe però votato sia a favore della tesi “questione importante” sia a favore della proposta albanese. Sebbene la svolta italiana sia in parte spiegata dalle considerazioni sin qui svolte, resta ancora da comprenderne le motivazioni più profonde; quelle motivazioni che avrebbero portato l’anno successivo l’Italia a prendere ancora più esplicitamente posizione a favore delle tesi cinesi. Ma proprio uno sguardo alle conversazioni tra Moro, l’ambasciatore statunitense a Roma, Martin, e, poco dopo, tra Moro e Nixon consentono di formulare ipotesi più argomentate e comunque tali da far comprendere l’intimo significato dalla scelta italiana. Infatti, se nel 1970 gli americani erano riusciti a salvare l’appartenenza di Taiwan alle Nazioni Unite, nel 1971 essi avrebbero subito una sonora sconfitta, alla quale non furono estranee le scelte italiane e che da parte italiana venne spiegata con abbondanza di argomenti. Nel primo di questi colloqui, del 2 ottobre 1971, Moro ribadì che «come sempre l’Italia desiderava convenire con i desiderata degli Stati Uniti, alleato e grandissimo amico». Tuttavia, il riconoscimento della Cina come “solo governo legittimo” di quel paese rendeva più difficile ora un’eguale convergenza di comportamenti. Del resto, «in Italia tutti i partiti avevano lodato la visione e il coraggio delle iniziative cinesi del presidente Nixon, il progetto dell’imminente viaggio in Cina con tutto ciò che sarebbe venuto in seguito, come un cambiamento della posizione americana rispetto alla presenza della Cina comunista all’Onu». Aggiunse che «esisteva una grande differenza tra la flessibilità e lo spazio di manovra di una grande potenza, come gli Stati Uniti, e i confini ben più stretti imposti all’Italia per effetto dei limiti della sua forza e della sua influenza nei rapporti di potenza globali». Perciò, egli sperava che da parte americana si comprendessero «le 39 Stabler to Rogers, November 4, 1970, NA, NSC, 695. 29 Ennio Di Nolfo motivazioni del comportamento che la delegazione italiana avrebbe tenuto nella successiva Assemblea Generale delle Nazioni Unite». 40 Martin rispose a queste flautate allusioni con una certa durezza. Gli americani capivano le ragioni italiane ma non condividevano il proposito di un voto diverso nelle due questioni poste alle Nazioni Unite e disse: «L’Italia, che possiede un prestigio meritatamente conquistato, come campione delle nazioni minori non può con leggerezza sbarazzarsi di questa posizione, conquistata così faticosamente e così lentamente, con un voto» diverso da quello che aveva espresso in passato. E Moro doveva capire che sebbene in Italia esistessero questioni di consenso interno, anche negli Stati Uniti l’azione di Nixon doveva fronteggiare reazioni interne difficili, soprattutto se queste non fossero state appoggiate dagli alleati. Concluse con espressioni quasi minacciose, ammonendo il ministro italiano circa la possibilità «che se avesse scelto di votare contro il presupposto della “questione importante”, sarebbe stato accolto [nell’imminente visita a Washington] assai freddamente e avrebbe pregiudicato obiettivi di maggiore importanza per lui personalmente e per l’Italia». Inoltre, Martin sentenziava che ben presto Taiwan sarebbe ritornata a controllare tutta la Cina e comunque avrebbe mantenuto la sua indipendenza, come anche i sovietici e i giapponesi calorosamente desideravano. Ma furono pressioni inutili. Moro rispose che avrebbe riflettuto su ciò che gli era stato detto ma che questa volta gli italiani non sarebbero ritornati sui loro passi. 41 La determinazione dalla quale mostrò di essere ispirato il ministro italiano aveva dunque motivazioni generali, che vennero chiaramente in luce durante il lungo colloquio di quasi un’ora che egli ebbe con Nixon, presente Kissinger, l’11 ottobre a Washington. Al centro della discussione vi fu la questione dell’imminente votazione alle Nazioni Unite ma diversi accenni di Moro mostrano come l’atteggiamento italiano non fosse che una delle conseguenze della crescente tensione che, proprio tra il 1970 e il 1971, si era sviluppata tra gli Stati Uniti e l’Europa. Si avvicinava la fine di un’epoca. Gli europei mostravano, con le loro scelte di politica comunitaria, monetaria e agricola, non di voler spezzare il loro rapporto con gli alleati americani ma di volerlo allentare, scegliendo secondo criteri propri, soprattutto quando essi non condividevano né l’azione degli Stati Uniti nel 40 41 Martin to Rogers, October 3, 1971, NA, NSC, 695. Ibid. 30 Le reazioni americane al riconoscimento italiano della Cina Vietnam, sul piano politico, né l’ostilità verso un dialogo globale con l’Unione Sovietica, al quale Nixon anteponeva il dialogo bilaterale, considerando con freddezza prima i negoziati per la preparazione della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (che nel 1975 avrebbero portato all’Atto finale di Helsinki) e poi l’Ostpolitik avviata dal cancelliere Brandt. A tutti questi motivi di dissenso più o meno palese, si era poi aggiunta, nell’agosto 1971, la decisione con la quale Nixon paralizzava gli accordi di Bretton Woods del 1944, adottava misure protezionistiche e decretava la fine della libera convertibilità del dollaro secondo il tasso di cambio con l’oro stabilito nel 1944. 42 Sin dal febbraio 1970, l’ambasciatore americano presso la CEE aveva rilevato come e quanto lo scontento nei confronti della CEE «stesse aumentando negli Stati Uniti, molto più di quanto non trasparisse dalle prese di posizione ufficiali o dalle discussioni bilaterali riservate». 43 La conversazione tra Moro e Nixon si svolse in termini bilaterali ma avendo sullo sfondo il quadro generale appena tracciato: un quadro che spiega le scelte del ministro degli Esteri italiano nel 1970 e la rigidità con la quale vennero attuate nel 1971. Per Nixon, negare che la questione della rappresentanza cinese fosse “importante” sarebbe stato «un precedente disastroso», tale da portare potenzialmente persino alla fine dell’organizzazione. Egli non intendeva «fare pressioni sul governo sovrano e indipendente di un paese amico», ma semplicemente spiegare perché gli Stati Uniti consideravano la questione come «essenziale». La risposta di Moro rese però manifesto il genere di argomentazioni al quale egli intendeva collegarsi. Nixon aveva alluso alla nascita di «nuovi centri di influenza» e l’Italia apparteneva a uno di questi, cioè all’Europa nel suo complesso, un’Europa che intendeva «trovare risposte comuni al maggior numero possibile di questioni», come le questioni economiche e monetarie. Il voto sulla questione cinese veniva così collegato all’insieme delle relazioni euro-americane del momento, ma l’unico appiglio che Kissinger, dopo aver alluso al suo viaggio in Cina, riuscì a elaborare, fu quello di una possibile analogia con il caso del doppio voto concesso all’Unione Sovietica e alla Bielorussia, come precedente di un’eguale soluzione per la Cina e Taiwan. Discussero poi di altri temi ma Moro concluse l’incontro 42 43 BASOSI, Il governo del dollaro, cit., pp. 100-169. Cit. ibid., p. 121. 31 Ennio Di Nolfo sottolineando l’attesa di ulteriori e rapidi sforzi americani «per risolvere i problemi economici e finanziari sul tappeto». 44 Non occorre essere un sottile esegeta per comprendere come tale questione condizionasse come una nube oscura il dialogo e come nessuna delle parti potesse uscirne soddisfatta. Fu compito del presidente del Consiglio, Colombo, comunicare al presidente americano, il 25 ottobre, che la delegazione italiana, nel voto sulla questione procedurale, si sarebbe astenuta. 45 Nelle sue memorie, Kissinger, che notoriamente non nutriva un particolare afflato di simpatia verso Moro, non dice nulla dell’incontro dell’11 ottobre ma ricorda quasi con furore come, proprio il 25 ottobre, l’Assemblea Generale avesse votato sulla questione procedurale che venne respinta con 59 voti contro 55 e 15 astensioni. Tutti i paesi della Nato, egli ricorda, con l’ eccezione del Lussemburgo, del Portogallo e della Grecia, avevano votato no o si erano astenuti. Così la risoluzione albanese, che chiedeva l’immediata sostituzione del rappresentante di Taiwan con quello della Repubblica popolare cinese, venne approvata a grande maggioranza. Gli sforzi compiuti per trovare una diversa via d’uscita erano stati vani. Una volta che gli Stati Uniti avevano mostrato di aver cambiato posizione verso la Cina comunista, gli alleati furono lieti «di compiacere i partiti di sinistra, e ancor più di sfidare gli Stati Uniti». 46 44 Conversation between Nixon and Moro, October 11, 1971, with the partecipation of Kissinger and Ortona, NA, NSC, 695. 45 Colombo to Nixon, October 25, 1971, NA, NSC Files–Subject Files, Presidential Correspondence–Italy, box 756. 46 H.A. KISSINGER, White House Years, Boston-Toronto, Little, Brown and Co., 1979, pp. 784785. 32 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 33-48 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p33 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Antonio Donno La rivoluzione americana: evento locale o globale? 1 Abstract: According to Hannah Arendt, the American Revolution was a local event without any immediate international influence, unlike the French one, which affected the history of continental Europe. Many years later, Robert Nisbet has overturned Arendt’s reflections, showing that the American Revolution had a non secondary impact on XIX century European events, with a pivotal legacy for the future of democracy. The article analyses the relative positions of both scholars, enriching them with further points of views, which during the years have shown how the American Revolution had a wide influence on Europe and on other parts of the world. Keywords: American Revolution; United States-Europe Relations; American Liberalism. In On Revolution, del 1963, Hannah Arendt scriveva: «La triste verità sulla questione è che la rivoluzione francese, che terminò in un disastro, è diventata storia del mondo, mentre la rivoluzione americana, che ebbe un esito trionfante, è rimasta un evento di importanza poco più che locale». 2 La Arendt concludeva con queste parole la sua analisi del significato di “rivoluzione”, termine che, a suo dire, si attagliava maggiormente alla Francia, piuttosto che al Nord America: «Fu la rivoluzione francese, e non quella americana, che infiammò il mondo, e di conseguenza fu dal corso della rivoluzione francese, e non dal corso degli eventi in America o dagli atti dei Founding Fathers, che il nostro uso attuale della parola “rivoluzione” ha ricevuto le sue connotazioni e le sue sfumature in ogni parte del mondo, non esclusi gli stessi Stati 1 Il presente articolo è la versione rivista e ampliata della relazione letta in occasione del Convegno Internazionale “L'età delle rivoluzioni, 1770-1870”, svoltosi a Roma il 21 maggio 2010 presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche. 2 H. ARENDT, On Revolution, Harmondsworth, UK, Penguin Books, 1973 (1963), p. 56 [trad. it.: Sulla rivoluzione, con un saggio di R. ZORZI, Milano 1983]. Antonio Donno Uniti». 3 La Arendt definiva “triste” tale esito non tanto per il risultato immediato dei due eventi, ma perché il lascito della rivoluzione francese è stato nefasto per la storia mondiale del Novecento, il “secolo dei totalitarismi”. 4 Non si può, però, tralasciare il fatto che il XX secolo sia stato anche definito, significativamente, “il secolo americano”, 5 per l'influenza che gli Stati Uniti hanno avuto nella storia mondiale, ed europea in particolare, un’influenza di ben altro segno se confrontata con la terrificante eredità che l’estremismo giacobino della rivoluzione francese ha lasciato in dote alle vicende totalitarie del continente europeo. 6 Questa semplice constatazione, credo inoppugnabile, sarebbe sufficiente per concludere che la rivoluzione americana fu certo, nel suo farsi, un evento locale, soprattutto a causa della distanza che la separava dalle vicende europee, ma ebbe un impatto ed un’influenza che nel tempo si dimostrarono fondamentali per la storia del mondo. Del resto, la stessa Arendt ammetteva che il messaggio della rivoluzione americana – un messaggio che al suo tempo era impossibile che in Europa fosse percepito in pieno nel suo impatto rivoluzionario – 3 Ibid., p. 55. Lo intuì già nel 1800 F. VON GENTZ nel suo L’origine e i principi della rivoluzione americana a confronto con l’origine e i principi della rivoluzione francese, intr. di R.A. KIRK, pref. di J.Q. ADAMS, a cura di O. EBRAHIME, Milano, Sugarcoedizioni, 2011. 5 Nel 1902 (!) il giornalista e scrittore americano W.TH. STEAD pubblicò un libro dal titolo profetico: The Americanization of the World, or The Trend of the Twentieth Century, New York-London, H. Markley, 1902. Qualche anno più tardi, dopo un viaggio negli Stati Uniti, il celebre scrittore inglese H.G. WELLS pubblicherà The Future in America: A Search after Realities, New York and London, Harper & Brothers, 1906. 6 Sul tema, di fondamentale importanza è il libro di G. FERRERO, Le due rivoluzioni francesi (Milano, SugarCo, 1986; I ed. francese: 1951, a cura di L. MONNIER), in cui l'A. distingue la prima rivoluzione francese, quella liberale del 1789, da quella giacobina e totalitaria del giugno 1793, ribadita nel 1799. Tale decisiva distinzione rappresenterà un paradigma ineludibile per la gran parte degli studi successivi sulla rivoluzione francese. «Questo dualismo di rivoluzioni – scrive Ferrero – lacera ancora oggi il mondo dopo centocinquant'anni. La lotta attuale non ne è che il prolungamento. Gli anglosassoni si battono per la rivoluzione dell'89, i regimi totalitari per quella del '99» (p. 122). Su tali aspetti del pensiero di Ferrero, cfr. N. BERTI, Guglielmo Ferrero e la crisi della civiltà liberale, in «MondOperaio», XI, n.s., 1, gennaiofebbraio 2006, pp. 92-108. 4 34 La rivoluzione americana: evento locale o globale? fu quello di «[...] portare alla ribalta la nuova esperienza americana e la nuova concezione americana del potere». 7 Ma, nei decenni successivi, specialmente dopo le rivoluzioni liberali europee del 1948, questo messaggio divenne sempre più chiaro ai rivoluzionari europei: la forma repubblicana di governo, basata sul principio federale. Così, dalla metà dell'Ottocento in poi, si diffuse la convinzione che l’esperimento americano, che si andava ancor più consolidando dopo la guerra civile, proiettava sul Vecchio Continente un messaggio di democrazia, fondata su una solida base liberale, ben più convincente rispetto alle speranze tradite della rivoluzione francese. Gli esiti della Grande Guerra, tuttavia, ma ancora prima il diffondersi tra le masse dei lavoratori del socialismo rivoluzionario – anti-borghese, anti-liberale, anti-capitalista, in una parola anti-moderno – cancellarono ben presto i germi di liberalismo e riportarono alla luce quelle forze e quegli impulsi anti-borghesi che erano scaturiti dalla rivoluzione francese, che si erano sedimentati nel corso di tutto l'Ottocento e che daranno vita a quel prodotto politico tipicamente europeo che sarà il totalitarismo. Cioè, se la mentalità e la cultura borghesi consolidavano la democrazia liberale americana, in Europa l’odio anti-borghese generava il sistema totalitario sulla falsariga dell’estremismo giacobino della rivoluzione francese; e mentre negli Stati Uniti la stessa borghesia imprimeva un impulso straordinario all’economia capitalistica, in Europa il disprezzo per la cultura borghese tarpava le ali alla libera iniziativa ed esaltava la funzione demiurgica dello Stato. A questo proposito scrive Luciano Pellicani: «Con la conquista del potere da parte dei giacobini, la rivoluzione francese uscì dai binari del liberalismo per imboccare la via della democrazia totalitaria. […] Nelle loro mani il liberalismo divenne qualcosa di profondamente differente da quello inglese e, alla fine, “invece di sostenere la limitazione del potere dei governi giunse a sostenere l’ideale dei poteri illimitati della maggioranza”». 8 Ma torniamo alla questione posta dalla Arendt. Ella, nel prosieguo del suo libro, parlava della rivoluzione americana come di «[...] un avvenimento di straordinaria grandezza e di enorme importanza per il 7 ARENDT, On Revolution, cit., p. 166. L. PELLICANI, Anatomia dell’anticapitalismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p. 39. La citazione interna a quella di Pellicani è tratta da F.A. VON HAYEK, Studi di filosofia, politica ed economia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, p. 296. 8 35 Antonio Donno futuro, messo in atto sotto lo stimolo dei tempi e delle circostanze, e tuttavia pensato e valutato con la più grande cura e prudenza. [...] Non una qualche teoria teologica o politica o filosofica, ma la loro decisione di lasciarsi il Vecchio Mondo alle spalle [...] portò [i primi coloni] a una sequenza di atti e avvenimenti in cui sarebbero potuti perire, se non avessero concentrato la loro attenzione sull'evento a lungo e intensamente da scoprire, quasi per caso, la grammatica elementare dell'azione politica e la sua più complicata sintassi, le cui regole determinano il sorgere e la caduta del potere umano». 9 Appare, perciò, impossibile che la lunga riflessione su questa impresa e sui suoi esiti sia rimasta chiusa nel ristretto gruppo dei partenti e non abbia interessato una cerchia ben più vasta di persone, pronte a seguire l'impresa, a ricevere notizie, seppur con il ritardo dovuto alle comunicazioni del tempo, e a diffonderle successivamente a strati sempre più vasti di popolazione, eventualmente pronta a seguire l'esempio. Inoltre, la Arendt non poteva non conoscere The Age of the Democratic Revolution, l’opera fondamentale di Robert Palmer, il cui primo volume era stato pubblicato nel 1959, qualche anno prima di On Revolution. Infatti, la Arendt cita più volte l’opera di Palmer, ma non le pagine relative a tutta la seconda parte del volume, che si occupa in specifico dell'influenza della rivoluzione americana in Europa. Si tratta di pagine assai dettagliate che smentiscono l’affermazione della Arendt sul carattere locale degli avvenimenti americani e che possono essere riassunte in questo splendido passaggio di Palmer: «Gli effetti della rivoluzione americana, in quanto rivoluzione, furono imponderabili ma assai grandi. [...] Ispirò il senso di una nuova epoca. Dette una dimensione completamente nuova alle idee di libertà ed eguaglianza rese familiari dall’Illuminismo. Condusse la gente a ragionare in modo più concreto sulle questioni politiche e a essere più facilmente critica nei confronti del proprio governo e della propria società. [...] L’apparizione sull’altro lato dell’Atlantico di certe idee già familiari in Europa rese tali idee ancor più universali [...]». 10 Queste considerazioni sono poste da Palmer alla fine di un denso capitolo, “Europe and the American Revolution”, in cui l’autore passa in rassegna la gran parte dei paesi 9 ARENDT, Sulla rivoluzione, cit., pp. 172-173. R.R. PALMER, The Age of the Democratic Revolution: A Political History of Europe and America, 1760-1800, Vol. I: The Challenge, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1959, p. 282. 10 36 La rivoluzione americana: evento locale o globale? europei, sostenendo infine che il risultato della rivoluzione americana in Europa fu «un’incredibile esplosione di discussioni, speculazioni, entusiasmo e controversie, una sorta di autentica intossicazione di sogno americano. [...] Il coinvolgimento dell’opinione pubblica fu rappresentato dall’incremento fenomenale della stampa, sia di libri che di giornali che di riviste. In precedenza i libri non erano stati mai così numerosi, e per un crescente numero di lettori l’America fu un soggetto gradito, che soddisfaceva il gusto popolare per l’esotico, o un interesse filosofico per scenari internazionali». 11 Se poi si passa agli strati più bassi della società francese, non può sfuggire la constatazione che molti contadini francesi avevano combattuto in Nord America e che, al loro ritorno, non poterono non confrontare le loro misere condizioni di vita con quelle dei farmers americani, «[...] che erano proprietari delle loro fattorie senza alcuna restrizione di tipo feudale». 12 Insomma, come ha affermato Bernard Bailyn nella sua Atlantic History: Concept and Contours, del 2005, Palmer «[...] inseriva la rivoluzione americana direttamente in un quadro più ampio e le assegnava un ruolo chiave e creativo all’interno di tutto il fenomeno atlantico». 13 Anche in Italia la conoscenza delle vicende rivoluzionarie americane non fu assente, ma fu meno precisa. A parte la figura di Filippo Mazzei, un gruppo di intellettuali italiani, imbevuti dello spirito dell’Illuminismo, si aprì alla conoscenza del fenomeno americano, anche dal punto di vista dell'analisi politica; da qui l’esito più importante di tale apertura, «[...] l'importazione di nuove idee riguardo ai progressi che si andavano facendo in tutti i campi nelle colonie americane [...]». 14 A livello istituzionale le vicende americane erano ancor più note, se si tien conto del fitto lavorio svolto da Franklin, Jefferson e John Adams presso le corti europee. A ciò si devono aggiungere i sette ponderosissimi volumi della Diplomatic Correspondence of the United States of America, pubblicati nel 1833 e che coprono il periodo che va dalla stipula del Trattato di pace, il 10 settembre 1783, all’adozione della Costituzione, il 4 marzo 1789. Si tratta di una massa enorme di documenti che attestano la fittissima rete di relazioni, a tutti i livelli, che 11 Ibid., pp. 242-243. Ibid., p. 247. 13 B. BAILYN, Storia dell’Atlantico, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 31. 14 F. DURANTE, Introduzione a Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, 1776-1880, Vol. I, Milano, Mondadori, 2001, p. 13. 12 37 Antonio Donno la repubblica americana aveva stabilito con quasi tutti i paesi europei già da alcuni anni. Dimostrazione chiarissima della conoscenza, da parte europea, delle vicende della rivoluzione americana e dei suoi esiti, tant’è che nell'introduzione alla raccolta si scrive che «[essa] fornisce una completa panoramica dei nostri primi sforzi di procurarci il riconoscimento del nostro carattere nazionale da parte delle potenze straniere [...]». 15 Molti anni dopo, nel 1877, appariva il libro di Benson J. Lossing, Our Country, che faceva il punto sull'impatto della rivoluzione americana sulla politica e sulla società inglesi e francesi ai tempi dell'indipendenza delle colonie. 16 Un discorso a parte merita la qualità dell’accoglienza che l'Europa riservò alle vicende della rivoluzione americana e della nascita degli Stati Uniti d'America. Se le testimonianze europee sui fatti americani del 1776 e degli anni successivi sono abbondanti, non sempre tali testimonianze depongono a favore della nuova nazione d'oltreatlantico. Barry Rubin e Judith Colp Rubin, in Hating America: A History, del 2004, tracciano un acuto profilo dell’anti-americanismo della prima ora, fondato in gran parte non solo sulla mancanza di conoscenze dirette, ma soprattutto su un pregiudizio legato al pericolo della perdita del primato europeo. Se il giudizio sugli americani durante l’epoca coloniale e alla vigilia della rivoluzione era ricco di aggettivi come «[...] stupidi, indolenti, fannulloni, ubriaconi, fisicamente deboli e perciò incapaci di progredire», 17 nondimeno i fatti rivoluzionari del 1776 e la nascita di una nazione così diversa dalle nazioni europee furono giudicati, stando alle parole dei Rubin, in questi termini: «Durante i primi anni della repubblica americana, questa potenziale minaccia fu ridicolizzata. I critici europei descrivevano l’America come un ovvio e inevitabile fallimento e speravano che nessuno seguisse il suo esempio e che il pericolo fosse così evitato». 18 In sostanza, l'informazione non mancava, anche se il giudizio era spesso sprezzante. Ma si trattava, in realtà, del giudizio del ceto intellettuale europeo, che si riteneva depositario di una 15 Introduction to The Diplomatic Correspondence of the United States of America from the Treaty of Peace to the Adoption of the Present Constitution, 7 vols., Washington, D.C., Printed by Francis Preston Blair, 1833, p. VIII. 16 Cfr. B.J. LOSSING, Our Country, New York, James A. Baily, 1877. 17 B. RUBIN-J. COLP RUBIN, Hating America: A History, Oxford and New York, Oxford University Press, 2004, p. 11. 18 Ibid., p. 21. 38 La rivoluzione americana: evento locale o globale? civiltà superiore, mentre qualche decennio dopo le masse popolari europee cominceranno a coltivare il “sogno americano”, senza tanti complimenti. Molti anni dopo la pubblicazione di On Revolution, Robert Nisbet, mentre riconosceva il valore assoluto del libro della Arendt, ne contestava l’affermazione secondo la quale la rivoluzione americana fosse stata un evento prevalentemente locale. Nel far questo, Nisbet si appoggiava decisamente su molte affermazioni contenute nelle opere di Richard Morris e soprattutto di Robert Palmer, ma aggiungeva anche alcune pertinenti osservazioni sulla ristrettezza della visione arendtiana. Per Nisbet, contrariamente a quanto aveva affermato la Arendt, la rivoluzione americana ebbe un impatto anche su altri popoli del mondo; inoltre, la rivoluzione americana fu una vera rivoluzione e la mancanza di fanatismo e di atrocità, che si verificarono invece in Francia e poi in Russia, non toglie nulla al suo significato autenticamente rivoluzionario. I Founding Fathers, scriveva Nisbet, avevano la consapevolezza di operare una rottura nella storia mondiale e consideravano universali i principi della loro rivoluzione: «“Le fiamme accese il 4 luglio 1776 – disse Jefferson – si sono propagate in troppa parte del mondo per poter essere spente dalla debole energia del dispotismo”». 19 Richard Morris, nel suo classico The Emerging Nations and the American Revolution, che Nisbet prende come punto di riferimento nella sua critica alla Arendt, ha sostenuto che la rivoluzione americana suscitò movimenti antagonistici in varie parti del mondo, che, pur non giungendo a maturazione in tempi brevi, lentamente sedimentarono un irrefrenabile desiderio di libertà. 20 Tutto ciò smentirebbe la tesi della Arendt. Come si è detto in precedenza, tutta la seconda parte del primo volume di Palmer analizza gli effetti della rivoluzione americana in Olanda, Belgio, Svizzera, Polonia, Francia, Inghilterra e Germania: un grande affresco in cui lo storico americano dimostra quanto pervasiva fosse stata la notizia della rivoluzione americana in Europa. «Il primo e più grande effetto provocato dalla rivoluzione americana in Europa – scrive Palmer – fu quello di suscitare negli europei, spesso in modo altamente emotivo, la fede, o piuttosto il sentimento, di vivere in 19 Cit. in R. NISBET, Hannah Arendt and the American Revolution, in «Social Research», XLIV, 1, 1977, p. 74. 20 Cfr. R.B. MORRIS, The Emerging Nations and the American Revolution, New York, Harper & Row, 1970. 39 Antonio Donno un'epoca speciale di importante cambiamento». 21 Ma ciò che fa riflettere nelle pagine di Palmer è la sua affermazione che la rivoluzione americana fu il prodotto dell’Età dell’Illuminismo e che, di conseguenza, molti videro negli eventi straordinari d’oltreatlantico la realizzazione pratica degli ideali liberali dello stesso: i diritti dell’uomo, la sovranità popolare, la libertà religiosa, la libertà di pensiero e di parola, la separazione dei poteri, le costituzioni scritte. In sintesi, un novo ordo saeclorum. Del resto, scrive sempre Nisbet, è un fatto accertato che «[...] molti dei Founding Fathers erano stati essi stessi educati da dottrine che erano state partorite da intelligenze europee [...]» 22 e quindi, da questo punto di vista, è facile pensare che il significato dei fatti nordamericani fosse recepito più rapidamente in certi ambienti europei. Come ha scritto Gordon Wood, «l’Illuminismo stava diffondendosi dappertutto nel mondo occidentale, ma in America in modo particolarmente promettente», 23 perché esso era «[...] il cuore del repubblicanesimo». 24 Ma, al di là delle ristrette cerchie di intellettuali, gli eventi americani erano riportati sulla stampa europea, in fase di straordinaria crescita, discussi negli club di lettura, raccontati dai soldati di ritorno nei numerosi paesi europei da cui erano partiti per l’avventura americana. Come si è detto, il raffronto tra le misere condizioni di vita in cui erano ritornati e ciò che avevano visto in America acuiva in loro il desiderio di libertà. Quindi, conclude Nisbet, considerare la rivoluzione americana come «un evento poco più che locale», come aveva asserito la Arendt, «[...] significa perdere buona parte della storia internazionale dei decenni immediatamente successivi al 1776». 25 Quest’ultima affermazione di Nisbet ha un’importanza cruciale. Perché, se la rivoluzione americana ebbe inizialmente un impatto sul mondo europeo non paragonabile a quello della rivoluzione francese, il suo lascito nel corso della successiva storia europea e mondiale è stato formidabile. Per limitarci solo al significato globale del costituzionalismo americano, si deve dire con Bailyn che «[esso] non era un modello che si potesse imitare meccanicamente, ma un pozzo di 21 PALMER, The Age of the Democratic Revolution, Vol. I, cit., p. 239. NISBET, Hannah Arendt and the American Revolution, cit., p. 77. 23 G.S. WOOD, I figli della libertà. Alle radici della democrazia americana, Firenze, Giunti, 1996, p. 255. 24 Ibid., p. 257. 25 NISBET, Hannah Arendt and the American Revolution, cit., p. 79. 22 40 La rivoluzione americana: evento locale o globale? esperienze al quale si poteva attingere se necessario, in modo intermittente, selettivo, con accenti differenti a seconda dei problemi specifici delle varie società in stadi diversi di trasformazione». 26 E, se torniamo indietro ai tempi della colonizzazione, non possiamo non rilevare l’importanza decisiva dei tanti documenti redatti a livello locale, tra i quali, a mo’ di esempio, spiccano le Istruzioni della città di Malden, Massachusetts del 27 maggio 1776, poco più di mese prima del 4 luglio, in cui gli abitanti della città davano l’addio alla Gran Bretagna e si dichiaravano indipendenti. Essi, afferma la Arendt, «[...] conoscevano le loro possibilità fin dall’inizio: erano consapevoli dell’enorme potenziale di potere che scaturisce quando gli uomini “si impegnano reciprocamente l'uno con l'altro a difendere le loro vite, le loro Fortune e il loro sacro Onore”». 27 Sul piano commerciale, di fondamentale importanza fu il contributo della nuova repubblica al superamento del mercantilismo e alla liberalizzazione del commercio marittimo, contribuendo allo sviluppo del capitalismo e del libero mercato. Più in generale, l’impulso proveniente dagli Stati Uniti aprì una nuova fase nelle relazioni internazionali, confermando ancor di più che gli eventi rivoluzionari del Nord America ebbero un impatto globale. Secondo Bailyn, il libro di Palmer «[...] inseriva la rivoluzione americana direttamente in un quadro più ampio e le assegnava un ruolo chiave e creativo all’interno di tutto il fenomeno atlantico». 28 Osservazione, questa, del tutto pertinente, se si tien conto, come detto, che la presenza nell’Atlantico della Marina commerciale americana rompeva gli schemi sclerotizzati del commercio marittimo delle potenze europee, garantendo la più vasta libertà di commercio e di navigazione e la progressiva adozione del laissez-faire, elemento di novità nel panorama economico e commerciale del tempo, ma anche nell’impostazione della prima politica estera americana, poiché, come ha affermato appropriatamente Paul Varg in Foreign Policies of the Founding Fathers, «il modo di pensare intrinseco ad una società libera [è] il primo e più importante elemento nella [sua] formulazione». 29 Del resto, John Adams, come gli altri 26 BAILYN, Storia dell'Atlantico, cit., p. 92. ARENDT, On Revolution, cit., p. 176. La citazione interna è tratta, appunto, dalle Istruzioni della città di Malden, Massachusetts. 28 BAILYN, Storia dell'Atlantico, cit., p. 31. 29 P.A. VARG, Foreign Policies of the Founding Fathers, East Lansing, Michigan State University Press, 1963, p. 1. 27 41 Antonio Donno Founding Fathers, si era mostrato ben consapevole che la nascita degli Stati Uniti avesse prodotto «una rivoluzione nel sistema politico ed un cambiamento nell'equilibrio di potere» 30 a livello internazionale. Questa consapevolezza è di importanza capitale. Al di là della dura contrapposizione tra federalisti ed anti-federalisti sull’assetto istituzionale da conferire al paese, 31 prevalse la linea di Hamilton sull’unità della nazione, la sola che avrebbe potuto garantire, a suo dire, un posto di rilievo nel panorama internazionale del tempo e difendere la nuova politica commerciale internazionale che gli Stati Uniti stavano imponendo grazie a «[...] quell'ineguagliabile spirito di iniziativa che caratterizza il genio dei mercanti e dei navigatori americani [...]». 32 Il libero commercio internazionale, voluto da Washington, stava cambiando la mentalità commerciale di quella che Bailyn definisce la “comunità atlantica” del tempo, in cui, come sostenne Hamilton, gli Stati fossero «[...] obbligati a competere l’uno contro l’altro per ottenere i privilegi dei nostri mercati». 33 In sostanza, la libera competizione commerciale prendeva progressivamente il posto dei vincoli mercantilistici, sostituendo il “commercio passivo” con il “commercio attivo” e imprimendo un’accelerazione enorme all’economia atlantica. Di conseguenza, la libertà di navigazione modificò le relazioni tra le grandi potenze, costituendo uno dei cardini delle relazioni internazionali della giovane repubblica americana. Se poi si considera di nuovo l’impatto internazionale della Costituzione americana, emerge con tutta evidenza che gli eventi rivoluzionari del Nord America furono eventi di portata globale, non locale. A questo proposito, Bernard Bailyn ci offre uno spaccato affascinante dell’influenza del costituzionalismo americano a livello internazionale: «Le idee costituzionali dei nordamericani erano dibattute ovunque: in Francia, nel primo anno dell'Assemblea nazionale; in Inghilterra, dove crearono un ponte fra i cervellotici tentativi di riforma 30 J. Adams to the President of Congress, Paris, May 20, 1780, in The Diplomatic Correspondence of the United States of America, cit., vol. III, p. 693. 31 Sul tema cfr. l'importante libro di L.M. BASSANI, Gli Antifederalisti. I nemici della centralizzazione in America (1787-1788), a cura di A. Giordano, Torino, IBL Libri, 2011. 32 PUBLIUS (Alexander Hamilton), Il Federalista n. 11, in Il Federalista, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 204. 33 Ibid., p. 199. 42 La rivoluzione americana: evento locale o globale? della classe media del XVIII secolo e il radicalismo emergente della classe operaia inglese del XIX secolo; in Brasile, dove la gioventù rivoluzionaria, che studiava all’Università di Coimbra, cercava segretamente in Jefferson ispirazione e consiglio; in Cile, dove la Costituzione americana era considerata un “archetipo e un esempio” per la propria; in Ecuador, dove Vicente Rocafuerte, che esiliato a Filadelfia aveva tradotto i principali documenti pubblici americani, descrisse la Dichiarazione d’Indipendenza come un decalogo politico e la Costituzione degli Stati Uniti “come l’unica speranza per i popoli oppressi”; in Messico, dove ispirò il federalismo della Costituzione del 1824; e infine in Francia e in Germania nel 1848 e in Argentina nel 1853». 34 Così, la Costituzione americana rappresentò un modello per tutti i movimenti rivoluzionari della “comunità atlantica”, che siano stati coronati dal successo o meno, lasciando un’impronta indelebile nella storia costituzionale di una parte significativa del sistema politico internazionale, allora come oggi. Aveva ragione Orestes Brownson, quando nel suo trattato del 1865, American Republic, scriveva: «[...] La Costituzione americana, considerata nel suo insieme e in tutte le sue parti, è la meno imperfetta che mai sia esistita: i diritti individuali, la libertà e l’indipendenza personale, così come l’autorità pubblica, sono qui tutelati meglio che in ogni altra». 35 In sostanza, per quanto On Revolution di Hannah Arendt sia da considerarsi un’opera di capitale importanza per comprendere il significato delle rivoluzioni dell’età contemporanea e della loro eredità, è impossibile condividere la sua idea sull'impatto “poco più che locale” della rivoluzione americana. Tutto, invece, depone a favore dell’impatto globale dell’avvenimento, per non dire del suo prezioso lascito per la storia successiva, fino ai nostri giorni. Thomas Paine, nel suo Common Sense del 1776, scriveva profeticamente: «La causa dell'America è in grande misura la causa di tutta l’umanità. Si sono verificate, e si verificheranno, molte circostanze, non di carattere locale ma dalla portata universale, coinvolgenti i principi cari a tutti gli Amici del Genere Umano, e nel corso delle quali tali principi sono stati e saranno fondamentali». 34 BAILYN, Storia dell’Atlantico, cit., pp. 92-93. O.A. BROWNSON, La repubblica americana: costituzione, tendenze e destino, a cura di D. CARONITI, Roma, Gangemi, 2000, p. 201. 35 43 Antonio Donno La guerra di Indipendenza fu un formidabile veicolo di democrazia sia all'interno, che per gli europei che combatterono tra le file dei ribelli, come ha scritto Nisbet. Essa toccò tutti gli aspetti della società americana ed ebbe grandi conseguenze di carattere politico, diplomatico e militare. «La guerra di indipendenza, perciò – ha scritto Francis D. Cogliano – contribuì a democratizzare la politica americana». 36 E sul piano strettamente diplomatico, i rappresentanti americani in Europa introdussero immediatamente un nuovo stile, diretto, aperto, concreto, penetrando senza timore in quello che che Daniel Boorstin ha definito «[...] il labirinto della diplomazia europea». 37 Perciò, la diplomazia americana facilitò la diffusione e la comprensione dei valori fondativi – i valori liberali – della Repubblica americana, nata dalla guerra di Indipendenza. Qui è indispensabile fare riferimento alla lezione di Friedrich von Gentz, che nel suo magistrale libretto del 1800 comparava la rivoluzione americana a quella francese. Gentz partiva dalla contestazione dei due luoghi comuni più diffusi all'epoca. Il primo sottolineava che «“ciò che era stato giusto in America non poteva essere sbagliato in Europa”»; mentre il secondo proclamava che «“quello che in America aveva portato un pubblico benessere presto o tardi avrebbe portato in egual maniera un pari beneficio anche in Francia e in tutta Europa”». 38 Gentz demolì questi luoghi comuni sulla base della valutazione degli esiti catastrofici della rivoluzione francese; ma ciò che interessa per il nostro discorso è che il berlinese Gentz, scrivendo nel 1800, mostrava di conoscere molto bene quali fossero le aspettative europee relativamente al lascito universale della rivoluzione americana, i cui principi, perciò, erano ben conosciuti nel Vecchio Continente, e non solo, probabilmente, tra le sue élites politiche e intellettuali. Fatto che è confermato da Russell Kirk, che, nell'introduzione al testo di Gentz, ci informa che nel 1801 il trentatreenne John Quincy Adams, allora ministro plenipotenziario degli Stati Uniti in Prussia, risiedendo a Berlino, tradusse in inglese il saggio di Gentz, che era apparso su una rivista tedesca e quindi, presumibilmente, era stato letto almeno da una parte significativa dell'élite colta prussiana. Del resto, «Gentz era il 36 F.D. COGLIANO, Revolutionary America: A Political History, New York and London, Routledge, 20092, p. 115. 37 D.J. BOORSTIN, The Genius of American Politics, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1953, p. 87. 38 GENTZ, L'origine e i principi, cit., pp. 50-51. I corsivi sono nel testo. 44 La rivoluzione americana: evento locale o globale? fondatore, il direttore e la firma principale – scriveva Kirk – di questa brillante rivista di idee», 39 diffusa, appunto, tra l'intellettualità tedesca. Lo stesso discorso vale per il Regno Unito, anzi per quest'ultimo è ancora più cogente, e per ragioni evidenti. 40 Baylin, nel suo classico The Ideological Origins of the American Revolution, ha sostenuto che la cospicua pamphettistica americana che precedette e accompagnò la rivoluzione – Bland, Otis, Dickinson, gli Adams, Wilson e naturalmente Jefferson – era ben conosciuta nel Regno Unito. 41 Grazie a tale pamphlettistica, fu ben noto nel Regno Unito uno dei principi basilari del pensiero rivoluzionario americano, e cioè che «[...] un popolo può esistere come popolo prima che abbia un governo e che esso può agire come popolo indipendentemente dal governo». 42 Sempre nel 1801, scrive John G.A. Pocock, l'influenza del pensiero rivoluzionario americano, già viva nella società britannica, si palesò nel momento in cui il regno irlandese fu incorporato nel Regno Unito; ma, continua Pocock, «[...] senza le conseguenze dirette e indirette della rivoluzione americana, difficilmente la storia britannica avrebbe conosciuto le riforme del 1829 e del 1832 [...]». 43 Non siamo a molti anni di distanza dall'evento rivoluzionario americano, segno chiaro che esso ebbe un'influenza importante sulla storia europea tra la fine del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, cioè in un periodo decisivo per l'Europa. L'esempio tedesco e britannico dimostra che, al di là degli esiti che essa produsse sul suolo europeo, la rivoluzione americana fu un evento 39 R. KIRK, Introduzione a GENTZ, L'origine e i principi, cit., p. 33. Cfr. anche R. KIRK, Le radici dell'ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, Milano, Mondadori, 1991, pp. 413-417. 40 Ancora fondamentale per la comprensione della situazione politica del tempo in Gran Bretagna è il volume di Sir L. NAMIER, England in the Age of the American Revolution, London, Macmillan, 1930. 41 Cfr. B. BAILYN, The Ideological Origins of American Revolution, Cambridge, MA and London, The Belknap Press of Harvard University Press, 1992 (1967), pp. 8-9. Sul tema della pamphlettistica americana pre-rivoluzionaria, cfr. T. COLBOURN, The Lamp of Experience: Whig History and the Intellectual Origins of the American Revolution, Indianapolis, IN, Liberty Fund, 1998 (1965). 42 E.S. MORGAN, The American Revolution Considered as an Intellectual Movement, in J.P. GREENE, The Reinterpretations of the American Revolution, 1763-1789, New York, Harper & Row, 1968, p. 574. 43 J.G.A. POCOCK, La ricostruzione di un impero. Sovranità britannica e federalismo americano, Manduria, Lacaita, 1996, p. 94. 45 Antonio Donno globale, non locale. L'intreccio tra le due sponde dell'Atlantico fu così fervido che Boorstin ha giustamente affermato: «Fino al momento in cui la rivoluzione [americana] non si materializzò, gli americani parlavano presumibilmente il linguaggio dei filosofi francesi; ma quando questi ultimi diventarono sempre più rivoluzionari, il loro pensiero divenne […] sempre meno americano». 44 Al di là della tesi di Boorstin sulla profonda differenza tra le due Rivoluzioni, 45 quel che è evidente, ancora una volta, è la vasta diffusione del pensiero rivoluzionario americano negli ambienti intellettuali francesi; ma quando, qualche anno dopo, si impose l'esigenza di dare vita ad una Costituzione, il dibattito americano si diffuse in Francia e «una parte importante dell'opinione pubblica francese fu favorevole agli americani e al loro progetto costituzionale [...]», 46 a dimostrazione della crescente diffusione delle idee rivoluzionarie americane in Europa e delle sue conseguenze sul piano politico. Tuttavia, è indiscutibile che la rivoluzione francese e poi ancor più quella bolscevica abbiano ben poco assimilato i principi della rivoluzione americana, trattandosi di rivoluzioni pantoclastiche votate fanaticamente alla sistematica distruzione dell'esistente e alla costruzione di un “mondo nuovo”, di un “uomo nuovo”, di una “nuova storia dell'umanità”. Siamo agli antipodi di ciò che con immenso acume scrisse Samuel E. Morison: «[...] La rivoluzione americana differì dalla maggior parte delle altre grandi rivoluzioni perché si fermò giusto quando coloro che l'avevano iniziata vollero fermarla. Nel 1789 noi avevamo gli stessi leaders del 1775». 47 Eppure, agli esordi del grande 44 BOORSTIN, The Genius of American Politics, cit., pp. 78-79. Su questo tema, pagine importanti sono in R. KIRK, Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto, a cura di M. RESPINTI, Bergamo, Edizioni Centro Grafico Stampa, 1995. 46 R. MARTUCCI, «Liberté chérie»: l'opinion française et les constitutions américaines, in ID., sous la direction de, Constitution & Revolution aux ÉtatsUnis d'Amérique et en Europe, Macerata, Laboratorio di storia costituzionale, 1995, p. 180. Il volume contiene numerosi saggi sull'influenza del pensiero costituzionale americano in Europa negli anni rivoluzionari e post-rivoluzionari: Horst Dippel ed Edoardo Tortarolo (in Germania), Wyger R. Velema (in Danimarca), Hugh Gough (in Irlanda), Alberto Gil Novales e José M. Portillo Valdez (in Spagna), Wilhelm Brauneder (nell'Impero asburgico). 47 S.E. MORISON, The Conservative American Revolution, The Inaugural George Rogers Clark Lecture, April 22, 1975, Washington, D.C., The Society of the 45 46 La rivoluzione americana: evento locale o globale? evento francese, la classe colta francese era concorde nel considerare la rivoluzione americana un fatto epocale liberatorio; essa esaltò «[...] gli Stati Uniti e gli americani come la speranza dell'umanità, il primo popolo che, dopo secoli di tirannia politica e religiosa, aveva combattuto e vinto in nome dei principi etici e politici della ragione». 48 E, se da una parte ciò significa, ancora una volta, che l'esperimento americano era ben conosciuto e anzi osannato in certi ambienti francesi, dall'altra non si può non riconoscere che i fatti francesi smentirono clamorosamente le speranze iniziali. Ma c'è di più. Peter Gay ha giustamente messo in risalto come il lungo periodo di sostanziale autogoverno delle colonie abbia rappresentato il sostrato ideale per l'affermazione delle idee illumistiche di matrice europea sul suolo nordamericano; e successivamente, quando la nuova nazione divenne indipendente, essa «[...] apparve essere il laboratorio delle idee illuministiche», 49 importate dall'Europa. 50 Ma, nello stesso tempo, con un processo inverso, «[...] una stampa politica ampiamente letta e la formazione di un'“opinione pubblica” iniziarono veramente a svilupparsi in quel tempo [in Europa] sotto l'impatto della rivoluzione americana». 51 In definitiva, ciò che i philosophes europei avevano seminato, era stato raccolto e posto in essere dai philosophes americani, i quali «[...] si servivano sapientemente di idee filosofiche mentre portavano avanti una delle grandi trasformazioni politiche della storia»: 52 un formidabile scambio Cincinnati, 1976, pp. 27-28. 48 T. BONAZZI, Introduzione a ID., a cura di, La rivoluzione americana, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 10. 49 P. GAY, Enlightenment Thought and the American Revolution, in J.R. HOWE, Jr., The Role of Ideology in the American Revolution, Huntington, N.Y., Robert E. Krieger Publishing Co., 1976, p. 49. 50 Ma, prima di Gay, John C. Miller, nella sua classico libro sulla rivoluzione americana, aveva così scritto su questo problema: «La rivoluzione americana e la Dichiarazione d'Indipendenza non furono meri riflessi dell'Illuminismo europeo», ma si nutrirono di una varietà di motivazioni frutto della peculiare storia delle colonie nordamericane. J.C. MILLER, Origini della rivoluzione americana, Vol. I, Milano, Mondadori, 1965, p. 17 (I ed. americana: Boston 1943). Ma questo argomento esula dal nostro discorso. 51 M.N. ROTHBARD, Conceived in Liberty, Vol. IV: The Revolutionary War, 17751784, Auburn, AL, Mises Institute, 1999, p. 447. 52 M. WHITE, The Philosophy of the American Revolution, Oxford and New York, Oxford University Press, 1978, p. 4. 47 Antonio Donno di “cultura rivoluzionaria”, che, però, in Francia dette esiti ben diversi da quelli americani, mentre nella giovane nazione d'oltre Atlantico si incarnò nelle storiche parole scritte da David Ramsay nel 1789: «Il diritto del popolo di opporsi ai suoi governanti, quando essi invadono i suoi diritti, costituisce la pietra angolare della Repubblica americana». 53 È forse a questo diritto che la Arendt si riferiva quando scriveva che, al tempo della rivoluzione americana, era emerso «[...] un concetto interamente nuovo di potere e di autorità, un'idea interamente nuova di ciò che fosse di primaria importanza nella realtà politica che si era già sviluppata nel Nuovo Mondo [...]». 54 53 D. RAMSAY, The History of the American Revolution, edited by L.H. COHEN, Indianapolis, IN, Liberty Fund, 1990 (1789), p. 637. 54 ARENDT, On Revolution, cit., p. 166. 48 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 49-64 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p49 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Maurizia Pierri Sistema fiscale e “inclinazioni” del federalismo Abstract: In political science federalism refers to a political system with a constitution that guarantees some range of autonomy and power to both central and decentralized levels of government. That is the federalism in static sense and its principal issue refers to the distribution of sovereignty between the different levels of government in federal states. Instead, federalism in a dynamic sense is a concept of power and it is defined as a federalizing process, in an ongoing evolution depending on centripetal (cooperative federalism) or centrifugal forces (dual federalism). The transformation of the federalist system in the United States after the New Deal is a clear example of it: the principles of welfare state had a great influence on the centralization of fiscal frameworks (with the support of Supreme Court sentences). This brief essay has the purpose of verifying whether the fiscal system can be an indicator of change in federalism inclination. Does the adoption of fiscal federalism in Italy following the Reform of the V Title of the Constitution represent a step toward dual or cooperative federalism? The answer to this question is very complex, but the safeguarding of the welfare in some backward areas may depend on it. Keywords: Fiscal System; Federalism; Constitutional Problems. 1. Il collegamento tra ripartizione delle competenze in materia fiscale ed evoluzione del processo federale Da tempo la dottrina comparatista ha riconosciuto che l’assetto degli ordinamenti statali, sia unitari che federali, della seconda metà del XIX secolo ha fortemente risentito del passaggio da un modello costituzionale “comune” di tipo liberale ad uno di tipo democraticosociale; in sostanza, ha risentito della assimilazione dei principi del welfare state. 1 La Gran Bretagna, la Francia, la Germania, l’AustriaUngheria, l’Italia e, oltreoceano, gli Stati Uniti, nonostante le notevoli differenze relative alla forma di governo (a monarchia 1 Al riguardo restano fondamentali le riflessioni di G. BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano, vol. II, La Costituzione democratica, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 1-27. Maurizia Pierri limitata, a monarchia parlamentare, a repubblica parlamentare o presidenziale) si ispiravano ad un medesimo ideal-tipo costituzionale. 2 Volendo riassumerne le caratteristiche essenziali, occorre indicare da un lato la concezione del rapporto tra Statoapparato e società civile che vede il primo assumere il ruolo di tutore della autonomia e della libertà (civile ed economica) dei cittadini; dall’altro, la adozione di una struttura di distribuzione delle competenze governative funzionale al ruolo statale di garante dei diritti: la divisione classica dei poteri. Dopo la prima, ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, pur non ripudiando completamente i principi del costituzionalismo liberale, gli ordinamenti occidentali hanno valorizzato quelli propri della democrazia sociale. Sull’onda delle teorie economiche keynesiane, è cambiata la concezione dello Stato, divenuto interventista e regolatore per sopperire ai “fallimenti del mercato” in favore di superiori ragioni sociali, in primo luogo la garanzia delle fasce più deboli e la tutela dei diritti sociali (o prestazionali). Il cambiamento ha investito sia gli Stati unitari, con una organizzazione del potere politico concentrata in un unico ente, sia gli Stati federali, che avevano una divisione verticale dei poteri e costituivano, al tempo, una ristretta minoranza (la Germania imperiale, la Svizzera, gli Stati Uniti, per citare i più importanti). L’effetto più significativo sortito dall’avvento del welfare state è stato quello di favorire la confluenza di maggiori poteri allo Stato centrale a discapito degli enti territoriali periferici. Da questo punto di vista, l’esperienza degli Stati Uniti risulta esemplare. 3 La finalità di questo processo di avocazione di poteri dalla 2 In realtà, il movimento costituzionalista nasce ben prima della seconda metà del XIX secolo, successivamente alla glorious Revolution inglese (1688-89), alla Dichiarazione di Indipendenza delle colonie americane del 1776 ed alla rivoluzione francese del 1789. Le sue matrici storicoideologiche sono conseguentemente diversificate, tanto che il costituzionalismo di ispirazione giacobina viene tenuto distinto da quello di ispirazione anglosassone. Cfr. A. BARBERA, Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari, Laterza, pp. 5-13. 3 Si veda in proposito, ex multis, lo stesso BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano, cit., pp. 203-232 e il testo di A. PIERINI, Federalismo e welfare state nell’esperienza giuridica degli Stati Uniti, Torino, Giappichelli, 2003. 50 Sistema fiscale ed “inclinazioni” del federalismo periferia al centro è stata quella di «coordinare dal centro, in modo uniforme, molti dei nuovi interventi che la politica voleva effettuare nella società civile per fini economici e sociali e che non avrebbero potuto realizzarsi funzionalmente attraverso decisioni scoordinate e ad efficacia solo locale dei governi periferici». 4 Le parole di Bognetti sono estremamente significative e suggeriscono le due fondamentali premesse al tema oggetto di questo breve saggio. La prima. Se la principale ragione della attrazione di poteri dagli Stati membri allo Stato centrale è costituita dalla necessità di garantire una tutela uniforme sul territorio nazionale in materia economico-sociale, allora il sistema fiscale adottato da un ordinamento può essere assunto come indicatore della sua inclinazione verso un particolare modello federale (cfr. infra, par. 2). La seconda. La tendenza centripeta, che ha caratterizzato la fase democratico-sociale del costituzionalismo declinato sui sistemi federali, non è definitiva né irreversibile, per lo meno in quegli ordinamenti che non hanno cristallizzato nel testo costituzionale il principio della “unità economica” del paese. 5 Essa piuttosto si inserisce in un processo, che oscilla tra una maggiore e minore attribuzione di poteri al centro e alla periferia, in ragione dei cambiamenti storici, sociali e culturali, conseguentemente anche politici, di uno Stato. Si rendono al riguardo necessarie alcune delucidazioni in ordine alla differenza semantica tra “ordinamento federale”, inteso come struttura, e “federalismo” inteso come concezione del potere, che si avrà modo di precisare nel paragrafo successivo. 2. La differenza tra le formule “federalismo” e “Stato federale” Le formule “federalismo” e “Stato federale” vengono spesso utilizzate come sinonimi, quando in realtà esprimono entità 4 Cfr. BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano, cit., p. 8. Come invece è accaduto con la Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania del 1949, che, all’art. 72, comma 2, dispone che «lo Stato federale ha il diritto di legiferare se e nella misura in cui la creazione di condizioni di vita equivalenti nel territorio federale o la tutela dell’unità giuridica o economica nell’interesse dell’intero Stato rendano necessaria una disciplina legislativa federale». Nella Costituzione americana non è prevista alcuna disposizione analoga. 5 51 Maurizia Pierri 6 concettuali differenti. Lo Stato federale è una forma di organizzazione politica che comporta un’autonomia costituzionalmente garantita ad enti territoriali, che hanno la capacità di concorrere anche alle funzioni statali. L’analisi storica dimostra che esso spesso nasce per associazione o integrazione di Stati indipendenti, già facenti parte di precedenti confederazioni (come gli Stati Uniti nel 1787, la Svizzera nel1848, la Federazione tedesca del Nord del 1867 e l’Impero tedesco del 1871). In altri casi, l’assetto federale viene prescelto al momento dell’affermazione dell'indipendenza nazionale (com'è accaduto in Canada nel 1867 ed in Australia nel 1900). Infine, la struttura federale è l’approdo naturale in caso di dissociazione di un precedente Stato unitario (si pensi all’Argentina nel 1853, al Brasile nel 1891, al Messico nel 7 1917, all’Austria nel 1920 ed alla Germania nel 1949). 8 La dottrina ha enucleato una serie di elementi sintomatici dell’esistenza di una struttura federale, che possono essere così sintetizzati: 1) esistenza di una Costituzione scritta e rigida che riconosca autonomia agli enti politici territoriali (variamente denominati), collocati in posizione intermedia tra lo Stato e gli enti locali, e dotati di costituzioni subordinate a quella dello Stato federale; 2) previsione di un riparto di competenze tra Stato centrale e Stati membri, relativo ai tre poteri fondamentali, modificabile solo con revisione costituzionale; 3) esistenza di un parlamento bicamerale articolato in modo che una camera sia rappresentativa del corpo elettorale nazionale e la seconda degli Stati membri; 4) composizione del governo che rispecchi la natura complessa dello Stato; 5) partecipazione diretta o indiretta degli Stati membri al procedimento di revisione costituzionale; 6) esistenza di un organo federale di tipo giurisdizionale, competente a dirimere i conflitti tra Stato federale e Stati membri. Il federalismo, invece, prima di tradursi in categoria giuridica sotto forma di Stato federale, è una concezione collaborativa dei 6 Cfr., per tutti, su questo tema, G. DE VERGOTTINI, Stato federale, in Enciclopedia del diritto, vol. XLIII, Milano, Giuffrè, 1990, p. 831. 7 Per i riferimenti storici si veda M. VOLPI, La classificazione delle forme di Stato, in Diritto Pubblico comparato, Torino, Giappichelli, 2009, p. 233. 8 Cfr. DE VERGOTTINI, Stato federale, cit., pp. 838-841; VOLPI, La classificazione delle forme di Stato, cit., pp. 833-835. 52 Sistema fiscale ed “inclinazioni” del federalismo rapporti politici tra entità di diversa natura, sia nell’ordinamento internazionale, che in quelli statali: si tratta, dunque, di una teoria politico-filosofica che investe anche settori non giuridico9 istituzionali. In altri termini, il federalismo rappresenta una corrente di pensiero che ritiene l’organizzazione federale degli Stati un’esigenza essenziale per il governo di tutte le società complesse e, inoltre, l’unica soluzione valida per la pacifica convivenza tra i popoli. In questo solco, si inseriscono le varie componenti politico10 filosofiche del federalismo: quella di estrazione liberale (Kant), 11 12 quella socialista (Proudhon) e quella democratica (Friedrich). Le ragioni della sovrapposizione dei due concetti hanno radici storiche: anche se, nel Medioevo, il fenomeno del foedus (alleanza/patto) non era certamente sconosciuto (Impero e Chiesa, regni e principati, città autonome, etc.), tuttavia il federalismo moderno è strettamente connesso con il fenomeno statale e, dunque, può essere compreso soltanto in riferimento alle esperienze statali federali. In primo luogo, quelle degli Stati Uniti, della Svizzera, della 13 Germania, facenti parte delle rispettive confederazioni. Per questa ragione, i concetti di Stato federale e di federalismo sono stati letti in sovrapposizione ed il primo è stato studiato con gli strumenti della scienza giuridica del XIX e della prima metà del XX secolo: utilizzando il concetto dogmatico di “sovranità”, si è tenuto distinto dalle attigue figure della confederazione di Stati e dello Stato regionale. Quello della sovranità è un criterio di classificazione statico, che mira a verificare chi sia il reale detentore del potere sovrano, ed è proprio su questo nodo che si sono confrontate posizioni differenti e contrapposte. La più antica è quella espressa da Hamilton, Jay e 9 Cfr. DE VERGOTTINI, Stato federale, cit., p. 831; VOLPI, La classificazione delle forme di Stato, cit., p. 233. 10 Cfr. I. KANT, Per la pace perpetua, Milano, Feltrinelli, 1991, pp. 37-41 [I ed. tedesca: Königsberg 1795]. 11 Cfr. P.-J. PROUDHON, Del principio federativo, Pennacchi, edizione online, 2005 [I ed. francese: Parigi 1863]. 12 Cfr. C.J. FRIEDRICH, Trends of Federalism in Theory and Practice, London, Pall Mall Press, 1968, p. 177. 13 Cfr. G. BOGNETTI, Federalismo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. VI, Torino, Utet, 1991, p. 273. 53 Maurizia Pierri Madison che, nel Federalist, hanno sostenuto che, nello Stato federale, la sovranità sarebbe ripartita tra Stati membri e Stato centrale. Secondo lo statista del North Carolina, J.C. Calhoun, con argomentazioni successivamente riprese da von Seydel, la sovranità resterebbe agli Stati membri, e lo Stato federale sarebbe, in realtà, una forma di confederazione. 14 Un'altra teoria, partendo dal riconoscimento della superiorità dello Stato federale e della natura non statuale delle entità federate, ritiene che i principi di regolazione dei rapporti tra i diversi livelli di governo siano quelli di autonomia costituzionale (residua) e di partecipazione. La prevalente dottrina attribuisce la sovranità allo Stato centrale, in ragione di quanto è scritto nelle costituzioni federali: soltanto al potere centrale spetta la sovranità, in quanto esso è titolare della Kompetenz-Kompetenz. Conseguentemente, lo Stato federale sarebbe una sottospecie dello Stato unitario, ovvero una forma avanzata di Stato decentrato, in cui 15 gli Stati membri non sono sovrani, ma autonomi. Una rappresentazione estremamente suggestiva, in quanto atta ad evidenziare il carattere dinamico del principio federale, è quella 16 tracciata da Kelsen. Il giurista austriaco riconduce il tema del federalismo a quello del decentramento, nel quale distingue un aspetto statico ed uno dinamico. Il primo atterrebbe alla sfera territoriale di validità delle norme giuridiche; il secondo, al metodo di creazione e di esecuzione delle stesse (da parte di un solo organo o più organi). Nello Stato federale, il decentramento sarebbe massimo sotto entrambi i profili, in quanto «l’ordinamento giuridico, valido solo per una comunità parziale, è creato da organi eletti 17 semplicemente dai membri di questa comunità parziale». La 14 Sul pensiero di Calhoun, cfr. M.L. SALVADORI, Potere e libertà nel mondo moderno. John C. Calhoun: un genio imbarazzante, Roma-Bari, Laterza, 1996; L.M. BASSANI, John C. Calhoun: consenso e maggioranza semplice, saggio introduttivo a J.C. CALHOUN, Disquisizione sul governo, Macerata, Liberilibri, 2011, pp. IX-XCV. 15 Per una disamina dettagliata delle teorie relative alla suddivisione della sovranità negli Stati federali, si rimanda a G. LUCATELLO, Stato federale, in Novissimo Digesto italiano, vol. XVIII, Torino, Utet, 1971, p. 333 ss. 16 Cfr. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, Perugia, Etas, 2000 [I ediz. inglese: Cambridge 1945], p. 310 ss. 17 Ibid., p. 315. 54 Sistema fiscale ed “inclinazioni” del federalismo struttura dell’ordinamento federale sarebbe tripartita, in quanto vedrebbe affiancati un ordinamento giuridico degli Stati membri, un ordinamento giuridico dello Stato centrale e un ordinamento giuridico globale. Nonostante questa ricostruzione sia stata rigettata per l’eccessiva farraginosità dello schema proposto, non può esserne sottovalutata l’importanza con riferimento alla valorizzazione della componente dinamica, relativa alla produzione di norme ed ai rapporti tra enti territoriali. Proprio questi elementi, infatti, contraddistinguono le più moderne teorie sul federalismo, che si concentrano sull’aspetto 18 empirico del federalizing process. Esse superano il concetto di Stato e si riferiscono più in generale alla comunità politica, sottolineando la fluidità del riparto di competenze tra Stato centrale e Stati federali alla luce di forze centripete o centrifughe. Come si è avuto modo di accennare, autorevole dottrina ha osservato che il federalismo ha avuto una evoluzione nel corso del tempo, essendo inizialmente legato alla nascita dello Stato liberale ed ai relativi valori (libertà dei privati e del mercato, attribuzione allo Stato federale di un numero ristretto di poteri) e poi, invece, influenzato dalla nascita dello Stato sociale (intervento dello Stato federale in materia economico-finanziaria, partecipazione delle collettività locali alle scelte politiche, esistenza di una classe politica organizzata in modo non oligarchico, prossimità delle decisioni 19 All’interno di questo politiche alle necessità dei cittadini). dinamismo valoriale, si sono sviluppati i vari modelli di federalismo, da tenere distinti sia in senso cronologico, che della principiologia. Il modello duale o anglosassone, che riflette pienamente l’ideologia liberale, appartiene alla prima fase della storia 20 costituzionale americana fino al New Deal rooseveltiano e, parzialmente, anche alla Germania imperiale (1871-1918), pur se, in quest’ultima, appare più robusto l’apparato centrale della 18 Cfr. FRIEDRICH, Trends of Federalism, cit., p. 82. Cfr. BOGNETTI, Federalismo, cit., p. 273 ss. Secondo L. MELICA [Federalismo e libertà, Padova, Cedam, 2002, p. 1 ss.], vi sono precise ragioni storiche, filosofiche e giuridiche che collegano il principio federalista con le istanze liberali. 20 Come recentemente ribadisce M. COMBA, Gli Stati Uniti d’America, in Diritto Costituzionale comparato, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 128-129. 19 55 Maurizia Pierri federazione. Le sue caratteristiche principali possono essere così riassunte: 1) esigenza della separazione tra Stato e società civile, con particolare riferimento alle materie economico-sociali; 2) netta separazione di competenze tra Stato centrale e Stati membri, con parallelismo delle funzioni (alle competenze legislative su determinate materie corrispondono omologhe competenze amministrative). Il modello europeo o tedesco, invece, prevede competenze legislative concorrenti (anche se, in Germania nel 2006, è stata abolita la figura delle leggi-quadro) e l’assenza del parallelismo di funzioni. Dunque, l’emersione delle esigenze proprie dello Stato sociale ha determinato la tendenza al rafforzamento dei poteri dello Stato centrale, imposta da una serie di istanze eterogenee: la necessità di garantire in modo omogeneo i diritti sociali su tutto il territorio nazionale, di regolare in via generale i settori economico-finanziari e di rendere maggiormente efficiente il controllo militare attraverso la sua centralizzazione e, infine, l’intervento uniformante dei partiti politici di massa. Il federalismo duale si è, così, evoluto in 21 federalismo cooperativo, correlato all’idea che qualunque attività pubblica debba essere realizzata con un intervento congiunto e coordinato dei diversi livelli di governo. Il federalismo cooperativo implica l’affermazione di tre principi: a) il principio di sussidiarietà verticale (l’intervento del livello superiore di governo è giustificato solo quando non possa essere efficacemente messo in atto dal livello inferiore) ed orizzontale (che coinvolge il privato sociale nell’esercizio delle funzioni pubbliche); b) il federalismo fiscale, che prevede l’autonomia finanziaria di ogni livello di governo, attraverso l’istituzione di tributi propri e fatta salva la possibilità di interventi perequativi da parte dello Stato; c) il principio di collaborazione sia orizzontale che verticale, istituzionalizzata o spontanea e, nel primo caso, facoltativa o obbligatoria, che avvicina le decisioni ai cittadini. Nella versione statunitense, 22 il federalismo cooperativo è stato 21 È quello che è avvenuto negli Stati Uniti dopo il New Deal. Cfr. BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano, cit., p. 203. 22 Per quanti hanno sostenuto che il federalismo americano aveva, sin dall’inizio, carattere cooperativo, poiché gli organi centrali si sono sempre avvalsi della collaborazione in fase applicativa delle autorità periferiche, si veda D.J. ELAZAR, The American Partnership in the XIX Century, Chicago, 56 Sistema fiscale ed “inclinazioni” del federalismo favorito dalle clausole costituzionali relative ai cosiddetti poteri impliciti ed alla giurisprudenza della Corte Suprema in tema di applicazione dei principi dello Stato sociale e di uguaglianza dei diritti. Attraverso la rilettura della interstate commerce clause e dello spending power, e l’interpretazione estensiva della necessary and proper clause e degli implied powers del Congresso (art. I, sez. 8), la Corte Suprema (a partire da Gibson v. Ogden del 1824) ha, infatti, riconosciuto uno spazio sempre più ampio alla dimensione federale del potere. 3. Evoluzione del regime fiscale e conseguenze sul processo federalista. Prospettive del federalismo fiscale in Italia La tendenza centripeta è stata certamente favorita dall’energica utilizzazione 23 del XVI Emendamento (1913), che autorizza lo Stato centrale a stabilire liberamente imposte sui redditi e sui patrimoni: lo strumento fiscale, sempre con l’avallo della Corte Suprema (nel 1936, la sentenza United States v. Butler ha sancito il potere dello Stato centrale di utilizzare denaro per finanziare o promuovere qualunque iniziativa di interesse pubblico, di general welfare) è stato usato dal Congresso per coprire le spese relative a settori tradizionalmente di competenza degli Stati membri. 24 Le vicende degli ultimi decenni, con particolare riguardo agli Stati Uniti, danno atto della estrema duttilità del federalizing process: il federalismo 25 cooperativo è poi sfociato nel cosiddetto “federalismo coercitivo” e, in reazione a questo, nel “new federalism” reaganiano o “federalismo competitivo”, caratterizzato da una riduzione complessiva del ruolo del potere federale, da una accentuata competizione tra i vari livelli di governo, con l’applicazione di logiche di mercato (analisi costi-benefici) per raggiungere livelli University of Chicago Press, 1962. Bognetti ha ribattuto che tale obiezione si fonda su una falsa interpretazione dei termini “cooperativo” e “duale”. Cfr. BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano, cit., p. 203. 23 Per utilizzare l’incisiva espressione di Bognetti. Cfr. ibid., p. 214. 24 Cfr. ibid., p. 215. 25 Cfr. J. KINCAID, Dal federalismo cooperativo al federalismo coercitivo, in G. MIGLIO (a cura di), Federalismi falsi e degenerati, Torino, Sperling & Kupfer, 1996, p. 110 ss. 57 Maurizia Pierri ottimali di efficienza e, infine, dall’utilizzazione degli stock grants (finanziamenti che obbligano al raggiungimento di obiettivi senza fissare le modalità per ottenerli). Recentemente, poi, con l’approvazione dell’Affordable Care Act, nel marzo 2010, l’amministrazione di Barack Obama sembra aver impresso una inversione di rotta al federalismo americano, incidendo sulla garanzia di un diritto sociale rilevante come quello alla salute, non senza conseguenze sul bilancio dello Stato e sul consenso elettorale. Tutto ciò a riprova del fatto che, in assenza di una scelta indicata in norme di rango costituzionale, l’evoluzione cooperativa del federalismo non è definitiva né, appunto, irreversibile. È altresì evidente che la ripartizione di competenze relative al prelievo fiscale e la scelta di utilizzarne gli introiti in funzione di general welfare sono il sintomo di una particolare inclinazione del federalismo. È possibile che il ragionamento fin qui sviluppato possa essere applicato anche alle trasformazioni in atto in Italia? L’ordinamento italiano, pur non essendo compiutamente qualificabile come federale, ha intrapreso un cammino che si colloca nel solco del federalizing process, 26 pur trattandosi di un federalismo del tutto particolare. 27 È una tendenza che si è compiutamente manifestata con la riforma costituzionale del Titolo V, la quale ha radicalmente trasformato il riparto di competenze legislative ed amministrative tra Stato, regioni ed enti locali. Sebbene con la caduta del governo di centro-destra (fortemente ispirato a principi federalisti e liberali) il processo abbia subito una battuta d’arresto, le novità introdotte hanno continuato a produrre i loro effetti, particolarmente in relazione al regime della fiscalità regionale e locale ed alle sue potenziali conseguenze sulle tutele sociali. Alla legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione) hanno fatto seguito una 26 «La riforma del Titolo V […] ha avviato la trasformazione dello Stato italiano secondo i modelli degli Stati federali». V. CERULLI IRELLI - C. PINELLI, a cura di, Verso il federalismo, formazione e amministrazione nella riforma del Titolo V della Costituzione, Quaderni di ASTRID, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 7. 27 Sia perché si tratta di un “federalismo da dissociazione”, sia per alcuni limiti costituzionali ritenuti invalicabili, che lo rendono più simile a quello austriaco, che a quello svizzero o tedesco. Cfr. A. D’ATENA, L’Italia verso il “federalismo”. Taccuini di viaggio, Milano, Giuffrè, 2001, p. 98. 58 Sistema fiscale ed “inclinazioni” del federalismo serie di decreti legislativi, 28 che hanno provocato un radicale 28 Solo per citarne alcuni: 1) del 6 settembre 2011, n. 149, Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, a norma degli articoli 2, 17 e 26 della legge 5 maggio 2009, n. 42; 2) del 28 maggio 2010, n. 85 recante Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un loro patrimonio, ai sensi dell'art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42 – approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 20 maggio 2010 – pubblicato nella G.U. n. 134 dell'11 giugno 2010; 3) del 17 settembre 2010, n. 156, Disposizioni recanti attuazione dell'articolo 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42, e successive modificazioni, in materia di ordinamento transitorio di Roma Capitale – approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 17 settembre 2010 – pubblicato nella G.U. n. 219 del 18 settembre 2010; 4) del 26 novembre 2010, n. 216, recante Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di comuni, città metropolitane e province – approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 18 novembre 2010 – pubblicato nella G. U. n. 294 del 17 dicembre 2010; 5) del 14 marzo 2011, n. 23, Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale – approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 3 marzo 2011 a seguito della votazione favorevole delle Camere – pubblicato nella G.U. n. 67 del 23 marzo 2011; 6) del 6 maggio 2011, n. 68, Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario – approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 31 marzo 2011 – pubblicato nella G.U. n. 109 del 12 maggio 2011; 7) del 31 maggio 2011, n. 88, Disposizioni in materia di risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione degli squilibri economici e sociali, a norma dell'art. 16 della legge 5 maggio 2009, n. 42 – approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 19 maggio 2011 – pubblicato nella G.U. n. 143 del 22 giugno 2011; 8) del 23 giugno 2011, n. 118, Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42 – approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 9 giugno 2011 – pubblicato nella G.U. n. 172 del 26 luglio 11. Alle fonti menzionate si aggiungono alcuni interventi normativi secondari ed in particolare i decreti: a) del ministero dell’Economia e delle Finanze del 26 novembre 2010, Disposizioni in materia di perequazione infrastrutturale, ai sensi dell’articolo 22 della legge 5 maggio 2009, n.42; b) del presidente del Consiglio dei Ministri del 17 giugno 2011, Disposizioni attuative degli articoli 2, comma 4 e 14, comma 10 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, recante disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale, in materia di attribuzione ai comuni delle regioni a statuto ordinario della compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto per l’anno 2011; c) del ministero 59 Maurizia Pierri processo di trasformazione della finanza regionale e locale, accendendo un dibattito che riguarda l’impatto sociale di quei provvedimenti ed il tipo di federalismo cui l’ordinamento si va conformando. Gli appelli alla “solidarietà” più volte espressi dalle più alte cariche istituzionali sono un chiaro segnale della preoccupazione per una deriva “duale” del riparto di competenze tra Stato ed altri enti territoriali che comprometterebbe gli equilibri sociali del paese. 29 Uno degli aspetti più spinosi della riforma riguarda, infatti, l’impatto che tali competenze, già ridefinite dalla modifica del Titolo V della Costituzione e soltanto “sbloccate” dalla legge delega del 2009, 30 avranno sulla economia e sulle condizioni di vita delle diverse regioni, nonché sui servizi di cui potranno usufruire i cittadini residenti nelle aree geografiche 31 tradizionalmente arretrate rispetto al resto del paese. 32 Non vi è dubbio che l’applicazione del federalismo fiscale – e, in generale, il processo di federalizzazione – inciderà sul sistema di welfare: 33 il timore è che si possano produrre effetti differenti sulla dell'Interno del 21 giugno 2011, Riduzione dei trasferimenti erariali (art. 2, comma 8 del Decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23) e Fondo sperimentale di riequilibrio (art. 2, comma 7, Decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23). 29 La possibile alternativa tra un regionalismo duale e uno cooperativo era presente ancora prima della riforma costituzionale a causa della “infatuazione” per il modello competitivo nonostante le evoluzioni in senso cooperativo in atto nel continente europeo. Cfr. D’ATENA, L’Italia verso il “federalismo”, cit., p. 237. 30 Come osserva A. D’ATENA, nell’Introduzione al volume Il sistema delle autonomie territoriali dopo la legge sul federalismo fiscale. Atti del convegno del 1 marzo 2010, Roma, Tipografia Artigiana, 2010, p. 10. 31 È stato rilevato come il Sud non costituisca una macro-area omogenea, ma si presenti come un comparto dis-uniforme nelle diverse località che lo definiscono geograficamente. Sul punto si veda M. INGROSSO, Il federalismo demaniale e il suo impatto nel Mezzogiorno, in «Innovazione e Diritto», 4, 2010, p. 1. 32 Con performance di sviluppo inferiore rispetto ad altre regioni europee in condizioni di ritardo economico, come sottolinea L. LETIZIA, Strumenti innovativi di intervento pubblico per lo sviluppo del Mezzogiorno: profili giuridici e riflessioni critiche, in www.amministrazioneincammino.it, p. 3, con ampia bibliografia richiamata nella nota 5. 33 È quanto sostiene, tra gli altri, L. TORCHIA, a cura di, in Welfare e 60 Sistema fiscale ed “inclinazioni” del federalismo tutela delle prestazioni sociali ai cittadini, in potenziale tensione con quanto stabilito dall’art. 117, lett. m) della Costituzione, posto che quella norma non (tanto) prevede una materia di competenza esclusiva dello Stato, quanto piuttosto una clausola di salvaguardia trasversale, in grado di incidere anche sulle materie di competenza regionale. 34 La dottrina più ostile alla riforma ha, infatti, lamentato che la tensione coinvolgerebbe in realtà l’art. 3 della Costituzione: la legge di delegazione sul nuovo sistema finanziario avrebbe completato l’opera di demolizione di un pilastro fondamentale del nostro ordinamento (il principio di uguaglianza), già intaccato dalla formula “livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali”, introdotta dal novellato art. 117. 35 Le modalità di impiego degli introiti ed in generale il sistema fiscale adottato incide certamente sul principio di uguaglianza e sulla tutela dei diritti, in particolare di quelli cosiddetti di terza generazione, 36 che sono espressione di un modello statale solidale e pluralista richiamato dalla nostra Costituzione nei principi fondamentali (art. 2, art. 3 secondo comma, art. 4 secondo comma) e sviluppato nei Titoli II e III, dedicati ai rapporti etico-sociali ed economici. La ripartizione di competenza relative alla fiscalità tra centro e periferia è, dunque, anche nel caso italiano, un elemento costitutivo ed allo stesso tempo un sintomo del modello cui il processo di federalizzazione si ispira (cooperativo, solidale o competitivo). 37 federalismo, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 9. 34 Come ha più volte affermato la Corte Costituzionale. Cfr., ex multis, le sentenze n. 282/2002, 285 e 383/2005 e 87/2006. 35 Come è autorevolmente sostenuto da C. SUNSTEIN - S. HOLMES, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, Bologna, Il Mulino, 1999. La dottrina prevalente ritiene che la filosofia delle prestazioni essenziali sia strettamente connessa al principio di uguaglianza. Si veda, tra i tanti, i contributi di C. PINELLI, Sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art.117, co. 2, lett. m, Cost.), in Dir. Pubbl., 2002, p. 881 e ss. Sul punto, incisivamente, G. FERRARA, A proposito del federalismo fiscale. Sulla riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, in www.costituzionalismo.it, 2 aprile 2009, p. 5. 36 Sulla scansione temporale delle generazioni dei diritti si rinvia al classico N. BOBBIO, L'età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990. 37 Sulle diverse declinazioni del federalismo e sulla sua componente dinamica (federalizing process) si veda, da ultimo, A. VESPAZIANI, 61 Maurizia Pierri A questo proposito si possono fare due considerazioni. La prima è che le disposizioni costituzionali poc'anzi accennate ed altre contenute nei Principi fondamentali contengono una inderogabile (salvo radicali riforme costituzionali) indicazione di rotta: la Repubblica è una ed indivisibile (art. 5), richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2), rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art. 3 comma 2). In più, nel novellato articolo 119, pur essendo scomparso l’esplicito riferimento al Meridione, 38 si percepisce ancora l’esistenza di una “questione meridionale” 39 che affiora nelle disposizioni che istituiscono un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art.119, co.3) e che prevedono la destinazione di risorse aggiuntive, ovvero l’effettuazione di interventi speciali per «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona» in favore di determinate regioni (ed altri enti locali). Il giudizio sulla traduzione di questi principi da parte del legislatore del 2009 è controverso: alcuni hanno avanzato osservazioni negative per eccesso di concessioni al Sud. Il fondo perequativo e, soprattutto, gli interventi straordinari sono stati interpretati come una modalità per reintrodurre surrettiziamente forme di assistenzialismo, 40 accolte con sfavore anche perché di tipo Federalismo, in Enciclopedia giuridica Treccani, XV, Roma, 2007. 38 Che era invece presente nella vecchia formulazione (comma 4). Successivamente alla chiusura della Cassa per il Mezzogiorno, l’interesse per i problemi specifici del Sud è andato scemando, riflettendo una tendenza a negare l’esistenza della questione meridionale. 39 Quanto meno come speculare alla emersione di una antitetica “questione settentrionale” ed alla rivolta fiscale del Nord, cfr. L. RONCHETTI, Federalismo fiscale: il futuro della riforma e lo stato attuale della giurisprudenza costituzionale, in www.costituzionalismo.it, 2 novembre 2009, p. 2. 40 In realtà, si tratta di valutazioni espresse da parte della corrente politica che ha maggiormente esercitato pressioni per l’attuazione del federalismo fiscale, fomentata da alcuni recenti scritti che hanno accentuato il ruolo “predatorio” delle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali, come ad esempio il 62 Sistema fiscale ed “inclinazioni” del federalismo orizzontale. Altri hanno manifestato perplessità sulle ricadute sul piano della tenuta costituzionale della riforma con riferimento al principio di uguaglianza sostanziale espresso dall’art. 3, secondo comma: l’incoerenza dell’impianto normativo, unitamente alla individuazione di parametri obiettivi sui quali si fonderà la finanza regionale (capacità fiscale, principio di territorialità, fabbisogni standard), potrebbe alimentare un abbassamento della soglia qualiquantitativa dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 117, lett. m) (Lep), con gravi sperequazioni tra regioni più ricche e più povere. 41 Un giudizio in linea generale favorevole alla attuazione dei principi costituzionali operata dalla riforma è, invece, espresso da quanti, pur sospendendo la valutazione definitiva al completamento della attuazione della delega legislativa, hanno posto in evidenza gli aspetti positivi ed innovativi di quest’ultima: in primo luogo, l’aver “sbloccato” la portata normativa dell’art. 119; 42 in secondo luogo, l’aver agganciato le modalità di attuazione del federalismo fiscale a parametri oggettivi come quello della territorialità, della capacità fiscale e del costo/fabbisogno standard, distraendolo dal soggettivo e deficitario riferimento alla spesa storica; last but not least (essendo, invece, un aspetto visceralmente connesso all’impatto che il federalismo fiscale potrà avere sulle regioni meridionali), l’aver accentuato il legame tra potere impositivo e responsabilità politica, 43 espresso nel principio “no representation without taxation”, 44 l’inverso logico della massima che aveva ispirato la rivoluzione americana. saggio di L. RICOLFI, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Milano, Guerini e Associati, 2010. 41 Cfr. FERRARA, A proposito del federalismo fiscale, cit., p. 5. 42 Come si era già avuto modo di sottolineare, cfr. supra, nota 29. 43 Ad esempio F. BASSANINI, Una riforma difficile (ma necessaria): il federalismo fiscale alla prova della sua attuazione, in «Aspenia», 49, giugno 2010, p. 5 e ss.; e R. NANIA, La questione del “federalismo fiscale tra principi costituzionali ed avvio del percorso attuativo, in www.federalismi.it, p. 6. Entrambi gli autori non mancano, però, di sottolineare alcuni profili di vulnerabilità della riforma, contenuti sia nella legge di delegazione, che nei decreti attuativi. 44 Tra i tanti che sottolineano l’importanza di questo aspetto della riforma cfr. soltanto D’ATENA, Il sistema delle autonomie territoriali dopo la legge sul federalismo fiscale, cit., p. 8. 63 Maurizia Pierri Al di là di qualunque valutazione di merito sulla “bontà” della riforma, è necessario ricordare che le disposizioni introdotte dalla riforma del Titolo V trovano una chiave di lettura privilegiata nei principi costituzionali poc'anzi richiamati: sempre alla luce di quei principi, devono essere valutate le prospettive evolutive del processo di federalizzazione intrapreso, del quale il sistema fiscale è, al tempo stesso, uno strumento da calibrare ed un sintomo da analizzare con attenzione e senza pregiudizi ideologici. 64 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 65-84 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p65 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Giuseppe Patisso Dall'asiento ai codes noirs. I tentativi di normativizzazione della schiavitù (sec. XV-XVIII) Abstract: Between the XV and XVII century in the American colonies there was an influx of forced slave labor from Africa. Portugal, France, Spain and England were the protagonists of this slave trade or triangular trade fueled by the cultivation of sugar cane and due to the extinction of Amerindian populations. In these areas the need to regulate legally the lives of slaves produced a particular legislation: the black codes. In this work is analyzed and compared the origin of this legislation, starting from the Spanish asientos up to the French code noir, the Americans black codes and the Caroline codigo, a collection of rules about the slaves, but it never entered into force. The paper focuses on a particular profile of the history of human rights in the modern age that will have its effect until the middle of the twentieth century. Keywords: Slavery; Black Codes; Human Rights. Da Spartaco a Toussaint Louverture 1 (ma solo per citare alcune tra le figure più rappresentative), la rivolta verso il sistema schiavista ha rappresentato una costante nelle società che avevano basato la loro economia, la loro ricchezza e il loro sviluppo su una forza lavoro senza diritti, acquistabile su un mercato sempre più attento a soddisfare la domanda dei grandi proprietari terrieri e delle Compagnie delle Indie europee. I luoghi dove milioni di esseri umani venivano “importati”, a partire dal XVI secolo, erano le grandi isole delle Antille, l’America spagnola, inglese e francese. Erano i luoghi dove cresceva la canna da 1 Sulla rivolta degli schiavi ad Haiti, capeggiata da François-DominiqueToussaint, detto Toussaint Louverture, si vedano: C.L.R. JAMES, I giacobini neri: la prima rivolta contro l’uomo bianco, Milano, Feltrinelli, 1968; A. FOIX, Toussaint Louverture, Paris, Gallimard, 2007. Giuseppe Patisso zucchero, la cui coltivazione, raccolta e lavorazione per ottenerne il dolce prodotto abbisognava di braccia robuste, di uomini forti, visto che gli esili indios autoctoni, in pochi anni, si erano pressoché estinti. 2 Ma le nuove società che si vennero a formare, con la presenza di un cospicuo numero di neri, abbisognavano di regole certe, di un nuovo tipo di legislazione che regolamentasse l’acquisto, la vendita, la vita (e la morte) di un sempre crescente numero di schiavi nelle colonie d’oltremare e, nel contempo, prevenisse e punisse ogni forma di insubordinazione, soffocando, di fatto, sul nascere ogni tentativo di rivolta. E la nascita di una serie di provvedimenti legislativi, come i cosiddetti cosiddetti codes noir, risponderà a tale necessità, nella Louisiana (dove i francesi erano presenti sin dal 1608), così come negli altri territori della Nuova Francia. Ma i codici neri non furono le prime forme di “regolamentazione normativa” relativa al sistema schiavista, in quanto, già all’inizio del XVI secolo, fu introdotto l’asiento de negro, 3 una sorta di accordo tra la corona spagnola e un privato o un altro potere sovrano, che prevedeva il sostanziale monopolio della fornitura di schiavi africani per le colonie spagnole in America. L’appaltatore, chiamato asentista, accettava di versare alla Corona una certa somma di denaro e in cambio poteva vendere in regime di monopolio un certo numero stabilito di schiavi, donne e uomini, nei mercati americani. 4 Già a partire dal 1501, furono emanati i primi provvedimenti relativi agli schiavi, che venivano deportati soprattutto nell’isola di Hispaniola, dove scoppiò una delle prime rivolte che portò il governatore Ovando ad istituire un sistema poliziesco che rintracciasse gli schiavi fuggiaschi. Le prime forme di legislazione nel Nuovo Mondo, tuttavia, non erano solo rivolte agli 2 Cfr. M. LIVI BACCI, Conquista. La distruzione degli indios americani, Bologna, Il Mulino, 2005. 3 «Los asientos, caracteristicos de los suministros alimenticios en el municipio medieval, se extendieron a América en la Edad Moderna, alcanzando a gran número de campos comerciales e productivos. Especial importancia revistió elasiento de negros, que en el sigloXVIII se convirtió en pieza significativa de las relaciones internacionale de la Monarquía». M. ARTOLA, dirigido por, Asiento, in Enciclopedia de Historia de España, tomo V, Madrid, Espasa, 1991, pp. 89-90. 4 Cfr. ibid., p. 90. 66 Dall'asiento ai codes noirs schiavi africani, ma venivano estese anche a mori, ebrei, eretici, i quali non potevano, ufficialmente, mettere piede nelle colonie spagnole in America. Peraltro, anche nello stesso preambulo del Codice nero del 1685 è esplicitato il divieto a ebrei o protestanti di risiedere nella Nuova Francia. Sicuramente la coltivazione e la commercializzazione dello zucchero furono tra le principali cause dell'aumento esponenziale degli schiavi neri nelle coltivazioni del Nuovo Mondo. Il commercio di questo prodotto non ebbe ripercussioni solo sugli amerindi e la popolazione dell'Africa occidentale, ma anche sulla divisione del potere tra Spagna, Francia ed Inghilterra, ben consapevoli che chi avesse dominato il commercio dello zucchero sarebbe stata anche la nazione dominatrice dei traffici nell'Oceano Atlantico. A gestire questi giochi di potere erano i proprietari delle grandi piantagioni di zucchero ed i negrieri, che, attraverso il loro potere economico, influenzavano quello politico per legittimare ed ottenere migliori condizioni giuridiche per i loro traffici. Nel Medioevo, lo zucchero di canna arrivava in Europa direttamente dal Medio Oriente, e anche dalla Persia e dall’India, che furono i paesi dove, con tutta probabilità, le tecniche di raffinazione vennero inventate. Dopo la conquista araba, il bacino del Mediterraneo rimase per diversi secoli il centro di produzione dello zucchero consumato in Nord Africa, nel Medio Oriente ed in Europa. Mantenne questo ruolo sino alla fine del XVI secolo, allorché lo zucchero proveniente dalle colonie del Nuovo Mondo divenne dominante. A quell’epoca, però, era ormai diventato una sostanza familiare in Europa. La produzione si spostò inizialmente dal Mediterraneo alle isole atlantiche della Spagna e del Portogallo, in particolare a Madeira, alle Canarie e Sao Tomé; questa fu, però, una fase di breve durata che terminò con la crescita dell’industria zuccheriera americana. 5 La diffusione, nel bacino mediterraneo, della canna da zucchero e della tecnologia richiesta dalla sua coltivazione e trasformazione fu ostacolata essenzialmente dai tassi di piovosità e dalle variazioni climatiche di tale regione. Infatti, la canna da zucchero è un frutto tropicale che ha un ciclo di coltivazione lungo anche più di dodici mesi e richiede grandi 5 Cfr. A.H.R. DE OLIVEIRA MARQUES – M. SOARES, Histoire du Portugal et de son empire colonial, Paris, Karthala Editions, 1998, pp. 262-271. 67 Giuseppe Patisso quantità di acqua e lavoro. Quando lo zucchero americano incominciò ad invadere i mercati europei, questo fu un fattore che giocò un ruolo sfavorevole per l’industria zuccheriera mediterranea. La produzione dello zucchero non fu soltanto una impresa difficile dal punto di vista tecnico, ma anche dal punto di vista del reperimento e dell’uso della forza lavoro. 6 Guerre e pestilenze, con il declino della popolazione ad esse connesso, danneggiarono pesantemente l’industria dello zucchero a Creta ed a Cipro nel tardo Medioevo, un'industria che richiedeva grandi quantità di manodopera al punto che, dopo la Morte Nera, fu proprio il bisogno di compensare, con l’uso intensivo di schiavi, le grandi perdite demografiche dovute alla peste che diede il via alla relazione tra zucchero e schiavitù. La canna da zucchero fu portata nel Nuovo Mondo da Cristoforo Colombo durante il viaggio del 1493 dalle Canarie spagnole. La prima canna americana fu piantata nel possedimento spagnolo di Santo Domingo e fu da lì che, all’incirca nel 1516, partì il primo carico di zucchero diretto in Europa. L’industria saccarifera di Santo Domingo utilizzava il lavoro di schiavi africani portati lì pochi anni dopo l’arrivo della canna. Pertanto, fu la Spagna che introdusse per prima la canna, la manifattura dello zucchero, gli schiavi africani e il sistema della piantagione nelle Americhe. Però, nonostante il sostegno della madrepatria, la dovizia degli esperimenti (mulini ad acqua e a trazione animale, il lavoro degli schiavi, i processi di macinatura e bollitura necessari alla manifattura di zucchero e melassa dal succo estratto) ed i notevoli processi produttivi, la fiorente industria ispano-americana non diede alcun risultato di rilievo e ciò che non riuscirono ad ottenere gli spagnoli nelle Antille, lo raggiunsero i portoghesi in Brasile. Va, però, segnalato che il commercio degli schiavi solo per poco tempo restò appannaggio della Corona spagnola, la quale, attraverso l'asiento, appaltò questo lucroso commercio ad altre potenze europee. Infatti, nell’arco di un solo secolo, francesi, olandesi e soprattutto inglesi divennero i maggiori produttori ed esportatori di zucchero tra le due sponde dell'Atlantico. Nel XVII secolo, l’Inghilterra fondò nel Nuovo Mondo più colonie di quanto 6 Cfr. S.W. MINTZ, Storia dello zucchero tra politica e cultura, Torino, Einaudi, 1990, pp. 34-47. 68 Dall'asiento ai codes noirs fecero Olanda e Francia, importando un gran numero di schiavi. E fu la potenza che con maggiore sollecitudine creò un sistema di piantagioni, il cui prodotto più importante per diversi secoli fu lo zucchero. In un primo tempo, gli interessi commerciali britannici mirarono tanto al rifornimento del mercato nazionale, quanto alla ricerca di compratori stranieri, un obiettivo perseguito in alleanza con i portoghesi. 7 In un momento successivo, però, gli obiettivi commerciali inglesi mutarono, in quanto il mercato interno fu privilegiato nei confronti di quello esterno. A questo punto, le fasi finali della raffinazione venivano ormai eseguite in impianti inglesi. Questa vicenda indica, da un lato, le tappe dell’espansione di un impero, mentre, dall’altro, segna l’inglobamento nella cultura inglese del consumo di zucchero, che divenne da quel momento in poi una sorta di usanza nazionale. Insieme al tè, lo zucchero arrivò a definire il carattere nazionale inglese. Il depauperamento antropico provocato dalla tratta degli schiavi non solo provocò una mutilazione delle società africane, ma anche un notevole danno economico. Intorno al 1650, infatti, i commerci dei mercati della costa occidentale dell'Africa avevano sostituito la stragrande maggioranza dei beni, sia agricoli che artigianali, con gli uomini. I mercanti africani erano pagati per gli schiavi che vendevano, ma il loro compenso era di natura improduttiva, in quanto tutto ciò che veniva ricavato erano cianfrusaglie ed armi da guerra, fino ad arrivare ai cauri. Di fronte ad una richiesta di schiavi sempre più dilagante, le già misere attività autoctone si impoverirono o caddero in rovina. 8 Esisteva, dunque, un motore, quello economico, che implementava la tratta degli schiavi. E se lo zucchero rivestiva, almeno in un primo momento, un’importanza fondamentale, in seguito anche altri prodotti come il cotone e il caffé faranno sviluppare a livello globale un sistema di produzione che in Francia sarà chiamato l’economia della schiavitù coloniale. 9 La tratta degli schiavi neri non fu praticata solo dai francesi. In 7 Cfr. E. VILA VILAR, Hispano-América y el comercio de esclavos. Los asientos portugueses, Siviglia, Escuela de Estudios Hispano-Americanos, 1977. 8 Cfr. V.R. SILVÉRIO, por, História Geral da África. África do século XVI ao XVIII, vol. V, Brasília, Bethwell Allan Ogot, Unesco 2010, pp. 124-128. 9 Cfr. F. CÉLIMÈNE – A. LEGRIS, sous la direction de, L’économie de l’esclavage colonial, Paris, CNRS Editions, 2002. 69 Giuseppe Patisso Africa, già in periodo pre-islamico, egiziani, romani, arabi, «transportaient les esclaves de la vallée du Nil, et en particulier de la Nubie, ma l'absence de données a rendu impossible de définir l'importance de ce commerce, en particulier avant la diffusion de l'Islam». 10 A partire dal VII secolo, il commercio di uomini assume proporzioni sempre più vaste e articolate: gli schiavi si spostano dall'Africa all'Asia, all'Europa, verso il Mar Rosso e l'Oceano Indiano. 11 Ancor prima che portoghesi, spagnoli, inglesi, francesi e olandesi implementassero, tra XVI e XVIII secolo, la tratta atlantica degli schiavi neri verso le colonie europee delle Americhe, per impiegarli nelle piantagioni di cotone e canna da zucchero, 12 gli italiani, già nel XV secolo, si dedicarono a questo tipo di commerci. Nel momento in cui il traffico di schiavi verso l'est del mondo si sgonfiò, ma ancora non si affacciò prepotentemente quello verso ovest, un personaggio come Antonio di Noli, un capitano genovese che intendeva occuparsi della coltivazione della canna da zucchero nelle isole di Capo Verde, ottenne, nel 1460, dal re del Portogallo, l'autorizzazione all'importazione di schiavi neri. Ed inoltre, tra il 1489 e il 1497, il fiorentino Cesare de' Barchi vendette sulla piazza di Siviglia circa duemila schiavi provenienti da alcune regioni della Guinea, dove, nello scalo di Santiago, ivi 10 M.R. TURANO – F. DEGLI ATTI, Les traites négrières, in Pour une histoire de l’Afrique (sous la direction de M.R. TURANO – P. VANDEPITTE), Lecce, Argo, 2003, p. 145. 11 Sull’argomento si vedano, tra gli altri, i lavori di A. PICCIONI, In catene: storia della tratta degli schiavi, Scandicci, La Nuova Italia, 1991; J. READER, Africa. Biografia di un continente, Milano, Mondadori, 2001; O.P. GRENOUILLEAU, La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, Bologna, Il Mulino, 2006; M. GORDON, Slavery in the Arab World, New York, New Amsterdam, 1989; P. MANNING, Slavery and African Life: Occidental, Oriental and African Slave Trades, Cambridge, Cambridge University Press, 1990; G. PIETROSTEFANI, La tratta atlantica: genocidio e sortilegio, Milano, Jaca Book, 2000; F. RENAULT – S. DAGET, Les traites négrières en Afrique, Paris, Karthala, 1985; TURANO – DEGLI ATTI, Les traites négrières, cit., pp. 145-166; S. DAGET, sous la direction de, De la traite a l'esclavage. Actes du Colloque international sur la traite des Noirs, Paris-Nantes, Société française d'histoire d'outre-mer, 1989. 12 Cfr. MINTZ, Storia dello zucchero, cit. 70 Dall'asiento ai codes noirs fondato, la famiglia Barchi deteneva una concessione. 13 Se la storiografia internazionale ha dedicato ampio spazio al ruolo svolto da figure come Cristoforo Colombo, Alvise Cadamosto, Amerigo Vespucci o Antoniotto Usodimare relativamente alle esplorazioni e alle scoperte, ben poca attenzione ha prestato al ruolo che ebbero mercanti e banchieri italiani nel fornire tecnologia e capitali che consentirono al Portogallo di fondare un impero commerciale dal Pacifico alle coste del Brasile e dell'Africa. Fu, comunque, tra il XVI e XVIII secolo che si conobbe la massima diffusione del commercio di schiavi neri, che, dalle coste africane, venivano ammassati sulle navi negriere per essere poi venduti sui mercati di Haiti, Cuba, Brasile, Santo Domingo (solo per citare alcuni dei luoghi in cui era più diffuso questo tipo di commercio). Già dagli inizi del XVI secolo, la manodopera era fornita dagli schiavi africani, che, seppur in numero esiguo rispetto agli anni a venire, contribuirono a far crescere questo tipo di coltivazione. Se i risultati ottenuti dall'industria saccarifera spagnola furono inferiori a quelli ottenuti poi dai portoghesi, va comunque sottolineato il carattere pionieristico di tale iniziativa, che vide l'utilizzo sempre maggiore di schiavi neri nel momento in cui la popolazione indigena iniziò a declinare vertiginosamente. Mentre nel corso della colonizzazione delle Americhe, gli spagnoli (ed in parte i portoghesi) puntarono sulla ricerca ed estrazione di metalli preziosi, i loro concorrenti nord-europei incentrarono le loro attività sul commercio e la produzione di beni di consumo e tra questi i prodotti delle piantagioni come zucchero, cotone, indaco ed in seguito anche caffè. Francesi e inglesi, a partire dalla metà del XVII secolo, divennero i maggiori esportatori e produttori di zucchero del mondo occidentale. 14 Tali fiorenti commerci attirarono nelle colonie francesi d'oltremare mercanti e faccendieri, che fecero dello sfruttamento delle piantagioni la loro primaria attività economica. D'altronde, «la production et le dévelopment des cultures tropicales dans les colonies d'Amérique se réalisent dans l'intérêt exclusif de la France et correspondent à des principes généraux conforme au mercantilisme, principes qui précisent que les colonies ne sont créées que pour l'utilité 13 14 Cfr. GRENOUILLEAU, La tratta degli schiavi, cit., pp. 38-44. Cfr. MINTZ, Storia dello zucchero, cit., pp. 52-55. 71 Giuseppe Patisso exclusive de la métropole». 15 Con l'ampliamento delle terre coltivate, crebbe anche la richiesta di manodopera da parte dei latifondisti, soddisfatta in gran parte dal massiccio afflusso di schiavi assicurato dalle navi negriere, che si rifornivano dalle piazzeforti portoghesi situate lungo tutta la costa nord-occidentale dell'Africa, nonché nel golfo di Guinea, conosciuto anche come "golfo degli schiavi". Peraltro, nel XVI secolo, gli spagnoli abbandonarono le loro iniziative nei Caraibi, preferendo impegnarsi nei territori più vasti e ricchi dell’America centrale e meridionale, in quanto erano stati scoperti copiosi giacimenti di metalli preziosi in Messico e in Perù. Ma anche in questi territori il crollo demografico (e, dunque, la disponibilità di manodopera) fu poderoso: si valuta che, dopo la sconfitta degli Aztechi per opera di Hernan Cortès nel 1521, la popolazione messicana crollò da oltre 15 milioni a circa 700 mila unità. Nella regione inca, la popolazione passò da 9 milioni a 600 mila unità. La massiccia flessione indusse i coloni spagnoli, e in seguito anche le altre potenze europee impegnate nella colonizzazione, ad acquistare un numero crescente di schiavi africani. Nel Messico, gli schiavi africani furono impiegati, come in Perù, in vari tipi di lavoro: nelle fattorie, nelle case private, nell’esercito. Se l’argento fornì agli spagnoli le risorse necessarie a deportare gli schiavi africani nelle Americhe, per i portoghesi in Brasile ciò avvenne grazie alla canna da zucchero; nel 1575, i piantatori brasiliani producevano un volume di zucchero che raggiungeva le 130 tonnellate annue. Nel corso del primo secolo, della tratta i portoghesi conservarono il monopolio del traffico atlantico, ma il commercio marittimo portoghese e l’industria saccarifera brasiliana non potevano vincere la sempre più agguerrita concorrenza da parte di inglesi, francesi e olandesi, il cui inserimento nel mercato portò ad una enorme diffusione l’uso degli schiavi africani, in tutti gli impieghi e le colture redditizie, ivi comprese quelle del cotone e del tabacco. La firma del Trattato di Utrecht, e la conseguente fine della guerra di successione, segnò anche la ratifica di un Asiento de esclavos (Asiento 15 F. CELIMENE – A. LEGRIS, L’economie coloniale des Antilles françaises au temps de l’ésclavage, in L’économie de l’esclavage coloniale, cit., p. 128; J. MEYER, Des origines à 1763, in C.R. AGERON, sous la direction de, Histoire de la France coloniale, vol. I, Des origines à 1914, Paris, Armand Colin, 1991. 72 Dall'asiento ai codes noirs ajustado entre las dos Majestades Católica y Británica sobre encargarse la Compañía de Inglaterra de la introducción de esclavos negros en la América Española por tiempo de treinta años), 16 firmato, nel marzo del 1723, da Inghilterra e Spagna, col quale tutti i privilegi, che fino ad allora erano stati appannaggio della Spagna relativamente al commercio degli schiavi, passavano agli inglesi per un periodo di trent'anni. Da questo momento in poi, l'Inghilterra divenne la principale protagonista del commercio degli schiavi, superando in questo “affare” i francesi e gli olandesi che, sostanzialmente, iniziarono a perdere posizioni economico-commerciali nel Nuovo Mondo. Questo avveniva poiché il modo migliore per poter accedere al mercato ispano-americano era sicuramente quello di contrattare un asiento con la Spagna. A gestire il reclutamento e l’approvvigionamento degli uomini furono diverse compagnie commerciali fino alla creazione, nel 1672 da parte della Corona, della Royal African Company, che deteneva il monopolio schiavile. 17 Nelle colonie americane, la schiavitù coinvolse maggiormente il Sud, perché caratterizzato da grandi piantagioni di tabacco: Virginia, Maryland, Carolina del Nord, mentre in Georgia e Carolina del Sud prevaleva la coltivazione di riso. Ma anche nel Nord, in Massachussetts e Connecticut, benché non esistesse l’economia di piantagione, gli schiavi svolgevano perlopiù attività di servizio domestico o erano impiegati nell’artigianato. Una forte presenza di schiavi si registrò a New York, ex colonia olandese (New Amsterdam), passata agli inglesi nel 1667. La presenza degli stessi schiavi crebbe enormemente dagli anni Ottanta del Seicento e nel corso del Settecento, seppur in maniera diversa nelle 13 colonie. Anche i francesi si insediarono nei Caraibi e centrale in ciò fu il ruolo svolto dalla Compagnie des Indes Occidentales (1664) ad opera del ministro Colbert. 18 Persino la Danimarca in un breve periodo si impiantò nelle isole di Saint Thomas e Saint Croix, per l’esportazione dello zucchero di canna. Francesi e inglesi, dunque, soppiantarono olandesi e portoghesi e 16 Á. JARA, Fuentes para la historia del trabajo en el Reino de Chile, Santiago de Chile, Andres Bello, 1957, pp. 28-45. 17 K. MORGAN, Slavery and the British Empire: From Africa to America, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 56-61. 18 Cfr. Compagnie de commerce, in F. BLUCHE, sous la direction de, Dictionnaire du Grand Siècle, Paris, Fayard, 2005, pp. 371-372. 73 Giuseppe Patisso la rivalità tra le due potenze fu posta in gioco proprio con tale commercio, culminata con la guerra dei Sette Anni (1756-1763). Dal '500 all’800 la tratta si organizzò intorno a tre itinerari che coprivano sia il tratto che partiva dall’Europa, sia quello che dalle Americhe andava in Africa e sia quello che partiva dall’Africa stessa, dove un gruppo di protagonisti attivi, i négriers noirs, si occupava di reclutare schiavi tra le proprie popolazioni. La definizione di “commercio triangolare” fa riferimento alla tratta del Nord Atlantico, la più cospicua, ma esistevano almeno altri due percorsi: la tratta luso-brasiliana 19 e la tratta indiana, 20 quest’ultima basata sulle relazioni con il Madagascar. I principali porti europei negrieri erano collocati sull’Atlantico: Liverpool (il più proficuo), Londra, Bristol, Bordeaux, Nantes, Le Havre, La Rochelle, Amsterdam, Rotterdam. Le zone più coinvolte dell’Africa furono il Golfo di Guinea, la Costa d’Oro, il Golfo di Benin e quello di Biafra. 21 Destinatari erano le Antille (Cuba, Santo Domingo, Giamaica) e il Brasile, che accolse quasi l’80% degli schiavi giunti nel Nuovo Mondo. In America del Nord, basi furono Chesapeake, Charleston e New Orleans. Le percentuali medie di profitto oscillano tra 5-10% e non appaiono elevate, ma, esaminando i singoli viaggi, si dimostrano variazioni enormi: dalla perdita totale del carico a guadagni che raggiungevano anche il 150%. Ponendo una sintesi, si può affermare che tratta e schiavitù furono tra i fattori dello sviluppo economico occidentale: esse contribuirono a spiegare, in termini marxisti, la fase dell’accumulazione originaria di capitale, investito in seguito nella rivoluzione industriale. Poi, alla tratta erano legate molteplici attività locali come la costruzione ed armamento delle navi, il commercio dei 19 Avviata dal 1550 nel Sud Atlantico e gestita autonomamente da brasiliani dopo l’indipendenza (1822), collegava direttamente senza passaggio il Brasile all’Africa: i prodotti del Brasile venivano scambiati con schiavi o con avorio, rivenduto poi ai portoghesi. 20 Le strade di questo commercio partivano spesso dal Brasile per toccare le basi dell’Africa occidentale e raggiungere l’Africa orientale. Tra questi, non mancavano gli schiavi emancipati, insediati in Africa da più generazioni, che gestivano essi stessi i traffici nei circuiti interni al continente. 21 Attuali Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Gabon, Congo, per circa l’80%, ma anche dalle coste nord degli attuali Senegal, Gambia, GuineaBissau e Sierra Leone. 74 Dall'asiento ai codes noirs prodotti coloniali, un sistema bancario e assicurativo organizzato. Le variazioni nei ricavi dalla tratta dipendevano da molteplici eventi, come i conflitti bellici, il middle passage, 22 le rivolte e le repressioni a bordo. Nonostante queste fasi di caduta, la tratta mostra una progressiva ascesa durante l’età moderna: si passò globalmente dai circa 19.000 trasporti annuali del 1680 ai 90.000 del 1790 ai 33.000 del 1860. Si tratta, in ogni caso, di uno dei più grandi spostamenti forzati di esseri umani della storia: una vera deportazione di massa. Per concludere e verificare su dove venissero investite le somme guadagnate attraverso la compravendita di schiavi, non sembrerà casuale che la Gran Bretagna, prima potenza negriera del Settecento, abbia dato vita alla rivoluzione industriale. Non mancarono, come vedremo, intere legislazioni volte a istituzionalizzare la pratica: i codici neri o slaves codes, che regolamentavano l’esistenza dei neri, schiavi e liberi, dei mulatti, degli zambos (nati da unioni tra neri e indios), ma che imponevano norme pure ai bianchi. Al 1667 risale il primo intervento legislativo del parlamento londinese, che riconobbe la liceità della schiavitù africana nelle colonie. 23 Il primo slaves code fu emanato in Virginia, nel 1705, e rimase in vigore fino all’Ottocento. Man mano tutte le colonie definirono, così, lo status giuridico dello schiavo, dichiarato perlopiù chattel property, bene mobile commerciabile. Nel corso del Settecento, dunque, la schiavitù era diventata progressivamente una istituzione fondamentale per l’economia sudista. Si passò dai circa 600.000 schiavi del Settecento ai 4 milioni del 1860. In Brasile e nei Caraibi, ove la popolazione schiavile raggiunse l’85% del totale, prese piede il fenomeno dei marronage, ossia la fuga in massa dalle piantagioni, anche se raggiungere la frontiera non era facile a causa dell’azione dei 22 “Passaggio di mezzo”, la traversata dell’Atlantico che durava dei mesi e comportava alti tassi di mortalità. Cause di morte per gli schiavi e per i membri dell’equipaggio erano malattie gastrointestinali, febbri e, soprattutto, lo scorbuto, legato alla carenza di vitamina C, contenuta in cibi freschi che non erano disponibili lungo le traversate (a bordo c’erano solo legumi secchi, riso, mais e manioca). 23 Si tratta dell’Act to Regulate Negroes on British Plantations, 1667. Cfr. J.P. RODRIGUEZ, ed., Slavery in the United States: A Social, Political, and Historical Encyclopedia, vol. II, Santa Barbara, CA, Abc-Clio, 2007, pp. 89-91. 75 Giuseppe Patisso cacciatori di schiavi. 24 Il Code noir francese, così come il Codigo negro carolino 25 (di Carlo III), adattati ed estesi ognuno alle proprie colonie d’oltreoceano, regolamentavano la sfera religiosa, lo status e l’eventuale affrancamento degli schiavi. Anche riguardo la schiavitù nell’Europa del Settecento, si provvide a consolidare una legislazione volta a regolamentare la loro condizione giuridica, soprattutto in Francia, dove venne messo in crisi il principio secondo cui il suolo francese rendeva liberi, ed anche in Inghilterra, che era stata da sempre contraria alla schiavitù in madrepatria, ma ne era radicalmente stata pervasa. 26 Prima del Codice carolino, tra i diversi provvedimenti legislativi che verranno adottati, o che si tenterà di adottare, per regolare l’afflusso e la vita degli schiavi vi è anche l’Ordenanzas de la Mesta de 1574 (in 83 capitoli), la quale contiene disposizioni che stabiliscono il controllo degli schiavi (non solo neri) nei lavori della terra e il comportamento che dovevano osservare. Tra i vari provvedimenti era contemplato che: «Que ningún español ni mestizo que sirviere a cualquier dueño de estancia, ni ningún negro, ni morisco pueda tener hierro suyo con que hierre ganado para sí [...]». 27 Oppure, che «ningún indio, ni mulato, ni negro, ni mestizo que haya sido vaquero que esté en pueblo de indios de los comarcanos a las dichas estancias de ganados, o alguna de ellas, no pueda tener lanza, ni dexaterradera de ninguna suerte ni manera que sea, so pena de veinte pesos de minas [...]». 28 Inoltre, veniva affermato che «los mayordomos y criados que hubieren servido y cometido delitos, castíguense vendiendo el castigo 24 La Northwest Ordinance del 1787 riconobbe ai padroni il diritto di inseguire gli schiavi anche nel Nord, per ricondurli nelle piantagioni in nome della tutela della proprietà. 25 È il Codigo de legislacion para el gobierno moral, politico y economico de los negros de la isla Espanola, 1783. Cfr. J.A. SACO, Historia de la esclavitud de la raza africana en Nuevo Mundo, Barcelona, Imprenta de Jaime Jepús, 1879. 26 Lo testimoniano i moltissimi annunci di compravendita di schiavi sulla stampa dell’epoca, sia in Inghilterra che in Francia. 27 P. MUNGUÍA – J. PATRICIA, Derecho indiano para esclavos, negros y castas. Integración, control y estructura estamental, en «Memoria y Sociedad», VII, 15, 2003, p. 200. 28 Ibid. 76 Dall'asiento ai codes noirs dellos y que sirvan al mismo dueño». 29 Era, ancora, regolamentata la proprietà di alcuni particolari animali, come i cavalli, e, a tal proposito, veniva previsto che «ningunos mestizos, indios, negros, mulatos no tengan caballo proprio». 30 Il cosiddetto Código negro carolino è chiamato in questo modo in quanto redatto sotto il regno Carlo III di Borbone. 31 Il Codice, non appena emanato dal sovrano, fu inviato al Consejo de Indias per il suo esame e la sua approvazione; esso restò, in realtà, inapplicato, anche se, pare, ispirò la Cedola Reale del 31 maggio del 1789, relativa alla questione degli schiavi, ma che non ebbe seguito a causa della resistenza di coloro che volevano mantenere la condizione servile dei neri nelle Antille e, soprattutto, a Cuba e a Puerto Rico. Il código carolino si configura come una ricompilazione di antiche ordinanze su neri, mulatti e liberti e risulta essere stato compilato sul modello del code noir francese. Il testo è formato da trentasette capitoli, divisi in vari commi. Ma, ancor prima del Codice carolino, le colonie spagnole iniziarono a dotarsi di strumenti legislativi, che avevano come oggetto proprio la questione degli schiavi. Il 6 gennaio del 1522, il viceré delle Indie, Diego Colon Y Muñiz, emanò, in nome del re di Spagna Carlo I, delle norme, denominate Ordenanzas de los Negros, che constavano di ventitrè disposizioni rivolte non solo a regolamentare la vita degli schiavi neri nelle colonie, ma anche quella degli altri schiavi (compresi alcuni bianchi). 32 Nella colonia di Santo Domingo 33 furono diverse le 29 Ibid. Ibid. 31 Si veda J. MALAGON BARCELO, Código negro carolino (1784) o código negro español, Santo Domingo, Ediciones de Taller, 1974. 32 Cfr. ARCHIVIO GENERAL DE INDIAS [d'ora in avanti A.G.I.], Patronato 295, n. 92. 33 Cfr. “Las leyes de Indias contra los esclavos fugitivos, pronuncian la pena del azote y de los grillos, esposas o cadenas. Los negros no pueden ausentarse sin un permiso escrito de sus amos; si ellos golpean a un blanco, pueden ser condenados a la pena de muerte y el porte de armas les está prohibido; pero esas leyes están muy descuidadas en Santo Domingo; lo que no tiene lugar con aquella que ordena que las Audiencias Reales oigan y hagan justicia a los esclavos que reclaman la libertad, pues éstas no permiten que los amos maltraten a los esclavos”, in M.L.E. MOREAU DE SAINT-MÉRY, Descripción de 30 77 Giuseppe Patisso ordinanze emanate che contemplavano anche la questione degli schiavi e ciò si verificò in un arco temporale che va dal 1528 al 1547 fino al 1768. 34 Non c’è dubbio che il Codice carolino nacque dall’Illuminismo spagnolo e dal riformismo borbonico, ma non trovò mai applicazione a Hispaniola. Scrive Américo Moreta Castillo: «El Código Negro Carolino nunca fue Derecho Positivo en la Isla Española, pero sus disposiciones se basaron en aspectos de la realidad, y con el mismo se trataron de corregir situaciones en la convivencia de blancos, negros, mulatos, esclavos y libertos en la colonia española más antigua del Nuevo Mundo, pero donde hubo características muy peculiares». 35 Un Codice che, invece, fu applicato appieno nelle colonie americane, e nella fattispecie in quelle francesi, è il cosiddetto Code noir. Promulgato da Luigi XIV nel 1685, esso rappresenta la massima espressione della legislazione schiavista tra XVII e XVIII secolo. È un testo giuridico fondamentale nella regolamentazione della schiavitù dei neri nelle terre francesi d'oltreoceano come la Guyana, le Antille e la Louisiana, quest'ultima colonia nordamericana, avamposto chiave per l'espansione e i rapporti commerciali verso settentrione. 36 Nel preambolo dell'editto si afferma: «Louis, par la grace de Dieu roi de France & de Navarre: A tous, présents & à venir, salut. Comme nous devons également nos soins à tous les peuples que la divine providence a mis sous notre obéissance, nous avons bien voulu faire examiner en notre présence les mémoires qui nous ont été envoyées par nos Officiers de nos îles de l’Amérique, par lesquels ayant été informés du besoin qu’ils ont de notre autorité & de notre justice pour y maintenir la discipline de l’Eglise catholique, apostolique & romaine, pour y régler ce qui concerne l’état & la qualité des esclaves dans nos dites îles, et désirant y pourvoir & leur faire connaître qu’encore qu’ils habitent des climats la Parte Española de la Isla de Santo Domingo. Barcelona, Gráficas M. Pareja, 1976, pp. 91-94. 34 Si veda C. LARRAZÁBAL BLANCO, Los negros y la esclavitud en Santo Domingo, Santo Domingo, Julio D. Postigo y Hijos Editores, 1975, pp. 110 ss. 35 A. MORETA CASTILLO, Aspectos históricos y jurídicos del Código negro carolino, in «Clío – Órgano de la Academia Dominicana de la Historia», LXXVII, 176, Juliodiciembre de 2008, p. 47. 36 G. HAVARD – C. VIDAL, Histoire de l’Amérique française, Paris, Flammarion, 2003, p. 477; J. PRITCHARD, In Search of Empire: The French in the Americas, 1670–1730, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, pp. 313-333. 78 Dall'asiento ai codes noirs infiniment éloignés de notre séjour ordinaire, nous leur sommes toujours présent, non seulement par l’étendue de notre puissance, mais encore par la promptitude de notre application à les secourir dans leurs nécessités. A ces causes, de l’avis de notre Conseil, & de notre certaine science, pleine puissance & autorité royale, nous avons dit, statué et ordonné, disons, 37 statuons et ordonnons, voulons & nous plaît ce qui ensuit». La redazione del Code Noir iniziò nel 1681, quando Jean Baptiste Colbert, segretario di Stato e della Marina francese, ordinò, previa autorizzazione del sovrano, di redigerlo. 38 Deceduto Colbert, fu il figlio, Jean-Baptiste Colbert, Marquis de Seignelay, a portare avanti l'opera di codificazione del padre, terminata due anni più tardi grazie anche alla collaborazione dei redattori Charles de Courbon, conte di Blenac, (gouverneurs et lieutenants généraux des îles d'Amériques per il re di Francia tra il giugno del 1684 e il febbraio del 1691) e Jean-Baptiste Patoulet, il quale, come segretario del governatore della “Nuova Francia”, Jean Talon, 39 aveva potuto apprendere e regolamentare i metodi del commercio triangolare nelle nuove colonie. Il Code Noir del 1685 è composto da sessanta articoli che regolamentano la vita, la morte, l'acquisto, la vendita, l'affrancamento e la religione degli schiavi. È sentita, da parte delle autorità francesi d'oltremare, la volontà di diffondere presso questi ultimi la religione della Chiesa cattolica, apostolica e romana e, allo stesso tempo, di impedire alle altre fedi di 37 Code Noir, in Requeil d’edits, declarations et arrets de sa Majeste, Paris, Libraires Associez, 1744. 38 Cfr. R. BLACKBURN, The Making of New World Slavery: From the Baroque to the Modern, 1492-1800, London-New York, Verso, 1997, pp. 290-292. 39 Originario di Châlons-su-Marna in Champagne, Jean Talon fa i suoi studi a Parigi, al collegio di Clermont, diretto dai gesuiti, ed occupa poi importanti posizioni nell’amministrazione militare fino ad essere nominato, nel 1630, dal cardinale Richelieu a capo del Consiglio del re Luigi XIII e del suo principale ministro. Il suo impegno è indirizzato a ristabilire e ad imporre ovunque l’autorità del sovrano di fronte agli ultimi sussulti di un potere feudale ormai in declino. Fu governatore nelle colonie canadesi della “Nuova Francia” e, sotto suo diretto impulso, fu avviato il commercio triangolare tra il Canada, le Antille e la Francia. Cfr. T. CHAPAIS, The Great Intendant: A Chronicle of Jean Talon in Canada 1665-1672, G.M. WRONG – H.H. LANGTON, eds., Whitefish, Kessinger Publishing, 2004, pp. 4-5. 79 Giuseppe Patisso poter attecchire. Risulta interessante notare come fosse proibito alle fedi riformate e non ortodosse diffondersi nelle colonie francesi d’oltremare alla stessa stregua della religione ebraica 40 (e qui si apre un aspetto importante che sarà oggetto delle mie ricerche). Possiamo dividere il Code Noir in sei diverse parti. La prima, che contempla gli articoli che vanno dal I al XIV, si ordinava alle autorità d'oltremare di cacciare gli ebrei da quei territori in ottemperanza alla Lettera di Patente di Luigi XIII del 23 aprile 1615; si proibiva ogni altra fede che non fosse quella cattolica romana, alla quale dovevano essere convertiti e battezzati gli schiavi (il battesimo risulta essere più sistematico nei paesi dell'Illinois, soprattutto per la presenza attiva dei gesuiti); si obbligava il rispetto della domenica e delle altre feste religiose cattoliche attraverso la totale astensione dal lavoro. Ma è anche affrontata le legislazione relativa ai matrimoni tra gli stessi schiavi appartenenti ad un’unica piantagione, tra due schiavi di piantagioni diverse o tra schiave e padroni. 41 La seconda parte di articoli (XV-XXI) regolava la vita degli schiavi nel quotidiano, ribadendo che essi non erano in alcun modo proprietari del loro corpo e che era proibito loro portare armi offensive o grossi bastoni, appartenere a padroni diversi o vendere e detenere ogni prodotto senza l'espresso consenso dei loro padroni. Una terza parte di articoli (XXII-XXIX) regolamentavano il sostentamento degli schiavi da parte del padrone, il quale era tenuto a fornire ad ogni schiavo due abiti di tela l'anno, farina di manioca, e provvedere al fabbisogno degli schiavi, concedendo loro di poter lavorare alcuni giorni della settimana per conto proprio. Nell'art. XXVI, 40 Delle problematiche relative alla presenza degli ebrei nel Nuovo Mondo, in parte visto come un nuova terra promessa, si veda G. IURLANO, Sion in America. Idee, progetti, movimenti per uno Stato ebraico (1654-1917), Firenze, Le Lettere, 2004. 41 È necessario sottolineare, inserendosi nella diversa prospettiva, dichiaratamente razzista, del Code Noir del 1724, che vi è una modifica a riguardo, riportata all’inizio dell’art. VI del Codice aggiornato, secondo la quale si proibisce ai sudditi bianchi dell’uno e dell’altro sesso di contrarre matrimonio con i neri, pena una punizione o un’ammenda comminata arbitrariamente proibendo in maniera categorica a qualsiasi curato, sacerdote, missionario, secolare o regolare di celebrare il matrimonio (art. XI). 80 Dall'asiento ai codes noirs lo schiavo denutrito e maltrattato ingiustamente dal padrone aveva il diritto di rivolgersi al procuratore coloniale per far valere i suoi “diritti” e perseguire i padroni. Per la prima volta compariva nel Codice uno strumento giuridico di difesa dello schiavo. La realtà, tuttavia, era ben diversa: non sussistevano le condizioni minime affinché fosse fatta giustizia, anche perché non venivano considerati crimini tutti quei trattamenti che oggi definiremmo “torture”. Una sorta di quarta parte del Codice è costituita dagli articoli che vanno dal XXX al XXXVII. Tali articoli precludevano agli schiavi ogni forma di ribellione: essi non potevano agire giuridicamente, né protestare; in particolar modo, gli articoli che vanno dal XXXIII al XXXV, contemplavano persino l'uso della pena di morte per gli schiavi (anche in condizione di libertà) colpevoli di aver colpito il proprio padrone o i componenti della sua famiglia, 42 le persone libere, 43 o di aver rubato cavalli, muli, buoi, mucche. 44 Per i furti, ritenuti meno gravi, di montoni, pollame, capre, zucchero, manioca, piselli o altri legumi era prevista la punizione a colpi di frustate e il marchio a fuoco sulla spalla col simbolo del giglio. Gli articoli che vanno dal XXXVIII al XLIII delineavano la pena per lo schiavo che non si adeguasse e che trasgredisse. Le autorità intervenivano nel mutilare, amputare, uccidere, oppure perdonare. La fuga di uno schiavo andava punita e la punizione era commisurata al tempo passato dal momento in cui era fuggito. Se la “latitanza” durava più di due mesi, gli si poteva tagliare il garretto, mentre la successiva punizione consisteva nella pena di morte. 45 Erano previste pene in natura nei confronti degli schiavi che avessero dato rifugio ad un 42 «L’Esclave qui aura frappé son Maître, ou la Femme de son Maître, sa Maîtresse, ou leurs enfans, avec contusion de sang, ou au visage, sera puni de mort». Art. XXXIII de Code Noir, in Requeil d’edits, cit., p. 92. 43 «Et quant aux excès et voies de fait, qui seront commis par les Esclaves, contre les personnes libres, voulons qu’ils soient sévérement punis, même de mort s’il y échet». Art. XXXIV, ibid. 44 «Les vols qualifiés, même ceux des chevaux, cavales, mulets, boeufs et vaches qui auront été faits par les esclaves, ou par les affranchis, seront punis de peines afflictives, même de mort si le cas le requiert». Art. XXXV, ibid., pp. 9293. 45 Cfr. ibid. 81 Giuseppe Patisso fuggitivo: erano condannati a pagare al padrone dello schiavo 300 libbre di zucchero per ogni giorno in cui era stato nascosto. Era, inoltre, previsto un risarcimento in denaro al padrone che aveva denunciato il suo schiavo, se quest'ultimo fosse stato condannato a morte. Gli articoli che compongono l’ultima parte del Codice (la sesta) delineano lo schiavo alla stessa stregua di un oggetto trasferibile, di cui occorreva fissare il prezzo. Egli non era né un animale, né un persona, ma solo merce. Fissare dei parametri precisi nella vendita ed acquisto di tale merce avrebbe evitato ai bianchi ogni sorta di controversia in occasione di transazioni finanziarie. Già l'articolo XLIV dichiarava gli schiavi “beni mobili”, che potevano entrare nelle colonie senza dar luogo ad ipoteche e ad altri diritti feudali o signorili; nell'articolo seguente si specificava che le autorità, tuttavia, non intendevano privare i sudditi della possibilità di precisare che gli schiavi appartenevano a loro, ai loro familiari, nonché ai loro discendenti «ainsi qu'il se pratique pour les sommes de deniers & autres choses mobiliaires». 46 Per qualsiasi questione relativa al sequestro degli schiavi per omesso pagamento dei debiti, la loro condizione andava equiparata a quella degli altri beni mobili, prevedendo solo alcune eccezioni: «Ne pourront être saisis et vendus séparément le Mari & la Femme & leurs enfans impubères, s'ils sont tous sous la puissance d'un même Maître» 47 e, per questo, ogni sequestro o vendita, effettuati senza tener conto di quanto sopra enunciato, andavano considerati nulli. Era proibito – in linea generale - il sequestro per debiti degli schiavi tra i 14 ed i 60 anni, impiegati nella lavorazione dell'indaco o negli zuccherifici, e gli articoli che vanno dal XLVIII al LIII definivano questioni relative ai modi e ai tempi del sequestro degli zuccherifici comprensivi degli schiavi che vi lavoravano; dell'appartenenza dei figli degli schiavi nati durante il periodo del sequestro; della presenza o meno su di essi di privilegi, ipoteche, diritti feudali e signorili. Di seguito, e fino al LVII articolo, si ingiungeva a chiunque avesse in affidamento degli schiavi di trattarli come avrebbe fatto un buon padre di famiglia, si stabilivano le regole per l'affrancamento e per l'esercizio dello stesso. Una sorta di avvertimento era riservato agli schiavi affrancati, i quali, seppur 46 47 82 Art. XLV, ibid., p. 95. Art. XLVII, ibid., p. 96. Dall'asiento ai codes noirs “liberi”, dovevano continuare ad avere un “particolare rispetto” nei confronti dei loro antichi padroni, delle loro vedove e figli. Se l'eventuale ingiuria nei loro confronti era considerata estremamente grave – e per questo la punizione andava commisurata alla gravità del reato – lo stesso articolo riteneva gli affrancati liberi e dispensati «envers eux de toutes autres charges, services, & droits utiles que leurs anciens Maîtres voudroient prétendre, tant sur leurs personnes, que sur leurs biens, & successions, en qualité de Patrons». 48 Agli affrancati (LIX articolo) erano accordati gli stessi diritti, immunità e privilegi goduti dagli individui nati liberi e, inoltre, vi era un accenno di umanitarismo nel momento in cui si voleva che la libertà acquisita dallo schiavo producesse per loro e per i loro beni «les mêmes effets que le bonheur de la liberté naturelle cause à nos autres Sujets». 49 L'ultimo articolo del Codice, il LX, nel primo comma contemplava la destinazione di un terzo delle somme ricavate dalle confische e dalle ammende all'ospedale dell'isola, mentre nel secondo comma si davano disposizioni alle autorità della Martinica, di Guadalupe e San Cristoforo affinchè il Code Noir fosse letto, pubblicato, registrato e rispettato nella sua interezza, in quanto, nelle intenzioni dei legislatori, doveva sostituire tutte le regole e le consuetudini fino ad allora in vigore. In questi termini si chiude il Codice che riporta le indicazioni di rito, consistenti nel luogo e nella data di presentazione, nonché nelle firme apposte sul documento: «DONNÉ à Versailles, au mois de Mars, l'an de grace mil six cens quatre-vingt-cinq, & de notre Règne le quarantedeuxiéme. Signé, LOUIS. Et plus bas: Par le Roy, COLBERT. Visa, LE TELLIER. Et scellé du Grand Sceau de Cire verte en lacs de Soye verte & rouge». 50 Resta aperta storiograficamente una dettagliata analisi circa le differenze tra il code del 1685 e quello del 1724. Quest’ultima versione, aggiornata da Jean-Frederic Phelypeaux de Maurepas, 51 modificò la stessa prospettiva dalla quale si guardava al tema della schiavitù: «Nella seconda versione del Code Noir, decretata nel 1724 48 Art. LIII, ibid., p. 98. Ibid. 50 Le Code noir ou Edit du Roi, cit. 51 Cfr. A. CASTALDO, sous la direction de, Code Noirs. De l’esclavage aux abolitions, Paris, Dalloz, 2006, pp. 2-3. 49 83 Giuseppe Patisso per la Louisiana, la componente razziale della schiavitù appare in modo più esplicito: il sintagma “schiavo negro” vi appare, infatti, nel preambolo, ed il termine “bianco” si utilizzerà a più riprese. Dove la distinzione operativa opponeva nel testo del 1685 gli uomini liberi agli schiavi, si accompagna qui un'altra distinzione tra bianchi e neri». 52 In tutte le colonie francesi, l'applicazione del Codice nero fu, tuttavia, limitata e ciò non era raro che avvenisse, soprattutto se non corrispondeva agli interessi economici locali: «Les planteurs, avec la complicité passive des autorités locales et de la justice royale, ne retinrent du Code Noir que ce qui leur convenait». 53 Nella bassa Louisiana, l'azione congiunta tra schiavi e padroni portò ad un'autonomia normativa che andava oltre le direttive della Corona. 52 53 84 Ibid. HAVARD – VIDAL, Histoire de l’Amérique française, cit., p. 477. Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 85-98 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p85 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Alessandro Isoni Farewell to the European Community: The Lisbon Treaty and the conceptual shifts of a sui generis public law experience Abstract: After a quick look at some of the new provisions introduced by the Lisbon Treaty, the article aims to bring to light some of the legal and ideological implications related to the decision of erasing all references to the term “Community” from the Lisbon Treaty. Starting from an etymological analysis of the term “Community”, the research explores how the decision to give such a name to the first successful experiments of European integration in 1951 and in 1957 was, on the one hand, a cultural legacy of the Thirties and Forties and, on the other hand, necessary in order to achieve some political goals. In line with this, it will be possible to understand how the term «Community», quite unusual in the context of international organizations, allowed for more opportunities than the term “Union”, which seems, prima facie, to embody the old federalist dream of the United States of Europe. Keywords European Community; European Union; Lisbon Treaty. 1. From European Community to European Union. An inconsequential shift? On 29 October 2004, the Treaty establishing a Constitution for Europe was signed in Rome. It was considered by all the observers as the most important step towards the accomplishment of the European integration. Issued after an original constituent process, the new European Constitution contained a lot of new measures, like the juridical personality of the European Union and the introduction of identity symbols, like the European flag and anthem. 1 Among a wide set of institutional changes, in the new 1 On this point see, ex multis, C.H. CHURCH – D. PHINNEMORE, Understanding the European Constitution: An Introduction to the EU Constitutional Treaty, London, Alessandro Isoni Constitution for the first time in over fifty years didn’t appear the term “Community”, substituted with the term European Union. It was a considerable novelty that was unanimously evaluated as a great stride forward in the process that had begun in Maastricht in 1992. Unfortunately, we know that the Constitution for the Europe was overruled by the French and Dutch referenda, blocking the European integration process in a subsidiary track. 2 It was only three years after, the 13th of December 2007, that in Lisbon was signed a new Treaty, less advanced in regard to the previous one, but the best result that was possible to obtain after the Euroshock of the Constitution failure. 3 However, the Lisbon Treaty, that among other things contains a lot of concessions in favour of the so-called Eurosceptical opinions, conserved the decision to abandon the term “Community” in favour of “European Union”, maybe because everybody considered that the term Union allows more significant advantages. 4 For a first, it eliminated the double expression “European Community/European Union”, with the result of more cohesion and intelligibility of the institutional architecture of the European building, that before was possible to explain only addressing to quite bizarre images, i.e. the Greek temple. 5 Second, the term “Union” is apparently closer to the old federalist dream aiming to create the United States of Europe, following Routledge, 2006; J. ZILLER, The European Constitution, The Hague, Kluwer Law International, 2005. 2 The rough path that eventually led to the failed ratification of the European Constitution is reproduced by A. DUFF, The Struggle for Europe’s Constitution, London, The Federal Trust for Education and Research, 2006 and by D. CURTIN – ALFRED E. KELLERMANN – S. BLOCKMANS, eds., The EU Constitution: The Best Way Forward?, The Hague, TMC Asser Press, 2005. 3 The main novelties of the new European Treaty are examined by S. GRILLER – J. ZILLER, eds., The Lisbon Treaty: EU Constitutionalism without a Constitutional Treaty, Wien, Springer-Verlag, 2008. 4 As a matter of fact, there is only one point in the preamble of the Treaty where is possible to find the term “community”, with the new European constituents pay tribute to the European integration started by the Communities in the Fifties of the Twentieth century. 5 On the Maastricht Treaty see, among the others, R. CORBETT, The Treaty of Maastricht: From Conception to Ratification, London, Longman, 1995; A. DUFF – J. PINDER – R. PRICE, Maastricht and Beyond: Building the European Union, London, Routledge, 1994. 86 Farewell to the European Community the example of the United States of America, where is used the term “Union” as synonym to define themselves. 6 So, it seems that the term "Union" is more adapt to our times, while the term “Community” represents an old world, that was characterised both by an international imprinting of the Treaty and by a cryptic functioning of the European institutions, considered remote by the citizens. 7 In this line, we would thank the High Contracting Parties for this decision, because with the term “Union” they are also going to solve the «democratic deficit» of Europe. 8 Notwithstanding, an apparent neutral linguistic operation, conceived in order to achieve a greater attractiveness of the European integration process, in our opinion hides a more important meaning. In the next paragraphs, we’ll search for explaining the etymological origin of the term “Community”, and then we’ll see as the decision to erase this term from the Lisbon Treaty represents, in a certain way, a regress in the integration process. 9 2. Communitas In the last century, the studies around the “Community” as political and sociological concept have been very successful. Since the seminal Max Weber’s masterpiece Economy and Society, with a part precisely entitled Community, the political science has meditated for long on this simultaneously old and modern way to organize human societies. 10 6 On the federalist ideology about Europe, see W. LIPGENS, ed., A History of European Integration, vol. I, The Formation of the European Unity Movement, Oxford, Clarendon Press, 1982, and S. PISTONE, ed., I movimenti per l’Unità europea 1945-1954, Milano, Jaca Book, 1992. 7 On this point see, among others, M.T. BITSCH – W. LOTH – R. POIDEVIN, eds., Institutions européennes et identités européennes, Brussels, Bruylant, 1998. 8 On the main features emerged during the European constituent process, see M. KRZYZANOWSKI – F. OBERHUBER, (Un)Doing Europe: Discourses and Practices of Negotiating the EU Constitution, Brussels, Peter Lang, 2007. 9 On the meaning of symbols – like flags and anthems – in the construction of a European identity, see the book edited by L. PASSERINI, Figures of Europe: Images and Myths of Europe, Brussels, Peter Lang, 2003. 10 The reference is to the famous works by M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft: die Wirtschaft und die gesellschaftlichen Ordnungen und die Mächte. Nachlaß, t. 1, Gemeinschaften, Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 2001, and F. TÖNNIES, 87 Alessandro Isoni Obviously, in this occasion we won’t dwell long on this point, while our attention will be devoted to the semantic meaning of the term “Community”. As often happens, also this term has a Latin root: in fact, from the term “Communitas” derive the English “community”, the French “communauté”, the Italian “comunità”, the Spanish “comunidad”, while from the common Indo-European root of the Greek “koinos” derives the German adjective “gemein” and the substantive “Gemeinschaft”. 11 In this line, we can immediately appreciate that the term “Community” and its adjective “common” and “communitarian” refers to an important cleavage in the human society, i.e. mine/ours, public/private; common/individual and so on. So, we can say that “common” is everything that it’s not owned by anybody or, better, is owned by everybody. Nonetheless, in our hypothesis it’s not really important the semantic root of “Community”, but we should be very interested in the etymological analysis of the Latin “Communitas”. According to the mainstream of thought, we can say that “Communitas” is a complex term originated from the union of two other terms, i.e. “cum” and “munus”. While we know that “cum” means “with”, it’s very difficult to try to give a meaning to the term “munus”, that had a strong social characterization, and which pushes towards an idea of “must”, as it’s demonstrated by three terms strictly related to it, like “onus”, “officium” and “donum”. 12 For the first two terms it’s quite clear the meaning of “must”, while it’s very strange that this meaning is related to the last one. Why a “gift” should be a "duty"? According to the magisterial studies of Marcel Mauss on the concept of “gift”, it’s implicit that every gift needs to be repaid: once somebody has accepted a gift (a munus) is obliged (onus) to reciprocate with some good or service (officium), in an uninterrupted chain, as indicate very well the English form of the verb “to take to”. 13 In other terms, it’s a matter of a gift that you must give and that you can’t refuse to give. In this line, the gift is Gemeinschaft und Gesellschaft, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2005. 11 On this point, see E. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indoeuropéenne, Paris, Minuit, 1969, vol. I, pp. 47-90. 12 See N. ZAGAGI, A Note on ‘Munus’, ‘Munus Fungi’ in Early Latin, in «Glotta», LX, 3-4, 1982, pp. 280-281. 13 On the double meaning of the term “gift”, see M. MAUSS, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les societiès archaïques, in «Année sociologique», 1, 1923-1924, pp. 30-186 and, most recently, J. STAROBINSKI, Largesse, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1994. 88 Farewell to the European Community only the gift that you give, and not the one that you receive. Interrupting this biuniqueness, the munus don’t imply the stability of the ownership, but, on the contrary, is a loss, a pledge, or a tribute that we are obliged to pay. So, people that live together in a community have in common a duty, not an advantage; they are united not by a property, but by a duty or, better, a debt. In other words, the members of a community live in absence of something, in a way that we can calmly say that the void is the element that characterizes the essence of the community itself, obliging all subjects to search outside themselves for their identity. 14 Because of this bond shortcircuit, that forbids the repayment of the debt, is created a communitarian tie that unite people. In this way, the community would create an indissoluble link among States, or – why not? –, people going beyond the same federal (lat. foedus, agreement) scale of a pact. 3. The cultural and political roots of the concept of “European Community” After this short etymological analysis, apparently irrelevant to our common interest in the European history of the second half of the Twentieth century, a natural question comes to our mind: why, in 1951, was adopted the term “Community” to indicate the first successful experience in the European integration process? Actually, the analysis of the term “Community” has been often considered as something of not very important, while studies on European history have concentrated on the diplomatic relationships among States, on the institutional structure of the Community and on the economic and juridical integration. 15 Seldom there has been a deep reflection on the origin of the term “Community” and, above all, on the persons who decided to adopt this denomination for the coal and steel pool. We could have the impression that is a pointless question, but we are strongly convinced that the oblivion in which has fallen the origin of the term “Community” has 14 On the philosophical meaning of the term “communitas”, see the reflection of R. ESPOSITO, Communitas: The Origin and Destiny of Community, Stanford, Stanford University Press, 2010. 15 In order to have a complete state of the art about European integration history, see the work edited by W. KAISER - A. VARSORI, European Union History. Themes and Debates, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2010. 89 Alessandro Isoni political and cultural reasons, and derives from the will to hide some unavowable original sin of the European integration process. 16 In this line, we can ask for why people who participate to the Paris Conference didn’t adopt the term “Organization” or “Union”, frequently utilised in the international law jargon. To give an answer to these questions we must go back to the reflections on the search of a “third way”, that widespread along Europe and United States of America during the Thirties and the Forties of the Twentieth century. 17 In particular, the most important conceptual elaborations took place in France, where there was a paroxysmal research of an answer to the problems issued from the Great Depression. 18 It would be only a matter of an expression issued from that nebula of intellectuals and experts that, in a famous book of 1969, J.-L.- Loubet Del Bayle defined as the “nonconformistes groupes”, engaged during the years immediately before and during the Second World War in a painstaking research of a middle path between bolshevism and capitalism, in order to lead to unity and harmony the European societies, torn apart by conflicts between capital and labour. 19 In this sense, the concept of “communauté de travail” became very important, like a French declination of the Italian Fascist corporatism, with a market ruled by the State through planning measures. 20 One of the most important exponents of this variegated movement was François Perroux, whose intellectual route is perfect to explain the destiny of a lot of people that, for different reasons, devoted themselves to this 16 On this point, see M. MAZOWER, Dark Continent: Europe’s Twentieth Century, London, Allen Lane, 1998. 17 See R. FRANK, ed., Les identités européennes au XXe siècle, Paris, Publications de la Sorbonne, 2004. 18 On this point, see A. SALSANO, Ingegneri e politici. Dalla razionalizzazione alla «rivoluzione manageriale», Torino, Einaudi, 1987. 19 See J.-L. LOUBET DEL BAYLE, Les non-conformistes des années ’30, Paris, Editions du Seuil, 1969, and P.H. BAUCHARD, Les technocrates et le pouvoir, Paris, Arthaud, 1966. 20 There is a large bibliography about corporativism in Italy during the Fascist regime. On this point see, among others, A. GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 2010, and L. FRANCK, Il corporativismo e l’economia dell’Italia fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1990. The close relationships between France and Italy in experiencing corporativism are demonstrated by the works by A. SALSANO, L’altro corporativismo. Tecnocrazia e managerialismo tra le due guerre, Torino, Il Segnalibro, 2003. 90 Farewell to the European Community search. In 1938, Perroux wrote a first book, Capitalisme et communauté de travail, and, during the Vichy regime, another work entitled Communauté, where he made an innovative synthesis of German and Austrian corporatist ideas and Mounier’s personalism. In his opinion, the main goal of the community should be the collaboration between capital and labour, by means of the community itself, that he defined as a public or semi public group where are equally represented employers and workers, and with conflicts solved by the State intervention, which has also the power to fix goods and services prices instead of the free market. In this line, the State, or the Community would change its relationships with the economy, becoming an arbiter of the economic life, through the creation of a regime of “organized market”. 21 These reflections were at their height during the Vichy regime, when “Community” became a password, a concept able to mobilize people in order to realize the “National Revolution” wished by Petain. Some of the places chosen for developing these reflections were the Ecole des cadres d’Uriage and the Mont-Dore Days. 22 In particular, at Uriage were developed many reflections on the term “Community”, analyzing the subject under manifold points of view, as demonstrates the title of lessons held there. One of these seminars was held by another exponent of the “communitarian” movement, Paul Reuter, who afterwards should be one of the hidden inspirers of the Schuman plan. Reuter, like Perroux, thought that State were not able to afford the challenges of modern economy, characterized by the presence of transnational trusts and oligopolies. In this context, the only prescription for winning economic depression was to equip States with new tools, like a modern bureaucratic apparatus and a greater territorial dimension. 23 21 On the influence of these reflections in the postwar Europe, see the book edited by O. DARD – E. DESCHAMPS, Les relèves en Europe d’un après-guerre à l’autre. Racines, réseaux, projets et postérité, Brussels, Peter Lang, 2008. 22 On this point, see A. DELESTRE, Uriage, une communauté et une école dans la tormente (1940-1945), Nancy, Presses Universitaires de Nancy, 1989, and R. JOSSE, L’École des cadres d’Uriage (1940-1942), in «Revue d’histoire de la deuxième guerre mondiale», LXI, 1, 1966, pp. 49-74. On the Mont-Dore Days, see P. NICOLLE, Cinquante mois d’armistice. Vichy, 2 juillet 1940-26 août 1944; journal d’un témoin, 2 vols., Paris, André Bonne, 1947, vol. 1, pp. 148-149. 23 On this point, see A. ISONI, Planisme and “Third Way” Ideologies in the ECSC High Authority, in D. PREDA – D. PASQUINUCCI, eds., The Road Europe Travelled 91 Alessandro Isoni In this line, the reflections on the economic problems resulted in an integration conception, where each State were almost obliged to cooperate with other States, giving place to a new institutional structure, that were composed by the multiplicity of the national communities. The final goal of this communitarian and third way conceptions was the creation of a “European community”, with its federal institutions and its mutual obligations, with a delegation of some fields of sovereignty and the ultimate goal of peace among European nations. We can perfectly see how this vision, quoted by one of the report presented during the Mont-Dore Days, are the same of the Schuman plan and of the ECSC Treaty. 24 In fact, the irenic factor is always present in this description of the new “communitarian order”, conceived as a way to solve two terrible cleavages in the European societies: on one hand, the international conflicts, from which derived three wars between France and Germany in less than seventy years and, on the other hand, the class struggle, with strives between capital and labour as disruptive elements in national communities. 25 In this line, the Second World War represented the synthesis of these two cleavages, leading the European civilisation to destruction. In 1945, these reflections, issued from milieus more or less compromised with Fascism, were reverted by the Christian-Democrat political parties all over the Europe, thanks to the Mounier personalist imprinting, very close to the Church social doctrine. 26 Moreover, this switch along: The Evolution of the EEC/EU Institutions and Policies, Brussels, Peter Lang, 2010, pp. 267-279. 24 See A. COHEN, Le Plan Schuman de Paul Reuter entre Communauté nationale et Fédération européenne, in «Revue française de science politique», XLVIII, 5, 1998, pp. 645-663. 25 The long-lasting fight in order to solve the problem of European crisis in the Twentieth century is well described by CH.S. MAIER, In Search of Stability: Explorations in Historical Political Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1987. 26 On the other hand, Emmanuel Mounier had participated to the Italian-French Workshop on Corporativism held in Rome in 1935, how is demonstrated by the work of G. PARLATO, Il convegno italo-francese di studi corporativi (Roma 1935). Con il testo integrale degli atti, Roma, Fondazione Ugo Spirito, 1990. At the end of the Second World War, many of the ideas developed by Mounier were used to conceive a new organic social order. On the influence of the Christian doctrines in the European integration see, among others, PH. CHENEAUX, Une Europe Vaticane? Entre le Plan Marshall et les Traités de Rome, Bruxelles, Ciaco, 1990 and E. 92 Farewell to the European Community of corporatist themes in democratic was favoured by the spread of Keynesianism, an economic theory which was inclined to the creation of public organisation in order to expedite industrial rebuilding. Brought in Europe by the American technocrats of the Marshall plan, Keynesianism allowed both Perroux and Reuter to work without problems in the new French Fourth Republic, and Reuter managed to find the way to collaborate with Monnet before on the project of the Commissariat au Plan and, then, on the Schuman plan. 27 4. From supranationality to subsidiarity: the end of an era? In 1951, when was signed the Paris Treaty, six years were passed away since the end of the war. In this short time, we have seen as many of the ideas conceived and developed in France during the German occupation, and all oriented to find out a third way in order to eliminate the Bolshevik threat and the ghost of an economic crisis, become the pillars on which was built the new Western Europe. At the moment of the launch of the Schuman plan, a new concept comes out, so to explain the new dimension of the future European organisation: supranationality. 28 Supranationality, like community, in our opinion seems to own a particular and more advanced ethos with respect to federal, a term that was utilised as password by all the European movements. Issued from the reflections developed before and during the war in the Fascist prisons, and strictly linked to the American history, the term “federal” refers anyway to a LAMBERTS, ed., Christian Democracy in the European Union (1945-1995), Proceedings of the Leuven Colloquium, 15-18 November 1995, Leuven, Leuven University Press, 1997. 27 On the close relationships between America and Europe in the postwar period, see M.J. HOGAN, The Marshall Plan: America, Britain and the Reconstruction of Western Europe, 1947-1952, Cambridge, Cambridge University Press, 1987. 28 On this point, see E.B. HAAS, Beyond the Nation State, Stanford, Stanford University Press, 1964; N. HEATHCOTE, The Crisis of European Supranationality, in «Journal of Common Market Studies», V, 2, 1966, pp. 140-171; and J.H.H. WEILER, The Community System: The Dual Character of Supranationalism, in «Yearbook of European Law», 1, 1981, pp. 267-306. For an historical interpretation, see the book edited by W. KAISER – B. LEUCHT – M. RASMUSSEN, The History of the European Union: Origins of a Trans- and Supranational Polity 1950-1972, London, Routledge, 2009. 93 Alessandro Isoni pact (a foedus) among States, always keeping the real power to States; on the contrary, supranational is an innovative and quite peculiar way to indicate a new phenomenon in the international relations. 29 Coming back to the previous pages, in our opinion “supranational” simply seems indicate the right and only territorial dimension to face the new challenges issued by the modern capitalism, founded on oligopolies and transnational groups. 30 In other words, “supranational” is an original word to indicate a new model of integration, where the States have lost their leadership and, on the contrary, have become the real beneficiary of the international or, better, sui generis organisation, thanks overall to the irenic and supranational dimension of the Community. 31 In this line, we can say that "supranational" and “community” are two Siamese twins, since, even if unconsciously, in the meaning of “supranational” there would be the original meaning of communitas, where all the European States are debtors with each other and, at a rate of these mutual debts, are obliged to find out a dimension able to fill a “sovereignty void” through the creation of a “Community”. The “European Community”, a new constitutional space (cum-sto, i.e. I live with), where to test a new modus vivendi in the international relations, characterized by economic cooperation and peace. 32 A concept of peace that, according to the Catholic Church organicistic visions, should avoid struggles, both between capital and labour and among States, just as during the Thirties had postulated people who searched for a third way. 29 On the supremacy of the States in the European integration process, see the works of A.S. MILWARD, The Reconstruction of Western Europe, 1945-51, London, Routledge, 1984, and ID., The European Rescue of the Nation-State, London, Routledge, 1992. 30 See P. LINDSETH, Democratic Legitimacy and the Administrative Character of Supranationalism: The Example of European Community, in «Columbia Law Review», IC, 3, 1999, pp. 628-738 and P. CRAIG, The Nature of the Community: Integration, Democracy and Legitimacy, in P. CRAIG – G. DE BURCA, eds., The Evolution of EU Law, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 27-50. 31 On the novelty represented by this concept, see the reflections developed by G. THIEMEYER, Supranationalität als Novum in der Geschichte der internationalen Politik der fünfziger Jahre, in «Journal of European Integration History», IV, 2, 1998, pp. 5-21. 32 An European constitutional space is imagined by P. HÄBERLE, Per una dottrina della Costituzione come scienza della cultura, Roma, Carocci, 2001, specifically pp. 113-150. 94 Farewell to the European Community If we consider right the previous reflections on the term “Community”, we can also see how are misleading all the conceptual reconstruction of the European Communities issued by international law scholars, who say that the Community is a kind of “quality” added to States, which remain the real subjects of the international law, on the philosophical basis that a Community is a “property” of Member States or is a “substance” produced by their union. 33 But, as a matter of fact, this is a Union. 34 A Community, on the contrary, is based on the idea that we need a new representation of the reality, filling the political-institutional void created by the Second World War, when was impossible to come back to old political conception based on the predominance of States. Maybe, this was the only positive heritage of the war, with States and nationalism brought back to the right dimension. 35 As often happens, the philosophical figure of the paradox is useful to understand this strange phenomenon. “Common” is used to be identified with its contrary: it’s common everything group together the properties of everyone. People have in common their things, they are the owner of their common. Passing to the international law, we listen very often that States are the masters of the Treaties: but in this case we are out of the concept of Community issued in the Thirties and Forties. It was the direct opposite: 33 Theorists of intergovernmentalism affirm that States continue to be the centre of the European integration. For a wide range of these theories, see A. MORAVCSIK, Preference and Power in the European Community: A Liberal Intergovernmentalist Approach, in S. BULMER – A. SCOTT, eds., Economic and Political Integration in Europe: Internal Dynamics and Global Context, Cambridge, MA, Blackwell, 1994 and, of the same author, Why the European Community Strengthens the State: Domestic Politics and International Cooperation, in «Harvard University CES Working Paper Series», 52, 1994. 34 For a critical approach to the Maastricht Treaty, see J.H.H. WEILER, The Constitution of Europe: “Do the New Clothes Have an Emperor?” and Other Essays on European Integration, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 238-263. 35 Jean Monnet was one of the first persons to understand the end of nationalism and the necessity to proceed to integration among States. On the pivotal role played by Monnet in the European integration, see F. DUCHÊNE, Jean Monnet: The First International Statesman of Interdependence, New York–London, W. W. Norton and Company, 1994, and, for his relationships with US Administrations, see J. GILLINGHAM, American Monnetism and the European Coal-Steel Community in the Fifties, in «Journal of European Integration History», I, 1, 1995, pp. 21-36. 95 Alessandro Isoni States, at the end of Second World War, didn’t own anything, having lost war and demonstrated that they were a real menace for civilisation. 36 In this line, we can say that States themselves shouldn’t exist without the new European Communities, which produced inside them a lot of changes – political, economical, juridical and so on – so much as to change them out of all recognition after their membership in the Communities. 37 What is left of this? With the shift from the term “Community” to the term “Union” we can say that a world came to an end. But, what has been the reason of this shift? In our opinion, it’s very important to analyse when this shift has taken place. The first time that we have ever heard the term “Union” has been in 1992, when was signed the Maastricht Treaty. 38 This was no coincidence that the Maastricht Treaty was signed only three years after the Berlin Wall fall, ushering in a restless constituent process that has seen five Treaties signed in only fifteen years, at the average of a Treaty every three years. 39 The main reason of this unaccomplished constitutional revision is the end of the Cold War, which has fooled European States to have regained a new centrality in the world. The political defeat of the Soviet Union and the German reunification have been two signals that convinced States to start a deep power transfer from supranational to national level, with the introduction of a set of measures all referred to strengthen the role of States to Community’s disadvantage. 40 The introduction of the term “Union”, together with the subsidiarity principle and the narrow enumeration of Union competences, have ended an half-century experience that have been 36 On the reconstruction of National identities after the Second World War, see the work edited by B. STRÅTH, Myth and Memory in the Construction of Community: Historical Patterns in Europe and Beyond, Brussels, Peter Lang, 2000. 37 The main issues related to this theme are studied by J.H.H. WEILER, The External Legal Relations of Non-Unitary Actors: Mixity and the Federal Principle, in H.G. SCHERMERS – D. O’KEEFFE, eds., Mixed Agreements, Deventer, Kluwer, 1983, pp. 35-83. 38 Oppositely, the same year is utilized as a milestone by A.S. MILWARD - V. SØRENSEN, eds., The Frontier of National Sovereignty: History and Theory 19451992, London, Routledge, 1993. 39 About the European integration process from a juridical point of view, see J.H.H. WEILER, The Transformation of Europe, in ID., The Constitution of Europe, cit., pp. 10-101. 40 In this line, see A. MORAVCSIK, The Choice for Europe: Social Purpose and State Power from Messina to Maastricht, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1998. 96 Farewell to the European Community centred on two fundamental pillars: the Implied Powers theory and the functional way of integration, with its most important corollary, the spillover effect. 41 The new European Union come out from the Lisbon Treaty is inspired by the opposite concepts: the Union powers and competences are strictly listed, while has been strongly weakened the European Court of Justice’s powers to implement Implicit Powers, if these are not yet contained in the Treaty. 42 We can another time go back to the paradox figure: a Treaty born in order to rationalize the European institutional and legal structure, to deepen the European integration, also thanks to a change of name, actually “freeze” forever the integration process, unless the Member States decide to change the Treaties, with all problems that we managed to see in the last years. 43 Finally, we can calmly say that, if it is true that things correspond to names, then the shift from European Community to European Union is the most important signal that teaches us how a glorious chapter of the European integration history has ended forever. Our last consideration is that we don’t know if future will be better than past. 41 On the principle of “implied powers” see, ex multis, the essays by A. TIZZANO, Les compétences de la Communauté, in EUROPEAN COMMISSION, Trente ans de droit communautaire, in «Perspective Européennes», I, 45, 1982, pp. 49-52; CH. SASSE – H. CH. YOUROW, The Growth of Legislative Power of the European Communities, in T. SANDALOW – E. STEIN, eds., Courts and Free Markets: Perspectives from the United States and Europe, vol. II, Oxford, Oxford University Press, 1982 and, lastly, J.A. USHER, The Gradual Widening of European Community Policy on the Basis of Article 100 and 235 of the EEC Treaty, in J. SCHWARZE – H.G. SCHERMERS, eds., Structure and Dimensions of European Community Policy, Baden Baden, Nomos, 1988, pp. 25-36. 42 See P.D. MARQUARDT, Subsidiarity and Sovereignty in the European Union, in «Fordham International Law Journal», XVIII, 2, 1994, pp. 616-640 and F. RONGE, Legitimität durch Subsidiarität, Baden-Baden, Nomos, 1998. 43 To draw a balance of the European constitutional experience, see J.H.H. WEILER, Federalism without Constitutionalism: Europe’s Sonderweg, in K. NICOLAIDIS – R. HOWSE, eds., The Federal Vision: Legitimacy and Levels of Governance in the United States and the European Union, Oxford, Oxford University Press, 2001, Ch. 2. 97 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 99-130 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p99 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Francesco Martelloni Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale: i rapporti italo-balcanici in uno studio di Carlo Maranelli del 1907 Abstract: The 1907 VI Italian Geographical Congress took place at the eve of the AustroHungarian annexation of Bosnia and Herzegovina. The Balkans were a potential area of economic, political and strategic expansion – then only at the beginning – of the Kingdom of Italy, which in those times was allied and competitor of the Hapsburg Empire. The Geographer Carlo Maranelli’s (radical-democrat and soon collaborator of Salvemini) interesting report analysed the geographico-economic situation of the Eastern Adriatic seacoast and also the Italo-Austrian competition. It caught limits and potentialities of the Italian penetration into those areas, thus wishing a pacific Italo-Balkanic collaboration. But the analyses and descriptions of territories and communications, of coasts and harbours, were certainly useful also for Italian politicians and military by then involved – such as the Austrian ones – in strategic considerations and war studies in the Adriatic. The various military institutes’ involvement in the congress showed, in fact, how geography, military art and Italian expansionism were getting more and more interconnected. Keywords: Eastern Adriatic; Italian-Balkans Relations; Carlo Maranelli's study. Introduzione Il VI Congresso geografico italiano, tenutosi a Venezia alla fine del maggio 1907, vedeva, tra altre d'ampio spettro tematico, la relazione di Carlo 1 Maranelli – allora insegnava presso la Regia Scuola Superiore di 1 Carlo Maranelli (Campobasso 1876 - Napoli 1939), professore di geografia economica a Bari dal 1904 e poi, dal 1921, all'Università di Napoli, dove fondò e diresse l’Istituto di studi superiori di scienze commerciali fino al 1925, quando fu rimosso per la sua manifesta opposizione al fascismo. Formatosi alla scuola di Giuseppe Dalla Vedova, si occupò delle relazioni tra l’Italia e l’altra sponda adriatica e, soprattutto, di geografia del Mezzogiorno, con particolare riguardo alla distribuzione della popolazione. Con Gaetano Salvemini, nel 1916, scrisse il puntuale saggio La questione dell'Adriatico [cfr. G. SALVEMINI, Dalla guerra mondiale alla dittatura, 1916-1925, a cura di C. PISCHEDDA, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 285473], con cui gli autori smontavano, con rigore filologico e documentario, le tesi nazionalimperialiste italiane che auspicavano la conquista di territori adriatico-balcanici su presunte Francesco Martelloni Commercio di Bari – dal titolo: Sui rapporti economici con l’altra sponda dell’Adriatico (Dalmazia – Bosnia – Erzegovina – Montenegro – Albania – sponde adriatiche). 2 Questo contributo appariva allora – e in verità tuttora – particolarmente interessante non solo dal punto di vista scientifico, geografico-economico, ma anche, sebbene più indirettamente, politico. Né poteva mancare l'interesse dei militari per le analisi e le considerazioni lì esposte. Sottolineava, inoltre, l'attenzione della Forze armate e del ministero degli Esteri per gli studi geografici l'adesione a quel congresso (tra varie accademie, istituti, società, enti morali, riviste) anche della direzione generale degli Affari coloniali del ministero degli Esteri, dell'Istituto coloniale italiano, del Regio istituto geografico militare, del militare Comitato per le Colonie, della «Rivista marittima» (mensile della Regia Marina), della Regia scuola di guerra, della Reale Scuola macchinisti della Reale Marina. Aderiva pure l'Associazione irredentistica “Trento e Trieste”. D'altra parte, i rapporti tra gli studi geografici del tempo e l'arte militare erano lì oggetto della specifica comunicazione del tenente colonnello dello Stato maggiore, Eugenio Caputo. 3 La stessa scelta della sede veneziana – si diceva nel Bando del 1906 con cui si promuoveva il VI Congresso – rinviava alla «sua lunga storia gloriosa [e alle] tracce indelebili di una millenaria vita feconda, che può ben dirsi essere stata geografia in atto, e che noi, traendo da essa ispirazioni e auspicii, dobbiamo voler rinnovare per la fortuna e la grandezza della nuova Italia». 4 All’epoca, quella “nuova Italia” cominciava a pensarsi “più grande”: molto interessata a una crescita d'influenza politico-economica – per taluni anche d'espansione coloniale – soprattutto in Africa e nel Mediterraneo a sud, ma anche in Adriatico orientale. Appariva, infatti, già notevole e istanze risorgimentali. Diversamente, ribadisce oggi il “risorgimentalismo” delle politiche di Sonnino e Salandra negli anni del conflitto mondiale, C. GHISALBERTI, Adriatico e confine orientale dal Risorgimento alla Repubblica, Napoli, ESI, 2008, p. 86. Alcuni dei lavori di Maranelli sul Mezzogiorno sono stati ristampati e raccolti nel volume Considerazioni geografiche sulla questione meridionale, a cura di C. BARBAGALLO, G. LUZZATTO e F. MILONE, Bari, Laterza, 1946. 2 C. MARANELLI, Sui rapporti economici con l’altra sponda dell’Adriatico (Dalmazia – Bosnia – Erzegovina – Montenegro – Albania – sponde adriatiche), in Atti del VI Congresso Geografico Italiano. Adunato in Venezia dal 26 al 31 maggio 1907, Vol. I, Notizie, Documenti, Rendiconti e Relazioni, Venezia, Premiate officine grafiche C. Ferrari, 1908, pp. 145-209. 3 Cfr. E. CAPUTO, L'arte militare e l'odierno indirizzo degli studi geografici, in Atti, cit., Vol. II, pp. 183-189. 4 Bando del VI Congresso geografico italiano, Venezia 25 novembre 1906, in Atti, cit., Vol. I, p. XXXI. 100 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale crescente l’interesse italiano per l’instabile situazione geo-politica dei Balcani: per gli equilibri economici, militari e strategici del Golfo di 5 Venezia e del suo retroterra orientale. In verità, tale questione – è noto – era sensibilmente più datata: in qualche modo si era posta già in tempi preunitari quando, esplicitamente, Cesare Balbo, nel celebre Delle speranze 6 d'Italia del 1844, aveva legato la prospettiva di una confederazione italiana indipendente e di un ampliamento, auspicabilmente pacifico, del regno piemontese nel Lombardo-Veneto, come conseguenza del crollo dell'impero turco e dell'“inorientamento” (nei Balcani, appunto) dell'impero austroungarico. Il tutto all'interno del processo di allargamento planetario di una “cristianità” a primato cattolico. Poi, il Risorgimento e l'unificazione nazionale avevano seguito un altro corso e altre modalità. Dal 1882 la Triplice Alleanza aveva stabilizzato e poi consolidato i rapporti italoaustriaci. Ma tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, dal punto di vista italiano si dinamizzavano tanto lo scacchiere mediterraneo, quanto quello balcanico. L'“interesse nazionale” per le aree adriatico-orientali, però, aveva una duplice, a volte contraddittoria, motivazione: una, “neorisorgimentale”, consisteva nella prospettiva del definitivo compimento del processo di unificazione nazionale (con Trento, Trieste e Gorizia); l'altra, declinava ormai “l'interesse nazionale” in termini espansionistici e imperialistici, forte dell'accelerata industrializzazione del paese verificatasi 5 Cfr. F. CATALUCCIO, Antonio di San Giuliano e la politica estera italiana dal 1900 al 1914, Firenze, Le Monnier, 1935. Per una efficace sintesi della politica estera italiana fino al primo conflitto mondiale e del relativo dibattito storiografico, cfr. E. DECLEVA, L'Italia e la politica internazionale dal 1870 al 1914: l'ultima fra le grandi potenze, Milano, Mursia, 1974. Per più ampie ricerche sul nesso tra politica estera e interna, cfr. ID., L’incerto alleato. Ricerche sugli orientamenti internazionali dell’Italia unita, Milano, Franco Angeli, 1987; B. VIGEZZI, L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Milano, Unicopoli, 2001; G. MAMMARELLA – P. CACACE, La politica estera dell'Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, 2006. Si vedano pure i recenti saggi di O. TAMBURINI, “Oltre la foschia”. Orientalizzazione dell’Italia e percezione dell’Adriatico nel primo ventennio del Novecento; G. FERRAIOLI, La visione politica dell’Adriatico dalla fine dell’Ottocento agli esordi del fascismo, in S. TRINCHESE – F. CACCAMO, a cura di, Adriatico contemporaneo. Rotte e percezioni del mare comune tra Ottocento e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2008. 6 Cfr. C. BALBO, Delle speranze d'Italia, Capolago, Tipografia elvetica, 1844 (si veda soprattutto il capitolo X). Ma queste tesi erano già state abbozzate nel suo scritto del 1821, Considération sur le soulèvement des Grecs (inedito fino al 1913) e poi ampiamente formulate nel 1841, nei Pensieri sulla storia d'Italia, pubblicati postumi nel 1858 (cfr. G.B. SCAGLIA, Cesare Balbo. Il Risorgimento nella prospettiva storica del «progresso cristiano», Città di Castello, Studium, 1975, capitoli VII, XI, XII, XIII). 101 Francesco Martelloni tra la fine dell’Ottocento e la crisi del 1907, della positiva situazione della finanza pubblica, delle sue più complessive trasformazioni sociali e culturali. Ma per i Balcani, forse ancor più che per le “terre irredente”, Austria e Italia erano condannate – come si diceva al tempo – a essere «o alleate o nemiche». Tuttavia, la loro ormai trentennale alleanza non escludeva il manifestarsi di tensioni politiche e culturali (l’irredentismo e la reazione 7 austriaca avevano portato ai sanguinosi scontri di Innsbruck del 1903-4), di concorrenzialità economiche e marittimo-mercantili – tra i porti di Trieste, Fiume, Ragusa e Sebenico da un a parte, e Venezia, Ancona, Bari e Brindisi dall’altra. Si ravvivavano, inoltre, antagonismi, più o meno manifesti, in Montenegro e Albania; occhiute vigilanze militari per il dominio dell’Adriatico – dalle basi navali di Pola, Fiume e Cattaro o da 8 Venezia e, secondariamente, da Ancona e Brindisi. Si rafforzavano le rispettive flotte mentre, soprattutto gli austriaci, fortificavano le frontiere terrestri del Trentino o dell’Isonzo e le corredavano di una efficiente rete ferroviaria. L’Italia giolittiana, insomma, ormai più forte politicamente ed 9 economicamente all’interno, e più attiva sullo scenario internazionale grazie ai nuovi rapporti multilaterali progressivamente realizzati da Visconti Venosta, Prinetti, Tittoni e di San Giuliano, restava alleata degli imperi centrali, ma ballando quel valzer della sua politica estera – poco tollerato dal principe di Bülow – sul ponte delle moderne e armatissime corazzate dreadnoughts. E molto attenta ai destini dell'antico “Golfo di Venezia”: del “lago italiano”, come affermava una retorica propaganda variamente 7 Si vedano gli equilibrati rapporti del console italiano a Innsbruck, Caccia Dominioni, inviati al ministro Tittoni tra l'ottobre e il dicembre 1904, in I documenti diplomatici italiani, S. III: 1896-1907, v. VIII, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2007. 8 La Marina italiana invidiava le basi navali e le migliori condizioni strategiche dell'impero: «L’Austria-Ungheria gode nell’Adriatico di una posizione privilegiata rispetto all’Italia. Infatti, mentre questa non ha in quel mare che una debole base navale, Venezia, situata all’estremo nord del lungo litorale indifeso, e che può facilmente essere bombardata dal mare, l’Austria con Pola facilmente difendibile [...] con l’arcipelago della Dalmazia, con Cattaro [...] inespugnabile, possiede basi navali di superiorità strategica incontestabile». Confronto fra la flotta italiana e quella austro-ungarica, gennaio 1904, Archivio Ufficio Storico della Marina – Roma – c. 185, f. 3. 9 Cfr. G. SPADOLINI, Il mondo di Giolitti, Firenze, Le Monnier, 1970; E. GENTILE, L'Italia giolittiana 1899-1914, Bologna, Il Mulino, 1990 (1977). 102 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale 10 nazionalista. Infatti, più delle colonie d’Eritrea e Somalia e accanto agli “interessi nazionali” tripolini – che l’Italia aveva cercato di tutelare, da una parte, con le intese mediterranee con Francia e Gran Bretagna tra il 1900 e il 1902, e, dall’altra, attraverso patti con gli alleati austro-tedeschi, stretti in occasione dei rinnovi della Triplice Alleanza – ormai prioritari apparivano gli interessi italiani adriatico-balcanici. Ciò valeva per le élites liberali del regno e, variamente, anche per le forze politiche d’opposizione. Interessava gli operatori economici, la diplomazia e le forze armate – soprattutto la Regia Marina che lamentava la scarsa difendibilità delle basse e continue coste adriatico-occidentali per l'assenza di buoni porti, a fronte di una evidente superiorità orografica, logistico-strategica, austriaca. In particolare, gli interessi nazionali adriatici, se apparivano in qualche modo formalmente tutelati dalle clausole del trattato triplicista (difesa dello status quo balcanico o compensi in caso di modifiche, anche temporanee, in favore di una delle due alleate) fin dal primo rinnovo del 1887, e poi dalle specifiche intese austro-italiane sull’Albania (strette tra Visconti Venosta e Goluchowski nel 1898 e ribadite dai loro successori), tuttavia risultavano poi esposti all’effettivo espansionismo dell’Austria-Ungheria, al suo Drang nach Osten proiettato verso Salonicco, e che doveva procedere lungo la 11 ferrovia longitudinale balcanica in via di realizzazione. Contemporaneamente, si andava riproponendo con più forza, dopo la sconfitta col Giappone del 1905, il tradizionale interesse russo – in intesa concorrenziale con la stessa Austria-Ungheria (Muerzsteg 1904) – per gli 10 Cfr. R. NASSIGH, La Marina italiana e l'Adriatico. Il potere marittimo in un teatro ristretto, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998; M. GABRIELE – G. FRIZ, La politica navale italiana dal 1885 al 1915, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1982; F. MARTELLONI, La Triplice Alleanza e l'Adriatico. Dalla convenzione navale ai piani di guerra (1900-1909), in «Ricerche Storiche», XL, 2, 2010, pp. 299-347. 11 «La Triplice Alleanza del 1882 – sintetizzerà, nel 1923, Salvemini – era un sistema rudimentale, che permetteva all’Italia appena appena di vivere senza essere aggredita e schiacciata dai suoi alleati. La Triplice Alleanza e la Intesa anglo-italiana del 1887 formavano un sistema più complesso, che assicurava all’Italia non solamente la vita, ma lo statu quo nell’Africa settentrionale e nella penisola balcanica. Nel 1902 il sistema dell’87 diventò anche più complesso, per l’intrecciarsi della nuova intesa italo-francese con la Triplice Alleanza e con la Intesa anglo-italiana. In questo sistema, la garanzia dello statu quo nella penisola balcanica è sempre mantenuta. Invece, per la Tripolitania la garanzia dello statu quo è sostituita dalla prelazione dell’Italia». G. SALVEMINI, La politica estera italiana dal 1871 al 1915, a cura di A. TORRE, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 357. Per un’analoga recente interpretazione del «sistema Prinetti del 1902», cfr. MAMMARELLA – CACACE, La politica estera dell'Italia, cit., pp. 48-52. 103 Francesco Martelloni assetti balcanici, per gli Stretti del Mar di Marmara e per i popoli slavi del Sud, che ormai ostentavano con forza crescente un variegato, conflittuale, protagonismo nazionale. Né il “grande malato” turco sembrava poter 12 garantire ancora a lungo lo status quo nei suoi possedimenti europei. La grave crisi macedone del 1903-4 l’aveva nuovamente dimostrato, alimentata com’era dai conflitti religiosi (tra cattolici, ortodossi e musulmani), dai conflitti sociali-rurali e tra clan, dagli ideali patriottici o dalle diverse ambizioni nazionalistiche, fino alle provocazioni armate di bulgari, greci e serbi. Crescevano, inoltre, anche se contraddittoriamente, le pretese autonomistiche o indipendentistiche albanesi, variamente appoggiate o strumentalizzate da italiani e austriaci con l’attivismo dei rispettivi consolati, agenti, preti e associazioni politico-culturali. I montenegrini, a loro volta, volevano accrescere il loro territorio e ambivano al porto di Durazzo. Ma a questo ambiva anche la Serbia (il “Piemonte dei Balcani”), che mirava ad un’espansione verso sud ed a un suo sbocco adriatico, se non, addirittura, ad una confederazione jugoslava. A loro volta, i rumeni avanzavano rivendicazioni territoriali tanto nei confronti dell’Ungheria (per la Transilvania), quanto dell’autonomo principato bulgaro (per Dobrugia e Silistra). La duplice monarchia asburgica, con l'instabile equilibrio tra le sue principali nazionalità (tedeschi e magiari), e tra queste e le altre componenti 13 del suo multietnico impero, in Istria e a Trieste adottava una politica filoslava e anti-italiana. Insomma, l’ampia area balcanica si prospettava nuovamente come pericoloso terreno di concorrenzialità e conflitti etnici, sociali, nazionali e internazionali. Tanto più che dietro l’Austria incombeva l'Impero guglielmino, nuova potenza industriale-militare ben presente finanziariamente e con infrastrutture nell’Impero turco. Con la ferrovia per Baghdad arrivava a minacciare, dal Golfo Persico, l’impero inglese. Contemporaneamente, cresceva l’antagonismo tedesco con la Francia repubblicana per le colonie, e, soprattutto per gli armamenti navali, con 12 Cfr. E. HOSCH, Storia dei paesi balcanici. Dalle origini ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 2005 (1998); F. GEOGEON, L’ultimo sussulto (1878-1908) e P. DUMONT – F. GEORGEON, La morte di un impero (1908-1923), in R. MANTRAN, a cura di, Storia dell’Impero ottomano, Lecce, Argo, 1999 [1989]. Sempre preziosi: L. SALVATORELLI, Storia del Novecento, Milano, Mondadori, 1980 [1964] e P. RENOUVIN, Il secolo XIX, 1871-1914. L'Europa al vertice della potenza, Firenze, Vallecchi, 1961. 13 Cfr. F. FEJTÖ, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico, Milano, Arnoldo Mondadori, 1996 [1988]. 104 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale 14 l’Inghilterra di Edoardo VII. Non casualmente, proprio dal 1907 si avviava quell’intesa anglo-russa per la Persia e l’Afghanistan che, insieme all’Entente Cordiale, concorreva a distruggere definitivamente la politica di equilibrio europeo realizzata da Bismarck. Aumentavano così sensibilmente – nonostante le rassicurazioni formali del nuovo pacifismo europeo – le occasioni ed i pericoli di un grande conflitto tra le potenze dei due schieramenti internazionali. Se in Africa era il Marocco a costituire il pomo della discordia (appena sopita ad Algeciras) tra le potenze europee, in Europa lo erano i Balcani. In tale scenario, il convegno dei geografi italiani del 1907, in sintonia con il più generale interesse politico e culturale del regno, dava il proprio contributo di conoscenza scientifica della situazione adriatico-balcanica, con una attenzione particolare ai rapporti economici con quei paesi. Tanto più che la Società geografica vedeva tra i suoi soci anche alte personalità politiche e istituzionali. Già ne era stato presidente l’importante ed attivo ex-ministro degli Affari Esteri, il marchese di San Giuliano, allora ambasciatore a Londra. Tra gli altri soci c'erano leaders quali Sonnino e Salandra. Geografia e diplomazia, infatti, da tempo interloquivano e finivano, pur nella necessaria distinzione di ruoli e competenze, con l'interagire, col muoversi spesso in sinergia. Nel suo studio, basato sulle scarse statistiche del tempo, ma arricchito da una corposa bibliografia – pubblicata lì in appendice –, Maranelli considerava rapidamente la situazione geografica delle regioni costiere centro-meridionali dell'Adriatico orientale e del loro retroterra. Si soffermava, invece, sulle differenti realtà produttive e commerciali di quei paesi, analizzando soprattutto i rapporti con l’Italia. Il geografo radiografava la situazione con obiettività, senza la boria espansionista, proto-nazionalista, che già caratterizzava buona parte della pubblicistica “adriatica” del tempo. Analizzava tanto le regioni appartenenti direttamente all’impero austro-ungarico (Dalmazia), quanto quelle controllate dalla duplice monarchia solo amministrativamente e militarmente (Bosnia ed Erzegovina). Queste ultime verranno annesse presto, nel 1908, aprendo una 15 grave crisi tra le potenze europee e negli stessi rapporti italo-austriaci. Ma 14 Cfr. W.S. CHURCHILL, Crisi mondiale e Grande Guerra 1911-1922, Vol I: 1911-1914, Milano, Il Saggiatore, 1968 [1929]; F. FISCHER, Assalto al potere mondiale. La Germania nella grande guerra, Torino, Einaudi, 1965. 15 Cfr. L. MONZALI, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Firenze, Le Lettere, 2004. 105 Francesco Martelloni la sua analisi si proiettava soprattutto sui paesi ritenuti più interessanti e promettenti dal punto di vista commerciale e politico, e da poco oggetto dell'iniziativa italiana: il Montenegro e le terre albanesi. Il primo era indipendente, ma subiva le ingerenze austriache stabilite al Congresso di Berlino del 1878; 16 le seconde sarebbero rimaste sotto sovranità turca sino 17 al 1913, al termine della seconda guerra balcanica. La Dalmazia La Dalmazia, ambita dal proto-nazionalismo italiano, ma appartenente all'impero degli Asburgo, è grande poco più del Lazio – scriveva Maranelli – e occupava kmq 12.844. Aveva allora circa 600.000 abitanti (100.000 più della Basilicata del tempo) con una densità di 46 ab. per kmq. Limitata a nord-est dalle Alpi Dinariche, ha una costa contornata di isole, distesa da Arbe a Spizza, a sud, vicino al montenegrino porto di Antivari (porto, vedremo, allora oggetto dell'interesse strategico e di interventi economici italiani). È una lunga striscia montuosa con buon clima – continuava Maranelli. Aveva avuto una bella vegetazione arborea, prima che fosse impoverita dall’uomo e sostituita, ma solo in poche zone, da una piantagione commerciale: mandorli, viti, ulivi, crisantemi. Da pochi anni poche e mediocri ferrovie la collegavano alla Bosnia-Erzegovina attraversando i confini montuosi. Ma «Zara, la capitale, non ha ancora udito 18 il fischio della vaporiera». Se Gravosa e Castelnuovo, a sud, erano collegate per ferrovia alla Bosnia, Spalato e Sebenico, invece, attendevano ancora analoghi collegamenti. «Le comunicazioni col resto dell’Austria e dell’Europa perciò si svolgono per mare, a mezzo dei piroscafi rapidi, comodi e numerosi del Lloyd, dell’Ungaro-Croata, della Ragusea, ecc. che partono quotidianamente da Trieste e da Fiume per Zara e per gli altri porti 19 dalmati». Anche grazie al proficuo interessamento del governo austriaco erano sorti numerosi centri balneari e climatici che, «insieme con le numerose guarnigioni e le squadre navali stanziate lungo la costa dalmata, 16 Cfr. V. MANTEGAZZA, Storia della guerra mondiale. Con note militari di E. Barone, Milano, Istituto editoriale italiano, 1915; P.G. CELOZZI BALDELLI, L'Italia e la crisi balcanica (1876-79), Galatina (Le), Congedo, 2000. 17 Cfr. E. MASERATI, Momenti della questione adriatica (1896-1914). Albania e Montenegro tra Austria ed Italia, S. Martino B.A. (Verona), Del Bianco, 1981. 18 MARANELLI, Sui rapporti economici con l’altra sponda dell’Adriatico, cit., p. 146. 19 Ibid. 106 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale forniscono la più importante clientela alle nostre importazioni [esportazioni 20 italiane]». Quanto all’assetto produttivo del territorio, dei 1.400 kmq resi produttivi la metà era tenuta a pascolo: prevalentemente per gli ovini. Al netto delle foreste, soltanto 210 kmq risultavano veramente coltivati: nelle piccole valli e lungo le pianure costiere, alle foci dei fiumi. Secondo Maranelli, le industrie avrebbero potuto svilupparsi facilmente in presenza di migliori collegamenti ferroviari: «Ma pelli, lane, preferiscono ancor prender la via del mare prima di essere lavorati: i minerali metalliferi della Bosnia di N.-O. rimangono ancora non sfruttati; [...] perciò le industrie 21 dalmate si riducono a ben piccola cosa e di importanza locale». Fanno eccezione la produzione tradizionale del maraschino, a Zara, e quella della polvere di crisantemo a Sebenico. Gli italiani non partecipavano all’esportazione dalla Dalmazia, ma capitali romani erano investiti nella società elettrica per la fabbricazione del carburo, una produzione che utilizzava la forza del fiume Kerba. «Purtroppo, però, una ditta italiana che possedeva la più ricca miniera d’antracite di Sevreic (Dernis) l’ha ceduta nel 1901 ad una ditta tedesca; mentre è in parte italiana la fabbrica di cementi di Spalato, esercitata dalla ditta “Zamboni, Stock e C.”». 22 Per tale scarsa capacità produttiva, commerci e pesca costituivano le principali attività economiche della Dalmazia. I pesci – puntualizzava Maranelli – risalgono da Corfù la costa orientale, per depositare le uova, fino al Quarnaro e poi ridiscendono lungo la costa adriatico-occidentale. Il pescato dalmata è di ottima qualità per la bontà delle acque; pertanto, oltre ad un’intensa attività peschereccia si è sviluppata una correlata industria alimentare-conserviera. Gli stessi pescatori italiani, tra le insistenti proteste dei locali, ma tutelati dagli accordi internazionali (del 1878, 1883 e 1906), si spingono fino ad un miglio dalle coste dalmate: «Gli italiani, infatti, esercitano la pesca con reti a strascico tirate da due barche a vela (coccia e paranza), al di qua del miglio marino e a profondità non minore di 8 metri [...], mentre i pescatori dalmato-istriani esercitano quasi esclusivamente la pesca litoranea con reti a strascico tirate da terra e con altri sistemi, perché 23 mancano di barche adatte e di personale per la pesca d’alto mare». Per Maranelli, il forte incremento dei pescherecci italiani in acque austriache 20 Ibid., p. 147. Ibid. 22 Ibid. 23 Ibid., p. 148. 21 107 Francesco Martelloni era dovuto all’innovativa introduzione di una rudimentale ghiacciaia per la conservazione del pescato. Grazie alle ghiacciaie, i pescatori potevano regolare l’offerta del pesce, i cui prezzi in continua crescita stimolavano l’armamento di altri pescherecci. A questo, però, si aggiungeva la proficua attività della scuola di pesca e acquicoltura della “Società Regionale Veneta”, che migliorava la professionalità degli operatori ittici italiani. La città di Zara, coi suoi nuclei irredentistici, vedeva la maggiore presenza di cittadini italiani: un migliaio di regnicoli, dei quali circa 350 esercitavano commerci e piccole industrie. Anche a Spalato i cinquecento regnicoli erano per lo più commercianti e marinai. Una certa presenza commerciale e industriale italiana lambiva anche Sebenico; mentre «a Ragusa i soli commercianti di erbaggi, frutta ecc. ascendono ad una ventina 24 e son tutti [pugliesi] di Giovinazzo e di Bisceglie». Però, tanto per l’analogia tra i prodotti agricoli italiani e quelli dalmati, quanto per la protezione doganale austriaca, non apparivano allora possibili grandi miglioramenti negli scambi commerciali con italo-dalmati. La Bosnia e l’Erzegovina La Dalmazia, invece, costituiva lo sbocco delle produzioni dell’entroterra della Bosnia e dell’Erzegovina allora amministrate, ma non ancora formalmente annesse, alla duplice monarchia. La sovranità apparteneva ancora al sultano ottomano. Gli austriaci, intanto, apparivano determinanti a mantenere pacifici e civili gli assetti di quelle regioni, e impegnati per il loro sviluppo economico: «Bosnia-Erzegovina, infatti, sono ormai solo di nome una provincia turca; e mediante l’occupazione austriaca che via via ha garantito l’ordine, la sicurezza e la legalità, mercé le somme ingenti spese per la messa in valore delle ricchezze naturali, con strade, ferrovie ecc., 25 sono diventate in pochi anni un paese molto progredito». L’unificazione doganale austriaca, però, rendeva quasi impossibile distinguere quanto, nei flussi commerciali, apparteneva propriamente alla Bosnia-Erzegovina. Questa regione montuosa – continuava il geografo – come tutto il retroterra della cimosa litoranea carsica dei Balcani, possiede ricche riserve di foreste 24 Ibid., p. 149. Ibid., p. 150. Sullo sviluppo economico balcanico, cfr. G. CASTELLAN, Storia dei Balcani (XIV-XX secolo), Lecce, Argo, 1999 [1991]. Mantegazza, in Storia della guerra mondiale, cit., p. 12, sottolineava la permanenza, in Bosnia-Erzegovina, del primato socio-economico dei proprietari terrieri musulmani sui contadini cristiani. 25 108 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale di querce, di faggi e di abeti, rimaste intatte sino all’occupazione austriaca del 1878 per la mancanza di vie di trasporto. Le foreste, nel 1906, ricoprivano i 2/5 di un paese grande poco più della somma di Lombardia e Veneto (kmq 51.000), ma avente una popolazione di circa 7 volte inferiore, pari a circa 1.740.000 abitanti. Bestiame e foreste costituivano le maggiori attività economiche e d’esportazione. Sui circa 96,6 milioni di corone dell’intera esportazione bosniaca – precisa Maranelli – più di 27 milioni spettano a legname, carbone e torba. Mentre assommava a 18 milioni di corone l’importo per gli animali da macello e da tiro esportati. Il maggior prodotto industriale, quello chimico, non raggiunge i 9 milioni. La presenza economica italiana appariva assolutamente irrisoria: «Lo sfruttamento delle foreste è quasi tutto in mano di capitalisti austro-ungarici e l’unica ditta 26 italiana che vi partecipi è quella del Feltrinelli di Milano». La maggior parte del legname bosniaco si dirigeva a Fiume, ma anche, lungo il corso della Narenta, a Mectovic, divenuto un nuovo emporio raggiunto da vapori marittimi e collegato a Gravosa per ferrovia: «L’Austria, con una spesa di 7-8 milioni, ha infatti reso navigabile la Narenta fino a 20 km dalla foce per vapori di 3 metri di pescante e di moderato tonnellaggio, e vapori italiani e austriaci salgono fino a Mectovic per tornare indietro carichi di legnami, o trascinando anche rimorchiati barconi [...]. I velieri risalgono il fiume più stentatamente, perché scarseggiano i rimorchiatori [...] mentre al ritorno, per la rapidità della corrente, sono costretti a far strisciare l’ancora nel fondo del fiume». 27 Per il trasporto del legname verso l’Ungheria si stava allora studiando il modo di rendere navigabile la Bosna. Trieste, intanto, mediava il commercio dei legnami lavorati per le botti: «Il commercio delle doghe da botti è quasi tutto in mano di triestini, e l’Italia acquista di tale articolo 28 quantità minori che la Francia e la Germania». Se in Dalmazia gli ovini ascendevano a 888.000 capi e i bovini a 108.200, in Bosnia-Erzegovina salivano rispettivamente a 3.231.000 capi e a 1.416.000. I dati delle esportazioni dalmato-bosniache di animali apparivano significativi: nel 1905 si esportavano circa 18.000 cavalli; 104.000 bovini; 89.000 ovini; quasi 57.000 caprini e 40.000 suini vivi o macellati. Le industrie dei prodotti animali progredivano continuamente e avevano raggiunto il sesto posto (circa 6 milioni di corone) nel paniere dei beni esportati. Si esportavano, inoltre, 2.000.000 di chili di lana e 300.000 26 MARANELLI, Sui rapporti economici con l’altra sponda dell’Adriatico, cit., p. 151. Ibid. 28 Ibid. 27 109 Francesco Martelloni pezzi di pellame. Sebbene non molto estese, progredivano anche le colture. Nel 1906, i cereali occupavano circa 650.500 ettari di cui quasi 288.000 erano destinati a granturco. Gli orti, e soprattutto i prugneti, occupavano un’area di 500 kmq. La tipica produzione di prugne, nel decennio 1894-1904, aveva raggiunto una media annuale di circa 1,8 milioni di quintali, costituendo uno dei maggiori mercati europei per le prugne secche. Ma la loro esportazione veniva ancora mediata da Vienna o da Budapest. L’amministrazione asburgica aveva ottenuto tali risultati seguendo, nelle terre del demanio bosniaco, una politica di colonizzazione. Aveva fatto insediare molte famiglie di agricoltori stranieri: 1.299 fino al 1900, soprattutto tedeschi e ungheresi, ma non mancavano italiani, olandesi e polacchi. Per la Bosnia, Maranelli prevedeva un possibile futuro industriale per la presenza di discrete risorse minerarie (giacimenti di lignite a Zenica e Tuzla e di ferro nel Nord-Ovest) e di abbondanti corsi d’acqua. L’export minerario principale della Bosnia – scriveva il geografo – era così composto: materie chimiche per circa 8,7 milioni di corone; ferro e ferracce per 7,6 milioni; olii minerali, carbone, catrame per 2,3 milioni; altri minerali per 1,3 milioni di corone. Ma si dovevano importare i prodotti industriali della metallurgia, i tessuti di lana e le pelli conciate. Dopo i cereali (importati per 18,45 milioni di corone) entravano nel paese tessuti vari, coloniali, ferro bevande, pelli, e anche animali da macello e da tiro. Nel 1905, a conferma dell'avvio di un qualche sviluppo economico, l’export complessivo bosniaco, con circa 97 milioni di corone, aveva superato l’import, pari a quasi 93 milioni, ribaltando significativamente il rapporto dei dati del commercio estero del 1889: «Non si deve negare – ribadiva il professore – che il merito principale di questo poderoso progresso spetta all’amministrazione austriaca specialmente per i sacrifici fatti per munire la Bosnia di buone vie di comunicazione [...], oggi una linea da Slav Brod a Mectovic attraversa nel 29 bel mezzo tutta la Bosnia dal confine ungherese all’Adriatico». Ma ancora molto doveva esser fatto per articolare capillarmente i rami laterali di questo asse ferroviario, soprattutto nel ricco Nord-Ovest. Sappiamo oggi che, anche con quegli investimenti, l'Austria-Ungheria cercava di legare a sé, sempre più stabilmente, la Bosnia e l'Erzegovina prima di annetterle, volendo contrastare ogni ipotesi di panslavismo balcanico o di “Grande Serbia”. 29 Ibid., p. 153. 110 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale I traffici italiani con i porti dalmati Nel 1906 – ammetteva lapidario Maranelli – l’Italia ha avuto con la 30 Dalmazia un «ben meschino commercio»: ha importato dalla Dalmazia per poco più di 2 milioni di lire, pari a 2,2 milioni di quintali di merci e 827 capi di bestiame. Ha esportato in Dalmazia soltanto per 1,7 milioni di lire per circa 360.000 quintali di beni. Il maggior acquisto fatto dall’Italia è quello del legname bosniaco: oltre 1,5 milioni di quintali. Ma importa (a Venezia e Chioggia, Ravenna, Rimini e Pesaro, Ortona e Molfetta) anche lignite e carbon fossile (circa q. 602.000) dei monti Promina. La sansa (q. 16.125) e le pietre da cemento (q. 12.600) vengono acquistate dal Meridione, soprattutto da Bari. Molto minori risultano gli altri generi importati: dal pesce secco al maraschino. Pochi anche i cavalli (792 nel 1906), le pelli e la lana. Ma i conciatori italiani, preminentemente piemontesi e napoletani, li acquistano a Trieste. Le esportazioni italiane, a causa del nuovo trattato di commercio, si erano ulteriormente ridotte, passando dagli oltre 3 milioni del 1901 a 1,8 milioni del 1906. Erano costituite prevalentemente da materiali da costruzione (mattoni, tegole pozzolane ecc.) richiesti dall’industria alberghiero-turistica e per le opere pubbliche austriache. Nel 1906, Marche e Veneto hanno esportato 257.000 quintali di tali materiali. Ma, in valore, «certamente il primo posto è occupato dai prodotti vegetali (ortaggi e frutta fresche, frutta secche, aranci, ecc.), per la maggior parte spediti dai porti meridionali italiani [...] a Zara, 31 Spalato Ragusa, ecc., per circa 27.000 quintali». Seguono poi gli zolfi (q. 24.500); la crusca (q. 23.000); le vinacce (q.11.000) e infine il fieno e la paglia (q. 5.700). Secondo Maranelli, il futuro, per i laterizi italiani, si annunciava preoccupante qualora fosse terminata la fase delle costruzioni pubbliche e private, mentre le maggiori speranze venivano riposte nei prodotti agricoli, e tra questi il “vino di lusso” che avrebbe potuto sostituire il bianco da taglio. La penetrazione economica italiana nei Balcani L’Italia cominciava a muoversi nel vicino e vicinissimo Oriente con una sua più articolata, sebbene non facile e talvolta contraddittoria, attività diplomatica, accompagnata da un complesso di iniziative economiche e 30 31 Ibid., p. 154. Ibid., p. 155. 111 Francesco Martelloni finanziarie. Naturalmente lo faceva come poteva farlo la “più piccola delle grandi potenze”, e impegnando nel suo “imperialismo minore” le sue non ridondanti risorse. «Una serie successiva di imprese italiane, o con prevalenza di capitali italiani – osservava appunto Maranelli –, hanno fatto sviluppare gl’interessi nazionali in tutta la Balcania, dal Montenegro all’Albania, alla Macedonia, alla Serbia e alla Bulgaria, a Costantinopoli ed anche nell’Asia turca, assorbendovi un complesso di capitali di circa 30 milioni. Questi anche sommati con gli altri capitali italiani impegnati da epoca più antica nella Turchia, specialmente a Costantinopoli e a Salonicco, son sempre una ben piccola cifra di fronte ai 522 milioni di lire impegnate dai tedeschi nelle ferrovie e nelle banche e in imprese industriali e ai 766 milioni francesi impegnati in eguali imprese e nei beni immobili; ma sono l’indizio del 32 nostro risveglio, la caparra del nostro progresso avvenire». Vediamo, dunque, come il geografo riassumeva le principali attività italiane fuori dal Montenegro, delle quali era principale protagonista l'imprenditorefinanziere semi-diplomatico Giuseppe Volpi di Misurata. 33 «In Macedonia la Società delle miniere d’Oriente, composta tutta da capitalisti veneziani, ha studiato ben 80 giacimenti minerari, e i suoi ingegneri conoscono perciò il paese palmo a palmo. In Serbia fin da 10 anni indietro, il comm. Volpi, anima di tutte queste imprese apriva a Nisch la prima casa d’esportazione italiana che ancora funziona. A Vranja fu aperto uno stabilimento per la trattazione del minerale di zinco e di piombo fornito dalla miniera di Mossul, presso Blagodat in Bulgaria, cui fu congiunta da una strada eseguita dalla stessa impresa, di nome bulgara, ma di capitali italiani. 32 Ibid., pp. 157-158. Cfr. S. ROMANO, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano, Bompiani, 1979. Sulle iniziative estere di Volpi e del veneto conte Foscari (in Italia aveva operato attraverso la SADE, una compagnia per l’elettrificazione, in società con Breda e Orlando), che si avviarono in Montenegro nel 1903, col redditizio monopolio, per Volpi e per la casa regnante locale, della produzione e della distribuzione del tabacco, scrive diffusamente anche il Webster. Su Volpi e i suoi soci così sintetizza: «Di fatto nel Levante operavano tre principali gruppi con interessi politici e capitalistici. Gli ‘amici’ veneziani della Banca Commerciale erano di gran lunga il nucleo più importante, giacché la loro attività comprendeva ogni genere d’impresa e si manifestava ovunque essa avesse la possibilità di una minima entratura. Il gruppo “Ansaldo” agiva solo a Costantinopoli e faceva molto affidamento sulla propria influenza nei circoli diplomatici e governativi». R.A. WEBSTER, L'imperialismo industriale italiano, 1908-1915. Studio sul prefascismo, Torino, Einaudi, 1974, p. 376. Volpi sarà destinato a svolgere un crescente ruolo finanziario e anche politico-diplomatico soprattutto dalla pace italo-turca di Losanna del 1912, e poi sotto il regime mussoliniano col breve governatorato di Tripolitania. Su Volpi in Montenegro vedi infra. 33 112 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale Italiane anche, ma genovesi, sono le iniziative di Varna e di Rustciuk. Di recente poi è sorta, anch’essa per iniziativa del Volpi, la “Società commerciale d’Oriente”, che è forse la più importante di tutte, come quella che non solo ha assorbito la “Società delle miniere d’Oriente” e dirige, o controlla le altre; ma si propone di esercitare il servizio di banca nella capitale dell’impero turco, con agenzie nei principali centri dove più attivi 34 sono divenuti i traffici italiani». Il Montenegro Il piccolo Stato montenegrino, patria della regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III, costituiva per l’Italia un’eccezione interessante rispetto al restante panorama balcanico. Qui si era infatti concentrata l’attività di penetrazione economica e d’influenza politica del regno sabaudo, nonché la stessa riflessione logistico-strategica della Regia Marina, che, da sempre alla ricerca di una sua buona base sulla costa adriatica orientale, ipotizzava la costituzione di un suo futuro punto d'appoggio nel porto di Antivari. Ma per il momento si trattava solo dell'intervento di un consorzio industrialefinanziario d'imprese private (la “Compagnia di Antivari”), perché le clausole degli accordi di Berlino (art. 29) 35 vietavano l'accesso nei porti montenegrini ad ogni nave da guerra europea, affidando a piccoli scafi austriaci il solo controllo di quelle coste. Questi vincoli, però, verranno meno in seguito all'annessione della Bosnia-Erzegovina, consentendo una più ampia effettiva discrezionalità al Montenegro e ai suoi interlocutori. Maranelli, per parte sua, alieno da ogni espansionismo imperialistico e militare, così prospettava i rapporti italo-montenegrini: «Nella muraglia difficilmente attaccabile da ogni nostra iniziativa economica sull’altra sponda dell’Adriatico, costituita a nord [dai] possessi diretti e indiretti dell’Austria, e a sud dall’inerte dominio turco, unica soluzione di continuità presenta il piccolo Montenegro (kmq 9.080 e 250.000 abitanti). Grande poco meno della Basilicata, montuoso come questa ne ha una popolazione pari quasi alla metà. [...] Presenta un particolare interesse per l’Italia, appunto come remora all’invadente Drang nach Osten dei teutoni, e come paese simpatizzante con noi per somiglianza di tradizioni e per recenti legami dinastici. Attrasse perciò più d’ogni altro paese balcanico l’attenzione degli studiosi italiani in questi ultimi tempi, e divenne il campo 34 35 MARANELLI, Sui rapporti economici con l’altra sponda dell’Adriatico, cit., p. 157. Cit. in MANTEGAZZA, Storia della guerra mondiale, cit., pp. 39-40. 113 Francesco Martelloni 36 dove più si svolse la nostra azione economica». Per ovvie ragioni si taceva lì dell'azione politico-diplomatica. Dal confronto fatto da Maranelli tra i dati 1901 e 1905 dell’import-export italo-montenegrino, risultava come l’Italia, nel 1901, avesse importato dal Montenegro per un totale di L. 116.000, balzato a L. 941.000 nel 1905, dopo un triennio di lievi incrementi, in virtù di una modifica della legislazione italiana per l’importazione della carne. Nel 1905, i cavalli costituivano l’importazione maggiore (L. 643.000), seguiti dalle vacche (L. 165.000), dalle lane lavate (L. 21.000), dagli ovini (L. 19.000), dal pesce in salamoia (L. 17.000), da legna e canne di vimini (L. 16.000), da caprini e bovi (rispettivamente L.14.000 e L. 11.000); altri animali per minori importi. Le esportazioni italiane, però, erano di gran lunga inferiori rispetto alle importazioni sebbene fossero cresciute da un totale di L. 11.000 del 1901 a L. 24.000 nel 1902, e a L. 54.000 nel 1903. Un relativo boom si era verificato nel 1904, raggiungendo L. 238.000, quando si erano iniziati i lavori per gli impianti della Compagnia di Antivari, creata da Volpi. Ma erano presto diminuite a L. 149.000 nel 1905. La voce “metalli e macchine ecc.” – spiega il geografo – è balzata, appunto, da L. 3.000 del 1901 a L. 33.000 del 1905, costituendo qui la maggior voce dell’export. Seguono con L. 32.000 i tessuti di seta e con L. 23.000 i vini e gli spiriti. La carta e i libri, con L.19.000, superano la voce “riso, farine e paste” (L. 14.000) e quella “lavori di legno, vetture, ecc.” (L. 13.000). La voce “cera” e quella “confetti, conserve e dolci” raggiungono entrambe L. 3.000, mentre a L. 2.000 si fermano “ombrelli e mercerie” e “sapone comune”. A fronte di tali dati sul commercio italo-montenegrino, l’intero import del Montenegro, nel 1905, aveva raggiunto i 4,6 milioni di lire, mentre il suo export complessivo aveva appena superato 1,7 milioni di lire. L’Austria, dunque, continuava ad essere il suo partner commerciale principale, anche se ormai si delineava una maggiore presenza economica e commerciale italiana in Montenegro. In Montenegro, inoltre, l’Italia, con le stazioni radio-telegrafiche BariAntivari aveva da poco emancipato quel paese dal vincolo austriaco del cavo telegrafico Trieste-Cattaro. Ma ben più importante appariva l’attività del sindacato veneziano per liberare i commerci italiani dai pedaggi doganali che le nostre merci dovevano pagare alla dogana austriaca del porto di Cattaro, da dove raggiungevano il Montenegro. Una naturale via alternativa di penetrazione – osserva Maranelli – è costituita dalla Bojana, 36 MARANELLI, Sui rapporti economici con l’altra sponda dell’Adriatico, cit., p. 156. 114 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale fiume che ad una delle sue foci vede il porticciolo di San Giovanni di Medua. La Bojana era aperta alla libera navigazione internazionale per il primo tratto, fino a Oboti; mentre da lì e fin dentro il lago di Scutari solo alla navigazione turca e montenegrina. Ma il porto e il fiume avevano cattive condizioni idrografiche e presentavano forti difficoltà d'attracco; inoltre, mancavano le strade sufficienti ai collegamenti con le cittadine dell’interno. Ma proprio questa situazione geografica – secondo Maranelli – aveva finito col facilitare l’iniziativa di Volpi: «Il governo del Montenegro [...] preferì attuare il progetto della costruzione d’un porto ad Antivari, ricongiunto con una ferrovia al lago di Scutari, a Vir Bazar. Ed ecco sorgere la Compagnia del porto di Antivari, interamente con capitali italiani, con personale tecnico italiano, che domanda e ottiene la costruzione del porto di Antivari e della ferrovia Antivari-Vir e la concessione della navigazione sul lago di Scutari. Il porto d’Antivari che è già in costruzione sorge in posizione felice nella rada omonima, esposto solamente a greco-maestro, per ripararlo dal quale si costruisce una diga, mentre un’altra chiuderà lo specchio d’acqua. [...] Costruita la banchina, nell’immediato entroterra sorgerà la nuova Antivari (la vecchia dista circa 5 chilometri) la cui vita dipenderà non solo dal traffico del porto, ma anche dalle industrie che pensa d’impiantare nella zona franca vastissima che il governo le ha concesso per 37 90 anni». La Compagnia stava costruendo vari approdi su tutti gli scali principali del lago e poi avrebbe costruito anche dei magazzini per lo stoccaggio delle merci. Intanto, con un servizio di carri, già cominciava a collegare il lago con l’interno. Quattro vaporetti della compagnia, ma battenti bandiera montenegrina, garantivano l’attraversamento del lago, mentre un battello più piccolo, nella buona stagione, discendeva la Bojana fino a San Giovanni di Medua. Quest’ultima concessione aveva durata sessantennale. La stessa Compagnia aveva iniziato la costruzione della ferrovia Antivari-Bar, lunga 36 chilometri, con un tunnel di m. 1.600. Però – come precisava il professore – questa ferrovia, necessaria a collegare il Montenegro all’Albania settentrionale non poteva certo costituire un’alternativa alla fondamentale ferrovia longitudinale austriaca, allora in via di realizzazione: la Saraievo-Mitrovitza-Salonicco. D'altra parte, era ormai esplicito lo scontro politico per le ferrovie balcaniche tra Austria e Germania, da una parte, e Francia, Italia, Russia e Serbia, dall'altra. Per le sue iniziali politiche di modernizzazione del paese, il governo 37 Ibid., pp. 158-159. 115 Francesco Martelloni montenegrino aveva fatto ricorso ad un prestito italiano, cosicché la società veneziana aveva ottenuto come garanzia l’affidamento del monopolio del tabacco, costituendo la “Regia cointeressata dei tabacchi” del Montenegro. In tal modo, il Montenegro – sosteneva Maranelli – emancipandosi dai vessatori incettatori turchi e albanesi, non solo garantiva nuovi proventi all’erario, ma migliorava la qualità del tabacco coltivato, rialzando le sorti della sua agricoltura. Non si poteva, però, negare che tale monopolio stesse comportando l’ostilità di ampi settori della popolazione non più autorizzata a coltivare o acquistare il tabacco liberamente: «Ma – aggiungeva Maranelli – è innegabile che la Regia ha prodotto due grandi vantaggi. Ha fatto sorgere a Podgoritza uno stabilimento industriale che occupa circa 340 operai montenegrini (300 donne e 40 uomini) [...]. Ha rialzato le sorti di ben 7.000 famiglie d’agricoltori, che attendono alla coltura del tabacco, le quali dalla Società del monopolio hanno non solo appreso, per mezzo dei campi sperimentali tenuti da coloni leccesi, il modo di coltivare razionalmente il tabacco, ma hanno anche ottenuto uno smercio sicuro, costante e a un 38 prezzo equo, del loro prodotto». E infatti era presto migliorata la qualità del prodotto, determinando in soli quattro anni una triplicazione del valore dei terreni destinati alla sua coltivazione. Non risultava, però, alcun progresso nella maggiore attività del paese: l’allevamento del bestiame, a cui venivano destinati pascoli per 456 kmq – mentre i terreni coltivati occupavano solo 326 kmq. Eppure, secondo Maranelli, un più moderno metodo di allevamento, dati gli ottimi pascoli, avrebbe potuto molto migliorarne la resa economica. Analogo discorso valeva per lo sfruttamento delle grandi ricchezze forestali così tanto carenti in Europa: «Sono due campi questi, il bestiame e il legname, che potranno essere aperti all’iniziativa italiana, non appena lo 39 stato delle comunicazioni lo permetterà». Intanto, opportuni accordi doganali avrebbero potuto da subito migliorare l’interscambio italomontenegrino: «[I] prodotti che devono costituire le basi dell’accordo commerciale fra i due paesi non possono essere per ora che il bestiame e i prodotti derivati per l’esportazione, il vino e i prodotti industriali, 40 specialmente i tessuti». Una diversa politica daziaria poteva incrementare sensibilmente l'interscambio, tanto più che le regioni meridionali italiane 38 Ibid., p. 160. Ibid., p. 162. 40 Ibid., p. 163. 39 116 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale erano povere di bestiame, mentre apparivano molto ridotti i costi del trasporto marittimo. L’Albania La relazione di Maranelli considerava più analiticamente i rapporti italo41 albanesi. Dei quattro vilayet albanesi, i due propriamente tributari dell’Adriatico erano quelli di Scutari e Jànina – questo diventerà greco dopo la seconda guerra balcanica – mentre quelli interni (Cossovo e Monastir) gravitano lungo l’asse ferroviario “austro-turco” Monastir-Salonico. I dati sui commerci di Scutari, ritenuti abbastanza attendibili, si fermavano al 1902, mentre per Jànina, grazie alle informative dell’Agenzia commerciale italiana del posto, giungevano fino al 1905. Tra 1902 e 1905, il commercio di Jànina era cresciuto del 27%, passando da 11,3 milioni di lire a 14,2 milioni. Scutari, con un incremento analogo, saliva da 9 milioni del 1902 a 11,5 del 1905. Si poteva, dunque, stimare in circa 25,5 milioni l’intero commercio dell’Albania adriatica. Una parte delle esportazioni skipetare (L. 2,5 milioni nel 1902) era costituita da pelli secche e salate (L. 550.000), lane (L. 400.000), carbone e legna da ardere (L. 325.000), uova (L. 235.000), olio e granone (entrambi L. 125.000). Un’altra parte riguardava il bestiame (L. 67.000), l’avena (L. 49.000), il pollame (L. 45.000), il tabacco (L. 20.000). Seguivano altri generi minori, fino alle tartarughe e alle corna d’animali, per importi di poche migliaia di lire. Questa esportazione era destinata per il 50% all’Austria, per il 25% all’Italia, seguite poi da Turchia, Grecia, Malta, ecc. Le pelli, come al solito, venivano acquistate dall’Italia a Trieste, dopo che misure sanitarie ne avevano impedito l’importazione diretta. Indicativi risultano alcuni dati sul movimento del porto di Durazzo nel 1904. Lì, 187 vapori e 3 velieri austro-ungarici stazzavano complessivamente t. 173.591, mentre i 104 vapori e i 34 velieri italiani superavano di poco t. 68.500. Due vapori e 218 velieri turchi sfioravano appena t. 20.000, mentre i 17 vapori greci e i 40 velieri non raggiungevano le 10.000 tonnellate. Un solo vapore batteva bandiera montenegrina, ma questa sventolava anche su ben 95 piccoli velieri, raggiungendo un totale di 41 Più in generale, per i rapporti politici e poi anche militari, si veda: A. BIAGINI, Storia dell'Albania contemporanea, Milano, Bompiani, 2005 [1998] e ID., Momenti di storia balcanica (1878-1914). Aspetti militari, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1981. 117 Francesco Martelloni t. 5.000. Soltanto 3 vapori britannici, per t. 770, avevano attraccato allora in quel porto: «Nel vilayet di Jànina la situazione è poco diversa per rispetto alle esportazioni [di Scutari]. Queste sono ascese nel 1905 a L. 7.106.250; il primo posto è occupato dall’Austria con 2.297.100, il secondo da noi con 2.199.150, il terzo dalla Grecia con 1.232.000». 42 Dell’intero importo, quasi 6,2 milioni erano composti dai seguenti articoli: formaggio (1,8 milioni), pelli secche (L. 890.000), bitume (L. 790.000), lana (L. 560.000), sanse (L. 550.000), burro (L. 455.000), bestiame (L. 450.000), olio (L. 377.000), olive salate (L. 195.000). L’Italia assorbiva quasi interamente l’esportazione albanese di formaggi e oltre la metà di quella del bestiame, dei volatili, delle uova e dei giunchi. Comunque, negli ultimi quattro anni l’import italiano aveva quasi raggiunto quello austriaco che, ancora nel 1902, era invece quasi il triplo dell’italiano. Le importazioni albanesi nei due vilayet ammontano, nel 1905, a circa 13 milioni di lire. A Jànina superano appena i 7,1 milioni e sono costituite, in valore, principalmente da farine (1,4 milioni), cotonami (1,6 milioni), zucchero (L. 560.300), pelli naturali (L. 398.000), caffè (L. 286.100), filati di cotone e sete (tra le 142.000 e le 150.000 lire). Però questi dati non erano univoci, come riconosceva lo stesso Maranelli. Invece, risultavano sicuri quelli relativi alle esportazioni italiane. Il Regno esportava a Jànina cotonami (L. 690.000), superando l’Inghilterra che esportava per L. 385.000, seguita a grande distanza da Belgio, Grecia e Austria. A Scutari e Durazzo i cotonami italiani arrivavano da Trieste e, dunque, nelle statistiche non venivano direttamente attribuiti all’Italia. Le farine nazionali risultavano al terzo posto dopo le turche e le francesi. Battevano, però, decisamente quelle austriache (L. 212.500). Ciò si ripeteva anche a Durazzo (346.800 piastre contro 108.700) e ancor più a Scutari, dove l’Italia esportava il quadruplo delle farine austriache. Invece – affermava Maranelli – per lo zucchero l’Italia non aveva potuto iniziare alcuna concorrenza e l’Austria dominava sovrana sui mercati dei due vilayet, mentre nell'esportazione del caffè era appena incominciata una debole concorrenza dei commercianti genovesi (a Jànina per L. 49.875). Nell'export delle pelli naturali, l’Italia aveva conquistato il primato nel vilayet meridionale (L. 224.500), seguita a grande distanza dalla Francia, dall’Austria e dalla Grecia: «[...] Nel vilayet di Scutari, invece, nel 1901 importava [l'Italia esportava] circa l’8% delle pelli conciate che vi entravano (circa 115 mila lire), mentre a Jànina introduce circa 2/5 dello stesso articolo (imp. 42 MARANELLI, Sui rapporti economici con l’altra sponda dell’Adriatico, cit., p. 167. 118 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale 43 [esportazione] italiana 19.500, totale 49.300)». Per le stoffe di lana, l’Italia aveva da poco ottenuto il primato (L. 115.000) a Jànina, seguita dall’Inghilterra. Circa Scutari, Maranelli poteva dire soltanto che un fornitore albanese di abbigliamento militare acquistava in Italia. Per le sete, l’Italia dominava a Jànina (L. 125.000). Nel vilayet del Nord, nel 1901, ufficialmente non risultavano importazioni dall’Italia, perché transitavano da Trieste. I “filati di seta per ricamo” provenivano già allora dall’Italia, per L. 18.000. Maranelli accennava anche a una società commerciale barese, che operava nel nuovo settore petrolifero: «Il petrolio, che fino a poco fa perveniva a Jànina o dalle raffinerie austriache, o dalla Russia pel tramite dei porti turchi, ha incominciato anche a pervenirvi, pel tramite d’una casa barese, dai depositi italiani della Società Italo-americana nel 1905, e sembra che nel 1906 questa si sia accaparrata la maggior parte del consumo. La 44 stessa casa ha iniziato anche un discreto lavoro a Scutari». L’Austria dominava a Jànina nell’esportazione degli spiriti, del rhum e della birra, come nei fazzoletti colorati. Anche il vino italiano incontrava serie difficoltà: «I nostri vini mal resistono alla concorrenza greca nell’Albania meridionale e a quella turca nella settentrionale; ma il consumo 45 di vino è limitato». A Jànina, però, l’Italia aveva l’esclusiva nello zolfo (L. 17.380) e nei pallini di piombo (circa L. 6.000). Manteneva il primo posto anche nei cordami (L. 33.750), nelle flanelle di lana ( L. 12.500), nei tappeti e canevacci (L. 21.850), per i fiammiferi (L. 26.000), le terraglie (L. 15.500), i tessuti di lino (L. 8.500), la carta da imballaggi (L. 10.350). Vendeva anche medicine, droghe e colori (L. 37.500), riso (L. 11.900), fez (L. 8.750), carta bianca (L. 3.400), vetrami (L. 5.250), sapone (L. 800). Invece – lamentava Maranelli – non contava nulla nell’esportazione di chiodi, ferro, macchine da cucire, pellicce, rame, tabacco in foglia, gioielli, carta da sigarette. Poche erano, invece, le informazioni su Scutari: qui, gli italiani esportavano nel 1901 agrumi, candele di cera, carta, cordami, cotoni filati, fiammiferi, frutti secchi, liquori, paste, seta greggia, terraglie. A Durazzo, nel 1902, si esportavano dall’Italia, per valori superiori alle lire 1.000, calce viva, fichi secchi, terraglie, vestiti. Ma il geografo si diceva certo che nelle due cittadine del nord-ovest fossero poi aumentate considerevolmente le nostre esportazioni. Nel commercio delle farine, 43 Ibid., p. 170. Ibid., pp. 170-171. 45 Ibid., p. 171. 44 119 Francesco Martelloni l’Italia aveva certamente vinto la concorrenza austriaca. Per il vilayet di Jànina, i dati degli anni 1900-1906 chiarivano bene il ribaltamento realizzatosi a favore dell’Italia. All’inizio del secolo, infatti, le esportazioni austriache raggiungevano l’importo di L. 2.035.475, mentre quelle italiane si fermavano a 438.000. Nel 1904, si era raggiunta la parità tra le due nazioni intorno a 1,7 milioni per ciascuna. Nel 1905, l’Italia superava i 2 milioni, mentre l’Austria arretrava a 1,6 milioni, su un totale delle importazioni di Jànina pari 7,1 milioni: insieme le due potenze fornivano oltre il 50% delle importazioni del vilayet. In ogni caso, considerando il commercio totale di queste due regioni albanesi (circa 25,5 milioni di lire) in rapporto a 1,1 milioni di abitanti, la media pro-capite appariva molto bassa: era pari a L. 23. Il dato era pertanto indicativo delle arretrate condizioni economiche dell’Albania, e confermava quanto altri analisti italiani considerati da Maranelli (Baldacci, Meneghelli, Macchioro e Barbarich) avevano già bene illustrato. Maranelli lì sottolineava soltanto i nessi intercorrenti tra gli esigui commerci, la mancanza di industrie, la scarsa produzione agricola e forestale, la scadente produzione di bestiame. Tutto ciò gli sembrava discendere non dalla mancanza di risorse naturali, ma a causa di «uno stadio 46 di civiltà molto arretrato». In effetti, sosteneva, «l’unica povertà naturale dell’Albania è forse quella mineraria se si eccettuino le miniere di bitume di Selenitza nel distretto di Valona, le quali disgraziatamente sono sfuggite alla iniziativa italiana, cui erano state offerte, per cadere in mani francesi». 47 Il manto forestale, invece, era estesissimo. Lungo l’intera costa a sud del Drin e nello stesso Epiro (tra Valona e Kimara), a querce, olmi e frassini si accompagnavano legni pregiati. Nelle zone montuose interne dell’Albania settentrionale, ai faggi si aggiungevano, a maggiori altitudini, gli abeti. Nelle foreste meridionali predominavano le conifere. Lo scarso sfruttamento economico forestale riguardava soltanto le zone marittime. La ditta genovese “Firpo e Barberis” – esemplificava il professore – ha iniziato solo dal 1904 lo sfruttamento dei boschi durazzeschi. Ma si diceva speranzoso che ciò sarebbe risultato di stimolo per altri italiani. Gravissimo, però, gli appariva il problema delle comunicazioni stradali con l’interno, in particolare quali vie occorresse utilizzare tra i numerosi fiumi (dal Drin al Semeni), dopo le opportune opere di canalizzazione. Nelle campagne, le fertilissime terre venivano allora destinate prevalentemente a pascolo 46 47 Ibid., p. 173. Ibid. 120 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale naturale. Le coltivazioni principali, quelle del mais, dell’orzo, dell’avena e del grano, davano adito soltanto a una saltuaria esportazione nei periodi di raccolti particolarmente sovrabbondanti; invece, nei bassopiani alluvionali interni, come in quelli acquitrinosi e lungo i corsi dei fiumi, tramite drenaggi e irrigazioni si sarebbe potuto procedere, con successo, alla coltivazione del riso, delle barbabietole da zucchero (come auspicava ripetutamente il console italiano a Jànina, Millelire) e dello stesso cotone che – lo ricordava Maranelli – veniva allora coltivato tra grandi difficoltà nell’arida Puglia. Bisognava, poi, notevolmente modernizzare la coltivazione dell’ulivo, ben presente nelle zone costiere – già veneziane – di Durazzo, di Valona e di Scutari. E in questo senso, Maranelli riteneva che la consolidata esperienza pugliese avrebbe dovuto spingere gli imprenditori meridionali ad assicurasi una parte delle produzioni olearie albanesi. Oggi – argomentava – «la sansa [albanese] per lo più invece prende la via della Grecia; l’olio scadentissimo di produzione locale si dirige a Trieste per uso industriale; e due soli industriali, il pugliese Mastrolonardo e la ditta A. 48 Berio e C. di Lucca hanno impiantato presso Valona due frantoi moderni». Ma i più alti dazi imposti dai nuovi trattati commerciali minacciano di vanificare quel lavoro o di renderlo inutile per l’Italia. Le colture della vite e del gelso trovavano forti limiti nell’ignoranza agronomica di quelle popolazioni. Invece, una sviluppata sericoltura poteva risultare di grande interesse per gli agricoltori e i filandieri italiani. Il giudizio complessivo sulla situazione economico-sociale skipetara, dunque, non poteva che essere negativo, eppure Maranelli intravedeva qualche discreta possibilità di sviluppo: «Lo stato di depressione in cui si trova l’agricoltura albanese ha profonde cause sociali, che non scompariranno facilmente: difetto di braccia e di capitali, gravosi sistemi di locazione e di esazione delle imposte e soprattutto, cause di tutte le miserie albanesi, mancanza di strade. Ma che lo straniero possa utilmente tentar qualche iniziativa agricola in Albania, almeno in alcune parti litoranee, e sopra tutto nel vilayet di Jànina più aperto alla civiltà occidentale, lo dimostra il fatto che è già ben riuscito qualche tentativo come, per esempio, quello ricordato dei frantoi a Valona, quello di alcuni coloni leccesi a Valona stessa, e quello di colonizzazione nello stesso distretto intrapreso da un signore ungherese, che vi trasportò macchine e uomini dal suo paese, traendone buoni frutti. Il tentativo, però, fu troncato dalla morte del 48 Ibid., p. 175. 121 Francesco Martelloni 49 concessionario». Primitivo appariva anche l’allevamento del bestiame, che pure costituiva la principale ricchezza del paese. La transumanza – spiegava Maranelli – richiede grandi spazi per i capi e li sottopone a lunghi e faticosi viaggi. Inoltre, i foraggi sono spesso scarsi e non si provvede con i mangimi. Cosicché le carni animali, le lane ed il latte non sono di buona qualità. Di conseguenza, l’industria casearia risultava scarsa e concentrata al Sud. E produceva formaggi scadenti (il mannur, importato prevalentemente dall’Italia). La pesca nei laghi appariva discreta, però anche l’industria ittica avrebbe dovuto progredire molto nella conservazione del pesce, per la bottarga e per il caviale. La pesca marittima non veniva praticata dagli indigeni, ma da pescatori pugliesi e chioggiotti, nonostante l'Albania avesse una costa di oltre 500 chilometri, compresa tra Prevesa, a sud, ed Antivari a nord. Un suo incremento – sosteneva Maranelli – allenterebbe la crescente tensione tra i pescatori italiani e i dalmati: «Le fiorenti città della costa pugliese, spesso sprovviste di sufficienti quantità di pesce, presenterebbero ottimi mercati di consumo, quand’anche non fosse possibile instradare il prodotto di tali pesche verso maggiori mercati interni [...]. Tentativi ben riusciti sono già stati fatti da pescatori chioggiotti in vicinanza di Medua e 50 da pescatori pugliesi, anche lungo tutta la restante costiera». Anche la caccia, in Albania, poteva subire un incremento, magari consentendola anche agli stranieri tramite una significativa riduzione delle allora forti tasse. Si sarebbero esportate beccacce, beccaccini e anitre selvatiche. La stessa avicoltura avrebbe potuto svilupparsi meglio. In tal caso – diceva Maranelli – i piroscafi della compagnia “Puglia” dovevano attrezzarsi con celle frigorifere per la conservazione della cacciagione e dei pesci. Nei due vilayet, tranne le concerie di Jànina, l’industria era praticamente assente. Eppure, l’utilizzo della forza motrice dei vari corsi d’acqua avrebbe potuto consentire una fioritura delle industrie del legno, delle pelli e delle lane. I capitali albanesi, però, restavano scarsi, nonostante i miglioramenti dovuti alle rimesse degli emigranti dalle Americhe. E questo, tra l'altro, ridimensionava le aspettative di successo di una possibile attività bancaria italiana: «Temiamo, perciò, che sia ormai tardi per l’impianto della tanto 49 50 Ibid. Ibid., p. 176. 122 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale 51 invocata banca italiana a Jànina». Le comunicazioni fluviali interne apparivano peggiori: «L’unica via navigabile interna attualmente è quella della Bojana sino al lago di Scutari, aperta a tutte le bandiere fino ad Oboti, al di là solo alla montenegrina ed della ottomana. La “Puglia, la “Ragusea”, la “Compagnia del porto d’Antivari” hanno tutte e tre dei piccoli vaporini di circa 200 tonnellate, con poco più d’un piede di pescante, che nominalmente fanno servizio da San Giovanni di Medua a Scutari; ma non riescono a compiere l’intero tragitto che una dozzina di volte all’anno per una barra alla foce, e per l’interrimento alla confluenza della Drinassa nella Bojana». 52 Più a sud, la Voiussa (l'antica Aoò), resa navigabile in epoca romana, aveva ormai perso ogni traccia di quelle opere. Anche il sistema stradale appariva pessimo. La rete che collegava il Nord-Est albanese al Montenegro e la zona di Scutari alla Vecchia Serbia, al Cossovo, era trascuratissima. Nella provincia di Durazzo una sola strada carrozzabile, lunga 40 chilometri, collegava quella città a Tirana. Poi c'erano soltanto sentieri e viottoli da percorrere a cavallo e, nella cattiva stagione, spesso impraticabili: «Valona è in pessime comunicazioni con l’interno, con Argyrocastron, Delvino e Jànina, e solo sembrano un po’ migliori le comunicazioni con Berat per la valle dello Scombi, sulle tracce 53 d’un ramo dell’antica Egnazia». A sud di capo Linguetta – continuava Maranelli – la costa epirota è alta e rocciosa. Di tanto in tanto si aprono porticcioli naturali tra alte pendici. Rare e strette valli trasversali mettono in comunicazione col mare la valle longitudinale del Drynos e la conca di Jànina. Di qualche importanza le vie per l’interno e Jànina, da Santi Quaranta (valle del Kalamas) e dal golfo di Arta (valle del Vyros). Queste consentono di attraversare la catena montuosa che divide l’entroterra dal mare: «Ma la maggior parte della regione interna si dirige, invece, seguendo il Dyros e la Voiuza, all’Albania centrale, a Valona. In Epiro solo una strada può dirsi carrozzabile: quella che congiunge Prevesa a Jànina, che infatti considera la prima il suo vero porto per quanto sia più vicina a Santi 54 Quaranta». Di grande interesse, anche politico, appariva la riflessione di Maranelli 51 Ibid., p. 177. Ibid., pp. 178-179. 53 Ibid., p. 179. 54 Ibid., p. 180. 52 123 Francesco Martelloni sulle ferrovie. Questi notava, infatti, che venivano allora proposte, per ragioni geopolitiche, tre grandi linee ferroviarie. Ma diffidava del buon esito di tali progetti, a causa dei loro grandi costi. Una linea – spiegava – è detta “serba”: dovrebbe raggiungere i 550 chilometri e congiungere Kladova, sul Danubio, per Nisch e Pristina, Ipek e Podgoritza, evitando così il sangiaccato di Novi-Bazar, occupato militarmente dagli austriaci dal 1878. Costeggiando il lago di Scutari menerebbe ad Antivari e San Giovanni di Medua. Una seconda ripercorrerebbe la via Egnazia da Durazzo a Valona, per Elbasan e il lago di Ocrida, fino a Monastir (oggi la macedone Bitola), raccordando l’Adriatico a Salonicco. Questa metterebbe in contatto Bulgaria, Romania e Serbia con le coste adriatiche albanesi. Il terzo progetto prevede una ferrovia che, lungo la Voiussa, giunga fino al confine greco. A questo, però – continuava – si oppone un progetto turco, ripreso dopo la guerra greco-turca del 1897, e finalizzato a congiungere Monastir a Jànina e poi a Prevesa, sul mare, seguendo la valle del Vyros. A parte gli alti costi di tali progetti, a Maranelli appariva fatale che l’hinterland albanese dovesse subire l’attrazione della ferrovia di Mitrovitza e di Monastir per Salonicco, a causa della grande attività di questo porto, giunto allora a registrare un movimento commerciale di 8 milioni di tonnellate l’anno. Tanto più che questo asse ferroviario costituiva, di fatto, la via di congiunzione tra l’Egeo e l’Europa settentrionale centro-occidentale, mentre riteneva assolutamente fantasiosa l’ipotesi di inoltrare la Valigia delle Indie da Brindisi a Valona per ferry-boats e poi da lì, nuovamente per ferrovia, fino a Salonicco. Idea, questa, che era nata in Italia per il timore che Brindisi potesse presto perdere quella prestigiosa linea internazionale. Maranelli argomentava al proposito che non solo sarebbe stato difficoltoso, soprattutto in inverno, sbarcare merci, posta e passeggeri a Valona, ma che la tradizionale via Londra-Brindisi sarebbe rimasta comunque più breve (622 chilometri) rispetto alla Londra-Salonicco. Né la traversata marittima Salonicco-Alessandria, sebbene di 15 ore più breve rispetto a quella da Brindisi, avrebbe compensato le difficoltà nautiche dell’attraversamento dell’Egeo e soprattutto quelle politiche, legate alla pericolosa situazione in Epiro, Macedonia e Tessaglia. In definitiva – secondo il geografo – ai sogni di penetrazione all’interno della Balcania, italiani e albanesi dovevano più realisticamente preferire miglioramenti nelle comunicazioni marittime e terrestri tra le due coste dell’Adriatico e tra le cittadine dei loro hinterland, per agevolare effettivamente un possibile sviluppo economico. Anche qui, però, l’Austria non rimaneva inattiva e già premeva per ottenere la concessione della ferrovia tra San Giovanni di Medua e Scutari, 124 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale progettata sin dal 1873. E Maranelli pure su questo richiamava l’attenzione dei suoi connazionali: «Gli italiani non dovrebbero mai dimenticare le parole del grande industriale von Siemens: “Ciascuna banca o strada ferrata stabilita in paese straniero e le cui azioni siano rimaste al nostro paese, è nello stesso tempo un elemento del nostro sviluppo all’estero e l’origine di relazioni durevoli con un nuovo centro economico”. I tedeschi, che han sempre tenuta presente tale massima, oltre la ferrovia di Bagdad e le altre ferrovie asiatiche, posseggono nella Turchia europea la linea SaloniccoMonastir (219 km.) concessa nel 1890 al von Kaula [...] ed hanno la direzione finanziaria della Salonicco-Uskub-Mitrovitza, e della BellovaPhilippopoli-Adrianopoli-Costantinopoli».55 Per il versante adriatico, era allora in discussione la linea Durazzo-Elbassan-Monastir, oggetto degli studi di un consorzio di imprese internazionale tra la Deutsche Bank, la “Società generale italiana del credito immobiliare” in unione con la ditta Aliatini di Salonicco e Almagià di Ancona. La Turchia, invece, sembrava preferire una linea alternativa: la Valona-Berat-Monastir-Coprülü, che avrebbe incontrato la Mitrovitza-Salonicco. Ma nulla, al momento, era stato concesso. L’Austria per parte sua era molto interessata alla prosecuzione della ferrovia che da Salonicco e Mitrovitza doveva un giorno giungere sino a Sarajevo. Tali disegni asburgici – riconosceva Maranelli – preoccupavano l’opinione pubblica italiana che voleva contrapporre agli austriaci una linea adriatico-danubiana, che, però, gli appariva assolutamente irrealistica. Anche le comunicazioni fluviali andavano molto migliorate, ma sarebbero occorsi ingenti investimenti. Secondo il professore, soltanto la Bojana avrebbe potuto attrarre capitali privati per le opere idrauliche, perché, con soli trenta chilometri di via d’acqua, il Lago di Scutari sarebbe stato messo in comunicazione col mare. Gli altri lavori principali dovevano riguardare l’inalveamento delle acque del Drin, che, biforcandosi, attraverso la Drinassa (il “Grande Drin”) portava i detriti che poi sbarravano la Bojana alla sua foce. Insomma, la situazione delle vie di comunicazione albanesi gli appariva tanto decisiva, quanto di non facile e rapida soluzione: «Nel complesso, dunque, in Albania tutto ciò che si riferisce alle comunicazioni, porti, strade carrozzabili, navigazione interna, ferrovie è tutto ancora 56 completamente da farsi e in gran parte da studiarsi». Le comunicazioni postali – già oggetto di contenziosi italo-turchi e di 55 56 Ibid., p. 182. Ibid., p. 184. 125 Francesco Martelloni concorrenzialità austro-italiane – si avvalevano degli uffici turchi, dalle città costiere all’interno; di quelli austriaci di Scutari, S. Giovanni, Durazzo, Valona e Prevesa; e ormai anche di quelli italiani di Jànina, Scutari e Durazzo. Il telegrafo collegava quasi tutti gli uffici principali e si congiungeva con i cavi sottomarini Valona-Otranto e Santi QuarantaTrieste. I servizi bancari, invece, erano quasi inesistenti: operava solo una banca agricola ottomana con finalità, appunto, molto limitate. Di fatto il credito era affidato a speculatori privati, soprattutto greci, molti dei quali erano concentrati a Jànina. Il nord-albanese ne era praticamente privo e si affidava alla rudimentale mediazione finanziaria del Montenegro. Per Maranelli, però, l’Italia, in questo campo, poteva riporre le sue speranze nella “Società commerciale d’Oriente” e nell’apertura di sue agenzie in Albania. Come già accennato, lo stato delle comunicazioni sembrava costituire il principale ostacolo allo sviluppo economico albanese: «Le difficoltà naturali cominciano già lungo la linea d’approdo, nelle coste. Nella regione a nord del capo Linguetta [promontorio meridionale della baia di Valona], queste sono poco favorevoli alla navigazione per i materiali di deposito trasportati dai numerosi corsi d’acqua a carattere torrenziale e disposti [...] a cordoni litoranei, rendendo incostanti i fondali». 57 Tuttavia, erano proprio i fiumi a costituire le migliori vie di comunicazione interna: «A nord le valli della Bojana, del Drin e del Matja segnano vie di facilitazione per il bacino di Scutari, per il paese montuoso dell’estremo N-E, e per i monti dei Mirditi 58 e dei Ducagini». Al sud, i rilievi sono poco importanti e risultavano molto facilitate le comunicazioni tra le valli dei fiumi Arzen, Scombi, Semeni, e le valli superiori del Drin Nero e della Voiussa: «In questa zona, infatti, si sviluppava l’unica rete di comunicazioni costruita dai romani in Albania, che faceva capo a Durazzo e a Valona e con la via Egnazia, per la valle dello Scombi, per il lago di Ocrida e per quello di Presba, metteva a Monastir e lungo la valle del Vardar a Salonicco, congiungendo l’Adriatico 59 con l’Egeo». Considerazione notevole, questa del professore, che ci spiega il valore strategico della regione di Valona, anche quale base per la penetrazione nell’interno albanese e verso l’Egeo, e non solo per la celebre baia, da cui si controlla – si “domina”, diceva la Regia Marina nei suoi studi strategici – il 57 Ibid. Ibid., p. 178. 59 Ibid. 58 126 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale Canale d’Otranto. Quanto al porto e alla baia di Valona, da tempo oggetto delle attenzioni, dei desideri, delle più o meno velate pretese di italiani, austriaci e greci, Maranelli affermava che i porti albanesi, tranne quello di Valona – pure da bene attrezzare – non erano certo dei migliori: «Allo stato attuale, San Giovanni di Medua, protetto a settentrione e a oriente da colline, e quindi discreto ancoraggio, a causa dei bassifondi non può essere raggiunto dai piroscafi, che debbono ancorarsi a più di un chilometro dalla costa, e durante l’inverno debbono attendere per due o tre settimane il buon tempo che permetta i trasbordi sui vaporini della Bojana; Durazzo ha anch’essa un buon porto naturale, ma infestato da bassifondi; e Valona, situata in una rada mirabile, capace di riparare in ogni tempo un’intera flotta, per la mancanza di banchine, durante il cattivo tempo e quando spira maestrale, vede i piroscafi attendere oziosi senza poter compiere operazioni commerciali; solo da pochi anni la società delle miniere di Selemitza ne ha preso in appalto il ponte di approdo, pagando un canone annuo al comune e percependo le tasse portuali. È questa un’altra impresa che, con le miniere di bitume, è sfuggita agli italiani». 60 Conclusioni Maranelli, si è detto, era non solo uomo di scienza, ma anche “buon italiano”, in senso risorgimentalista democratico e non nazionalista. Il suo rimpianto, allora, riguardava le occasioni mancate di una maggiore crescita economica e civile delle regioni italiane, soprattutto di quelle meridionali e di quelle balcaniche. Entrambe, sia pur con profonde differenze e diversi stadi di sviluppo economico e culturale, mostravano i segni dell'arretratezza rispetto alle aree italiane ed europee più progredite. E tali istanze “progressiste” rimarranno nel pensiero e negli scritti di Maranelli anche allo scoppio del primo conflitto mondiale. Invece – con Salandra e Sonnino al governo, e con la Regia Marina in combattimento – quell'occasione mancata, relativa alla baia di Valona, sarebbe stata presto, dopo sette anni, riacciuffata, però in un contesto internazionale e nazionale, da ogni punto di vista, radicalmente cambiato e infinitamente più drammatico. A Natale del 1914, a guerra iniziata, ma con l'Italia ancora neutrale, simulando una missione sanitaria e umanitaria, di 60 Ibid. 127 Francesco Martelloni pacificazione, la Regia Marina e poi l’Esercito italiano avrebbero occupato stabilmente, fino al 1920, il porto, la baia e un ampio hinterland di Valona. 61 Con la guerra mondiale, l'occupazione si sarebbe allargata ancora all'interno. Quella relazione di Maranelli del 1907 non doveva essere passata inosservata negli ambienti militari di terra e di mare, proprio a causa degli specifici studi di guerra in Adriatico e nei Balcani che si andavano facendo ai vertici delle forze armate italiane – come d'altra parte in quelli austroungarici. E l'interesse dei militari per un moderno studio geografico, geologico, idrografico, economico del territorio come presupposto dell'azione di guerra era già stato chiarito – se ce ne fosse stato ancor bisogno – in quello stesso congresso geografico, grazie alla comunicazione del tenente colonnello, professore di geografia generale e militare alla Scuola di guerra, cavalier Eugenio Caputo: «Com'è noto – aveva detto – l'importanza delle conoscenze geografiche nella preparazione e nella condotta delle operazioni militari terrestri e marittime è venuta aumentando di pari passo con gli eserciti moderni e, ancor più, con le tendenze colonizzatrici dei maggiori Stati, le quali hanno esteso a dismisura i possibili teatri di guerra [...] Oggi, più che per il passato, può dirsi che i rapporti fra l'arte bellica operativa e la geografia siano permanenti; tanto più stretti ed importanti, quanto più vasti e complessi sono gli obiettivi militari. [...] E ciò è specialmente vero per quanto concerne l'elemento terreno, che, generalmente, più degli altri influisce sull'impiego della forza organizzata. Non paia esagerato il dire che soltanto con l'aiuto di una carta geologica [...] assumeranno carattere di certezza, o quasi, parecchie induzioni». 62 E lamentava i limiti della ordinaria cartografia, che non poteva dare «notizie più concrete così in paese ostile, o non prima visitato. Per limitarmi a poche cose: la possibilità di scavare rapidamente trincee; di improvvisare più estese fortificazioni di terra, oggidì tanto necessarie; di disporre di pietrame; di trovare acque sorgive o facilmente estrarne dal sottosuolo, di giudicare 61 Cfr. M. BORGOGNI, Tra continuità e incertezza. Italia e Albania, 1914-1919. La strategia politico-militare dell’Italia in Albania fino all’Operazione «Oltre Mare Tirana», Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 19-23; F. MARTELLONI, Giochi di prestigio: la “chiave dell’Adriatico” nel 1914, in «Ricerche Storiche», XXXVII, 3, 2007, pp. 481-532. L’isolotto di Saseno, a ovest della stessa insenatura, sarebbe rimasto all’Italia, senza interruzione, sino alla fine della seconda guerra mondiale. Recentemente, in condizioni storico-politiche assolutamente diverse, un accordo col nuovo Stato albanese post-comunista ha garantito lì una presenza militare italiana, per il controllo del contrabbando e del traffico di clandestini. 62 CAPUTO, L'arte militare e l'odierno indirizzo degli studi geografici, cit., p. 183. 128 Geografia, economia e politica dell'Adriatico orientale dell'entità della copertura del suolo, dello stato ordinario delle strade a fondo naturale, ecc., sono notizie queste che, quasi sempre, invano si chieggono ad una carta comune, specialmente su piccola scala. [...] Eppure son tutti dati e fatti codesti che hanno grande influenza sull'apprezzamento militare del paese, in quanto ne dipendano la maggior o minor facilità di rafforzare celermente e con pochi mezzi le posizioni, di far muovere la truppa a piedi e carreggi attraverso la campagna, di far sostare le colonne, di accamparle, di fornirle d'acqua [...]». 63 Proprio questo complesso genere d'informazioni geografiche – accanto ad altre particolarmente utili agli operatori commerciali – stava allora fornendo la relazione del nostro Maranelli. Ma anche politici e diplomatici – ed oggi gli storici – avevano da imparare qualcosa. 63 Ibid., p. 186. 129 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 131-152 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p131 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Paolo Macrì I quaccheri americani e le attività di soccorso in Europa e nella Russia bolscevica, 1917-1921 Abstract: The article provides an analysis of some American humanitarian rescue activities between the first world war and the period following the Russian civil war. The point of view is that of the American Friends Service Committee (Afsc), an American Quaker association which, starting from 1917, managed to set up a dialogue with Washington with the purpose to find a solution to the question of conscientious objectors. The Afsc activities deal with the assistance to the French population during the last phase of the conflict, to German children in the immediate post-war period, and to Russian refugees during the troubled events of the war and the Bolshevik Revolution. Particularly interesting is the relationship the Afsc established with the American Relief Administration (Ara), an assistance quasi-governmental organisation. Although American historiography has attended several times to ARA activities and its protagonist, Herbert Hoover, there is lack of recent, impartial and exhaustive studies on the Quaker contribute to the model of humanitarian rescue set up in those years. Keywords: American Administrations. Quakers; Quakers' Assistance in Europe, 1917-1921; U.S. Il 1917 fu, per gli Stati Uniti, l’anno dell’ingresso nella guerra europea e, per i suoi cittadini, rappresentò l’inizio della sperimentazione delle conseguenze di un conflitto tecnologico moderno, combattuto da eserciti di massa. Già nella seconda metà del XIX secolo, la guerra civile aveva anticipato agli americani molti dei sacrifici necessari al raggiungimento degli obiettivi strategici degli Stati maggiori e, fra tutti, quello più avversato e ritenuto più iniquo era stato quello della coscrizione. In seguito, gli Stati Uniti, per quanto coinvolti in campagne militari oltremare, non avrebbero più fatto ricorso alla leva, che, invece, alle soglie dell’intervento nella guerra mondiale, appariva inevitabile. Infatti, per quanto l’arruolamento di volontari fosse preferibile alla coscrizione, sia per l’opinione pubblica che per il governo, il corpo di spedizione statunitense doveva essere allestito rapidamente e le politiche britanniche di reclutamento volontario avevano incontrato limiti insuperabili. Le risorse necessarie alle operazioni militari sul fronte occidentale avevano richiesto un impiego di risorse umane mai conosciuto prima e, già durante il primo anno di guerra, il governo inglese Paolo Macrì aveva constatato, drammaticamente, che le vittime dei combattimenti erano molto più numerose dei volontari, che pure accorrevano per combattere i tedeschi. Per questo motivo, nel marzo 1916, la Gran Bretagna aveva introdotto il reclutamento obbligatorio per tutti gli uomini celibi, estendendolo, successivamente, anche ai padri famiglia. Negli Stati Uniti questa prospettiva aggregò la protesta di molti attivisti; si trattava di politici di sinistra, religiosi pacifisti, attiviste per i diritti civili femminili e studenti universitari, che si articolarono in un vasto movimento che trovò spazio sulla stampa e si rese protagonista di numerose iniziative antimilitariste. Tra le molteplici realtà di questo movimento, che rifiutava, per differenti e molteplici ragioni, l’intervento degli Stati Uniti in Europa e, soprattutto, la prospettiva della coscrizione, assunsero una posizione particolare i quaccheri, che avevano contribuito alla nascita di molte associazioni pacifiste dell’epoca e che costituivano una delle minoranze religiose più note e antiche degli Stati Uniti. 1. La nascita dell’American Friends Service Committee nel 1917 e gli interventi umanitari in Europa durante il primo conflitto mondiale Nel 1917, l’incombere della leva obbligatoria sui giovani quaccheri metteva a rischio l’eredità di George Fox, il fondatore del quaccherismo. La libertà di cui godevano i fedeli avrebbe potuto portare molti di loro ad accettare la chiamata alle armi, sacrificando il principio più importante del quaccherismo, quello del rifiuto della violenza. Questo problema determinò l’impegno politico delle comunità più antiche e ricche degli Stati Uniti, in particolare quelle della Pennsylvania e di Filadelfia, che ritennero di dover scongiurare il coinvolgimento dei propri membri nel conflitto armato come combattenti. I rappresentanti di queste comunità condussero una laboriosa mediazione con il governo statunitense, al fine di evitare l’arruolamento dei correligionari, che si dichiaravano obiettori di coscienza, predisponendo, in collaborazione con la Croce Rossa statunitense, il loro impegno in attività di soccorso umanitario in Europa, in sostituzione del servizio armato. Le comunità quacchere, infatti, a differenza di altre realtà politiche e pacifiste dell’epoca, non intendevano criticare le scelte del governo, né volevano indurre i propri giovani a voltare le spalle al paese; più semplicemente, intendevano permettere ai coscritti di rimanere fedeli ai propri valori, servendo, sotto altra forma, gli Stati Uniti. 132 I quaccheri americani e le attività di soccorso L’intervento di uno dei più eminenti quaccheri americani fu provvidenziale. Rufus Matthew Jones, infatti, fu in grado di porgere ai propri correligionari la chiave di volta per edificare una struttura, che sarebbe servita a interloquire con il governo e con i giovani obiettori, raccogliendoli in un’unica forza, capace di riaffermare con efficacia il rifiuto della non violenza, senza tradire la patria. Questa struttura, inoltre, sarebbe potuta diventare lo strumento che avrebbe garantito continuità all’assistenza delle vittime della guerra europea. Nasceva così, il 30 aprile 1917, l’American Friends Service Committee (AFSC), che riconosceva nell’aiuto del prossimo l’attività militante più importante del movimento. 1 Il documento di fondazione dell’AFSC stabiliva che le attività da svolgere sarebbero state incorporate a quelle già sviluppate dai correligionari inglesi in Russia e in Francia e che, per quest’ultima, i quaccheri americani avrebbero collaborato direttamente con la Croce Rossa statunitense: […] Le articolazioni delle attività svolte sono state: la ricostruzione e i soccorsi alle regioni devastate dalla guerra in Russia e in Francia. Il nostro lavoro è stato portato avanti unitamente alle attività degli Amici inglesi, che sono impegnati in questo lavoro da tre anni. In Francia il nostro lavoro è stato organizzato come quello di un dipartimento della Croce Rossa americana […]. 2 L’AFSC raccoglieva il testimone di due secoli di attività di soccorso umanitario quacchero, che, soprattutto in Europa, aveva contraddistinto le 1 A partecipare alla fondazione dell’AFSC furono tutte le anime del quaccherismo americano: il Philadelphia Early Meeting (i cosiddetti ortodossi), la Friends General Conference (organo rappresentativo del seven yearly meetings, i cosiddetti hicksite) e il Five Years’ Meeting. Negli archivi dell’AFSC, a Filadelfia, è consultabile una copia del verbale della prima riunione dei fondatori. Cfr. AMERICAN FRIENDS SERVICE COMMITTEE ARCHIVES PHILADELPHIA [d'ora in avanti AFSC] , April 30, 1917, Box: General Administration 1917 (GA 1917 Admin to Comm Hees and Org), Folder: Administration General. Al proposito, cfr. L.M. JONES, Quakers in Action: Recent Humanitarian and Reform Activities of the American Quakers, New York, The Macmillan Company, 1929, p. 18 e M.H. JONES, Swords into Ploughshares: An Account of the American Friends Service Committee, 1917-1937, New York, The Macmillan Company, 1937, p. 13. 2 Cfr. verbale, p. 1, in AFSC, April 30, 1917, Box: General Administration 1917 (GA 1917 Admin to Comm Hees and Org), Folder: Administration General. 133 Paolo Macrì attività delle adunanze più importanti delle isole britanniche, in particolare di quella di Londra. Lo Yearly Meeting londinese, infatti, aveva fondato e sostenuto comitati di soccorso internazionali già durante le guerre napoleoniche, 3 portando aiuti in diversi paesi, e aveva fornito aiuti materiali, fondi e volontari durante le maggiori crisi europee del XIX secolo. 4 Sino alla guerra mondiale, la prova più importante affrontata dai quaccheri britannici era stata la seconda guerra anglo-boera, conclusasi nel 1902, che aveva messo a dura prova la fede pacifista di molti fedeli e la tenuta complessiva della comunità, per i molteplici dilemmi etici e le innumerevoli questioni politiche poste dalle attività di soccorso umanitario. I quaccheri inglesi, infatti, erano stati attaccati per gli aiuti portati ai nemici dell’impero britannico. In particolare, erano state osteggiate le iniziative in soccorso ai boeri internati nei campi di concentramento britannici, che avevano sollevato dibattiti e contrasti sulla stampa e tra le forze parlamentari. Date queste premesse, i quaccheri britannici erano in possesso dell’esperienza più vasta e articolata nel soccorso umanitario e avevano il necessario vigore morale per imporre la propria presenza sui fronti di guerra e assistere anche i civili nemici. Nel 1914 gli inglesi anticiparono i correligionari americani nel portare aiuti ai profughi e ai civili affamati sul continente europeo, sperimentando la prima struttura quacchera di coordinamento e distribuzione di soccorsi umanitari del conflitto europeo. I quaccheri britannici, con l’istituzione del Friends War Victims Relief Committee, 5 iniziarono a coordinare le attività di soccorso per i profughi belgi e favorirono l’attività della Friends Ambulance Unit (FAU), che allestì il soccorso e il trasporto dei feriti con veicoli a motore. Dopo le prime iniziative in Belgio, i quaccheri britannici organizzarono, in Francia, l’assistenza ai profughi e ai senzatetto, costruendo e gestendo campi e strutture d’accoglienza, e facendosi carico del vitto, del vestiario e delle 3 Cfr. J.O. GREENWOOD, Quaker Encounters, Vol. I, Friends and Relief, York, William Sessions Limited, 1975, pp. 11-17. 4 I quaccheri britannici portarono soccorso alle popolazioni balcaniche e greche tra il 1822 e il 1870, a quelle irlandesi tra il 1822 e il 1900, alle popolazioni finlandesi durante la guerra di Crimea tra il 1856 e il 1868 e a quelle russe per tutto il XIX secolo. Lo Yearly Meeting londinese strutturò, inoltre, una serie di attività di soccorso umanitario, piuttosto articolate, durante la guerra franco-prussiana del 1870, dove venne utilizzato il simbolo della croce rossonera, che avrebbe distinto i quaccheri in tutti gli interventi umanitari successivi. Cfr. ibid., pp. 41-46, 18-24, 95-148. 5 Ibid., pp. 194-205. 134 I quaccheri americani e le attività di soccorso cure degli assistiti. Gli americani, in questa fase delle attività, si limitarono a fornire aiuti materiali e somme di denaro, 6 non potendo contare su un organismo unitario per il coordinamento e l’invio di eventuali soccorsi in Europa. Figura di riferimento del comitato britannico fu Ruth Fry, che aveva maturato una straordinaria esperienza nel soccorso umanitario durante la guerra anglo-boera e vantava studi in ambito di arbitrato e mediazione internazionali. 7 La vocazione cosmopolita del Friends War Victims Relief Committee sarebbe stata ulteriormente confermata, nel 1916, quando volontari britannici furono inviati, nei distretti del Volga, per valutare i bisogni delle popolazioni russe. Negli Stati Uniti, così come era stato ampiamente previsto, il 18 maggio 1917 venne reintrodotta la coscrizione. Il piano di reclutamento, ratificato dal Congresso, prevedeva la registrazione di tutti gli uomini in età compresa tra i ventuno e i trentuno anni, sia celibi che coniugati con figli, mentre parziali esenzioni erano state previste per alcune categorie di lavoratori specializzati e di pubblici ufficiali. L’adozione del provvedimento sollevò le veementi proteste delle associazioni pacifiste e antimilitariste, tanto che per contrastare le loro campagne di boicottaggio, nel giugno 1917, il governo statunitense emanò l’Espionage Act. 8 I quaccheri dell’AFSC si mantennero distanti dalle proteste e cercarono ostinatamente una soluzione di compromesso, che consentisse agli obiettori di sottrarsi, in maniera legittima, al servizio di leva. Le norme sulla 6 Cfr. A.R. FRY, A Quaker Adventure: The Story of Nine Years’ Relief and Reconstruction, London, Nisbet & Co., 1927, pp. 5-99. 7 Sulla formazione pacifista e sulla coscienza religiosa di Ruth Fry, cfr. B. BIANCHI, Una grande pericolosa avventura. Anna Ruth Fry, il Relief Work e la riconciliazione internazionale (1914-1926), in «DEP Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica sulla memoria femminile», 9, 2008, pp. 25-28, consultabile sul sito internet dell’Università Ca’ Foscari di Venezia alla pagina web http://admin.unive.it/nqcontent.cmf?a_id=54023. 8 Questo provvedimento considerava reato ogni manifestazione volta a osteggiare il reclutamento militare e anche il generico incoraggiamento a comportamenti, giudicati sleali dal governo. Conseguenze di queste restrizioni alle libertà costituzionali furono il divieto di distribuire periodici politici e sindacali e la repressione di tutte le attività che, a giudizio dei tutori della legge, potevano influenzare negativamente l’opinione pubblica sulle azioni di governo. L’Espionage Act fu approvato dal Congresso degli Stati Uniti il 15 giugno 1917 e fu emendato nel 1918 con l’adozione dell’ancora più repressivo Sediction Act. Queste norme, ulteriormente integrate, sono ancora in vigore. Per un approfondimento del dibattito politico dell’epoca sulle conseguenze delle limitazioni imposte dall’Espionage Act, cfr. H.W. TAFT, Freedom of Speech and the Espionage Act, Plainfield, N.J., New Jersey Journal Law Publishing Co., 1921. 135 Paolo Macrì coscrizione, tuttavia, non escludevano gli obiettori dalla chiamata alle armi e dall’invio nei campi di addestramento. Inoltre, molti obiettori quaccheri, come altri mennoniti e brethren, rifiutavano ostinatamente ogni contatto con le autorità militari, rendendo difficile la mediazione. I casi di questi obiettori, i cosiddetti “assolutisti”, erano di difficile approccio, sia per l’AFSC che per le autorità, in quanto l’ostinazione nel rifiuto di ogni relazione con le gerarchie militari costringeva i comandanti dei centri di addestramento a ricorrere alle corti marziali. Ad ogni modo, i rappresentanti del governo ebbero diverse occasioni per incontrare, a Washington, gli inviati dell’AFSC e si sforzarono di trovare un accordo per salvare l’operatività generale delle norme sul reclutamento, facendo salvo l’esercizio legittimo dell’obiezione di coscienza. In una di queste occasioni, i rappresentanti dell’AFSC ebbero modo di interloquire con il segretario della Difesa Newton Diehl Baker, il quale dimostrò la volontà del governo statunitense di offrire garanzie e opportunità ai pacifisti per motivi religiosi. Si legge, infatti, in un resoconto dell’AFSC di una riunione tenuta a Washington il 17 agosto 1917: […] Il segretario è stato estremamente cordiale, concedendoci il suo tempo liberamente, malgrado fosse sotto pressione per molte questioni, ascoltandoci con simpatia e interesse. Ci ha comunicato che il presidente, il generale Cowder e lui stesso ritenevano che la situazione fosse di inusuale difficoltà, motivo per cui non avevano ancora raggiunto una soluzione, ma che avrebbero continuato a lavorarci. I loro sforzi sarebbero stati indirizzati a determinare quale tipo di servizio sarebbe potuto essere soddisfacente per i noncombattenti […]. 9 La soluzione ai numerosi problemi posti dagli obiettori di coscienza quaccheri, soprattutto per quanto riguarda gli assolutisti non fu facile, né immediata. Tuttavia, dopo una serie di ulteriori riunioni e incontri, si raggiunse un compromesso. I giovani quaccheri, regolarmente reclutati nei centri di addestramento, una volta dichiarata la loro obiezione di coscienza, 9 Resoconto della missione dell’AFSC a Washington del 17 agosto 1917, p. 1, in AFSC, Box: General Administration 1917 (GA 1917 Admin to Comm Hees & Org.), Folder: Committees & Organizations: U. S. Government, War Department. 136 I quaccheri americani e le attività di soccorso avrebbero ricevuto la dispensa dal servizio armato e sarebbero stati destinati ad attività sostitutive. Circa trecento di essi furono inviati all’Haverford College, in Pennsylvania, dove, nell’estate del 1917, avrebbero seguito un serrato programma di addestramento e preparazione alle attività di soccorso umanitario. 10 In considerazione dell’esperienza britannica, l’AFSC aveva concordato con le autorità l’impiego dei primi trecento volontari in Francia. Garante di questa prima Haverford Unit sarebbe stata l’American Red Cross (ARC), che aveva stabilito la sua delegazione europea a Parigi. Durante l’autunno del 1917 e l’inverno del 1918, l’Haverford Unit giunse in Europa e si integrò con i volontari inglesi, collaborando alle loro attività e realizzandone altre autonomamente. 11 In ogni caso, i volontari quaccheri rifiutarono ogni coinvolgimento con i militari, considerando anche le attività di assistenza alle truppe una forma di legittimazione della guerra. Nel novembre 1918, le ostilità cessarono sul fronte occidentale e i volontari quaccheri completarono i progetti che avevano intrapreso e, in molti casi, furono costretti a ricostruire parte dei villaggi, che avevano già contribuito ad assistere, travolti dall’ultima offensiva tedesca. Dopo la fine del conflitto, l’attenzione dei governi vincitori e delle strutture umanitarie si rivolse anche alle stremate popolazioni dei paesi nemici. Il governo statunitense, per rendere credibili le posizioni assunte presso le commissioni della Conferenza di Pace, diede impulso a una serie di istituzioni governative per l’assistenza umanitaria e favorì la collaborazione tra queste 10 Di particolare interesse l’articolazione delle attività e della struttura della prima Haverford Unit. Trecento volontari quaccheri provenienti da tutti gli Stati della Federazione statunitense si raccolsero nella Barclay Hall del campus di Haverford dove si sottoposero a un intenso regime addestrativo, in considerazione dei loro studi e delle loro capacità tecniche e lavorative. Vennero create undici squadre, che furono istruite sui lavori di carpenteria, sui lavori agricoli o di riparazioni meccaniche, seguendo anche corsi di lingua francese. Negli archivi dell’AFSC è conservato un report di sei pagine dove sono descritte minuziosamente le attività giornaliere e settimanali delle prime squadre in addestramento, oltre ai dati anagrafici e al livello di istruzione dei partecipanti. Cfr. AFSC, Box: General Administration 1917 (GA 1917 Conscientious Objectors to Foreign Service-Country Canada), Folder: Haverford Reconstruction Unit. 11 Per un approfondimento sulle attività quacchere in Francia, cfr. FRY, A Quaker Adventure, cit., pp. 57-66 e 74-78; R.M. JONES, Service of Love in War Time: American Friends Relief Work in Europe, 1917-1919, New York, The Macmillan Company, 1920, pp. 144-156; JONES, Quakers in Action, cit., pp. 23-35; The First Year of American Friends’ War Relief Service, June 1, 1917- May 31, 1918, in «American Friends Service Committee Bulletin», n. 16, pp. 19, in AFSC, AFSC Annual Reports, 1917-1947. 137 Paolo Macrì e le associazioni, che si erano occupate di aiuti umanitari durante i difficili anni della guerra mondiale. 2. I soccorsi umanitari in Europa dopo l’armistizio. La prima collaborazione tra l’AFSC e l’American Relief Administration (ARA) di Herbert Hoover Durante gli anni del conflitto e nel periodo postbellico, la figura di riferimento per le attività umanitarie degli Stati Uniti fu, senza dubbio, quella di Herbert Hoover, il futuro presidente degli Stati Uniti. Nel 1914, Hoover viveva a Londra, dove aveva diretto un comitato di assistenza per i cittadini statunitensi, che abbandonavano il continente europeo a causa della guerra. Dopo questa sua iniziativa, era stato coinvolto nella Commission for Relief in Belgium (CRB), che provvide all’invio di aiuti umanitari in Belgio sotto l’occupazione tedesca. Nei tre anni di lavoro successivi, Hoover aveva dimostrato straordinarie capacità amministrative e organizzative, che gli valsero la direzione della United States Food Administration, istituita dal governo americano per coordinare il controllo delle importazioni e delle esportazioni, combattere le speculazioni sui prezzi e pianificare la produzione agro-alimentare statunitense. L’efficienza raggiunta dalle politiche di controllo dei prezzi e il successo della pianificazione e dell’impiego delle risorse destinate agli aiuti umanitari accrebbero la stima verso Herbert Hoover negli ambienti governativi e, per questo, dopo l’armistizio del novembre 1918, il presidente Wilson gli affidò l’incarico di programmare un massiccio invio di aiuti alimentari verso l’Europa, che rischiava un disastro di proporzioni simili a quello provocato dalla Guerra dei Trent’anni, tre secoli prima. 12 Il conflitto, infatti, aveva avuto pesanti ripercussioni sulle produzioni agricole e sui commerci internazionali e alcune nazioni, come la Germania e gli Stati nati dal dissolvimento dell’impero austro-ungarico e dell’impero zarista, non avevano ricevuto alcun tipo di assistenza internazionale; anzi, avevano subito le conseguenze del blocco economico imposto dagli alleati, che aveva tragicamente impoverito la popolazione, riducendola alla fame. Malgrado la resistenza degli alleati, il governo statunitense era determinato a distribuire aiuti alle popolazioni europee. Per questo, il presidente Wilson 12 Cfr. F.M. SURFACE – R.L. BLAND, American Food in the World War and Reconstruction Period: Operations of the Organizations under the Direction of Herbert Hoover 1914 to 1924, Stanford, Stanford University Press, 1931, p. 23. 138 I quaccheri americani e le attività di soccorso delegò il suo consigliere Edward Mandell House di scrivere un memorandum per il Supreme War Council a Versailles, con il quale si propose la creazione di un ente interstatale, che avrebbe provveduto a studiare le necessità dei singoli paesi e a distribuire gli aiuti alimentari necessari a sconfiggere la fame e la malnutrizione. Fu istituito così il Supreme Economic Council, con sedi in ogni paese destinatario degli aiuti. Queste unità amministrative avrebbero fatto riferimento agli uffici della Food Section dell’Economic Council, a Parigi, che sarebbero stati coordinati da Herbert Hoover. Gli Stati Uniti avrebbero elargito la maggior parte dei fondi, per la somma complessiva di cento milioni di dollari, dei quali l’88% sarebbe stato prelevato dai fondi del Tesoro, mentre il rimanente 12% sarebbe stato raccolto da associazioni di soccorso americane. Queste somme sarebbero state conferite a un ente governativo statunitense, che avrebbe gestito l’acquisto e la destinazione di cibo, vestiario e altri generi di prima necessità per i bambini più bisognosi. Per coordinare i contributi delle associazioni e per amministrare questi capitali, il 24 febbraio 1919 fu istituita l’American Relief Administration (ARA), che sarebbe stata diretta da Herbert Hoover. Le associazioni statunitensi che parteciparono alle attività dell’ARA furono l’AFSC, l’ARC, la CRB, l’American Jewish Joint Distribution Committee (JDC) 13 e l’American Committee for Relief of the Near East (ACRNE). 14 Una delle situazioni più gravi del continente europeo era quella dei civili tedeschi. La Germania, dopo aver subito gli effetti del blocco economico, durante il periodo armistiziale – dal novembre 1918 alla firma del trattato di Versailles, avvenuta il 28 giugno 1919 – dovette sottostare a una rigida regolamentazione dei commerci e all’impossibilità di disporre della propria flotta commerciale. Per questo motivo, le associazioni quacchere anglosassoni, che avevano ancora gruppi impegnati in lavori di ricostruzione in Francia, iniziarono a predisporre nuclei di soccorso da inviare in Germania. I quaccheri britannici costituirono un gruppo di quattro volontari, mentre l’AFSC cominciò con l’inviarne solo un gruppo di tre. Del resto, la guerra era finita anche per i giovani obiettori americani e, sebbene una parte consistente dell’Haverford Unit fosse rimasta in Europa per 13 Il JDC è un’associazione ebraica internazionale di soccorso umanitario, fondata a New York nel 1914. È ancora attiva ai nostri giorni in più di settanta paesi. Cfr. http://www.jdc.org. 14 L’ACRNE fu fondata nel 1915 per soccorrere le popolazioni dell’impero ottomano perseguitate. È ancora oggi attiva con il nome di Near East Foundation. Cfr. http://www.neareast.org. 139 Paolo Macrì completare i progetti avviati, il loro destino era quello di fare ritorno in patria, come le truppe combattenti, che erano in via di smobilitazione. Data l’esiguità dei nuclei quaccheri destinati alla Germania, all’inizio le attività furono solo di sommaria ricognizione delle necessità della popolazione. Successivamente, seguirono altre iniziative molto più ampie, alla cui riuscita non fu estraneo Herbert Hoover. Infatti, in una lettera del 25 giugno 1919, indirizzata ai funzionari dello staff tedesco dell’ARA, Hoover dava chiare indicazioni sulle agevolazioni che dovevano essere accordate ai membri dell’AFSC, che, tra l’altro, era stata la prima associazione a raccogliere donazioni negli Stati Uniti per i civili tedeschi. In questa lettera, Hoover presentava allo staff dell’ARA in Germania tre cittadine americane, Jane Addams, Caroline Wood e Alice Hamilton, per le quali veniva formulata questa richiesta: […] Qualsiasi assistenza di cui possano avere bisogno, venga loro garantita, sia per quanto riguarda i trasporti e le sistemazioni, che per qualunque altro mezzo che possa agevolare il loro viaggio […]. 15 A suggellare la collaborazione tra l’ARA e l’AFSC furono Herbert Hoover e Rufus Jones, che si incontrarono a Filadelfia; successivamente, lo stesso Hoover avrebbe scelto l’AFSC per dirigere le operazioni umanitarie in Germania, affidando ai quaccheri americani la realizzazione e il coordinamento di tutte le attività di soccorso per i bambini tedeschi. In una lettera del 17 novembre 1919, Hoover scriveva: […] Sono pronto a fornire garanzie, con i fondi a mia disposizione, per le spese d’acquisto e a pagare l’intero importo delle spese di spedizione oltremare, dai porti atlantici ai porti tedeschi, di qualsiasi genere alimentare da destinare al soccorso dei bambini, per i quali la vostra associazione dovrà solo corrispondere il prezzo […] senza spese di spedizione o di magazzino […]. 16 15 AFSC, Box: General Administration 1919 (GA 1919 Foreign Service), Folder: German General. 16 Una parte della lettera con la quale Hoover conferma gli accordi intervenuti è citata alla prima pagina di un report di tre, dal titolo Hoover opens the door, privo di data e siglato H.H.B., in AFSC, Box: General Administration 1919 (GA 1919 Foreign Service), Folder: 140 I quaccheri americani e le attività di soccorso In quel periodo, l’ARA si stava già occupando del sostentamento di altri due milioni di bambini europei e non avrebbe potuto articolare un’efficace struttura di soccorso anche in Germania. Secondo gli accordi, le forniture sarebbero state inviate dagli Stati Uniti e dagli altri paesi europei a spese dell’ARA, ma gli oneri per l’acquisto degli aiuti sarebbero stati a carico dell’AFSC, anche se, come lo stesso Hoover aveva suggerito, i quaccheri americani avrebbero potuto contare sulle donazioni di molti concittadini di ascendenze tedesche. 17 La direzione di un’iniziativa di tale entità alla sola AFSC suscitò la perplessità di molte altre associazioni, in particolare di quelle confessionali, ma Hoover era convinto che, soprattutto nella prima fase di assistenza alla Germania sconfitta, avrebbe potuto fare affidamento esclusivamente sull’AFSC. Infatti, le comprovate capacità dei suoi organizzatori e la natura non governativa dell’associazione avrebbero mantenuto le attività umanitarie immuni da critiche. 18 L’AFSC organizzò, quindi, un ampio gruppo di lavoro, che non solo gestì i soccorsi all’infanzia per l’intera Germania, ma trovò ulteriori fondi per l’acquisto di derrate alimentari. A sancire il patto tra l’AFSC e l’ARA, oltre agli accordi intervenuti, vi fu l’accettazione, da parte di Herbert Hoover, della presidenza onoraria della sezione tedesca dell’AFSC, garantendo con il suo stesso nome la riuscita delle operazioni di soccorso. 19 Nelle città e nei centri dove si era potuta insediare, l’AFSC utilizzò strutture in cui si preparavano centinaia di pasti al giorno. Da queste grandi cucine, gli alimenti venivano portati nei centri di distribuzione, quasi sempre edifici scolastici, dove circa venticinquemila insegnanti tedeschi distribuivano i pasti ai piccoli maggiormente in difficoltà. L’obiettivo era quello di assistere il maggior numero possibile di bambini, garantendo loro le integrazioni nutritive indispensabili e monitorandone la salute. Seguendo questi criteri, nel primo semestre del 1920, l’AFSC aveva sfamato Country German General. Il testo integrale della lettera è riprodotto in JONES, A Service of Love in War Time, cit., pp. 261-262 e in JONES, Quakers in Action, cit., pp. 45-46. 17 Sino al 1922, le associazioni di cittadini statunitensi di origine tedesca raccolsero tre milioni di dollari per i soccorsi umanitari in Germania. Cfr. SURFACE–BLAND, American Food in the World War and Reconstruction Period, cit., p. 118. 18 Cfr. il già citato report, Hoover opens the door, cit., p. 2. 19 Cfr. Third General Report, June, 1919-September, 1920, in «American Friends Service Committee Bulletin», n. 33, p. 4, in AFSC, AFSC Annual Reports, 1917-1947. 141 Paolo Macrì seicentotrentamila bambini, in ottantotto città, grazie alla realizzazione di quasi quattromila centri di distribuzione. 20 Nella seconda metà del 1920, l’assistenza fu estesa alla Prussia orientale e alla città di Danzica e, nel 1921, fu fornito aiuto a più di un milione di bambini tedeschi in milleseicentoquaranta centri della Germania, grazie a duemiladuecento cucine e ottomila centri di distribuzione. 3. Il fallimento delle iniziative diplomatico-umanitarie degli Stati Uniti in Russia Le attività dell’ARA e delle associazioni di assistenza umanitaria coinvolte ebbero larga eco sulla stampa e questo contribuì a mantenere vivo, sia nell’opinione pubblica che presso il governo statunitense, l’interesse per la situazione europea. Le previsioni sui raccolti del 1920, formulate dai funzionari dell’ARA per alcune capitali europee, 21 lasciavano intendere che sarebbero stati scarsi e che almeno due milioni e mezzo di bambini avrebbero avuto bisogno di aiuti alimentari per il successivo biennio 19201921. La situazione si profilava ancora più drammatica in Russia, in particolare nelle zone del Volga e della Siberia, dove carestie ed epidemie si erano succedute sin dal 1916, falcidiando le centinaia di migliaia di profughi che avevano cercato rifugio. La gestione dei rifugiati provenienti dalle regioni baltiche russe e dalle zone a ridosso del fronte orientale era stata disastrosamente inefficiente. Il governo zarista, prima, e quello rivoluzionario borghese, poi, si erano limitati a spostare migliaia di persone sempre più a oriente, sperando che le risorse delle province asiatiche potessero sostentarle. Il risultato di queste politiche fu quello di concentrare i profughi in zone non urbanizzate e lontane dalle linee di comunicazione, rendendo difficili l’assistenza e i soccorsi ed esponendoli ai rigori delle stagioni invernali, che ne fecero strage. La rivoluzione bolscevica non agevolò i soccorsi per questi sfortunati, ai quali si aggiunsero le vittime della guerra civile, che conobbero la devastazione delle campagne e la nazionalizzazione dei 20 Cfr. ibid., p. 7. Uffici dell’ARA erano stati istituiti, in Finlandia, a Helsingfors; in Estonia, a Reval; nella Russia nord-occidentale, a Jamburg; in Lettonia, a Riga; in Lituania, a Kovno; in Polonia, a Varsavia; in Cecoslovacchia, a Praga; in Austria, a Vienna; in Ungheria, a Budapest; in Romania, a Bucarest; in Jugoslavia, a Belgrado. Cfr. SURFACE–BLAND, American Food in the World War and Reconstruction Period, cit., p.73. 21 142 I quaccheri americani e le attività di soccorso raccolti, che, interrompendo i commerci delle derrate tra le province, aggravò la penuria di cibo. La guerra civile, infine, affamò anche le zone sotto lo stretto controllo dei rivoluzionari. Nel 1917, gli Stati Uniti avevano riconosciuto il primo governo rivoluzionario e avevano inviato in Russia la Root Mission, 22 la Stevens Railways Commission 23 e, in un periodo successivo, anche i rappresentanti della Special Red Cross Commission. 24 Obiettivo specifico di queste iniziative diplomatico-umanitarie era il rafforzamento dei rapporti tra i due paesi e, per questo, il governo americano metteva a disposizione di quello russo sia capitali finanziari, che aiuti di natura sanitaria e tecnologica. Queste iniziative di cooperazione internazionale si presentavano come missioni di assistenza tecnico-organizzativa, ma avevano implicazioni strettamente diplomatiche, tanto da sovrapporsi alle attività dei funzionari d’ambasciata, con risultati piuttosto contraddittori. Gli Stati Uniti, infatti, non riuscirono a ottenere analisi corrette sulla situazione russa, tanto che Elihu Root, al suo ritorno in patria, avrebbe comunicato che la democrazia russa non era in pericolo. Diversamente, la drammatica conflagrazione tra le pressioni interne al sistema del governo provvisorio russo e le croniche difficoltà delle operazioni militari sul fronte orientale impedirono la normalizzazione sia dei rapporti politici, economici e sociali all’interno dell’esausta società russa, sia delle relazioni internazionali. Neanche il tentativo riformista di Alexander Kerenskij riuscì a spingere lo sforzo bellico o a riformare le istituzioni. Altri poteri lavoravano da tempo per costruire un disegno diverso, quello sovietico, che la politica diplomatica statunitense dimostrò 22 Questa missione, diretta dal diplomatico Elihu Root, operò in Russia tra la primavera e l’estate del 1917. Suo compito principale fu quello di dissuadere il governo russo dal firmare un armistizio o un trattato di pace con le potenze centrali. Per un approfondimento sulla diplomazia russo-statunitense nel 1917, cfr. i documenti diplomatici riguardanti la Root Mission, in Papers Relating to the Foreign Relations of the United States, 1918, Russia, Vol. I, Washington, Government Printing Office, 1931, pp. 107-152. 23 Per un approfondimento sulla Stevens Railway Commission, cfr. ibid., pp. 137-139 e L.J. BACINO, Reconstructing Russia: U. S. Policy in Revolutionary Russia, 1917-1922, Kent, Kent University Press, 1999, pp. 25-40. 24 Nel luglio 1917, Henry P. Davison, in qualità di segretario del War Council dell’ARC, inviò in Russia una commissione speciale di esperti della Croce Rossa statunitense per studiare i bisogni e le necessità della popolazione. Si veda H.P. DAVISON, The American Red Cross in the Great War, New York, The Macmillan Company, 1918, p. 268 e ss. 143 Paolo Macrì di non comprendere. Il governo russo sarebbe stato travolto dalla rivoluzione bolscevica e, in pochi mesi, sarebbero state disattese tutte le speranze di mantenere le truppe russe sul fronte orientale. L’armistizio del 17 dicembre 1917 tra le truppe russe e quelle austrotedesche e, tre mesi dopo, la Pace di Brest-Litovsk avrebbero esposto le potenze dell’Intesa ad un possibile rovescio, anche sul fronte occidentale. Gli Stati Uniti non intesero riconoscere la legittimità del governo sovietico e, per questo, anche le relazioni diplomatiche tra i due paesi non riuscirono a consolidarsi. La delegazione statunitense ufficiale in Russia non aveva autorevolezza agli occhi dei bolscevichi e gli unici diplomatici russi accreditati negli Stati Uniti erano quelli inviati dal governo precedente. Gli americani, quindi, dovendo trovare canali diversi da quelli ufficiali, fecero ricorso ad alcuni soggetti, che avevano partecipato alle precedenti missioni di cooperazione internazionale, in particolare a John Mott della YMCA e a Raymond Robins della Special Red Cross Commission. In questa fase del conflitto, il contributo dell’AFSC alle attività umanitarie in Russia fu piuttosto scarso, anche se, nel 1917, sei giovani volontarie avevano solcato il Pacifico per attraversare la Siberia ed erano giunte nel distretto di Samara, nella zona del Volga, dove già operava una missione quacchera inglese. 25 La situazione complessiva era, tuttavia, disastrosa, al punto che un bollettino dell’AFSC riportava le parole di Robert Tatlock, un quacchero inglese, che descriveva questa situazione: […] L’ampio numero di rifugiati, la povertà della terra sulla quale si trovano, l’asprezza del clima, la diffusa mancanza di vestiario, la carenza di cibo a livello locale, la diffusione di malattie, l’alto tasso di mortalità fra i rifugiati, l’insufficiente natura delle poche organizzazioni di soccorso che esistono e la lunga durata delle difficoltà contribuiscono a rendere il problema russo, se non il più straordinario o il più intenso, senz’altro il più vasto e, per molti versi, il più terribile 25 Si trattava di Anna J. Haines, Lydia Lewis, Esther White, Emilie Bradbury, Nancy Babb e Amelia Farbiszzewski. Cfr. R.C. SCOTT, Quakers in Russia, London, Michael Joseph, 1964, p. 184. 144 I quaccheri americani e le attività di soccorso fenomeno civile non solo di questa guerra, ma, può darsi, di tutte le guerre […]. 26 A complicare ulteriormente la pianificazione dell’intervento di attività di soccorso intervenne l’evoluzione politica e militare delle relazioni tra le potenze alleate e la Russia. Infatti, malgrado il dialogo diplomatico con le forze sovietiche non si fosse del tutto interrotto e fosse stato ottenuto l’armistizio sul fronte occidentale, scongiurando la possibilità di un intervento in Francia delle truppe tedesche smobilitate a oriente, la situazione internazionale non consentiva agli Stati Uniti di intraprendere una politica più risoluta nei confronti della Russia. Era stato inviato un corpo di spedizione militare americano in Siberia; inoltre, truppe francesi, inglesi e americane erano intervenute in Crimea e nella Russia settentrionale, ma queste missioni non erano riuscite a stabilizzare la situazione politica russa. Le linee ferroviarie della transiberiana erano in mano alle truppe cecoslovacche, che scoraggiavano il movimento dei civili. Formazioni militari russe controrivoluzionarie controllavano le province più lontane da Mosca, impedendo l’arrivo di aiuti di cui potessero beneficiare i bolscevichi, mentre questi ultimi combattevano contro tutti con determinazione e ferocia, controllando i territori della Russia europea e minacciando di sostenere le rivolte bolsceviche esplose in Ungheria e in Germania. Nel 1919 e nel 1920, la popolazione russa, quindi, non fu raggiunta da soccorsi e, malgrado le epidemie e la scarsità di cibo si aggravassero, né i sovietici, né le forze controrivoluzionarie, né le potenze dell’Intesa raggiunsero accordi per autorizzare missioni di soccorso dall’estero. Con l’interruzione dei rifornimenti e con il blocco delle comunicazioni, anche i quaccheri delle missioni inglesi nelle province del Volga di Samara e Buzuluk e le volontarie inviate presso di loro dall’AFSC, nel luglio 1917, dovettero abbandonare i centri di assistenza che avevano realizzato, perché non ricevevano più approvvigionamenti di alcun genere. 27 I volontari quaccheri tornarono in patria o si spostarono in Siberia, dove erano presenti 26 The First Year of American Friends’ War Relief Service, June 1, 1917- May 31, 1918, in «American Friends Service Committe Bulletin», n. 16, pp. 9-10, in AFSC, AFSC Annual Reports, 1917-1947. 27 Cfr. JONES, A Service of Love in War Time, cit., p. 244. 145 Paolo Macrì le truppe americane, mentre chi scelse di rimanere per essere accanto agli assistiti più bisognosi restò isolato per oltre un anno. 28 L’ARA di Hoover, nel 1919 e nel 1920, fece due tentativi diplomatici per portare aiuti alla stremata popolazione russa, ma entrambe le iniziative non ebbero successo per il boicottaggio da parte dell’opinione pubblica inglese e francese, che vedeva in questi aiuti un sostegno indiretto al regime bolscevico, e per quello delle autorità sovietiche, che intendevano avere il pieno controllo delle operazioni di soccorso e degli aiuti materiali. 29 L’AFSC, dal canto suo, non appena il dipartimento di Stato rimosse le restrizioni al commercio e alle comunicazioni con la Russia, 30 si adoperò per inviare lì un proprio rappresentante, che fu accreditato grazie alle pressioni dei quaccheri inglesi. 31 Il nuovo avvio delle attività umanitarie quacchere anglo-americane in Russia non sarebbe stato, comunque, sufficiente a sostenere un massiccio afflusso di aiuti, né le strutture realizzate dai quaccheri anglosassoni avrebbero potuto fronteggiare il disastro della carestia, che era destinato a sconvolgere ulteriormente le 28 Negli archivi dell’AFSC sono conservati diversi documenti inediti del volontario inglese Thomas Riggs, presente in Russia dal 1916. Tra questi, un dattiloscritto nel quale Riggs descrive l’esperienza vissuta con la giovane americana Esther White. I due volontari rimasero isolati, sino al febbraio 1919, nelle zone controllate dai sovietici per assistere due colonie di bambini, con il sostegno dei tolstojani e il consenso delle autorità bolsceviche. Questa ricostruzione di Riggs, risalente all’agosto 1958, si compone da trentatré pagine, con appendici e bibliografia, e descrive in forma diaristica le attività svolte. Per la lettura integrale del documento, vedi Mission to Moscow: The Experiences of Two Relief Workers in the First World War by T. Rigg and E. M. White, in AFSC, Box: General Administration 1918 (Foreign Service Country-Russia), Folder: Individuals T. Rigg & E. White Excerpts from Diaries. 29 Nell’aprile 1919, Herbert Hoover aveva ricevuto dalle quattro potenze vincitrici l’autorizzazione a esportare aiuti in Russia, grazie alla collaborazione di Fridtjof Nansen. Il piano, tuttavia, fu boicottato dai francesi e dai rappresentanti delle forze controrivoluzionarie russe e respinto dalle autorità sovietiche. Cfr. H.H. FISHER, The Famine in Soviet Russia, 19191923: The Operations of the American Relief Administration, New York, The Macmillan Company, 1927, pp. 10-27. Un ulteriore tentativo fu formulato da Hoover nell’estate del 1920, in occasione della guerra russo-polacca, ma in questo caso gli aiuti raggiunsero solo i polacchi e i russi che abitavano le zone occupate dalle truppe polacche. Cfr. ibid., pp. 28-48. 30 Cfr. copia del comunicato stampa del dipartimento di Stato del 7 luglio 1920, in AFSC, Box: General Administration 1920 (Foreign Service Country-Russia), Folder: Department of State. 31 Vedi copia del memorandum del 25 settembre 1920, nel quale il rappresentante dell’AFSC a Berlino, Robert Yarnall, comunica al rappresentante del governo sovietico in Germania, Viktor Kopp, di avere ricevuto notizia dal rappresentante quacchero inglese, Arthur Watts, del possibile invio di un delegato americano in Russia, in AFSC, Box: General Administration 1920 (Foreign Service Country-Russia), Folder: General. 146 I quaccheri americani e le attività di soccorso popolazioni dell’ex-impero zarista dopo anni di combattimenti e di scarsità di raccolti. 4. La carestia in Russia del 1921 e la collaborazione tra l'AFSC e l'ARA Lo sblocco degli aiuti alla Russia bolscevica intervenne nel luglio 1921 su esplicita richiesta di uno dei più conosciuti scrittori russi, Maksim Gor’kij, che rivolse ai popoli americani ed europei un appello per ricevere pane e medicine per il popolo russo: […] La sventura della Russia offre ai filantropi una splendida opportunità per dimostrare la vitalità dell’umanitarismo. Io penso che una particolare calda solidarietà, nel soccorso al popolo russo, dovrebbe essere mostrata da quelli che durante l’infame guerra hanno così appassionatamente ammonito l’inimicizia fratricida […]. Io chiedo alle oneste genti europee e americane un sollecito aiuto per il popolo russo. Mandate pane e medicine. […]. 32 Il conflitto russo-polacco si era concluso nel marzo 1921 e le truppe americane avevano abbandonato la Siberia nel settembre del 1920, mentre il porto di Arcangelo era stato lasciato già nel luglio di due anni prima e le rivolte bolsceviche in Europa sembravano essere definitivamente sedate. Secondo Herbert Hoover, i tempi potevano essere maturi per tentare di portare aiuti al popolo russo e sperare che il regime sovietico reagisse positivamente, mitigando la politica repressiva instaurata. 33 Dopo una serie di consultazioni, Hoover ebbe il parere favorevole del segretario di Stato Hughes e fu autorizzato il 23 luglio, dal presidente degli Stati Uniti Harding, a rispondere alla richiesta di aiuto di Gor’kij. 34 Questo primo 32 Cfr. «ARA Bulletin», n. 16, Sept. 1921, p. 4, in AFSC, Box: General Administration 1921 (Committees and Orgs-American Relief Admin to Flatblush Assoc. for Russ), Folder: ARF Bulletin. 33 H. HOOVER, An American Epic: Famine in Forty-Five Nations. The Battle on the Front Line 1914-1923, Vol. III, Chicago, Henry Regnery Company, 1961, p. 427. 34 Per la consultazione della risposta ufficiale di Hoover all’appello pubblico di Gor’kij, cfr. FISHER, The Famine in Soviet Russia, cit. pp. 52-54. 147 Paolo Macrì passo dell’ARA, che si impegnava a inviare forniture ospedaliere e ad assistere un milione di bambini russi, riaprì le consultazioni diplomatiche tra il commissario russo degli Esteri e il dipartimento di Stato americano, che sarebbero culminate nel cosiddetto “accordo di Riga” del 20 agosto 1921. 35 Tuttavia, questo documento non era un trattato diplomatico bilaterale tra due Stati, ma tra l’ARA, definita organizzazione caritatevole, volontaria e non-ufficiale, e il governo delle repubbliche socialiste sovietiche. In previsione di un articolato e massiccio invio di aiuti, l’ARA avrebbe cercato la collaborazione delle associazioni umanitarie con le quali aveva già coordinato le attività di assistenza umanitaria in Europa. In merito il presidente Harding pose a Hoover e, di conseguenza, alle associazioni coinvolte, due condizioni irrinunciabili. La prima era quella di non sottrarsi ai termini dell’accordo di Riga e la seconda era quella di non tentare di emanciparsi dall’autorità dell’ARA, che doveva essere considerato l’unico soggetto a rappresentare la volontà del popolo americano e l’unico ad avere il potere di concludere altri accordi con il governo sovietico. 36 Gli Stati Uniti non intendevano riconoscere lo Stato bolscevico, ma non potevano perdere l’occasione di tesaurizzare, sia pure indirettamente, i rapporti tra l’ARA e le autorità sovietiche e, soprattutto, di riscuotere un eventuale credito diplomatico per le attività americane di soccorso umanitario. Formulate queste puntualizzazioni, furono elaborate le politiche di fundraising delle associazioni, che accettavano l’accordo di Riga e formalizzavano il rapporto di subordinazione all’ARA, in una riunione che si tenne a Washington il 24 agosto 1921, presso il dipartimento del Commercio. 37 Ai termini prestabiliti da Hoover, che aprì i lavori, le associazioni di soccorso americane non avrebbero potuto derogare in alcun modo. Hoover indicò chiaramente ai rappresentanti dell’AFSC, dell’ARA, dell’ARC, del Federal Council of Churches, del JDC, dei Knights of 35 Cfr. Minutes of the Meeting of the European Relief Council, held at the Department of Commerce, Washington, D.C., Wednesday, August 24, 1921, at 9.30 a.m, Appendix A: Agreement between A.R.A. and Soviet Authorities Re Russian Relief, pp. 3-6, in AFSC, Box: General Administration 1921 (Committees and Orgs American Relief Admin. To Flatbush Assoc for Russ), Folder: Minutes. 36 Per il documento integrale, cfr. HOOVER, An American Epic, cit., p. 446. 37 Cfr. Minutes of the Meeting of the European Relief Council, Held at the Department of Commerce, Washington, D. C., Wednesday, August 24, 1921, in AFSC, Box: General Administration 1921 (Committees and Orgs American Relief Admin. To Flatbush Assoc for Russ), Folder: Minutes. 148 I quaccheri americani e le attività di soccorso Columbus, del National Catholic Welfare Council, della YMCA e della YWCA 38 che le attività di soccorso sarebbero state indirizzate soprattutto ai bambini e che le competenze delle singole associazioni avrebbero dovuto rispettare il trattato di Riga, in “completa cooperazione e coordinamento” con l’ARA. Il verbale della riunione formalizzò queste condizioni: […] L’accordo intervenuto a Riga tra l’American Relief Administration e le autorità sovietiche è accettato da tutte le associazioni affiliate allo European Relief Council e tutte le attività saranno svolte secondo i termini dell’accordo […]. 39 Una maggiore libertà sarebbe stata concessa all’AFSC, alla quale, invece, Hoover avrebbe consentito di mantenere le attività di soccorso nelle missioni già avviate, in virtù della specificità degli ideali di riferimento: […] Il direttore dell’American Relief Administration in Russia assegnerà all’American Friends Service Committee, che al momento sta portando avanti attività di soccorso in Russia, un determinato distretto o area di distribuzione, in cui l’American Friends Service Committee manterrà la propria identità e le proprie attività, nel pieno rispetto dei suoi ideali, ma sempre sotto la supervisione del direttore dell’American Relief Administration in Russia e in stretta conformità ai termini dell’accordo di Riga […]. 40 38 Tutte le associazioni intervenute facevano parte dello European Relief Council, che era stato istituito dall’ARA e dalle maggiori associazioni americane di soccorso all’infanzia per operare in Europa, dopo la fine del conflitto. Per un approfondimento, cfr. Interim Report of European Relief Council del 31 maggio 1921, p. 3, in AFSC, Report, Box: General Administration 1921 Committees and Orgs American Relief admin to Flatbush Assoc. for Russian Famine, Folder: Committees and Orgs-European Relief Committee. 39 Minutes of the Meeting of the European Relief Council, Held at the Department of Commerce, Washington, D. C., Wednesday, August 24, 1921, p. 1, in AFSC, Box: General Administration 1921 (Committees and Orgs American Relief Admin. To Flatbush Assoc for Russ), Folder: Minutes. 40 Ibid, p. 2. 149 Paolo Macrì L’AFSC, per il tramite Wilbur Thomas, che ne sarebbe stato il segretario sino al 1929, prese accordi con i quaccheri inglesi, con il proposito di coinvolgerli nelle attività. Thomas era un giovane quacchero che si era occupato della raccolta fondi per la Russia, avvicinando molti comitati e sindacati di sinistra, sorti negli Stati Uniti per sostenere la popolazione russa e il governo sovietico. 41 Tale circostanza sollevò le obiezioni di Herbert Hoover, che ebbe scambi epistolari con Rufus Jones, 42 nei quali ribadiva che le associazioni che avrebbero lavorato in Russia sarebbero state sottoposte all’ARA e che non sarebbero stati accettati condizionamenti da parte di simpatizzanti dei bolscevichi, che già stavano tentando di infiltrarsi nelle attività dell’ARA. 43 Jones, da parte sua, ribadiva di non accettare alcuna accusa di slealtà e che il suo interesse, come quello dei componenti e dei volontari dell’AFSC, era quello di servire la causa umanitaria al meglio delle possibilità offerte dalle circostanze. 44 Rufus Jones cercò di difendere ulteriormente le specificità e l’indipendenza dell’AFSC dalle clausole governative proposte da Hoover; tuttavia, i termini dell’accordo erano stringenti. Jones fu, comunque, confortato dal pieno appoggio espressogli da Hoover, il quale aveva dichiarato di comprendere i timori dei quaccheri di perdere la loro identità, ma che l’ARA aveva solo il compito di assicurare la protezione dei volontari e di rendere efficienti gli sforzi dei soccorsi umanitari. 45 41 Cfr. D. MCFADDEN-C. GORFINKEL, Constructive Spirit: Quakers in Revolutionary Russia, Pasadena, Intentional Productions, 2004, p. 57. 42 Lo studioso Bertrand M. Patenaude, docente a Stanford e ricercatore presso l’Hoover Institution, ha ricostruito in un volume straordinariamente ricco e complesso l’attività di soccorso statunitense in Russia durante la carestia. Alla collaborazione con l’AFSC presta, tuttavia, scarsa attenzione; infatti, ai rapporti tra Hoover e l’AFSC dedica soltanto quattro pagine del suo corposo volume. Cfr. B.M. PATENAUDE, The Big Show in Bololand, Stanford, Stanford University Press, 2002, pp. 139-142. 43 Cfr. lettera del 10 settembre 1921 con la quale Hoover, rassicurando ulteriormente Jones sull’indipendenza dell’AFSC, affermava di non volere che un gruppo di persone di orientamento comunista minasse i rapporti tra ARA e AFSC, in AFSC, Box: General Administration 1921 (Foreign Service Country Russia-General to Letters), Folder: Country Russia 1921 Hoover Correspondence. 44 Cfr. lettera di due pagine del 16 settembre 1921 di Jones a Hoover, in AFSC, Box: General Administration 1921 (Foreign Service Country Russia-General to Letters), Folder: Country Russia 1921 Hoover Correspondence. 45 Cfr. lettera già citata del 10 settembre 1921, con la quale Hoover rafforzava il contenuto della lettera consegnata a Jones in quella stessa giornata, in AFSC, Box: General 150 I quaccheri americani e le attività di soccorso Nelle parole di Hoover c’era un ulteriore sottinteso rivolto ai britannici. I quaccheri inglesi, che l’AFSC intendeva coinvolgere nella raccolta fondi e nei soccorsi, avevano avuto scambi con la Russia sin dal XIX secolo e questo li portava a difendere una politica autonoma, sganciata dall’ARA. Inoltre, alcuni di loro avevano maturato delle posizioni molto vicine al bolscevismo e, questo, per Hoover non era tollerabile. L’AFSC continuò, comunque, a mediare con Hoover per ottenere la preziosa collaborazione degli inglesi, che, da parte loro, non erano entusiasti di essere sottoposti all’autorità dell’ARA. La soluzione fu assicurata da un compromesso. L’AFSC avrebbe operato in Russia sotto la responsabilità dell’ARA, ma le unità quacchere anglo-americane avrebbero lavorato in piena autonomia in alcune aree del paese, nel rispetto degli accordi sottoscritti e, soprattutto, cercando di caratterizzare le loro attività esclusivamente come attività di soccorso statunitensi. In questo senso, i rappresentanti dell’AFSC non ebbero ulteriori difficoltà. Secondo i dirigenti dell’AFSC, i volontari quaccheri non militavano sotto la bandiera britannica o americana, ma solo sotto le insegne cristiane e, pertanto, non tenevano ad alcuna rivendicazione nazionale. 46 Le attività dei quaccheri in Russia furono puntualmente programmate in un memorandum, 47 nel quale si stabilirono i termini di collaborazione anche con le altre associazioni presenti e, nonostante le prime difficoltà di intesa con Hoover, andarono incontro a un notevole successo. Come ricordato dallo stesso Hoover, malgrado i quaccheri inglesi e americani non avessero a disposizione grandi somme, le loro capacità d’intervento impressionarono a tal punto le altre associazioni, che, oltre i centomila dollari forniti loro dall’ARA, la JDC elargì altri centocinquantamila dollari e l’ARC gliene fornì ulteriori centomila. L’AFSC, in ogni caso, riuscì a raccogliere le donazioni anche di altre associazioni americane, che rimasero estranee alle attività dell’ARA. Tra queste, la Russian Famine Fund di New York, che raccolse cinquantamila dollari. 48 Administration 1921 (Committees and Orgs-American Relief Admin to Flatblush Assoc. for Russ), Folder: Minutes. 46 Cfr. FORBES, The Quaker Star under Seven Flags, cit., p. 167. 47 Cfr. il testo di quattro pagine, privo di data, Memorandum on the Future Work of the Friends’ International Service in the Russian Socialist Federated Republic, in AFSC, Box: General Administration 1921 (Foreign Service Country Russia – General to Letters), Folder: Afsc Foreign Service – Russia General. 48 151 Paolo Macrì Alle unità anglo-britanniche dell’AFSC furono affidati i territori del distretto di Buzuluk, dove – tra il 1921 e il 1922 – ebbero modo di impiegare e mettere a frutto la collaborazione con l’ARA, distribuendo soprattutto capi di vestiario e fornendo assistenza medica. La collaborazione entrò in crisi quando si inasprirono le critiche della stampa statunitense nei confronti di alcune strutture, che sostenevano e finanziavano le attività dell’AFSC nella Russia sovietica. 49 Questa situazione condusse alla rottura tra l’AFSC e l’ARA, che rifletteva l’allontanamento delle posizioni di Hoover rispetto a quelle di Wilbur Thomas in merito alla programmazione della distribuzione e dell’impiego degli aiuti. Rufus Jones, a questo punto, non riuscì più a mediare tra le diverse posizioni. L’esito fu la stipula di un nuovo accordo, nell’ottobre del 1922, tra le autorità sovietiche e l’AFSC, che rese di fatto non operativo l’accordo di Riga. 50 La Federazione russa delle repubbliche socialiste si denominò, nel dicembre successivo, Unione Sovietica e il governo comunista non volle più ricevere gli aiuti statunitensi. Per questo, nel novembre del 1922, le autorità bolsceviche dichiararono cessata l’emergenza della carestia e, pur ringraziando per gli aiuti ricevuti, invitarono le associazioni straniere a lasciare il paese. L’ARA avrebbe dismesso le sue attività in Unione Sovietica nel giugno 1923, ricevendo l’eterna gratitudine del governo e dei popoli sovietici. La fame non era stata ancora effettivamente sconfitta e, per questo motivo, malgrado l’ostilità del governo americano, le missioni quacchere avrebbero continuato a fornire soccorso in Russia sino al 1927. Cfr. HOOVER, An American Epic, cit., p. 501. Alcune di queste erano apertamente filo-sovietiche, come i Friends of Soviet Russia. Cfr. FORBES, The Quaker Star under Seven Flags, cit., p. 169. 50 Cfr. MCFADDEN-GORFINKEL, Constructive Spirit, cit., p. 77. 49 152 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 153-194 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p153 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Giuliana Iurlano Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo: l’Amistad e il “misterioso caso della lunga e bassa goletta nera” Abstract: The schooner Amistad’s unconvincing journey from the Spanish port of Havana, Cuba, with its cargo of 53 Africans destined for slavery in the sugar plantation of the Caribbean, form one of the most significant stories of the nineteenth century. When a violent mutiny of the slaves happened, the Africans ordered two Spanish sailors to navigate the ship toward Africa, but they, on the contrary, subverted the route and turned Amistad toward North America. The Federal Historical Records of the Amistad Case illuminate the complex position of the U.S. government regarding slavery and the international slave trade. Abolitionists recognized that the Amistad affair had the power to cause an emotional debate about slavery in the United States. It sparked a series of diplomatic manoeuvres by the Van Buren Administration, prompting the former President John Quincy Adams to go before the Supreme Court and souring diplomatic relations between the United States and Spain. Keywords: Amistad Case; United States-Spain Relations; Slavery. 1. “Dalla materia spagnola non è possibile estrarre la libertà”: i controversi rapporti tra Washington e Madrid «Catturata la presunta nave pirata. Un gentiluomo, arrivato ieri da Stonington, ci ha informati che la lunga e bassa goletta nera, che aveva provocato così tanto allarme lungo la costa, è stata catturata martedì sera al largo del faro di Watch Hill e portata a New London. La goletta aveva fatto la sua comparsa al largo del faro martedì mattina e aveva fatto sbarcare una scialuppa per rifornirsi d’acqua e di vettovaglie. La notizia fu comunicata al cutter statunitense di avanscoperta, che – partito alla sua ricerca – l’abbordò, costringendola ad arrendersi senza opporre resistenza». 1 Con queste parole, il bostoniano «Atlas» avvertiva i suoi letto1 «Boston Daily Atlas», August 29, 1839. Il cutter è un piccolo veliero molto veloce, utilizzato per servizi di avanscoperta, con 30-40 uomini d’equipaggio e di solito armato con due piccoli cannoni. Cfr. anche P. WALTON, The Mysterious Case of the Long, Low, Black Schooner, in «The New England Quarterly», VI, 2, June 1933, pp. 353-361. Sull’ammutinamento dell’Amistad, si vedano anche Giuliana Iurlano ri della cattura dell’Amistad, una goletta a due alberi di proprietà spagnola, utilizzata originariamente per il trasporto delle merci, ma poi adibita a nave negriera per il trasferimento illegale di schiavi dall’Africa a Cuba, al tempo ancora dominio spagnolo. Il 26 giugno del 1839, l’Amistad aveva imbarcato a L’Avana 56 schiavi mendi, catturati in Sierra Leone e poi acquistati da due mercanti spagnoli, José Ruiz e Pedro Montes, perché fossero trasferiti nella città cubana di Puerto Principe. Le durissime condizioni di prigionia in cui erano costretti nella goletta spinse gli schiavi – capeggiati da Sengbe Pieh (conosciuto come “Cingue”, “Cinquez” o “Cinqué”) 2 – ad ammutinarsi e a impadronirsi della nave, dopo aver ucciso il capitano e aver indotto il suo schiavo personale, Antonio, a fare da interprete tra i due spagnoli e il gruppo mende. Ebbe inizio, così, l’avventura dell’Amistad, che – invece di dirigersi verso l’Africa, come pretendevano gli insorti – navigò per lungo tempo lungo le coste americane, all’insaputa degli schiavi ribelli, finché non fu abbordata dal cutter statunitense e costretta all’approdo al largo di Long Island. Tutti i mende furono catturati e portati a New Haven nel Connecticut. L’“affaire Amistad” andò a incunearsi nelle difficili relazioni tra la Spagna di Isabella II e la giovane repubblica americana, che stava muovendo i primi passi sulla scena internazionale, tra la diffidenza e il timore delle potenze europee. Il caso dell’ammutinamento sulla goletta, tuttavia, non toccava soltanto i nervi scoperti dei complessi rapporti internazionali, ma proponeva anticipatamente – sia all’interno della società americana, sia nelle diverse sezioni degli Stati Uniti d’America – un teR. GRAYSON, The Amistad, North Mankato, MN, ABDO, 2011; I.F. OSAGIE, The Amistad Revolt: Memory, Slavery, and the Politics of Identity in the United States and Sierra Leone, Athens, GA, University of Georgia Press, 2000; S. DUDLEY GOLD, United States v. Amistad: Slave Ship Mutiny, Terrytown, NY, Marshall Cavendish, 2007; W.A. OWENS, Black Mutiny, Baltimore, Black Classic Press, 1997; D. HULM, United States v. Amistad: The Question of Slavery in a Free Country, New York, Rosen Publishing, 2004; A.P. BLAUSTEIN – R.L. ZANGRANDO, eds., Civil Rights and African Americans: A Documentary History, Evanston, IL, Simon & Schuster, 1968. 2 Cinqué era nato a Mani, in Dzhopoa, nella cosiddetta “open land” nel territorio Mendi. La distanza da Mani a Lomboko, un’isola alla foce del fiume Gallinas, luogo in cui gli africani furono imbarcati per L’Avana, era di “dieci giorni”. Per altre notizie su di lui, cfr. History of the Amistad Captives: Being a Circumstantial Account of the Capture of the Spanish Schooner Amistad, by the Africans on Board, [etc.], compiled from authentic sources by J.W. BARBER, New Haven, CT, E.L. & J.W. Barber, 1840, p. 2. 154 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo ma “caldo” nel percorso di State-building, che avrebbe caratterizzato il periodo pre-civil war e che sarebbe riapparso in tutta la sua dimensione economico-politica nel momento in cui si fosse profilata concretamente la minaccia della secessione. L’Amistad, infatti, sollevava una serie di questioni di diritto internazionale e di diritto della navigazione, soprattutto commerciale: il trasporto degli schiavi a Cuba era avvenuto su un battello portoghese, che aveva attraversato le acque della Sierra Leone, protettorato britannico; di conseguenza, aveva navigato illegalmente in acque sotto la giurisdizione inglese, che vietava la schiavitù; la restituzione, ai legittimi proprietari (gli schiavisti che avevano acquistato gli schiavi, o la regina di Spagna che rivendicava la proprietà della nave?) della “merce” contenuta nella goletta; la pretesa dei due ufficiali che avevano recuperato la goletta dell’applicazione dell’antica regola marinaresca del diritto di salvataggio; ma il caso dell’Amistad sollevava anche un lacerante problema di principio (erano, gli schiavi africani, una “merce” alla pari di tutte le altre, oppure dovevano essere considerati “uomini liberi”?), problema che già si era posto Thomas Jefferson nella stesura della Dichiarazione d’Indipendenza americana. 3 Le relazioni tra la repubblica americana e la Corona spagnola erano state definite con il trattato di San Lorenzo il 27 ottobre 1795, 4 con il quale furono sanciti i rapporti di amicizia tra i due paesi, stabiliti i confini tra gli Stati Uniti e le colonie spagnole e, soprattutto, garantiti agli americani i diritti di navigazione lungo il fiume Mississippi. L’acquisto della Louisiana nel 1803 aveva, poi, risolto il problema del controllo della valle percorsa dal “padre delle acque”, 5 principale via di comunicazione verso l’Ovest. L’importanza del Mississippi stava nella stretta connessione esistente, sin dai tempi dell’indipendenza, tra sicurezza e prosperità degli Stati Uniti e navigabilità del grande fiume, senza la quale la lealtà dei “men of western waters” sarebbe risultata notevolmente 3 Si veda il passo relativo alla schiavitù contenuto nella stesura originale della Declaration of Independence, poi cassato dal Congresso, in M. SYLVERS, Il pensiero politico e sociale di Thomas Jefferson. Saggio introduttivo e antologia dei testi, Manduria, Lacaita, 1993, pp. 168-169. 4 Cfr. Treaty of Friendship, Limits, and Navigation between Spain and the United States, October 27, 1795, in Treaties and Other International Acts of the United States of America, H. MILLER, ed., Vol. 2, Documents 1-40, 1776-1818, Washington, Government Printing Office, 1931, disponibile in http://avalon.law.yale.edu/18th_century/sp1795.asp. 5 Meschacébé, letteralmente “padre delle acque”, era il nome con cui gli indiani Natchéz chiamavano il Mississippi, prima dell’arrivo dell’uomo bianco. 155 Giuliana Iurlano indebolita. 6 Quel legame “vitale” per la sopravvivenza stessa degli Stati Uniti era stato più volte ribadito, in primis dal presidente Washington e, poi, da Jefferson e Hamilton – nella loro qualità di segretari di Stato e del Tesoro – finché anche gli Stati del Nord, fino ad allora contrari al “Mississippi interest”, non ebbero dato il loro consenso. Il problema, tuttavia, era più ampio e complesso: l’espansione territoriale statunitense dipendeva dall’accondiscendenza spagnola e questa, a sua volta, «derivava dall’isolamento della Spagna, oltre che dalla sua debolezza». 7 Ma proprio la debolezza spagnola avrebbe potuto trasformarsi in uno svantaggio, nel momento in cui una potenza terza avesse rilevato il territorio ambito dagli Stati Uniti e fosse stata molto meno disponibile della Spagna a trattare sulle richieste americane. Tale possibilità si realizzò puntualmente alla fine dell’anno 1800, «quando la Spagna, ormai ridotta a satellite dell’impero napoleonico, accettò di trasferire alla Francia il cosiddetto territorio della Louisiana, un’area, questa, dai confini incerti e indefiniti, ma che includeva senza dubbio alcuno sia il Mississippi, sia la sua foce». 8 La questione di New Orleans – che rimetteva in gioco il trattato del 1795 – contribuì a deteriorare i rapporti tra i due paesi, soprattutto dopo l’acquisto della Louisiana dai francesi e il tentativo di ottenere le Floride, perseguito sia attraverso colloqui diplomatici con Madrid, 6 Cfr. R.W. TUCKER – D.C. HENDRICKSON, Empire of Liberty: The Statecraft of Thomas Jefferson, Oxford, Oxford University Press, 1992, p. 95. 7 M. DEL PERO, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2006, RomaBari, Laterza, 2008, p. 80. 8 Ibid., p. 81. La cessione avvenne col trattato di San Ildefonso del 1° ottobre 1800 (cfr. Preliminary and Secret Treaty between the French Republic and His Catholic Majesty the King of Spain, Concerning the Aggrandizement of His Royal Highness the Infant Duke of Parma in Italy and the Retrocession of Louisiana, October 1, 1800, in http://avalon.law.yale.edu/19th_century/ildefens.asp), anche se esso prevedeva un periodo di transizione, durante il quale la Spagna sospese i diritti di deposito a New Orleans, la città in cui gli americani stoccavano a tempo indefinito le loro merci, circa il trenta per cento dei prodotti americani, che scendevano dal Mississippi e dai suoi due affluenti, l’Ohio e il Tennessee. L’importanza della città era chiara. Lo stesso presidente Jefferson – convinto che la decisione di Madrid derivasse dalla Francia – mandò un suo inviato a Parigi con un messaggio laconico, ma molto preciso: «Se gli Stati Uniti avevano un nemico al mondo, questi era colui che possedeva la Nouvelle Orleans». In realtà, la Spagna aveva preso autonomamente la decisione, per mettere in difficoltà i rapporti franco-statunitensi. 156 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo sia con incursioni militari nella regione da parte dell’esercito statunitense. I due volti della politica espansionistica americana – quello diplomatico, voluto dall’allora segretario di Stato John Quincy Adams, e quello militare, portato avanti dal generale Andrew Jackson, con una dubbia autorizzazione da parte dell’amministrazione Monroe – s’intrecciarono saldamente e portarono, di fatto, alla conquista delle due Floride, che la Spagna non ebbe la forza di mantenere in suo possesso. L’espansionismo americano non prevedeva – nella concezione di Adams – una possibile convivenza con colonie di altre potenze europee, per il semplice fatto che ciò avrebbe costituito una vera e propria “assurdità fisica, politica e morale”. Di conseguenza, il suo appoggio a quella che considerava un’azione di preemption da parte di Jackson 9 – che, nel 1818, aveva invaso la Florida spagnola, occupando Pensacola, dopo una serie di assalti ai confini del territorio da parte dei Seminoles e dei Creeks – veniva giustificato dalla evidente incapacità della Spagna di mantenere l’ordine nella regione; se ciò non fosse accaduto, come la realtà faceva intravedere, allora essa avrebbe dovuto «cedere agli Stati Uniti una provincia […] che è in effetti abbandonata, aperta all’occupazione di ogni nemico, civile o selvaggio, degli Stati Uniti e [che] non ha altro scopo in terra che quello di creare loro fastidio». 10 L’intervento di Adams – sostiene Mario Del Pero – giunse appena in tempo a salvare politicamente Jackson e a porre anche le premesse del successivo accordo con la Spagna, formalizzato col Trattato Adams-Onís del 1819 (noto come il “trattato transcontinentale”), 11 con il quale le due Floride passavano agli Stati Uniti, mentre la Spagna rinunciava a qualsiasi rivendicazione sull’area del nord-ovest fino al Pacifico, pur mantenendo ancora il controllo sul Texas. La frontiera si spingeva sempre più avanti e raggiungeva, così, il Pacifico, sublimando l’espansionismo della giovane repubblica, ma anche frenandone la corsa verso il sud-ovest, dove il ri9 Cfr. J.L. GADDIS, Attacco a sorpresa e sicurezza: le strategie degli Stati Uniti, Milano, Vita e Pensiero, 2005, p. 22. 10 Adams to George W. Erving, November 28, 1818, cit. in S.F. BEMIS, John Quincy Adams and the Foundations of American Foreign Policy, New York, Knopf, 1949, p. 327. 11 Cfr. Treaty of Amity, Settlement, and Limits Between the United States of America and His Catholic Majesty. 1819, in The Federal and State Constitutions Colonial Charters, and Other Organic Laws of the States, Territories, and Colonies Now or Heretofore Forming the United States of America, Compiled and Edited Under the Act of Congress of June 30, 1906 by F.N. THORPE, Washington, DC, Government Printing Office, 1909. 157 Giuliana Iurlano schio maggiore poteva essere quello di portare nell’Unione nuovi Stati schiavisti, capaci di alterare i già fragili equilibri del Congresso e di rallentare quella che si riteneva l’auspicabile e inevitabile abolizione della schiavitù. Il tentativo di Adams di spostare la frontier line verso nord-ovest non riuscì nemmeno con il fragile compromesso del Missouri del 1820: il collante politico dell’espansionismo venne meno, trasformandosi in un ulteriore fattore di divisione e di conflitto. L’indipendenza delle provincie messicane dell’impero spagnolo, dopo dieci anni di sfibrante sforzo bellico, avallò l’insediamento dei coloni americani nel Texas e, contemporaneamente, mise in crisi ciò che restava dei già precari rapporti con Madrid. La crisi dell’impero spagnolo – manifestatasi col suo tracollo nell’America Latina, a seguito dei moti rivoluzionari europei che, negli anni Venti, incendiarono le “periferie” del mondo – s’intrecciò con le mire sul continente americano di alcuni paesi europei, desiderosi di “restaurare” monarchie e principi abbattuti dalla rivoluzione francese. La risposta statunitense partì ancora una volta da Adams, segretario di Stato durante la presidenza Monroe, a seguito di una proposta britannica di partnership per sbarrare agli europei la “porta” di accesso alle Americhe: perché accettare un ruolo subalterno e restare legati alla balance of power del Vecchio Mondo, rinunciando all’acquisizione di nuovi territori, quando gli Stati Uniti avevano già ciò che gli inglesi promettevano, senza essere obbligati a fare significative rinunce? Il lungo messaggio presidenziale al Congresso riprendeva l’incisiva opinione di Adams e affermava quei principi basilari che, da quel momento in poi, sarebbero stati conosciuti come la Monroe Doctrine e che avrebbero sostanzialmente configurato le relazioni internazionali tra i due emisferi. 2. Il “caso Amistad” e gli accordi internazionali sul commercio degli schiavi «Ma ciò che ora assorbe gran parte del mio tempo e tutti i miei buoni sentimenti è il caso dei 53 negri africani presi al largo di Montauk Point dal luogotenente Gedney sul vascello degli Stati Uniti che sorvegliava la costa, e portati nel porto di New London». 12 Così Adams, nelle sue memorie, ricordava il “caso Amistad” e i problemi giuridici e internazionali 12 Memoirs of John Quincy Adams, Comprising Portions of His Diary from 1795-1848, CH.F. ADAMS, ed., vol. X, Philadelphia, J.B. Lippincott & Co., 1876, p. 133. 158 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo che esso sollevava. La goletta spagnola, infatti, era l’esempio eclatante del gap tra teoria e pratica, tra dichiarazioni di principio e realtà concreta, che, dal 1815 in poi, aveva caratterizzato il commercio degli schiavi. 13 Al Congresso di Vienna, infatti, le potenze europee – pur convenendo in linea di principio sul contrasto esistente con lo ius gentium e con i valori condivisi nel Concerto post-rivoluzionario 14 – non avevano affrontato adeguatamente il problema dei mezzi con cui abolire effettivamente i fenomeni della schiavitù e della tratta, che, in ogni caso, venivano inscritti nel più ampio contesto degli interessi economici dei singoli Stati, lasciando pertanto a questi ultimi la facoltà di accordarsi reciprocamente sulla questione, difficilmente inquadrabile nella cornice del “delitto internazionale” o dell’“atto di pirateria”, come proposto dalla Gran Bretagna nel Congresso di Verona del 1822. 15 In tale contesto, nel 1817 fu firmato un trattato anglo-spagnolo, che proibiva l’acquisto di neri in Africa e stabiliva che, a partire dal maggio del 1820, quelli portati nelle colonie spagnole avrebbero ottenuto la libertà. Tuttavia, l’art. 7 di tale trattato presentava un importante difetto, in quanto, da una parte, 13 La questione della tratta e del commercio degli schiavi fu affrontata nel Congresso di Vienna e, in particolare, nell’Atto Finale, firmato dai plenipotenziari, il 9 giugno 1815, al punto 15, art. 118. Su tale argomento, si veda G. PIETROSTEFANI, La tratta atlantica. Genocidio e sortilegio, Milano, Jaca Book, 2000, pp. 211-214. 14 «[…] Le commerce connu sous le nom de “traite des nègres d’Afrique” a été envisagé par les hommes justes et éclairés de tous les tems, comme répugnant aux principes d’humanité et de morale universelle». Declaration of the Powers Regarding the Abolition of the Slave Trade, in Final Act of the Congress of Vienna (1815), in TH. C. HANSARD, The Parliamentary Debates from the Year 1803 to the Present Time, vol. 32, 1 February to 6 March 1816, London, T.C. Hansard, 1816, pp. 71-72. 15 Cfr. P. ROBERTS-MILLER, John Quincy Adams’s Amistad Argument: The Problem of Outrage; Or, the Contraints of Decorum, in «Rhetoric Society Quarterly», XXXII, 2, Spring 2002, p. 6. La proposta inglese prevedeva, di conseguenza, la possibilità di visitare le navi sospette, cosa non gradita dalla Francia, che si dissociò. In ogni modo, Inghilterra e Francia firmarono un accordo in tal senso nel 1831, ma la vigilanza sulle navi per impedire il commercio degli schiavi sui mari fu introdotta soltanto con il Trattato di Londra del 1841, tra Inghilterra, Austria, Prussia e Russia. In particolare, oltre all’abolizione della tratta degli schiavi in Africa, nel trattato si prevedeva che ognuno dei contraenti concedesse agli altri il diritto reciproco di visita a bordo dei vascelli sospetti di tratta nelle acque africane, escluso il Mediterraneo, e il diritto di giudicare i comandanti e gli equipaggi delle navi, adibite al trasporto degli schiavi e catturate dai funzionari delle parti stesse, qualunque fosse stata la nazionalità della nave. 159 Giuliana Iurlano assicurava la libertà definitiva agli emancipados, ma, dall’altra, prolungava in realtà la schiavitù sull’isola. 16 Infatti, i neri sfuggiti alla cattura da parte degli schiavisti al largo della costa cubana avrebbero dovuto ricevere un certificato di emancipazione da parte di una commissione ad hoc, insieme a un lavoro da 5 a 7 anni come servi o lavoratori liberi, con la garanzia di godere della libertà alla fine di quel periodo. In realtà, proprio i funzionari governativi dell’isola “vendevano” gli emancipados ai proprietari di piantagioni, i quali li sottoponevano a condizioni lavorative durissime, sostituendoli spesso alla manodopera schiavile deceduta o fuggita. Come ricorda Howard Jones, «il sistema di emancipazione si trasformò in una fiorente attività per i proprietari di piantagioni, […] fornendo di fatto un’altra fonte di schiavi sull’isola». 17 A nulla servirono le proteste inglesi nei confronti di Madrid, che pure richiese – in maniera blanda, però, poiché non intendeva in alcun modo rinunciare ai proventi del commercio dello zucchero cubano – l’applicazione del provvedimento contenuto nel trattato: i piantatori cubani, infatti, anziché tenere un regolare registro degli emancipati, ne falsificavano le informazioni, ricavando profitti maggiori proprio nella vendita degli emancipados come schiavi alla fine del loro periodo lavorativo. 18 Anche gli Stati Uniti, naturalmente, non rispettarono la legge antitratta: di conseguenza, dopo la seconda guerra contro l’Inghilterra, il traffico schiavistico aumentò notevolmente. Del resto, agli incrociatori inglesi non era permesso perquisire le navi americane, né gli Stati Uniti potevano impegnare le loro navi nella sorveglianza delle coste africane per impedire il traffico degli schiavi. A ciò s’aggiungeva il fatto che, ogni qualvolta i controlli americani si facevano più stringenti, gli schiavisti tendevano a utilizzare i porti brasiliani e cubani, in cui la tratta non era proibita, come mercati, 19 per trasportare, poi, la loro “merce” lungo le coste meridionali americane o, addirittura, nella foce del Mississippi, presso i numerosi porti e territori di frontiera dove il contrabbando di 16 Cfr. H. JONES, Mutiny on the Amistad, New York, Oxford University Press, 1997, p. 18. 17 Ibid. 18 L’accordo anglo-spagnolo fu rinnovato nel 1835, ma i mercanti di schiavi trovarono comunque il modo per aggirare la legge, arrivando addirittura a sostituire, sulle navi, la bandiera spagnola con quella portoghese o americana; a ciò s’aggiungeva il grave fatto che le autorità cubane accettassero illegalmente del denaro per ignorare l’importazione di schiavi dall’Africa. 19 Il commercio internazionale continuò anche dopo che la regina Isabella di Spagna ebbe emanato un decreto regio per proibirlo. 160 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo schiavi poteva essere agevolmente praticato. Insomma, pur “rispettando” le norme che proibivano il commercio “internazionale” di schiavi, sia la Spagna (con le sue colonie), che gli Stati Uniti trovarono una sorta di compromesso nel non vietare tale commercio a livello intranazionale. 20 In particolare, durante la sosta a Cuba, i mercanti spagnoli esibivano documenti falsi da cui risultava che i neri erano schiavi nati nell’isola, cioè negros ladinos, e non invece negros bozales, catturati in Africa e trasferiti illegalmente sulle navi. 21 In ogni caso, la falsa identità loro attribuita non poteva essere in alcun modo rifiutata o contestata, per il semplice fatto che essi non parlavano affatto lo spagnolo. 22 Il governo inglese era stato informato dettagliatamente della situazione in cui versavano gli africani a Cuba da David Turnbull, un aboli20 Già i delegati alla Convenzione Costituzionale nel 1787 avevano dibattuto l’argomento della schiavitù, ma alla fine tutti avevano concordato sul fatto che gli Stati Uniti non si sarebbero più impegnati nel commercio transatlantico di schiavi a partire dal 1808. Effettivamente, da allora nessun vascello americano si recò in Africa in cerca di “merce umana”; tuttavia, continuò a esserci un commercio interno di schiavi o lungo la costa tra i vari porti americani, come si evince dai documenti federali, custoditi presso gli U.S. National Archives and Records Administration (NARA); particolarmente utili sono i records relativi alle carte d’imbarco sulle navi di “neri, mulatti e persone di colore”, sulle quali veniva annotato nome, età, sesso e proprietario dello schiavo. Cfr. Slave Manifests Document the Transportation of Slaves throughout the Southern Ports, in Documents from the Southeast Region – Atlanta, in http://www.archives.gov/northeast/education/slavery/slave-trade.html. Si veda anche D.B. DAVIS, Inhuman Bondage: The Rise and Fall of Slavery in the New World, Oxford, Oxford University Press, 2006. 21 Al di là della differente terminologia, il vero problema era di natura giuridica: esisteva, infatti, una distinzione legale tra le vittime di rapimento (catturate in Africa) e gli schiavi veri e propri (individui nati già nella condizione di schiavitù a Cuba o negli Stati Uniti). Ora, se tutti gli schiavi erano vittime di rapimento, la situazione cambiava rispetto al luogo della cattura: i nati schiavi potevano essere trasportati da un luogo all’altro, perché appartenevano dalla nascita al proprietario, mentre gli africani – essendo stati rapiti nel loro luogo d’origine e resi schiavi dopo – erano soggetti alle norme internazionali, che vietavano il commercio schiavile. Sul traffico di schiavi tra Spagna e Cuba, cfr. A.F. CORWIN, Spain and the Abolition of Slavery in Cuba, 1817-1886, Austin, University of Texas, 1967; D.R. MURRAY, Odious Commerce: Britain, Spain and the Abolition of the Cuban Slave Trade, Cambridge, Cambridge University Press, 1980. 22 Cfr. H. THOMAS, The Slave Trade: The Story of the Atlantic Slave Trade, 1440-1870, New York, Simon & Schuster, 1997, pp. 637-648; JONES, Mutiny on the Amistad, cit., pp. 16-17. 161 Giuliana Iurlano zionista britannico divenuto console a L’Avana alla fine del 1840; nel diario dei suoi viaggi ai Caraibi, descrisse i due recinti per schiavi costruiti dagli spagnoli allo scopo di «ricevere e vendere gli africani appena importati». 23 Tali recinti – continuava Turnbull – «costituiva[no] un virtuale monumento spagnolo al fallimento britannico di metter fine al commercio di schiavi africani [ed erano] un “sistema di rapimento ben organizzato”». 24 L’Amistad non fu il primo caso di avvistamento di vascelli stranieri che trasportavano illegalmente schiavi, ma probabilmente fu uno dei pochi che impresse un segno profondo, anche a livello giuridico, al problema della schiavitù. 25 In effetti, un caso analogo si era verificato nel 1818, ma aveva riguardato il trasporto illegale di schiavi su navi americane per conto di proprietari spagnoli; infatti, da quando il dominio coloniale spagnolo era diminuito significativamente nel Nuovo Mondo, per gli spagnoli era diventato più conveniente affidare il proprio “carico umano” ai vascelli statunitensi nel percorso da Cuba alla Florida (divenuta un «centro di scambi commerciali di schiavi sin dall’inizio del 1810»), 26 anche perché gli Stati Uniti avevano organizzato gli squadroni anti-pirateria nel Golfo del Messico e, dunque, erano preparati a difendere i propri mercantili, evitando che si trasformassero in bottino di azioni piratesche violente. Quando il generale Jackson conquistò Pensacola, i capitani di tre navi – la Merino, la Constitution e la Louisa – che trasportavano schiavi ed altre merci da L’Avana alla capitale della Florida spagnola, anche se ufficialmente dirette a Mobile (la prima) e a 23 D. TURNBULL, Travels in the West: Cuba, with Notice of Porto Rico and the Slave Trade, London, Longman-Orme-Brown-Green-Longmans, 1840, p. 57. 24 Ibid., pp. 59-61. 25 Molti casi furono portati a giudizio davanti alle Corti Distrettuali americane, come, per esempio, U.S. vs Ship Flora, 1807; Slaves of the Syrena, 1820; Juan Madraso vs Slaves & cargo of Isabellita, 1821 (U.S. District Court for the Southern District of Georgia, Savannah); U.S. vs Schooner Orion, 1823; U.S. vs W. Culler, 1821 (U.S. District Court for the Southern District of Alabama, Mobile); The Carolina (Sloop Lucy) vs Slave Sampson, 1814 (U.S. District Court for the Eastern District of North Carolina, Elizabeth City), in NARA, SOUTHEAST REGION, ATLANTA, The African Slave Trade: A Selection of Cases from the Records of the U.S. District Courts in the States of Alabama, Georgia, North Carolina, and South Carolina, in http://www.archives.gov/southeast/findingaids/african-slave-trade.pdf. 26 F. STAFFORD, Illegal Importations: Enforcement of the Slave Trade Laws along the Florida Coast, 1810-1828, in «Florida Historical Quarterly», XLVI, 2, October 1967, p. 125. 162 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo New Orleans (le altre due), “deviarono” dalla rotta prevista, certamente in modo non casuale e che costituiva di fatto un’esplicita violazione dei trattati internazionali e delle leggi americane. 27 Dopo che la Corte Distrettuale dell’Alabama aveva dato torto ai proprietari dei vascelli, i loro difensori avevano fatto appello alla Suprema Corte degli Stati Uniti contro la sentenza. 28 Ad ogni modo, i giornali dell’epoca diedero parecchio risalto alla “strana” navigazione, quasi non avesse una meta, dell’Amistad e, poi, alla novità costituita dall’ammutinamento degli schiavi, che si erano impadroniti con la forza della nave – uccidendo il capitano e tre membri dell’equipaggio – che essi cercavano disperatamente di far dirigere verso l’Africa. Per questo, come si legge nella «New London Gazette», gli schiavi avevano risparmiato la vita a un passeggero, Pedro Montes, e al proprietario del carico, Jose Ruiz, nella speranza che la goletta fosse da loro indirizzata verso le coste africane. Ma Montes – contando sul fatto che gli schiavi non s’intendevano affatto di navigazione – aveva cercato più volte di cambiare direzione, finché gli ammutinati, resisi conto della situazione, non lo avevano costretto a seguire il corso del sole (unico punto di riferimento che conoscevano). Lo spagnolo, tuttavia, ogni notte, aveva volutamente invertito la rotta. Di conseguenza, chiunque, da terra, avesse avvistato quella goletta che sembrava non avere una meta precisa, ma che zigzagava e girovagava lungo le coste americane, avrebbe rilevato una situazione sicuramente “strana” e sarebbe stato indotto a pensare che si trattasse di una nave pirata in attesa di una preda. 29 Una volta che la goletta fu costretta ad attraccare, i due spagnoli e gli schiavi sopravvissuti – 39 maschi adulti e 4 bambini – furono fatti scendere a terra e il capitano Gedney li consegnò al funzionario di polizia di New Haven, che informò immediatamente Andrew T. Judson, giudice del tribunale di prima istanza, dell’accaduto. La prima udienza fu fissata addirittura a bordo della Washington; in tale occasione, i due spagnoli indicarono Cinqué come il capo della rivolta e come il principale responsabile della morte dei due uomini dell’equipaggio. Poiché non par27 Cfr. HOUSE COMMITTEE ON THE SLAVE TRADE, Letter from the Secretary of the Treasury Transmitting the Information Required by a Resolution of the House of Representatives of the 4th Instant, 19 th Cong., 1st sess., April 20, 1826, pp. 4646. 28 Cfr. U.S. vs Schooners Constitution, Merino, Louisa and 84 Slaves, 1818, in NARA, SOUTHEAST REGION, ATLANTA, The African Slave Trade, cit. 29 Cfr. “The Suspicious Looking Schooner” Captured and Brought in This Port, in «New London Gazette», August 26th, 1839. 163 Giuliana Iurlano lava né comprendeva l’inglese e lo spagnolo, egli non ebbe alcuna possibilità di difendersi dalle accuse che gli erano state rivolte. 30 Trasferiti a New Haven, i mende rimasero in cella per ben 18 mesi, durante i quali potevano essere guardati da “spettatori” esterni dietro pagamento di 12,5 cents. 31 3. Il movimento abolizionista e il “caso Amistad” Alla fine degli anni Trenta, la società americana era profondamente attraversata da un forte sentimento di revival evangelico e da un diffuso movimento di riforma, che faceva appello ai valori cristiani e alla condotta morale del common man. Il secondo Great Awakening si coniugò quasi naturalmente con la causa abolizionista, sostenuta all’epoca soltanto da pochi “immediatisti”, da coloro, cioè, che volevano l’immediata emancipazione degli schiavi senza il versamento di alcun risarcimento ai proprietari. 32 Si trattava, in genere, di gruppi cristiani, che poco valutavano le conseguenze politiche e sociali di un tale intervento, ma che insistevano soprattutto sulla violazione dei più sacri principi della civiltà cristiana attuata dalla persistenza di quel peccato gravissimo costituito dalla schiavitù. Molti altri gruppi, invece, tendevano a “convertire” gli schiavisti del Sud, un percorso, questo, sicuramente molto lento e che non avrebbe dato subito risposte risolutive al grave problema; altri ancora – pur provando sinceri sentimenti anti-schiavisti – erano convinti che la “peculiare istituzione” sarebbe scomparsa in maniera quasi naturale 30 La causa presso la Corte Federale fu inizialmente registrata come United States v. Cinque, et al., proprio perché – a seguito della richiesta di condanna per omicidio e pirateria, pronunciata dal pubblico ministero del Connecticut – Cinqué fu ritenuto il capo della rivolta. In seguito, le accuse penali caddero, ma il ruolo cruciale di Cinqué nella vicenda non venne meno. Cfr. U.S. CIRCUIT COURT, DISTRICT OF CONNECTICUT, DOCKET BOOK, 1815-1843, Records of the U.S. District and Cicuit Courts for the District of Connecticut: Documents Relating to the Various Cases Involving the Spanish Schooner Amistad, National Archives Microfilm Pubblication M1753, Records of District Courts of the United States, Record Group (RG) 21, National Archives and Records Administration. 31 Cfr. D.B. DAVIS – S. MINTZ, eds., The Boisterous Sea of Liberty: A Documentary History of America from Discovery through the Civil War, New York, Oxford U.P., 1998, p. 420. 32 Cfr. G. SORIN, Abolitionism: A New Perspective, New York, Praeger, 1972, p. 17; L.J. FRIEDMAN, Gregarious Saints: Self and Community in American Abolitionism, 1830-1870, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, p. 18. 164 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo dal contesto americano. Nell’ampio ventaglio di posizioni differenti, una cosa accomunava i vari gruppi abolizionisti: nessuno di loro era ancora in grado di formulare un piano per il riassetto economico, sociale e politico del paese all’indomani dell’eventuale liberazione degli schiavi. In ogni caso, alla fine dell’età jacksoniana, il movimento sembrava essere in una fase di stallo, almeno fino a quando l’Amistad non entrò di prepotenza a ridare fiato a coloro che si battevano contro la “sordida natura della schiavitù”. 33 L’occasione per portare il caso dell’Amistad a conoscenza di alcuni membri del Congresso si verificò alla fine del 1840, quando John Quincy Adams fu informato in maniera dettagliata del sistema esistente a Cuba da un residente nell’isola, Charles Butler, il quale mise in evidenza la complicità dei funzionari e del governo cubano nell’avallare le dichiarazioni false fornite dagli schiavisti sull’identità e la provenienza degli africani. 34 Di fronte a una tale situazione – resa, tra l’altro, ancora più confusa per le implicazioni di natura internazionale che il traffico illegale di schiavi comportava nelle relazioni anglo-ispaniche 35 – gli abolizionisti sposarono la causa dell’Amistad, incoraggiati in ciò anche dal fatto che Adams volle coinvolgere nella difesa degli africani anche Roger Baldwin, un giovane avvocato abolizionista. Il caso dello shooner spagnolo, infatti, avrebbe potuto riportare alla ribalta la delicata questione della schiavitù, fino a quel momento affrontata in maniera diversa nei vari Stati americani settentrionali. 36 33 JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 35. Cfr. Butler to John Quincy Adams, December 25, 1840, in ADAMS FAMILY PAPERS, Massachusetts Historical Society, Boston, MA, cit. in JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 22. 35 La preoccupazione spagnola era determinata dal fatto che si sospettava che la Gran Bretagna, pur di valorizzare i propri domini asiatici, stesse tentando di interrompere il commercio delle Indie occidentali, approfittando anche della turbolenta situazione politica interna della Spagna, esacerbata dai continui movimenti di rivolta e dalle risposte repressive del governo. In questo senso, la schiavitù avrebbe potuto costituire un pretesto per l’interferenza inglese nei Caraibi. Su tale argomento, cfr. Aaron Vail, American Minister to Spain, to Secretary of State, January 15, 1841, in U.S. DEPARTMENT OF STATE, Dispatches from U.S. Ministers to Spain, 1792-1906, National Archives, Washington, DC.; MURRAY, Odious Commerce, cit., pp. 113, 286; J.M. CALLAHAN, Cuba and International Relations: A Historical Study in American Diplomacy, Baltimore, Johns Hopkins U.P., 1899, pp. 171-172. 36 Il problema si poneva soprattutto per gli Stati a nord del Maryland: alcuni di essi, infatti, come il Massachusetts, il Vermont e il New Hampshire, avevano 34 165 Giuliana Iurlano In verità, il primo passo in tal senso lo aveva fatto E. W. Chester, un giovane avvocato del Connecticut, che aveva scritto una lettera all’«Emancipator», l’organo ufficiale dell’American Antislavery Society, in cui sosteneva che «il colore non [poteva] alterare i diritti o le responsabilità di un imputato». 37 Nel caso degli africani dell’Amistad, dunque, essi avrebbero dovuto ricevere lo stesso trattamento giudiziario di qualunque altra persona, indipendentemente dal colore della loro pelle; in tal modo, il movimento abolizionista – sostenendo che il diritto naturale alla libertà non era collegato né alla whiteness, né alla blackness, ma alla natura stessa degli individui – avrebbe potuto sferrare un colpo decisivo alla schiavitù e, di conseguenza, anche al pregiudizio razziale. Lo stesso Chester aveva dato vita all’Amistad Committee, insieme al rev. Joshua Easton (un abolizionista nero), Joshua Leavitt (editor dell’«Emancipator»), Roger Sherman Baldwin, Simeon S. Jocelyn (un pastore bianco di una chiesa nera di New York) e Lewis Tappan, con lo scopo di raccogliere fondi per la difesa degli africani e per l’eventuale cauzione da versare per il loro rilascio, oltre che per cercare un interprete in grado di tradurre dal mende all’inglese. Il Comitato, inoltre, aveva lanciato la campagna per la difesa degli africani dell’Amistad, pubblicato un Appello agli amici della libertà 38 e inviato una serie di lettere alle principali personalità politiche dell’epoca, compreso il presidente Martin Van Buren, con le quali si perorava la causa degli schiavi neri dell’Amistad. La strategia del movimento, però, era stata opera soprattutto di Dwight P. Janes (probabilmente un funzionario dell’ufficio doadottato, tra il 1777 e il 1804, una serie di misure legali atte ad abolire abbastanza velocemente la schiavitù; altri, invece, come la Pennsylvania, il New Jersey, il New York, il Connecticut e il Rhode Island, avevano preferito seguire una legislazione che eliminasse gradualmente l’istituzione della schiavitù. Su tale questione, cfr. D. MENSCHEL, Abolition Without Deliverance: The Law of Connecticut Slavery, 1784-1848, in «The Yale Law Journal», CXI, 183, Sept. 24, 2001, pp. 183-222. 37 E.W. Chester to Editor, in «Emancipator», Sept. 26, 1839, p. 87. Il corsivo è nel testo. 38 Il testo dell’Appeal to the Friends of Liberty – firmato da Jocelyn, Leavitt e Tappan – è in The Amistad Revolt: Struggle for Freedom, una pubblicazione dell’Amistad Committee del febbraio 1993, curata dal suo presidente Alfred L. Marder. Il 26 settembre del 1992 era stata scoperta una statua di bronzo, creata da Ed Hamilton, che rappresentava Cinqué e che era stata collocata di fronte alla City Hall di New Haven, nel punto esatto in cui i mende della Sierra Leone erano stati imprigionati. 166 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo ganale), il quale – dopo aver presenziato all’udienza tenuta a bordo della USS Washington – aveva informato gli altri abolizionisti che, per ammissione di José Ruiz, nessuno dei prigionieri era legalmente uno schiavo di proprietà dei due mercanti spagnoli, 39 né tantomeno essi potevano essere sudditi spagnoli, in quanto non erano stati abbastanza a lungo a L’Avana per risultarvi domiciliati e non erano nemmeno in grado di parlare lo spagnolo. Fu, dunque, proprio Janes a richiamare l’attenzione del movimento anche sull’illegalità procedurale con cui il caso Amistad stava per essere affrontato sul piano giudiziario, e a sollecitare l’intervento legale di Baldwin: «Probabilmente sto sopravvalutando l’importanza di questo caso – scrisse a Leavitt – ma tutti gli abolizionisti qui la pensano come me». 40 L’Amistad Committee, insieme al movimento abolizionista di New York – guidato da Lewis Tappan, un importante esponente dell’American Anti-Slavery Society 41 – si fece promotore di un acceso dibattito nazionale sul problema della schiavitù, sul cui caso – si pensava – avrebbe dovuto pronunciarsi un tribunale federale. La costituzione di un collegio di difesa di alto profilo – composto da Roger Baldwin, Seth Staples e Theodore Sedgwick – fece talmente scalpore che il procuratore distrettuale lo definì un “army of counsel”. 42 Esso aveva il compito di dare sostanza giuridica all’azione del movimento, volta a rinvenire 39 Cfr. Janes to Rev. Joshua Leavitt, Aug. 30, 1839, in AMERICAN MISSIONARY ASSOCIATION PAPERS, Box 197, “Sierra Leone” Folder, Amistad Research Center [d’ora in avanti ARC], New Orleans, LA; Janes to Roger S. Baldwin, Aug. 30, 1839, ibid.; Lewis Tappan to Baldwin, Nov. 11, 1839, in BALDWIN FAMILY PAPERS, Box 35, Sterling Memorial Library, Yale University, New Haven, CT; Testimony of Sullivan Haley and Dwight Janes Concerning Remarks of Ruiz, Nov. 19, 1839, in U.S. DIST. COURT RECORDS FOR CONN., Federal Archives and Records Center, Waltham, MA. Sulla testimonianza di Janes, cfr. anche BARBER, History of the Amistad Captives, cit., p. 20. 40 Cit. in JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 35. 41 Cfr. Letter from Lewis Tappan (Sept. 9, 1839), Letters & Diary Entries, in Famous American Trials, 1839-1840, http://law2.umkc.edu/faculty/projects/ftrials/amistad/amistd.htm. 42 William S. Holabird to Henry D. Gilpin, Sept. 6, 1839, in Letters Received from U.S. District Attorneys, Marshals, and Clerks of Court, 1801-1898, Records of the Solicitor of the Treasury, RG 206, in Appellate Case File No. 2161: United States v. Amistad, 40 U.S. 518 (15 Peters 518), Decided March 9, 1841, and Related Lower Court and Department of Justice Records, National Archives Microfilm Publication M2012, General Records of the Department of Justice, RG 60, NARA. 167 Giuliana Iurlano documenti, vecchi statuti, trattati o leggi che potessero insinuare il dubbio (“to get a peg to hang a doubt upon”) circa la legalità della richiesta di restituzione degli schiavi avanzata dai proprietari spagnoli. 43 Si trattava, in realtà, anche di intervenire sull’opinione pubblica del tempo, costretta spesso a leggere sulla stampa informazioni inesatte o addirittura travisate sul caso dell’Amistad, insieme alla descrizione dei negri come «grassi e pigri», dediti soltanto «a mangiare e a rubare». 44 In tale contesto, rientrava anche l’attribuzione a Cinqué di una presunta responsabilità maggiore nell’ammutinamento, di un indiscusso ruolo da protagonista, 45 evidenziato nelle cronache giornalistiche del tempo: «Il suo aspetto, per essere quello di un nativo africano, è particolarmente intelligente e presenta una determinazione e una freddezza non comuni, con una compostezza propria di vero coraggio, e niente che lo indichi come un uomo pericoloso. […] I suoi sentimenti morali e le sue facoltà intellettuali predominano considerevolmente sui suoi istinti animaleschi. Si dice che […] abbia ucciso il capitano e i membri dell’equipaggio con le sue stesse mani, tagliando loro la gola. Ha anche attentato parecchie volte alla vita del signor Montes, e le spalle di alcuni poveri negri sono coperte di cicatrici causate dai colpi della sua frusta per sottometterli». 46 43 Cfr. The Case of the Captured Negroes, in «New York Morning Herald», September 9, 1839, The Gilder Lehrman Center for the Studt of Slavery, Resistance & Abolition, Yale University. 44 Cfr. ibid. Sulla stampa comparvero anche articoli o lettere di forte critica nei confronti del movimento abolizionista, colpevole – con i suoi ipocriti ed insidiosi appelli alle simpatie del pubblico – di aver sfavorito la causa dei neri. Cfr. The Captured Africans, in «New York Morning Herald», September 18, 1839, p. 2. 45 In alcuni articoli, Cinqué era definito come un “African hero”. Cfr. On Cinques, in «The Colored American», October 19, 1839. Sulla sua figura esiste una vasta e spesso romanzata letteratura; si veda, in particolare, A. ABRAHAM, Sengbe Pieh: A Neglected Hero?, in «Journal of the Historical Society of Sierra Leone», II, 2, 1978, pp. 22-30; ID., Sengbe Pieh, in Dictionary of African Biography, vol. 2, Algonac, MI, Reference Publications, 1979, pp. 141-144. 46 U.S. Brig Washington, New London, Tuesday, 12 o’clock, in «New London Gazette», Aug. 26th, 1839. Lo stesso reporter, autore dell’articolo, avrebbe poi descritto Cinqué come «un negro che sarebbe stato valutato, all’asta di New Orleans, almeno 1500 dollari». Ibid. Su Cinqué, dopo la liberazione e il suo ritorno in Africa, si diffuse la voce che fosse egli stesso implicato nel traffico degli schiavi, notizia, però, smentita con fermezza dallo storico Howard Jones. Cfr. H. JONES, Cinqué of the Amistad a Slave Trader? Perpetuating a Myth, in «The Journal of American History», LXXXVII, 3, December 2000, pp. 923-939; ma 168 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo Del resto, a comprovare la fama di Cinqué stava anche il fatto che, quando il procuratore distrettuale del Connecticut chiese la condanna degli africani per il reato di omicidio e di pirateria, il caso fu iscritto a ruolo nella Corte federale come United States v. Cinque, et al., e sebbene l’imputazione penale venisse alla fine respinta, «l’intestazione della causa – con cui si ribadiva il ruolo critico di Cinqué – mantenne la sua caratteristica distintiva anche nel prosieguo del procedimento giudiziario relativo all’Amistad e agli schiavi a bordo di essa». 47 anche P. FINKELMAN, On Cinqué and the Historians, in «The Journal of American History», LXXXVII, 3, December 2000, pp. 940-946. 47 B.A. RAGSDALE, “Incited by the Love of Liberty”. The Amistad Captives and the Federal Courts, in «Prologue Magazine», XXXV, 1, Spring 2003, Part. 1. 169 Giuliana Iurlano Contemporaneamente alla battaglia giornalistica, il Comitato sollecitò Baldwin a presentare – se fosse stato necessario – una richiesta di habeas corpus per i prigionieri africani, affinché fossero rilasciati prima che l’amministrazione Van Buren, in ottemperanza a quanto previsto dal Trattato di Pinckney del 1795, ne disponesse la restituzione al governo spagnolo. Non si trattava di un’ipotesi peregrina, tenuto conto del fatto che agli abolizionisti erano giunti parecchi rumors sulle intenzioni della Corona spagnola di insistere nella richiesta di riavere gli schiavi e sulla 170 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo probabile risposta positiva della Casa Bianca. 48 Lo stesso John Quincy Adams si rifiutava di credere alla possibilità che i mende potessero subire anche la beffa di essere giudicati da un tribunale di rapitori di schiavi. 49 Di conseguenza, la strategia del movimento abolizionista fu diretta a spostare la decisione dalla mera discrezionalità dell’Esecutivo ai tribunali, da sempre chiamati a garantire i diritti civili. In tal senso, va letta la lettera inviata al presidente Van Buren da Staples e Sedgwick, nella quale essi sollevavano forti obiezioni sull’interpretazione del trattato ispano-statunitense, anche alla luce della proclamazione dell’illegalità del commercio schiavile da parte di Madrid; dunque, nessuna legge internazionale avrebbe potuto costringere il presidente americano a cedere a una richiesta spagnola formalmente e sostanzialmente illegale, così come illegale era la pretesa di Ruiz e Montes di riavere la loro “proprietà”, anch’essa illegalmente importata a Cuba. Insomma, la prova del fatto che tutto aveva avuto origine dalla cattura in Africa di individui nati liberi e trasformati in schiavi stava proprio nell’esercizio, da parte di costoro, del sacrosanto diritto all’autodifesa nei confronti di chi li aveva strappati al loro villaggio e costretti in catene. 50 Scrive Howard Jones: 48 Cfr. JONES, Mutiny on the Amistad, cit., pp. 44-45. L’art. 8 del Trattato di Pinckney stabiliva che, se un vascello della nazione firmataria fosse entrato nel porto di un’altra «through stress of weather, pursuit of pirates or enemies, or any other urgent necessity, that ship should receive good treatment, help, protection, and provisions at reasonable rates. [...] It shall no ways be hindered from returning out of the said ports». L’art. 9 dello stesso Trattato affermava che «all ships and merchandise, [...] with shall be rescued out of the hands of any pirates or robbers in high seas [sarebbero stati consegnati agli ufficiali portuali] to be taken care of, and restored entire» ai proprietari. Infine, l’art. 10 dichiarava che qualsiasi vascello «wrecked, foundered, or otherwise damaged [sulle coste o in acque territoriali di un altro paese avrebbe dovuto ricevere] the same assistance which would be due to the inhabitants of the country where the damage happens, and shall pay the same charges and dues only as the said inhabitants would be subject to pay in a like case». Il testo completo del Trattato (confermato dall’Adams-Onis Treaty del 1819) è reperibile in THE AVALON PROJECT, DOCUMENTS IN LAW, HISTORY AND DIPLOMACY, Yale Law School, Lillian Goldman Law Library, http://avalon.law.yale.edu/18th_century/sp1795.asp. Il corsivo è mio. 49 Cfr. John Quincy Adams to William Jay, Sept. 17, 1839, in ADAMS FAMILY PAPERS, Massachusetts Historical Society, Boston, MA, cit. in JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 45. 50 Cfr. Staples and Sedgwick to President of U.S., Sept. 13, 1839, in H. Exec. Doc. 185, pp. 63-64. Di diverso parere il segretario di Stato, John Forsyth. Cfr. J. FORSYTH (SECRETARY OF STATE), However unjust...the slave trade may be, it 171 Giuliana Iurlano «Gli abolizionisti intendevano portare il caso Amistad davanti all’opinione pubblica. Per far ciò, avrebbero dovuto strapparlo alle trattative private del presidente con la Spagna e portarlo davanti ai tribunali, dove – essi speravano – sarebbe divenuto parte del più ampio gioco della politica nazionale». 51 4. I primi due processi Nella prima fase del processo penale dinanzi al Tribunale Distrettuale presieduto dal giudice Andrew T. Judson, questi fece riferimento al Judiciary Act del 1789, che – a completamento dell’art. III della Costituzione, con cui veniva istituito il potere giudiziario 52 – precisava l’ambito di competenza per molti reati federali, per le dispute relative a cittadini di differenti Stati e, soprattutto, per una serie di casi minori in cui il governo federale fosse attore o convenuto. Judson, dopo aver ascoltato le parti, 53 fissò la data per la comparizione davanti al competente Tribunale Circoscrizionale di Hartford. Il 18 settembre 1839 ebbe inizio il processo penale, presieduto dal giudice Smith Thompson, contro gli africani dell’Amistad, imputati di omicidio, ammutinamento e atti di pirateria. La difesa sperava sin da subito di ribaltare l’impostazione accusatoria, portando la questione sul piano dei diritti umani e di quelli di proprietà inerenti la schiavitù. Per far ciò, era necessario separare gli interventi difensivi, presentando immediatamente un writ of habeas corpus nei confronti delle tre ragazze africane, imprigionate insieme con gli uomini mende, in modo tale che, se fosse stata dimostrata l’inesistenza di qualunque base giuridica a giustificazione della loro detenzione, gli avvocati avrebbero potuto estendere l’argomentazione anche agli altri prigionieri. In sostanza, il fulcro dell’azione difensiva stava in un semplice ragio- is not contrary to the law of nations, 1839. Africans Taken in the Amistad, U.S. 26th Cong., 1st Sess., H. Exec. Doc. 185, New York, Blair & Rives, 1840, pp. 57-62. 51 JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 46. 52 Relativamente al Judiciary Act del 1789, cfr. Documentary History of the Supreme Court of the United State, 1789-1800, vol. 4, Organizing the Federal Judiciary: Legislation and Commentaries, M. MARCUS – J.R. PERRY, eds., New York, Columbia University Press, 1992, pp. 22-107; R.R. WHEELER – C. HARRISON, Creating the Federal Judicial System, Federal Judicial Center, 19942. 53 I principali testimoni furono Ruiz e Montes, l’interprete (il luogotenente R.W. Meade) e Antonio, lo schiavo del capitano ucciso. Il contenuto delle testimonianze è in History of the Amistad Captives, cit., pp. 6-8. 172 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo namento: l’habeas corpus poteva essere concesso soltanto a “persone” (le uniche titolari di diritti) e non a “proprietà”; se le ragazze lo avessero ottenuto, allora sarebbe stato riconosciuto il loro status di persone e, dunque, per analogia, anche quello degli altri “presunti” schiavi dell’Amistad. Di conseguenza, le accuse sarebbero state rivolte a “persone” ben precise, con tutte le implicazioni del caso: intanto, il riconoscimento di ciò avrebbe sancito un importante principio nella battaglia abolizionista, un principio che, dal Connecticut, poteva essere esteso a tutti gli Stati Uniti; inoltre, fatto ancora più importante, i funzionari che avevano eseguito l’arresto avevano agito illegalmente, violando i fondamentali diritti dei neri; per ultimo, ma non meno importante, sarebbe stato implicitamente riconosciuto che il rispetto dei diritti umani andava oltre le leggi statali, perché riguardava il genere umano nel suo complesso. 54 Si trattava, indubbiamente, di una linea di difesa molto ambiziosa, che mirava a scardinare alle fondamenta l’istituto della schiavitù 55 o, quantomeno, a segnare un primo importante traguardo nella battaglia abolizionista. Ma era anche molto arduo pensare di riuscire a vincere facilmente sul piano giuridico, senza dover superare tutta una serie di ostacoli anche di natura politico-diplomatica. L’“affaire Amistad” si giocava tutto su piani diversi che s’intersecavano: il piano politico-diplomatico, che riguardava sia le relazioni internazionali tra Spagna e Stati Uniti, sia la posizione dell’amministrazione Van Buren alla vigilia del rinnovo del mandato presidenziale; quello penale, relativo alle accuse più gravi rivolte ai mende; quello civile, che si riferiva sia ai diritti di proprietà del carico del vascello (in questo caso, riferiti ai due mercanti spagnoli, ma anche alla stessa Corona di Spagna, visto che il vascello batteva bandiera spagnola), sia al capitano della U.S. Washington, che pretendeva 54 Si veda, a tal proposito, W.M. WIECEK, The Sources of Antislavery Constitutionalism in America, 1760-1848, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1977, p. 157, n. 24. Fu in particolare Lewis Tappan ad essere persuaso che, se il collegio difensivo avesse provato che gli africani dell’Amistad erano persone, anche la richiesta dei mercanti spagnoli di riavere indietro la loro proprietà sarebbe venuta meno. Cfr. William S. Holabird, U.S. District Attorney, to Secretary of State John Forsyth, Sep. 21, 1839, in H. Exec. Doc. 185, cit., p. 40. 55 Lo chiarì molto bene Joshua Leavitt, nel suo intervento alla General Antislavery Convention a Londra, quando precisò che lo scopo del writ era soprattutto quello di «testare il loro [degli africani] diritto alla personalità». Leavitt’s Address before the Convention, June 15, 1843, in Proceedings of the General AntiSlavery Convention, June 13-20, 1843, in ARC, cit. 173 Giuliana Iurlano l’indennità di salvataggio, prevista dal diritto marittimo; 56 infine, il piano di principio, che cercava di dare risposta a una serie di domande: se gli africani dell’Amistad fossero nati liberi (e, dunque, fossero stati rapiti e trasformati in schiavi), o se fossero schiavi dalla nascita; se i mende potessero essere considerati alla stregua di oggetti o se, invece, dovessero essere considerati persone a tutti gli effetti, compresa la titolarità dei diritti innati; se, infine, i blacks in generale fossero uomini alla stregua dei bianchi e se la “peculiare istituzione” della schiavitù non violasse la più grande legge della natura umana. A tutto ciò s’aggiungevano i preliminari problemi relativi alla competenza del giudice (spagnolo, come affermava la Corona, visto che il reato era avvenuto in acque internazionali e su una nave spagnola; statale, in quanto l’Amistad era stata fatta approdare in un porto del Connecticut; federale, poiché la questione riguardava le relazioni internazionali e il rispetto dei precedenti trattati stipulati con una nazione straniera). Naturalmente, il piano politico-diplomatico era l’ambito più caldo del dibattito e lo si comprese immediatamente già il 6 settembre 1839, quando – anticipando la prima comparizione nella fase pre-trial – l’ambasciatore spagnolo a Washington, Angel Calderón de la Barca, richiese formalmente la restituzione dell’Amistad e del suo carico al segretario di Stato John Forsyth. 57 Dietro alla richiesta spagnola, vi erano alcuni timori molto forti, il più importante dei quali era che la Gran Bretagna utilizzasse la presunta violazione del trattato anglo-spagnolo contro il commercio degli schiavi come pretesto per intervenire a Cuba. Oltre che salvare la faccia, gli spagnoli dovevano mantenere una posizione ferma sul piano dei rapporti internazionali, proprio a causa delle gravi questioni interne, seguite ai moti indipendentistici, che avrebbero potuto pregiudicare la loro credibilità nello scenario mondiale. Tuttavia, qualunque decisione il governo americano avesse preso, la Corona spagnola 56 Sul ruolo dell’Admiralty Law nel caso Amistad, si veda D.O. LINDER, Salvaging Amistad, in «The Journal of Maritime Law and Commerce», XXXI, 4, October 2000, pp. 559-581. 57 Cfr. Calderón to Forsyth, Sept. 6, 1839, in U.S. DEPARTMENT OF STATE, Notes from the Spanish Legation in the U.S. to the DS, 1790-1906, National Archives, Washington, DC. Il giornale spagnolo «Noticioso de Ambos Mundos» pubblicò, con ricchezza di particolari, la posizione del governo di Madrid sulla vicenda, insistendo soprattutto sulla questione di principio, secondo la quale i sentimenti privati sulla schiavitù e sul commercio schiavile non dovevano interferire con la legge e la giustizia. Il resoconto è riportato nel «New York Advertiser & Express», Sept. 11, 1839, p. 1. 174 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo non avrebbe potuto evitare alcune situazioni imbarazzanti. In primo luogo, se gli Stati Uniti avessero restituito gli africani, questi sarebbero stati sicuramente condannati a morte da un tribunale cubano (sempre che un processo ci fosse stato) 58 e l’opinione pubblica americana – adeguatamente sollecitata dal movimento abolizionista – avrebbe protestato clamorosamente; in secondo luogo, l’eventuale esecuzione dei mende avrebbe rafforzato le ragioni interventiste britanniche contro la Spagna; infine, se gli africani fossero stati giudicati negli Stati Uniti, in ogni caso la posizione inglese si sarebbe rafforzata, sia che la giustizia americana avesse liberato i presunti schiavi (nel qual caso, la violazione spagnola sarebbe stata confermata), sia che li avesse restituiti ai mercanti spagnoli, mettendo così a rischio la loro vita. 59 Anche sul piano politico interno, il presidente Van Buren era propenso ad accogliere le richieste spagnole, per non rischiare di spaccare l’Unione in un momento così delicato, ma soprattutto per non rompere, nelle elezioni del 1840, la coalizione di Northerners e di Southerners che aveva appoggiato il Partito democratico e che probabilmente avrebbe continuato a funzionare se solo la questione della schiavitù fosse rimasta in ombra. Anche Andrew Jackson, predecessore di Van Buren, aveva scelto di mantenere un atteggiamento, per così dire, “neutrale” sulla spinosa questione della schiavitù, e la stessa cosa stava tentando di fare il presidente in carica, anche sulla base di una serie di analogie individuate tra il caso dell’Amistad e quello di ben tre vascelli americani (il Comet, l’Encomium e l’Enterprise), adibiti al trasporto costiero di schiavi dalla Virginia alla Louisiana e costretti, dopo una tempesta, ad un approdo forzato in territorio inglese, dove erano stati trattenuti dai britannici. In quei casi, in effetti, Lord Palmerston alla fine aveva accolto le richieste d’indennizzo avanzate dagli americani, ad eccezione di quella riguardante l’Enterprise, approdata alle Bermuda dopo il 1° agosto 1834, cioè dopo l’entrata in vigore del decreto di emancipazione nelle Indie occidentali. Ma proprio su tale argomentazione gli americani 58 A Cuba, infatti, esistevano interessi molto forti contro una possibile assoluzione dei neri, che certamente avrebbe creato un importante precedente. 59 La convinzione spagnola di un probabile intervento britannico a Cuba era, in realtà, sopravvalutata: l’Inghilterra stava vivendo una serie di difficoltà sia interne, che internazionali, in particolare per la questione dei confini canadesi nell’America settentrionale. Tuttavia, come afferma Howard Jones, «se le percezioni degli americani e degli spagnoli fossero fondate, è poco importante; essi credevano che i britannici fossero in grado di intervenire a Cuba». JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 53. Il corsivo è nel testo. 175 Giuliana Iurlano espressero le loro critiche più aspre, sostenendo che il commercio schiavile costiero era permesso dalla legislazione statunitense, che prevaleva dunque su quella britannica. 60 Tale precedente – in particolare quello della Comet, accaduto nel 1830, quando lo stesso Van Buren era segretario di Stato – sembrava avvalorare l’ipotesi che l’amministrazione americana si stesse accingendo ad accogliere la richiesta della Corona spagnola, soprattutto per ragioni politiche, più che giuridiche. In sostanza, qui non si trattava soltanto di sostenere la tesi della legalità del trasporto costiero degli schiavi da Cuba ad altri porti spagnoli, bensì di evitare di indagare a fondo sull’ipotesi di frode e di false dichiarazioni fatte dai due mercanti. Qualunque accertamento, infatti, avrebbe finito per sollevare il caso e infiammare l’opinione pubblica anti-abolizionista, proprio quello che Van Buren non voleva che accadesse. 61 John Forsyth, nel suo ruolo di segretario di Stato, era anche fermamente contrario a quanto suggerito dal segretario del Tesoro Levi Woodbury, vale a dire di scaricare la risoluzione del problema alla magistratura, facendo così in modo che l’Esecutivo non dovesse a tutti i costi compromettersi con una 60 La contro-argomentazione fu sviluppata sia dall’ambasciatore americano a Londra, Andrew Stevenson (egli stesso proprietario di schiavi), sia dal senatore del North Carolina, John C. Calhoun, il quale sostenne a chiare lettere che, secondo il diritto internazionale, un vascello adibito a un commercio legale (nel caso americano, il trasporto costiero di schiavi) era sotto la giurisdizione del paese cui il vascello apparteneva, anche se esso fosse stato costretto ad approdare in territorio straniero. Occorre considerare, tra l’altro, che, proprio nell’ottobre del 1839, il segretario di Stato Forsyth ricevette una comunicazione dall’ambasciatore britannico Henry S. Fox, che metteva in evidenza le pecche delle leggi contro il commercio schiavile e chiedeva agli Stati Uniti una collaborazione formale. La risposta americana sottolineò la duplice politica praticata dagli Stati europei e ribadì la volontà dell’amministrazione di agire in prima persona negli atti dissuasivi, senza alcuna convenzione formale con altre nazioni. Naturalmente, in tale risposta giocò anche la volontà di non interferenza nella “peculiare istituzione” degli Stati del Sud. Su tale argomento, cfr. A.L. DUCKETT, John Forsyth Political Tactician, Athens, University of Georgia Press, 2010, pp. 183-184. 61 Jones cita una lunga lettera di Van Buren pubblicata sui giornali dell’epoca, in cui il presidente sosteneva che «la relazione tra padrone e schiavo apparteneva “esclusivamente” ai singoli Stati e che il governo di Washington non aveva alcun diritto di violare lo “spirito del compromesso che sta alla base del patto federale”. Gli abolizionisti – a suo parere – cercavano soltanto “di disturbare le amichevoli relazioni esistenti tra gli Stati schiavisti e gli Stati liberi di quest’Unione” ed egli, da “uomo pubblico”, aveva il dovere di opporsi apertamente alle loro tattiche». JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 57. 176 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo decisione politically incorrected. Forsyth, invece, ribadiva con forza che la questione dell’Amistad «era una prerogativa del presidente, il quale era obbligato da un trattato a restituire il vascello col suo carico alle autorità spagnole». 62 Di conseguenza, gli Stati Uniti non avevano alcun diritto di indagare sulla legalità della proprietà schiavile, ragion per cui «il caso davanti alla corte federale costituiva un improprio contenzioso». 63 In questa direzione andavano anche i contatti preliminari tra Forsyth e il procuratore distrettuale William S. Holabird (adeguatamente istruito sui passi da compiere per evitare di portare il caso davanti a un tribunale) prima, e tra il segretario di Stato e il procuratore generale Felix Grundy – il quale presentò una “opinione legale” a sostegno della tesi della restituzione alla Spagna del vascello e del suo carico –, poi; 64 nel caso in cui ci fosse stata una decisione contraria da parte dei giudici, il procuratore era pronto ad appellarsi di fronte alla Corte Suprema. L’aspetto più interessante di tutta la faccenda era la convinzione, da parte della Casa Bianca, che ci fossero tutte le prerogative per un “intervento” – o, meglio, per una “interferenza” – da parte dell’Esecutivo nel procedimento giudiziario. Dopo tre giorni di accese battaglie legali, il giudice Thompson emise la sentenza: la Circuit Court non era competente a giudicare per le imputazioni di omicidio e di pirateria, poiché tali reati erano stati commessi su una nave spagnola e in acque spagnole; sulle varie richieste di restituzione della proprietà, incluse quelle di Ruiz e Montes relativamente agli “schiavi” africani, avrebbe deciso il Tribunale Distrettuale; infine, fu rigettato l’habeas corpus per il rilascio delle bambine mende. La sentenza del giudice Thompson risultò molto ambigua, per il semplice fatto che non entrava nel merito dello status degli africani, ma si limitava a circoscrivere gli ambiti giurisdizionali del presunto “reato”; in sostanza, nulla veniva detto sui prigionieri dell’Amistad, in un certo modo equiparati a molti neri statunitensi, che non erano né schiavi, né liberi: dichiararli “liberi” in quanto dotati di diritti naturali avrebbe significato contravvenire alle leggi americane; ma anche confermare il loro stato di schiavitù sarebbe stato in conflitto con le disposizioni internazionali finalizzate a rendere la tratta degli schiavi un commercio illegale. D’altra parte, tutte le argomentazioni del movimento antischiavista urtavano 62 DUCKETT, John Forsyth, cit., p. 186. Ibid. 64 Il contenuto del documento di Grundy è analizzato in particolare in JONES, Mutiny on the Amistad, cit., pp. 57-60. 63 177 Giuliana Iurlano contro quella che era la realtà sia del sistema legale statunitense, sia delle tradizioni americane, che avevano sancito l’esistenza della schiavitù sin dal XVII secolo e che nessuno voleva mettere in discussione in modo improvviso, sulla base dell’affermazione di immoralità della schiavitù dei neri. Richiesta del diritto di salvataggio da parte del luogotenente Thomas R. Gedney, del brigantino U.S. Washington, 29 agosto1839 A quel punto, nuovamente convocata la District Court, Judson ritenne di aver bisogno di altre informazioni per decidere sulle richieste di proprietà e, intanto, concesse agli africani la libertà su cauzione «sulla 178 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo base del loro valore stimato in qualità di schiavi sul mercato cubano», 65 cosa che fu naturalmente respinta dagli avvocati difensori, in quanto avrebbe significato una preliminare ammissione dello status schiavile dei prigionieri. Essi, tra l’altro, si adoperarono per trovare un altro interprete, in modo tale da consentire ai mende di fornire anche la loro versione dei fatti. 66 Quando il collegio di difesa degli africani chiese l’escussione, tra gli altri testimoni, anche del Dr. R.R. Madden – un funzionario britannico di origine irlandese presso la Costa d’Oro (Ghana) e l’Avana (Cuba), membro della Commissione mista per la soppressione del commercio degli schiavi –, questi denunciò apertamente e sotto giuramento la flagrante violazione delle norme del Trattato anglo-spagnolo del 1820 67 e la complicità del console americano a Cuba, Nicholas Trist, il quale aveva ricavato enormi benefici finanziari da tutte le operazioni illecite che erano state compiute e da lui avallate. In particolare, però, Madden mise in evidenza il fatto che i prigionieri dell’Amistad fossero stati “importati” a Cuba di recente, anche se, sui documenti che li accompagnavano, erano stati dichiarati “ladinos”, una pratica, questa, alla quale avevano fatto ricorso Ruiz e Montes, assai frequente nell’isola ma indubbiamente illegale. 68 65 A. ABRAHAM, The Amistad Revolt: An Historical Legacy of Sierra Leone and the United States, pamphlet commissioned by the United States Information Service in Freetown, Sierra Leone, 1987, p. 9. 66 Di tale compito si incaricò J.W. Gibbs, un docente di Teologia e Letteratura Sacra presso la Yale Divinity School. Dopo essere riuscito ad imparare a contare fino a dieci nella lingua mende, si recò sulla banchina del porto di New York e lì cominciò a contare, finché non ebbe attirato l’attenzione di un marinaio, James Covey, un ex schiavo liberato dagli inglesi, che accettò di fare da interprete agli africani dell’Amistad. 67 Il Trattato anglo-spagnolo del 1820, che proibiva il commercio degli schiavi, era stato rinnovato nel 1835 e, nel 1838, riaffermato da un Reale Ordine della regina di Spagna che imponeva al capitano generale di Cuba di applicare la legge con “grande zelo”. 68 A seguito della testimonianza di Madden, i due spagnoli furono arrestati con l’accusa di rapimento e di illecita detenzione degli africani. La cauzione di 1000 dollari fu pagata da Montes, che ritornò immediatamente a Cuba, mentre Ruiz scelse per un breve periodo di rimanere in prigione, forte delle proteste del nuovo ambasciatore spagnolo, Pedro Alcántara de Argaiz, che insisteva sul difetto di giurisdizione da parte dei tribunali americani, ma alla fine – dopo aver anche lui pagato la cauzione – tornò a Cuba. Tutti e due non furono presenti all’udienza finale. Relativamente allo scambio di note diplomatiche tra Argaiz e Forsyth, cfr. Pedro Alcántara de Argaiz to Sec. of State John Forsyth, Oct. 18, 179 Giuliana Iurlano Nel lasso di tempo intercorso tra il novembre 1839 e il gennaio successivo, data di rinvio della causa, Forsyth rassicurò il governo spagnolo, impegnandosi a tener pronta una nave (la Grampus) per trasferire a Cuba i prigionieri, se essi fossero stati riconosciuti colpevoli, prima che gli abolizionisti potessero fare appello. 69 Alla fine, il 13 gennaio 1840, il giudice Judson emise la sentenza: i prigionieri dell’Amistad erano stati rapiti e venduti come schiavi in violazione della legge spagnola; pertanto, essi erano uomini liberi e, dunque, dovevano tornare nella loro terra. Sicuramente, il giudice Judson tenne conto di molti fattori: la manovra degli abolizionisti di “giudizializzare” la spinosa questione della schiavitù e la consapevolezza che l’opinione pubblica americana mostrava simpatia per i prigionieri del vascello spagnolo; il tentativo, da parte sua, di sganciarsi dall’eventualità di dover dimostrare – in quanto democratico jacksoniano – la propria lealtà nei confronti dell’amministrazione Van Buren, così come era accaduto in precedenza nel caso Crandall; 70 infine, 1839, cit. in JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 87; Argaiz to Forsyth, Oct. 22, 1839, U.S. Dept. of State, Notes from the Spanish Legation in the U.S. to the DS, 1790-1906, National Archives, Washington, DC. 69 L’ordine di preparare la Grampus per il trasporto dei prigionieri a Cuba fu dato da Van Buren il 7 gennaio del 1840, dopo uno scambio di corrispondenza tra il dipartimento di Stato e quello della Marina. Cfr., in particolare, Extract from Document No. 185, 1st Session (Executive Document, House of Representatives), 26th Congress, pp. 67-69, in Appendix to the Congressional Globe, House of Representatives, 30th Congress, 1st Session, The Amistad Case – Mr. J.A. Rockwell, August 8, 1848, p. 1130; ma anche Memorandum from the Department of State to the Secretary of the Navy, January 7, 1840, in cui Forsyth specifica che «questi ordini saranno impartiti con speciali istruzioni da non comunicare ad alcuno». Il documento è in D. LINDER, Stamped with Glory: Lewis Tappan and the Africans of the Amistad, in http://law2.umkc.edu/faculty/projects/ftrials/trialheroes/Tappanessay.html. Molto precise le direttive presidenziali a Holabird, tramite Forsyth: «Non si deve dare per scontato che ci sarà [l’appello]. Nella improbabile ipotesi che la decisione sia diversa, lei stesso deve presentare l’appello». Forsyth to Holabird, Jan. 6 -12, 1840, House Executive Document 185, pp. 55-56. 70 Nell’agosto del 1833, Prudence Crandall, un’educatrice quacchera, che aveva aperto una scuola a Canterbury, nel Connecticut, per “giovani signore e signorine di colore”, proprio per questo “reato” fu rinviata a giudizio. Giudice era Judson, il quale – come racconta Samuel J. May – così si espresse con lui sulla questione della schiavitù: «Mr. May, non ci siamo semplicemente opposti alla istituzione di quella scuola a Canterbury, ma anche ad eventuali altre scuole del genere nel nostro Stato. Le persone di colore non possono elevarsi dalla loro condizione servile nel nostro paese, e non dovrebbe essere permesso loro di cre- 180 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo il timore che la sua sentenza venisse ribaltata dalla Corte Suprema, cosa che avrebbe potuto assestare un duro colpo sia alla sua carriera, che alle sue ambizioni. Scrive Howard Jones: «Politicamente, socialmente e legalmente, Judson doveva camminare su una linea sottile tra il concedere qualcosa a tutte le parti e l’evitare di essere biasimato per la sua decisione, qualunque fosse stata». 71 In effetti, le proteste spagnole si fecero ben presto sentire: Argaiz, sdegnato, dichiarò che il mondo intero sapeva che un tribunale non poteva occuparsi di «crimini o atti delinquenziali commessi in altri paesi, o in altre giurisdizioni, e sotto altre leggi» e che nessun giudice avrebbe ammesso «petizioni o accuse da parte di schiavi contro i propri padroni». 72 Inoltre, si chiedeva l’ambasciatore spagnolo, perché non vi era alcun potere federale pronto a «interporre la sua autorità per sanare le irregolarità di questi procedimenti?». 73 Fu a questo punto che il presidente Van Buren ordinò al procuratore generale Holabird di fare immediatamente appello contro la sentenza di assoluzione. 5. Il caso Amistad davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti Anche se John Quincy Adams, l’“old man eloquent”, come veniva definito, aveva affiancato – ma solo in qualità di consulente molto autorevole – il collegio difensivo degli africani, la sua partecipazione attiva al caso fu esplicitamente richiesta da Lewis Tappan, che si recò a trovarlo nella sua casa in Massachusetts. All’epoca, Adams aveva 74 anni ed era membro del Congresso americano, ma – pur condividendo in linea di principio le motivazioni dei difensori dei mende – non voleva impegnarsi in prima persona in un difficile processo sia per motivi di età e di salute, sia per il suo incarico nella House of Representatives, ma anche per la lunga assenza dalle aule dei tribunali. Alla fine, però, Tappan lo con- scere qui. Si tratta di una razza inferiore di esseri [...]. L'Africa è il posto per loro. Sono a favore del regime di colonizzazione. Lasciate che i negri e i loro discendenti siano rispediti in patria». S.J. MAY, Some Recollections of Our Antislavery Conflict, Boston, Fields, Osgood & Co., 1869, pp. 11-12. 71 JONES, Mutiny on the Amistad, cit., p. 100. La decisione di Judson, appellata da parte dell’amministrazione Van Buren, fu confermata dal giudice Thompson. Il secondo appello fu presentato alla Corte Suprema degli Stati Uniti. 72 Argaiz to Forsyth, Nov. 5, 1839, U.S. Dept. of State, Notes from the Spanish Legation in the U.S. to the DS, 1790-1906, National Archives, Washington, DC. 73 Ibid. 181 Giuliana Iurlano vinse ad affiancare Baldwin nella difesa davanti alla Corte Suprema. 74 Certamente, una delle ragioni che spinsero Adams ad accettare stava nella sua convinzione che il comportamento della Casa Bianca non solo non fosse stato per nulla etico, ma addirittura esplicitamente illegale e incostituzionale: insomma, il procuratore generale era stato autorizzato a trasferire i prigionieri a Cuba, prima ancora che la difesa avesse avuto materialmente il tempo di appellarsi a un’eventuale sentenza sfavorevole della Corte. In tal modo, Van Buren riaffermava per la seconda volta il diritto dell’Esecutivo di interferire nel giusto processo garantito dalla Costituzione. 75 Che le motivazioni non fossero soltanto di natura interna (la rielezione del presidente), ma anche internazionali fu chiaro dalla corrispondenza di Forsyth con l’incaricato americano a Madrid, Aaron Vail: in essa si precisava a chiare lettere l’interesse americano per Cuba e la volontà di tenere lontana dall’isola la Gran Bretagna. Vail fu istruito affinché usasse “tatto e delicatezza” nel mettere in guardia la Corona spagnola contro i “disegni” e i pretesti che gli inglesi avrebbero potuto accampare per mettere piede su quell’importante avamposto commerciale, ma geograficamente vicino agli Stati Uniti, che era l’isola. Nello stesso tempo, il segretario di Stato raccomandava a Vail di non mettere alcunché per iscritto nelle comunicazioni al ministro spagnolo, ma di avere con lui “conversazioni informali e confidenziali”. Nel caso in cui 74 Nel suo diario, Adams descrive l’incontro a New Haven con Roger Sherman Baldwin per preparare la strategia difensiva dinanzi alla Corte Suprema e la decisione di incontrare i propri clienti. Cfr. J.Q. ADAMS, Diary, vol. 41, December 5, 1836 – December, 31, 1841, Entry Nov. 17, 1840, p. 160 [electronic edition]. The Diaries of John Quincy Adams: A Digital Collection, Boston, Mass., Massachusetts Historical Society, 2004, in http://www.masshist.org/jqadiaries. 75 Sul comportamento di Van Buren nel caso Amistad, solo alcuni studiosi sono intervenuti. Samuel Flagg Bemis ha ribadito l’interesse del presidente di mantenere intatta la composizione del suo collegio elettorale [S.F. BEMIS, John Quincy Adams and the Union, New York, Knopf, 1956, pp. 393-394]; William H. Smith, invece, ha sottolineato la “fretta indecente” di Van Buren nel cercare di risolvere al più presto il problema [W.H. SMITH, A Political History of Slavery, 2 voll., New York, Putnam’s, 1903, vol. I, p. 57]; John R. Spears – anche lui, come Smith, agli inizi del XX secolo – ha parlato di «un vergognoso tentativo per ingannare il popolo degli Stati Uniti, compresi i tribunali» [J.R. SPEARS, The American Slave-Trade: An Account of Its Origin, Growth and Suppression, London, Bickers, 1901, p. 188]; infine, in una più recente biografia del presidente, la sua politica viene definita come «una totale e riprovevole indifferenza per i diritti degli africani» [J. NIVEN, Martin Van Buren: The Romantic Age of American Politics, New York, Oxford University Press, 1983, p. 467]. 182 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo avesse «rilevato la volontà di cedere Cuba agli inglesi o ad altre potenze europee, temporaneamente o permanentemente, avrebbe dovuto avvertire Madrid che gli Stati Uniti si sarebbero opposti in tutti i modi, compreso il ricorso ai mezzi navali e militari. [...] Il governo spagnolo doveva evitare di fornire all’Inghilterra un qualunque vero motivo che costituisse anche il più remoto pretesto per interferire negli affari cubani. [...] Madrid avrebbe dovuto pertanto rispettare scrupolosamente gli obblighi del trattato». 76 Proprio su alcuni aspetti delle relazioni trilaterali informali tra Spagna, Stati Uniti e Gran Bretagna si sarebbe appuntata l’attenzione di Adams, desideroso di portare allo scoperto la verità e di rendere giustizia agli africani. 77 L’ex presidente era profondamente convinto che «l’unico interesse dell’amministrazione Van Buren era di soddisfare la Spagna» 78 e, per questo motivo, era pronto a muovere alla Casa Bianca l’accusa di pregiudizio verso i neri. Il fulcro del problema stava nel dimostrare, prove alla mano, che «il procuratore generale stava restituendo gli africani come schiavi, quando invece aveva dichiarato che li avrebbe restituiti in quanto assassini». 79 Del resto, le richieste spagnole del 6 settembre e del 26 novembre 1839 sembravano essere state abbastanza chiare; in particolare nell’ultima, Argaiz si era lamentato del fatto che gli Stati Uniti non avevano rispettato il trattato del 1795, cosicché «la pubblica vendetta non era stata soddisfatta; per questo si ricordava che la Legazione della Spagna non richiede la consegna di schiavi, ma di assassini». 80 In realtà, Adams avrebbe dovuto dimostrare 76 Forsyth to Vail, July 15, 1840, in W.R. MANNING, ed., The Diplomatic Correspondence of the United States: Inter-American Affairs, 1831-1860, 12 voll., Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace, 1932-1939, vol. 11, pp. 23-24. Probabilmente le preoccupazioni americane per un eventuale intervento inglese erano eccessive, anche se, effettivamente, la stampa britannica soffiava sul fuoco del caso Amistad, contribuendo ad aumentare la pressione diplomatica sul governo spagnolo. 77 Nelle sue memorie, Adams ricorda che, inevitabilmente, la sua difesa avrebbe colpito l’amministrazione Van Buren, ma che il principio di giustizia era più importante di qualunque cosa, anche se non sarebbe stato facile affermarlo: «Oh, come potrò dare giustizia a questo caso e a questi uomini?». Memoirs of John Quincy Adams, Comprising Portions of His Diary from 1795 to 1848, CH.F. ADAMS, ed., 12 voll., Philadelphia, Lippincott, 1874-1877, vol. 10, p. 395. 78 J.Q. ADAMS, Brief in the Amistad Case, Autograph Notes, February 24 and March 1, 1941, Manuscript Division. Library of Congress. 79 Ibid. 80 Argaiz to Forsyth, Nov. 26, 1839, U.S. Dept. of State, Notes from the Spanish Legation in the U.S. to the DS, 1790-1906, National Archives. Il corsivo è mio. 183 Giuliana Iurlano l’intenzionale fraintendimento dell’amministrazione americana, cosa non facile, visto che, a metà gennaio del 1840, il governo spagnolo si era affrettato a chiarire che la restituzione dei neri doveva essere intesa in entrambi i significati, unendo così i due elementi in un’unica richiesta (vale a dire, slaves as assassins). 81 È chiaro che la Corona spagnola si trovava in una situazione a dir poco imbarazzante: sin dall’inizio aveva cercato di tralasciare la parola “schiavi”, per non dare ragione alle accuse britanniche di violazione dei trattati anglo-spagnoli contro la tratta degli schiavi; nello stesso tempo, però, se avesse mantenuto soltanto la richiesta relativa all’accusa di omicidio, avrebbe in qualche modo lasciato spazio alle argomentazioni degli abolizionisti. La Gran Bretagna, da parte sua, seguiva attentamente il caso, e l’ambasciatore inglese a Washington, Henry S. Fox, chiese di incontrare due volte Adams, prima di inviare una nota ufficiale al dipartimento di Stato, con la quale informava della “serietà” dell’attenzione britannica verso «gli sfortunati africani, [...] illegalmente e criminosamente ridotti in schiavitù da sudditi spagnoli» e richiamava gli Stati Uniti al rispetto dell’art. 10 del Trattato di Ghent (24 dicembre 1814), che stabiliva lo sforzo reciproco per fermare il commercio degli schiavi. Di conseguenza, Fox chiedeva chiarezza sulla posizione americana: «Gli Stati Uniti – si leggeva nella nota – dovranno ora decidere se i neri devono riavere la libertà che spetta loro di diritto, o se devono essere ridotti in schiavitù, in violazione delle leggi contro il commercio schiavile da parte della Spagna. [...] La posizione inglese è favorevole a riconoscere i neri come persone libere e il governo britannico spera che il presidente assicurerà loro il legittimo diritto alla libertà». 82 Van Buren, invece, ribadì con decisione che il caso Amistad non costituiva argomento delle relazioni anglo-americane e che, al Il testo spagnolo della nota così recitava: «[...] Resultando de aqui que la vindicta publica no se halla aun satisfecha; porque es preciso no olvidar que la Legacion de Espana non pide la estradicion de esclavos, sino asesinos». Ma si veda anche la nota precedente: Angel Calderón de la Barca to Forsyth, Sept. 6, 1839, ibid. 81 La prima richiesta era giustificata dal trattato del 1795; la seconda dal principio di reciprocità. Argaiz chiarisce che solo un’interpretazione errata della richiesta spagnola aveva fatto intendere che la Spagna avesse preteso solo la restituzione degli assassini; in realtà – spiega – egli aveva scritto «no pide esclavos sino asesinos», volendo intendere «no solo pide esclavos sino esclavos asesinos» («not only demands slaves, but slaves who are assassins»). Argaiz to Forsyth, Jan. 19, 1841, ibid. 82 Fox to Forsyth, Jan. 20, 1841, U.S. Congress, Sen. Doc., n. 179, “Message from the President of U.S.”, Feb. 12, 1841, 26th Cong, 2d sess., pp. 27-28. 184 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo massimo, il contenuto della nota britannica sarebbe stato accolto come un’espressione di “benevolenza”. Secondo l’amministrazione americana, le notizie giunte alla Gran Bretagna non corrispondevano alla verità e l’amministrazione americana non aveva alcuna intenzione di interferire nel procedimento giudiziario; soltanto se la Corte avesse deciso di non restituire i neri, allora la Corona inglese avrebbe potuto avanzare le sue rimostranze sulla violazione del trattato alla Spagna, perché «gli Stati Uniti non agivano da tribunale internazionale». 83 La vicenda della nota di Fox metteva in evidenza il problema fondamentale che gli abolizionisti e il collegio di difesa avrebbero dovuto affrontare, vale a dire la difficoltà di provare concretamente l’intenzionalità del comportamento del presidente. Il 22 febbraio del 1841 si tenne la prima udienza dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti, presieduta dal giudice Roger B. Taney del Maryland. 84 Dopo l’introduzione fatta dal procuratore generale Henry D. Gilpin, Roger Baldwin prese la parola e sostenne che il caso riguardava non soltanto gli africani da lui rappresentati, ma anche «il carattere nazionale dell’America agli occhi dell’intero mondo civilizzato». 85 Infatti, egli domandava, il governo degli Stati Uniti – istituito per promuovere la giustizia e fondato sui grandi principi della Dichiarazione d’Indipendenza – fino a che punto può diventare parte in causa nel procedimento «per rendere schiavi degli esseri umani sbattuti sulle nostre coste, ma uomini liberi all’interno dei confini del territorio di uno Stato libero e sovrano? [...] Per quale motivo, allora, io insisto, gli Stati Uniti 83 Forsyth to Fox, Feb. 1, 1841, U.S. Dept. of State, Notes to Foreign Legations in the U.S. from the DS, 1834-1906, Great Britain, National Archives. 84 In realtà, il procedimento fu aperto con la costituzione delle parti il 16 gennaio 1841. Cfr. Appellate Case File No. 2161, United States v. The Amistad, 40 U.S. 518, Decided March 9, 1841, and Related Lower Court and Department of Justice Records, in NARA, RG 267, Roll 0001. Gli altri 8 giudici associati erano: John Catron (Tennessee), John McKinley (Alabama), nominato da Van Buren, Joseph Story (Massachusetts), Smith Thompson (New York), John McLean (Ohio), Henry Baldwin (Pennsylvania), James M. Wayne (Georgia) e Philiph P. Barbour (Virginia). Cinque dei nove giudici provenivano dal Sud. Il presidente Taney e il giudice Story erano noti come difensori della supremazia nazionale, ma anche dei diritti degli Stati e, dunque, abbastanza favorevoli a un compromesso, come quello di Filadelfia del 1787, che non pregiudicasse l’Unione. 85 Cfr. Argument of Roger S. Baldwin of New Haven, Before the Supreme Court of the United States, in the Case of the United States, Appellants, vs. Cinque, and Others, Africans of the Amistad, New York, S.W.Benedict, 1841, p. 4. 185 Giuliana Iurlano compaiono in questo procedimento?». 86 Baldwin andava oltre, sostenendo che la Costituzione americana non autorizzava in alcuna maniera il governo a “istituire o legalizzare” la schiavitù, la cui esistenza dipendeva soltanto dalle leggi statali; di conseguenza, non si trattava di un problema nazionale, ma di un problema che riguardava i singoli Stati. 87 La questione sollevata da Baldwin, tuttavia, presentava un aspetto collaterale rischioso, le cui implicazioni sarebbero emerse qualche anno dopo: l’insistenza sul fatto che lo status dei neri americani dovesse essere di pertinenza degli Stati andava a confliggere con la strategia abolizionista, finalizzata, invece, a aumentare i poteri del governo federale nella protezione degli schiavi neri fuggitivi. Con il Compromesso del 1850, infatti, non solo sarebbero stati stabiliti i criteri per l’annessione all’Unione di Stati liberi o schiavisti, ma un nuovo e più rigido Fugitive Slave Act avrebbe sostituito quello del 1793, permettendo ai proprietari di schiavi di arrestare i presunti evasi senza mandato e di negar loro il giusto processo, e imponendo gravi pene a chi li avesse aiutati nella fuga. Insomma, proprio l’argomentazione di Baldwin sarebbe stata rovesciata dai Southerners, nel loro appellarsi ai diritti degli Stati per “proteggere la peculiare istituzione” proprio dall’eccessivo potere del governo federale. 6. Il “processo a un presidente da un altro presidente” John Quincy Adams prese la parola in un’aula piena di gente, richiamata dalla curiosità e dal desiderio di sentire ancora una volta le sue parole. L’agitazione e la stanchezza dei giorni precedenti – di cui parla nelle sue Memorie 88 – erano scomparse di fronte alla consapevolezza che il caso giudiziario dipendeva dal perseguimento costante e inflessibile di uno dei principi fondamentali, vale a dire la giustizia: «[...] In una corte di giustizia, dove appaiono due parti avverse, giustizia vuole che i diritti di 86 Ibid., pp. 4, 11. Cfr. ibid., p. 15. 88 Nelle sue memorie, Adams sostiene: «Ero profondamente stressato e agitato fino al momento in cui non mi sono alzato, rendendomi conto solo allora che il mio spirito non mi aveva abbandonato. [...] Avevo provato umiliazione per la debolezza che limitava le mie forze. [...] La Corte doveva proteggere i neri contro l’immenso apparato di potere, esercitato dalla parte dell’ingiustizia, dall’Esecutivo e dall’ambasciatore spagnolo». Memoirs of JQA, cit., p. 431. Si veda anche J. WHEELAN, Mr. Adams’s Last Crusade: John Quincy Adams’s Extraordinary Post-Presidential Life in Congress, New York, Public Affairs, 2008. 87 186 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo ogni parte siano fatti salvi, come pure vuole che ogni parte abbia dei diritti, che è cura della Corte assicurare e proteggere. Questa osservazione è importante, dato che io sono qui per conto di trentasei individui la cui vita e la cui libertà dipendono da questa Corte». 89 Il principio guida della sua difesa sarebbe stato, dunque, la Dichiarazione d’Indipendenza americana, quel documento basilare che recita che ogni uomo è stato dotato dal suo creatore di alcuni diritti inalienabili, tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità: «Nel momento in cui si giunga alla Dichiarazione di Indipendenza, vale a dire ad affermare che ogni uomo ha diritto alla vita e alla libertà, un diritto inalienabile, allora questo caso è deciso. Io non chiedo niente di più per questi uomini che questa Dichiarazione». 90 89 Argument of John Quincy Adams Before the Supreme Court of the United States, in the Case of the United States, Appellants, vs. Cinque, and Others, Africans, Captured in the Schooner Amistad, by Lieut. Gedney, Delivered on the 24th of February and 1st of March, 1841. With a Review of the Case of the Antelope, Reported in the 10th, 11th and 12th Volumes of Wheaton’s Reports, New York, S.W. Benedict, 1841, p. 4. 90 Ibid., p. 89. 187 Giuliana Iurlano Bozza della prima pagina della memoria difensiva presentata da J.Q. Adams alla Corte Suprema degli Stati Uniti, 1839-1841. Ma il riferimento all’atto fondativo degli Stati Uniti avrebbe dovuto costituire anche la base per una denuncia più diretta contro l’amministrazione Van Buren, accusata di aver intenzionalmente interferito sul potere giudiziario, per favorire la Corona spagnola in una causa che, sin dall’inizio, era stata caratterizzata da una serie di gravi errori 188 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo procedurali: «Tutta la mia argomentazione ha lo scopo di dimostrare che l’appello è inammissibile [in quanto] la procedura seguita [...] è stata errata sin dall’inizio. Già il primo atto, la cattura del vascello e di questi uomini da parte di un ufficiale di Marina è stato sbagliato. Il loro arresto forzato sul suolo di New York è stato un errore. Dopo che il vascello fu portato all’interno della giurisdizione della Corte distrettuale del Connecticut, gli uomini furono imprigionati e sottoposti a processo penale per omicidio e pirateria sui mari, per poi essere dichiarati dal luogotenente Gedney merce di sua proprietà in base all’indennità di ritrovamento. Nel corso di quel medesimo procedimento, essi vennero presi in consegna dall’ufficiale giudiziario. Furono infine reclamati da Ruiz e Montes come loro merce e quindi di nuovo presi in custodia dalla Corte». 91 Adams, tuttavia, precisa a chiare lettere che, nonostante sia per lui molto penoso contestare «davanti alla [...] Corte e al mondo civilizzato il percorso effettuato dell’attuale amministrazione in questa causa, [egli] tuttavia dovrà farlo», 92 per il semplice motivo che essa ha sostituito puntualmente, durante tutte le fasi del procedimento, la parola “giustizia” con il termine “simpatia”, «“simpatia” per una delle parti in causa, e “antipatia” per l’altra. Simpatia per i bianchi, antipatia per i neri – e, come prova della [mia] accusa, io adduco l’ammissione e le dichiarazioni dello stesso segretario di Stato». 93 Dunque, per dimostrare le pressioni operate dall’Esecutivo sui giudici, Adams legge la missiva inviata da Forsyth ad Argaiz (in cui il segretario di Stato dichiara “fondata in fatto e in diritto” la richiesta della Corona spagnola di restituzione della proprietà), sottolinea lo zelo della Casa Bianca nel fornire assistenza legale agli spagnoli (negandola invece agli africani), ribadisce tutti i rapporti poco chiari intercorsi tra il procuratore distrettuale Holabird e lo staff presidenziale e, infine, denuncia apertamente la presenza del Grampus nel porto di New Haven, pronto a riportare i mende all’Avana per consegnarli alla giustizia spagnola. 94 Sulla base di quale diritto – incalza indignato l’ex presidente – l’amministrazione ha esteso la “simpatia” ai due spagnoli che hanno perpetrato la violenza, invece che alle loro vittime? 95 Il “singular blunder” commesso dalla Casa Bianca stava, dun91 Ibid., pp. 10-11. Ibid., p. 5. 93 Ibid., p. 6. 94 Adams fa riferimento in particolare alle lettere di Forsyth ad Argaiz del 13 dicembre 1839, e di Holabird a Forsyth del 5 settembre 1839. 95 Cfr. Argument of John Quincy Adams, cit., p. 6. In particolare il seguente passaggio: «Io chiedo con quale diritto tutta questa simpatia, dal luogotenente Ged92 189 Giuliana Iurlano que, in tre gravi difetti presenti nell’ordine impartito all’ufficiale di polizia: mancava la firma del presidente; si trattava di una semplice disposizione acclusa alla lettera, e non di un’autorizzazione vera e propria; si riferiva alla Corte circoscrizionale, anziché a quella distrettuale. Holabird aveva tentato di rettificare il documento, per evitare la concessione dell’habeas corpus ai neri, ma nella copia finale di Van Buren, pervenuta alla Camera dei Rappresentanti, non vi era alcuna correzione, a riprova della grave negligenza del dipartimento di Stato in una causa che aveva a che fare con la vita stessa di alcune persone. La condanna dell’amministrazione Van Buren – sostituita, nel frattempo, da quella del nuovo presidente, William Henry Harrison – e la richiesta di giustizia per gli uomini dell’Amistad ebbero sicuramente un effetto: nella sua replica, infatti, Gilpin negò perentoriamente che vi fosse stato un qualunque tipo di “executive interference” o di “executive dictation” (come l’aveva definita Adams) nel procedimento giudiziario, ma dichiarò che Van Buren si era attenuto al rispetto del trattato stipulato con la Spagna. 96 Scrive, a tal proposito, Howard Jones: «Gilpin era nel giusto nell’asserire che l’Esecutivo aveva il potere di intervenire nella prima fase [...]. L’esecuzione di un trattato era responsabilità dell’Esecutivo. Se i giudici ritenevano risolto il caso, allora l’interposizione dell’Esecutivo avrebbe costituito ciò che Gilpin definiva la parte specifica del procedimento giudiziario. Il problema era, però, che Gilpin aveva descritto un’azione legale, cercando poi di farla combaciare con il comportamento del presidente. Le due azioni non erano ney al segretario di Stato, e dal segretario di Stato automaticamente alla nazione, fu estesa esclusivamente ai due spagnoli provenienti da Cuba e completamente negata alle cinquantadue vittime della loro illecita violenza? Per quale diritto fu negata agli uomini che si sono ripresi la loro libertà, ed hanno assicurato alla giustizia gli oppressori che hanno perpetrato nei loro confronti quegli atti di violenza, e perché mai essa fu estesa proprio a costoro? Quando l’Amistad giunse nella giurisdizione territoriale degli Stati Uniti, gli atti di violenza erano già accaduti tra le due parti, spagnoli e africani, a bordo di essa, ma da quale parte essi fossero illegittimi, da che parte stessero gli oppressori, era una questione di diritto che andava affermata nel momento in cui sia il governo, che il popolo americano fossero intervenuti e, dunque, fossero obbligati al dovere di estendere la loro simpatia a tutte le parti; e se fossero intervenuti tra le parti, il dovere incombente derivato da tale intervento avrebbe dovuto essere non di favore, ma di imparzialità, non di simpatia, ma di giustizia, riconoscendo ad ogni individuo i suoi legittimi diritti». Ibid., p. 8. 96 Cfr. Mr. Gilpin, the Attorney-General, in Reply, in U.S. v. Amistad, http://www.law.cornell.edu/background/amistad/reply.html. 190 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo sinonimiche. Proprio come gli abolizionisti sospettavano, pur non essendo in grado di provarlo senza la documentazione del dipartimento di Stato, l’Esecutivo era intervenuto non per portare il caso davanti ai giudici, ma per evitare il loro coinvolgimento. L’Esecutivo aveva agito prima e senza il potere giudiziario. Solo quando la Casa Bianca non riuscì più a eludere il procedimento giudiziario, essa sostenne la posizione per cui aveva agito nella maniera appropriata nei confronti dei giudici. Forse Gilpin [...] non si era reso conto di ciò, ma un esame dei relativi documenti avrebbe portato alla luce questa cronologia». 97 Sul piano più specifico della strategia difensiva, gli avvocati dei neri si trovarono di fronte ad un serio problema: negare loro lo status di schiavi in territorio americano avrebbe potuto complicare ulteriormente il caso, come già da tempo aveva avvertito Theodore Sedgwick. Egli suggeriva, infatti, di riconoscere che il termine merchandise, usato dai diplomatici nei trattati, stava ad indicare anche gli schiavi, oltre agli oggetti inanimati; dunque, l’unico modo per avere la meglio sulla posizione del governo era di smontare la richiesta avanzata dai due spagnoli relativamente al diritto di proprietà sui neri. 98 Adams, invece, scelse un’altra strada in quello che è stato definito “the trial of one President by another”: quella di riportare l’attenzione sui principi di libertà a fondamento della Dichiarazione d’Indipendenza americana – principi che la Corte Suprema aveva la responsabilità morale di sostenere e di difendere – e di dimostrare che l’amministrazione Van Buren li aveva intenzionalmente disattesi. Rispetto al primo tipo di argomentazione, Adams sottolineava l’aspetto mitico-simbolico che la decisione della Corte Suprema avrebbe assunto, nel momento in cui essa fosse stata in palese contraddizione con i principi di libertà del più importante atto fondativo degli Stati Uniti d’America, spezzando, di conseguenza, il legame di filiazione con i padri fondatori della Costituzione. Rispetto alle accuse rivolte all’amministrazione Van Buren, l’argomento esposto da Adams era più propriamente “istituzionale”: se la decisione della Corte fosse stata quella auspicata dalla Casa Bianca e dalla Corona di Spagna, allora essa avrebbe sancito inequivocabilmente una falla nel sistema di checks and balances, affermando la prevalenza della volontà dell’Esecutivo sul potere giudiziario e, dunque, della stessa Corte Suprema. Scrive, a tal proposito, Giovanni Rizzoni: «Entrambi questi argomenti rivelano che la contesa ha cambiato piano di svolgimento. Non si tratta più di una 97 JONES, Mutiny on the Amistad, cit., pp. 183-184. Cfr. Sedgwick to Tappan, Oct. 12, 1839, in TAPPAN PAPERS, Correspondence, 1809-1872, Library of Congress, Washington, DC. 98 191 Giuliana Iurlano controversia giudiziaria e neppure di una battaglia d’impegno eticocivile: siamo di fronte ad una controversia costituzionale». 99 Il 9 marzo 1841, il Chief Justice Roger B. Taney lesse il dispositivo della sentenza: «Nel caso degli Stati Uniti d’America contro gli africani dell’Amistad, è opinione di questa Corte che il nostro trattato con la Spagna del 1795, su cui si è principalmente fondata la tesi della pubblica accusa, sia inapplicabile, benché preveda esplicitamente che “navi e carichi sequestrati debbano essere restituiti per intero al loro proprietario”. Non è stato, infatti, sufficientemente dimostrato alla Corte che gli imputati rientrino in tale descrizione. Pertanto non possono essere considerati mercanzia, ma sono piuttosto individui liberi con pieni diritti legali e morali, compreso quello di compiere un’insurrezione contro chi vorrebbe negare loro la libertà». 100 99 G. RIZZONI, La democrazia al cinema: i dilemmi del costituzionalismo in cinque film, Roma, Meltemi Editore, 2007, p. 24. 100 Appellate Case File No. 2161, United States v. Amistad, 40 U.S. 518 (15 Peters 518), Decided Court and Department of Justice Records, NARA, M2012, RG 267, Roll 0001. Dissenziente fu solo il giudice Baldwin, che, però, non mise per iscritto la sua opinione. 192 Le relazioni tra Stati Uniti e Spagna nella prima metà del XIX secolo Sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, 9 marzo 1841 La motivazione della sentenza fu scritta da Joseph Story, giudice della Corte Suprema dal 1811. Egli – importante studioso e giurista del Massachusetts – era un conservatore e un convinto nazionalista, personalmente contrario alla “peculiare istituzione”, ma anche molto deciso a difendere la legge, anche nel caso in cui proteggesse i diritti dei proprietari di schiavi. Il filo logico seguito da Story era abbastanza semplice e chiaro: la richiesta di riconoscimento della proprietà degli schiavi da parte di Ruiz e Montes non era stata provata e, dunque, risultava inapplicabile il trattato del 1795; ma non era stato provato nemmeno il loro status di schiavi, anche perché – quando il vascello era entrato in acque territoriali americane – essi risultavano in possesso di se stessi e reclamavano la propria libertà. Tuttavia, il punto più incisivo della sentenza era costituito dall’affermazione che, in assenza del diritto positivo, do- 193 Giuliana Iurlano vevano prevalere gli “eterni principi di giustizia”: ciò significava, in sostanza, che veniva implicitamente legittimato il corollario che ne derivava, vale a dire che gli stessi eterni principi di giustizia diventavano “secondari” davanti all’esistenza della legge positiva. Quindi, se la Spagna avesse provato la condizione legale di schiavitù dei neri dell’Amistad, la richiesta dell’amministrazione Van Buren sarebbe stata accolta, nonostante qualunque giudizio morale ciò comportasse. Inoltre, proprio perché mancava la prova della condizione di schiavitù e vi erano invece buoni motivi per ritenere illegale tale condizione, gli africani avevano avuto il diritto sacrosanto di ribellarsi a chi li aveva catturati e privati della libertà. 101 101 Cfr. The Supreme Court Opinion by Justice Joseph Story on the Amistad Case, January 1841, ibid. 194 Gradus ad Parnassum Sezione studenti Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 197-226 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285//i22808949a1n1p197 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Francesca De Pascalis Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” Abstract: The events in Tiananmen Square, in June 1989, represent without any doubt a countertendency compared with the changes of the last period of the Cold War. The new opening up of China by Deng Xiaoping brought not only a new boost to the economy of this country, but sowed the seeds of popular revolt against the orthodoxy and the dictatorship of the Chinese Communist Party. It is possible to reconstruct the different phases of this revolution thanks to US Embassy documents and to those that are not under control of party leaders. Since “the Spring of Beijing”, these various phases have brought up the expansion of a democratic movement whose protagonists were, in particular, Chinese students. The claims for greater freedom, a better political participation, and more incisive radical reforms clashed with the internal struggle among party leaders and ended up with the massacre of Tiananmen Square, on June 4, 1989. Keywords: Chinese Popular Republic; Chinese Communism; Tiananmen Square 1989. Premessa Il 1989 fu un anno cruciale in tutto il mondo, l’anno dei grandi cambiamenti nel panorama internazionale, tranne che in Cina. La fine della Guerra Fredda, gli accordi sul disarmo tra americani e sovietici, l’apparente riavvicinamento dei valori occidentali a quelli riformisti del nuovo leader sovietico, la caduta del muro di Berlino, tutto ciò mise fine ai regimi comunisti dell’Europa orientale. Per la Cina, invece, il 1989 fu soprattutto l’anno di Piazza Tiananmen, un evento che condusse la dirigenza cinese a rafforzare la sua autorità all’interno del paese, ad aumentare il controllo sulla società, ignorando completamente, nel contempo, il riconoscimento di quei diritti civili e politici che, nel resto d’Europa, erano stati la prima conseguenza del crollo del blocco sovietico. La storia ed il popolo cinese alla fine avrebbero giudicato il 4 giugno come una delle più drammatiche e significative tappe della lotta mondiale per la democrazia del XX secolo. Certamente, si è trattato del più grande evento di questo tipo in Cina. Il 4 Francesca De Pascalis giugno non è stato soltanto una protesta studentesca o un patriottico movimento democratico, ma anche il culmine delle più affollate, durevoli ed influenti dimostrazioni per la democrazia del XX secolo. Si è raggiunta, così, una fine tragica e dolorosa, nel sangue e nella vittoria della dittatura. 1 Non bisogna tralasciare, inoltre, il fatto che, quando si parla di Cina e, soprattutto, di libertà individuali e di diritti umani, l’intera cultura cinese è stata ed è tuttora condizionata dall’idea socialista della società, così come dalla tradizione confuciana. Già nel ’54, infatti, la Costituzione cinese elencava una ampio numero di diritti e di libertà, facendo intravedere, però, una limitazione dei diritti soggettivi, che potevano essere giuridicamente protetti solo se esercitati in conformità con l’interesse collettivo della comunità, anche se non vi era alcuna previsione costituzionale che predicasse ciò. Si passò, così, all’edificazione della legalità socialista, contrastando chi pretendeva di opporre alla volontà del Partito Comunista Cinese (PCC) la legge e la legalità. 2 Per tale motivo, notevole fu lo sforzo della dirigenza comunista di esercitare un controllo sempre maggiore sulla libera informazione e sui diritti politici, fino all’emanazione della legge marziale antecedente i fatti di Piazza Tiananmen. Il bavaglio imposto dalle autorità ha, dunque, reso più difficile ricostruire le cause, gli eventi e le conseguenze che portarono alla nascita del Movimento per la Democrazia fino al massacro del 4 giugno 1989. I documenti raccolti presso la George Washington University, nel National Security Archive Electronic Briefing Book, dal titolo Tienanmen Square 1989: The Declassified History, sono il risultato dei resoconti del canale diplomatico di quegli anni dell’ambasciata americana a Pechino ed un’importante fonte d’informazione sugli episodi inerenti Piazza Tiananmen. Di non minore importanza sono state le dichiarazioni della presidenza americana, riportate dal «Department of State’s Bulletin» e dai documenti dei FRUS (Foreign Relations of the United States). Ottenere informazioni dai vertici della Repubblica Popolare Cinese è difficile, ma non impossibile. A dimostrazione di ciò, fondamentale è la raccolta di documenti contenuta nel volume The Tiananmen Papers, che per la prima volta descrive la storia di Tiananmen dalla prospettiva dello 1 Cfr. Z. LIANG, Reflections on June Fourth, in The Tiananmen Papers: The Chinese Leadership’s Decision to Use Force against Their Own People – in Their Own Words [d’ora in avanti Tiananmen], ed. by A.J. NATHAN – P. LINK – Z. LIANG, London, Little, Brown and Co., 2001, p. XV. 2 Cfr. R. CAVALIERI, La legge e il rito. Lineamenti di storia del diritto cinese, Milano, Angeli, 1999, pp. 127-128. 198 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” Zhongnanhai – l’antico parco imperiale al centro di Pechino che ospita l’Ufficio Centrale di partito, l’Ufficio del Consiglio di Stato e le residenze di alcuni dei massimi leaders cinesi. Allo Zhongnanhai confluiva, infatti, tutta la documentazione raccolta dalle agenzie incaricate di sorvegliare e controllare Pechino ed il resto del paese. Ogni giorno il Comitato Centrale riceveva rapporti dai ministeri della Sicurezza, dagli uffici esteri ed interni, dalle agenzie di stampa, i verbali delle riunioni formali e informali tra i vertici del partito e i resoconti di alcune conversazioni private. Documenti come quelli raccolti in tale volume hanno una circolazione estremamente limitata in Cina. Il compilatore, Zhang Liang, è riuscito a ottenerli e, insieme ai suoi compagni riformatori, si è assunto il compito di renderli pubblici per smentire la versione ufficiale secondo la quale Tiananmen fu la legittima soppressione di una violenta rivolta antigovernativa. 3 Tianamen ha rappresentato, per la Repubblica Popolare Cinese, l’apice di una crisi interna, che ha rischiato di far crollare l’intero sistema comunista. Causa di ciò è stato, in primis, il clima di maggiore libertà che si percepiva all’interno della società civile, dovuto alla nuova apertura economica ed internazionale della Cina negli anni ’80, che l’ha resa oggi una delle più importanti potenze economiche al mondo. La “rivoluzione mancata” dei giovani di Piazza Tiananmen ha segnato la storia della Cina in termini politici, rendendola protagonista anche delle tribune internazionali sul tema dei diritti umani, civili e politici. 1. La Cina di Deng Xiaoping Con Deng Xiaoping a capo della Repubblica Popolare Cinese, l’intero paese asiatico visse un periodo di radicale trasformazione, soprattutto in campo economico. La popolarità acquisita dal nuovo leader, grazie alla propaganda affidatagli dal partito contro la “banda dei quattro”, 4 gli consentì di ottenere un consenso sempre più forte, sia all’interno del partito 3 Cfr. A.J. NATHAN, The Documents and Their Significance, in Tiananmen, cit., pp. XVI-XX. 4 A capo della “banda dei quattro” (Siren Bang) vi era Jang Qing, terza moglie di Mao, insieme a Wang Homgwen, Zhang Chunqiao e Yao Wenyuan; essa governò la Repubblica Popolare Cinese secondo le direttive di Mao durante la rivoluzione culturale; successivamente, i suoi membri furono processati come spie nazionaliste e come controrivoluzionari per le atrocità e i fallimenti del “Grande Balzo” e della rivoluzione. Cfr. L. TOMBA, Storia della Repubblica Popolare Cinese, Milano, Mondadori, 2002, p. 142. 199 Francesca De Pascalis che tra la popolazione civile, al suo programma di riforme. Già a partire dal ’78 furono promossi numerosi cambiamenti: il collettivismo di mercato ed il rigido meccanicismo della pianificazione centralizzata furono gradualmente abbandonati, a favore di una metodologia di gestione dell’economia pur sempre dirigistica, ma decisamente più aperta di quella maoista, che negli anni ’90 sarebbe stata, infine, definita come “socialismo di mercato”. 5 La riforma economica, avviata da Deng e dal primo ministro Zhao Ziyang, portò al progressivo smantellamento delle Comuni e provocò ritardi nella produzione agricola; la liberalizzazione del mercato creò una forte pressione inflazionistica, da cui trassero profitto solo le fasce più alte della società, mentre aumentarono il divario e le disuguaglianze tra la popolazione. 6 A queste riforme, Deng accompagnò sempre alcuni motti propagandistici tra cui: «Arricchirsi non è un male!», oppure «Avete fame? Chiedete a Zhao!». 7 La nuova apertura internazionale, fortemente voluta dal leader riformista, introdusse anche nuove tipologie d’impresa, come le joint ventures, costituite in Cina con la partecipazione tecnologica ed economica estera, che violarono il tabù dello sfruttamento del lavoro salariato (cinese) per fini di profitto privato (straniero), ma che ebbero il grande pregio di apportare tecnologia e capitali di cui la Repubblica Popolare Cinese aveva estremo bisogno. Nacquero pure alcune “zone economiche speciali” a conduzione d’impresa capitalistica, favorite sotto il profilo fiscale e doganale, con incentivi per gli investitori stranieri (la più importante fu Shenzen, vicino ad Hong Kong). Venne attuata, anche, una nuova economia di mercato pianificata, ovvero un sistema che vedeva il capitalismo in Cina come “il volatile”, e la pianificazione, invece, come la sua “gabbia”, che poteva assumere dimensioni diverse a seconda dei periodi e che, in quella fase, tendeva ad allargarsi. 8 Dal punto di vista sociale, e soprattutto dei diritti, lo stesso Deng cercò, seppur formalmente, di apportare alcune trasformazioni partendo proprio dalla Costituzione. C’è da sottolineare, però, che durante tutta la rivoluzione culturale, tanto osannata da Mao, l’illegalità era stata elogiata come un sentimento rivoluzionario e persino il principio di uguaglianza, previsto 5 Cfr. CAVALIERI, La legge e il rito, cit., p. 159. Sui cambiamenti politici, economici e sociali della Cina di Deng, cfr. E. CHENG, Standoff at Tiananmen, Littleton, Sensys Corporated, 2009. 7 Cfr. A. PIAZZA, La Cina di Deng Xiaoping: un lungo cammino verso la modernizzazione, in «Mondo Cinese», 94, gennaio-aprile 1997, p. 15. 8 Cfr. TOMBA, Storia della Repubblica Popolare Cinese, cit., p. 152. 6 200 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” come un cardine dell’ordinamento socialista nella Costituzione del 1954, era stato criticato per “mancanza di un orientamento di parte”. 9 Con la fine della rivoluzione, la Repubblica Popolare Cinese aveva approvato, nel 1975, una nuova Costituzione, che incarnava ancora i “successi” postrivoluzionari, tant’è che l’art. 26 di essa affermava: «Sono diritti e doveri fondamentali dei cittadini: appoggiare la guida del Partito Comunista Cinese; sostenere la dittatura del proletariato; osservare la Costituzione e le leggi della Repubblica Popolare Cinese». 10 Interessante è anche notare che, in questa nuova carta costituzionale, il capitolo sui “Diritti e i doveri dei cittadini” era l’ultimo capitolo enunciato. Per riportare lo Stato alla normalità, dopo i disordini ed i processi contro ciò che la rivoluzione culturale aveva creato, fu approvata, nel ’78, una nuova Costituzione, contenente solo l’onere maoista della lotta di classe. Quest’ultima fu modificata più volte, prima nel ’79, e poi nell’80, in concomitanza con le prime opposizioni al programma riformista della dirigenza cinese. Lo stesso Deng, infatti, nel 1980, con lo scopo di rafforzare la stabilità politica, indispensabile nel processo di riforma, chiese ed ottenne l’eliminazione dalla Costituzione della libertà di parola, di diffusione delle opinioni, di dimostrazione, di sciopero, 11 di dibattito e di affissione di grandi dazibao, 12 mentre riaffermava i “quattro principi cardinali” della dittatura del proletariato, del ruolo guida del partito, del marxismo-leninismo e del pensiero di Mao. Tutto ciò fu possibile perché l’art. 35 della Costituzione prevedeva il riconoscimento e la garanzia di tali libertà fondamentali soltanto se in linea con i “Principi Generali”, che vietavano ogni sabotaggio ed opposizione al sistema socialista. 9 Cfr. CAVALIERI, La legge e il rito, cit., p. 153. Ibid., p. 154. 11 Per quanto riguarda il diritto di sciopero, anch’esso non più contemplato nella nuova Costituzione, la sua abolizione era stata anticipata da molti giuristi cinesi, con la giustificazione che, essendo la Cina governata dalla classe lavoratrice, l’interesse nazionale si identificava con quello dei lavoratori stessi, e che, per combattere eventuali soprusi, sarebbero bastati i mezzi sindacali. Cfr. P. CORRADINI, I diritti umani nella Costituzione cinese, in «Mondo Cinese», 46, giugno 1984, pp. 1-6. 12 La Costituzione cinese garantiva il diritto di scrivere ed attaccare dazibao personali, considerati un’importante forma di democrazia rivoluzionaria. Non si poteva ricoprire o strappare un dazibao senza il consenso dell’autore. Il termine deriva dall’uso cinese di appendere i giornali in speciali bacheche pubbliche per permetterne la lettura a tutti. I dazibao si differenziano dai giornali per il fatto di essere scritti a mano in caratteri grandi e leggibili. 10 201 Francesca De Pascalis La Costituzione fu sottoposta, nel corso degli anni, ad una serie di adattamenti, dovuti alle nuove esigenze nel campo dello sviluppo economico e del commercio internazionale. Infine, nella carta costituzionale del 1982, il capitolo dei “Diritti e dei doveri del cittadino” (tuttora in vigore) seguì quello dei “Principi Generali”, come nelle moderne Costituzioni, ma la sua enunciazione e collocazione rimasero una scelta puramente formale rispetto alla sua sostanziale applicazione. 13 Relativamente alle tre Costituzioni precedentemente emanate, il posto assegnato al capitolo dei diritti, pur non avendo alcun significato sostanziale, assunse, comunque, un valore formale e simbolico per la Repubblica Popolare Cinese e per la comunità internazionale. 2. Le prime opposizioni al programma di riforma di Deng Verso la fine del 1984 vennero accelerate ulteriormente le riforme economiche che portarono ad un aumento dei prezzi, da cui trasse profitto solo quella fascia di giovani imprenditori, figli di quadri di medio o alto livello, che approfittarono dell’arrivo del capitale straniero. Ad esse seguirono anche le prime critiche all’interno del partito, soprattutto da parte di Hu Yaobang, allora segretario, nel quale si identificarono molti circoli intellettuali e gruppi di giovani studenti. Per tale motivo, nella primavera del 1985, il segretario Yaobang subì gli attacchi dell’ala più conservatrice del partito, contraria ad una liberalizzazione borghese e ostile all’atteggiamento troppo liberale di Hu nei confronti della stampa. 14 Ma questo atteggiamento più liberale in campo culturale e politico non bastò a calmare l’insoddisfazione generata dalla nuova economia. Cominciarono a crearsi conflitti sociali legati proprio alla nuova stratificazione sociale e a darne voce furono soprattutto gli studenti. Il 21 novembre 1985, la vittoria dei cinesi in una partita di pallavolo con il Giappone fu il pretesto per molti studenti per manifestare in Piazza Tiananmen contro la nuova “colonizzazione” del capitale straniero, in particolare di quello giapponese. Quel giorno, un aviatore anonimo distribuì volantini anti-giapponesi sui cinquemila studenti che si erano radunati in Piazza Tiananmen, 15 che 13 Cfr. L. FENG, La storia moderna del diritto costituzionale cinese, in P. COSTA – D. ZOLO, a cura di, Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano, Feltrinelli, 2003. 14 Cfr. TOMBA, Storia della Repubblica Popolare Cinese, cit., pp. 153-154. 15 Cfr. U.S. Embassy Beijing Cable, A Student Demonstration of Sorts in Tiananmen Square, November 21, 1985, Secret, in Tiananmen Square 1989 (The Declassified History), A National Security Archive Briefing Book [d’ora in avanti NSAEBB], ed. 202 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” condannavano anche quei principi che avevano favorito l’“uneven development”, cioè lo sviluppo disuguale di quel periodo (con chiari riferimenti ai membri del PCC). La manifestazione venne dispersa con l’intervento della polizia, anche perché il partito era a conoscenza della manifestazione grazie alle infiltrazioni governative tra gli studenti che avevano organizzato le dimostrazioni; successivamente, fu quindi facile arrestare i responsabili ed i capibanda. 16 Le contestazioni continuarono in Piazza Tiananmen, come all’Università di Pechino, dove gli studenti denunciarono i problemi relativi alle condizioni di studio e la presenza del People’s Liberation Army (PLA) all’interno del campus; 17 una minoranza di loro si radunò in piazza per protestare contro i test nucleari fatti nella provincia dello Xinjang. La vicenda di Tiananmen si ricollega, infatti, ad una serie di manifestazioni diffusesi in molte altre residenze universitarie, tra le più qualificate del paese, tra il 1986 e l’inizio dell’87, quando gli studenti scesero in campo per sostenere e difendere i tentativi di affiancare alle ardite riforme economiche una riforma politica che modificasse le basi del monopolio del potere da parte del PCC ed aprisse spazi, se non alla partecipazione ed alla democrazia, almeno ad una maggiore “trasparenza”, ad una libertà di analisi dei fatti e di circolazione delle idee. 18 In questo periodo, il partito e il Consiglio di Stato ricevette almeno cinquanta rapporti sul comportamento degli studenti dalla Commissione per l’istruzione, dall’agenzia di stampa Xinhua, dai governi provinciali e locali. Tra i problemi menzionati dalle autorità figuravano, soprattutto, l’insofferenza degli studenti per i vincoli ideologici, i bassi stipendi degli intellettuali, il crescente costo della vita, l’insoddisfazione per le politiche sullo studio all’estero e il lassismo dei responsabili dell’educazione politica nella scuola superiore. Nel rapporto si legge, infatti, che le discussioni tra gli studenti si concentravano spesso su questioni del tipo: «I figli degli ufficiali di rango elevato ottengono incarichi prestigiosi!», o ancora, «I figli di ufficiali di rango elevato fanno carriera più facilmente!». Gli studenti erano, inoltre, frustrati, secondo le autorità, by M.L. EVANS, 2001, doc. 1. 16 Cfr. U.S. Embassy Beijing Cable, Government Arrest Student Demonstrators, November 25, 1985, Confidential, in NSAEBB, doc. 2. 17 Secondo le fonti dell’ambasciata, erano più di 2.000 a protestare presso l’Università di Pechino. Cfr. U.S. Embassy Beijing Cable, More Student Demonstration, December 23, 1985, ibid., doc. 3. 18 Sull’argomento, si veda M.A. LUSTED, Tiananmen Square Protests, Edina, MN, Abdo Publishing Co., 2010. 203 Francesca De Pascalis dai cambiamenti della linea di propaganda ufficiale dei media. Anteriormente alla prima protesta studentesca del 1985, i giornali tenevano in grande considerazione gli studenti,come se fossero “favoriti dal cielo”, invece, dopo le proteste di quell’anno i media li accusavano di avere uno stile di vita stravagante, con frasi tipo: «la classe operaia non è d’accordo [sul vostro tenore di vita]» e « [siete solo] una piccola manciata». 19 Gli editoriali cinesi, perciò, continuarono a riportare la volontà del partito di utilizzare maggiormente la forza di fronte alle continue minacce di instabilità politica del paese da parte dei manifestanti e ancor di più se a loro si fossero uniti i lavoratori. 20 Deng si rese presto conto che i timori dimostrati dalla Banda dei Vecchi 21 erano sempre più tangibili e si vide costretto ad affiancare ai suoi moti propagandistici di rilancio economico (tra cui «Non importa se il gatto è bianco o è nero, purché acchiappi i topi»), 22 severe misure politiche per ristabilire l’ordine anche all’interno del partito. La carica di segretario generale, detenuta da Hu, fu affidata a Zhao Ziyang, dopo che all’ex segretario furono attribuite le responsabilità del diffondersi del “liberalismo borghese”, così da costringerlo a presentare al Comitato Centrale una lettera di autocritica. 23 Hu si era sempre rifiutato di condannare le manifestazioni, ritenendo che la svolta democratica fosse necessaria al proseguimento del processo di riforma; il suo nome, perciò, rimase sempre legato a quello degli studenti. In concomitanza con la rimozione di Hu Yaobang, vennero annunciate le espulsioni dal PCC del giornalista Wang Ruodwang, accusato di aver sostenuto la liberalizzazione borghese nella sua attività giornalistica soprattutto negli ultimi due anni, dell’astrofisico Fang Lizhi 24, per aver negato la funzione del marxismo ed 19 Excerpt from State Education Commission, “Report to Party Central and the State Council on Student Protests in the 1980s and the Current Ideological State of College Students”, July 19, 1988, in Tiananmen, cit., pp. 14-16. 20 Cfr. U.S. Embassy Beijing Cable, Student Demonstration Update, December 24, 1986, in NSAEBB, doc. 4. 21 La Banda dei Vecchi era costituita da Chen Yun, Li Xiannan e Peng Zhen e rappresentava l’ala conservatrice del partito, più critica nei confronti dell’apertura internazionale e sociale che stava avvenendo in Cina di pari passo con le riforme economiche. 22 Cit. in F. RAMPINI, Il secolo cinese. Storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del mondo, Milano, Mondadori, 2006, p. 124. 23 Cfr. Summary of IPAC Daily Intelligence, China: Hu Yaobang Resigns, January 17, 1987, in NSAEBB, doc. 6. 24 Cfr. M. OKSENBERG – L.R. SULLIVAN – M. LAMBERT, “Intellectual Dissent”, in 204 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” aver sostenuto l’omologazione della Cina ai paesi dell’Occidente capitalistico, e del saggista Liu Biyan, giornalista del «Renmin Ribao», che era stato il più attivo nel denunciare corruzione e reticenze e che venne anche allontanato dal giornale. 25 Per riacquistare popolarità tra gli studenti (e non solo), e per indurre tutti ad appoggiare le sue scelte, Deng esaltò le doti di grande economista di Zhao Ziyang con degli slogan del tipo: «Avete fame? Rivolgetevi a Zhao». 26 Contemporaneamente, per non perdere potere all’interno del partito, favorì l’elezione di Li Peng (dell’ala conservatrice) al posto di primo ministro. Deng, ormai ottantatreenne, accompagnò tutte queste manovre con un annuncio strategico: il suo ritiro dalla scena politica; di tutte le sue cariche avrebbe conservato solamente quella di presidente della Commissione Militare, ed a lui e ad altri otto membri della Commissione Centrale sarebbe spettato il compito di dirimere tutte le questioni importanti su cui la dirigenza del partito non avesse trovato un’intesa. 27 3. La “primavera di Pechino” e il massacro di Piazza Tiananmen La liberalizzazione dei prezzi, voluta da Zhao Ziyang durante l’estate del 1988, scatenò accesi dibattiti tra la popolazione e nel partito, dove la proposta trovò l’opposizione delle componenti più conservatrici, tra cui Li Peng. Quest’ultimo, forte del consenso di Deng, contrariamente a Zhao, riteneva fosse necessario mettere davanti a tutto la stabilità del paese, contestando le scelte, la figura e il ruolo del segretario Ziyang nel partito. Per Deng, intanto, continuò ad essere necessaria la realizzazione di un contesto internazionale stabile e pacifico, in quanto per troppo tempo la Cina era rimasta isolata dal mondo e ciò non aveva giovato alla sua economia e al suo arricchimento; per questo motivo, l’obiettivo principale, per Deng, era il cammino della Repubblica Popolare Cinese verso una nuova apertura con l’estero, continuando, così, il percorso che il suo maestro e predecessore, Zhou Enlai, aveva iniziato con l’incontro tra Nixon Beijing Spring, 1989: Confrontation and Conflict. The Basic Documents, New York, M.E. Sharpe, 1990, pp. 151-180. 25 Cfr. E. COLLOTTI PISCHEL, Dietro Tia an men, Milano, Angeli, 1990, p. 148. 26 Cit. in PIAZZA, La Cina di Deng Xiaoping, cit., p. 15. 27 Questa decisione, rimasta a lungo segreta, fu rivelata da Zhao Ziyang nel 1989, durante i colloqui con Gorbačev. Cfr. TOMBA, Storia della Repubblica Popolare Cinese, cit., p. 159. 205 Francesca De Pascalis e Mao. 28 A tal proposito, il “piccolo timoniere” continuò ad affermare, però, che, «senza la guida del partito, ci sarebbero stati certamente disordini ovunque e [che] la Cina si sarebbe disgregata», 29 evidenziando che il partito, come massima fonte del governo, avrebbe potuto, da una parte, promuovere le riforme politiche e, dall’altra, servire da garante finale della stabilità (politica) in caso di errori nel processo di riforma. È in questo clima d’incertezza che, nel mese di febbraio dell’89, il presidente degli Stati Uniti, George Bush, si recò in Cina in visita ufficiale. Il viaggio assunse un’importanza simbolica in vista della visita di metà maggio del presidente sovietico Mikhail Garbačev. Fondamentale fu, per Bush e i suoi collaboratori, assicurarsi che i nuovi colloqui intrapresi dalla Cina con l’Unione Sovietica non andassero ad intaccare la collaborazione strategica preesistente tra i due paesi. 30 Fu proprio l’equipe del presidente americano ad evidenziare, nei primi rapporti giunti a Washington da Pechino, che l’instabilità interna al paese e nel partito era ormai evidente, tanto da poter sfociare in una potenziale crisi interna alla Cina. Capro espiatorio dell’insoddisfazione che cresceva tra studenti e lavoratori fu Zhao, che subì una vera e propria campagna denigratoria da parte dei gruppi più conservatori del partito. 31 Il 25 febbraio, il presidente degli Stati Uniti arrivò in Cina, con molti argomenti all’ordine del giorno, ma già nell’organizzazione del banchetto di benvenuto si verificò il primo incidente diplomatico. Nella lista degli ospiti furono inseriti noti dissidenti, tra cui Fang Lizhi e sua moglie, per dare risalto al rispetto dei diritti umani, su cui l’amministrazione americana continuava ad insistere. 32 Naturalmente, la dirigenza cinese non accolse di buon grado la proposta americana di invitare Fang al banchetto, anche se fu costretta ad accettare un compromesso: il dissidente avrebbe avuto un posto a tavola in una posizione tale da non permettergli né alcun contatto con 28 Su tale argomento, cfr. Memorandum of Conversation Nixon-Zhou Enlai, Monday, February 21, 1972, in U.S. NATIONAL ARCHIVE [d’ora in avanti NARA], Nixon President Material Collection [d’ora in avanti NPM], President’s Office Files, Memoranda for President, Box 87, “Beginning February 20, 1972” . 29 PIAZZA, La Cina di Deng Xiaoping, cit., p. 15. 30 Cfr. U.S. Embassy Beijing Cable, The President’s Visit to China: Suggestion Regarding What We and the Chinese Hope to Acomplish, February 6, 1989, in NSAEBB, “The U.S. Tiananmen Papers” [d’ora in avanti USTP], Secret, doc. 1. 31 Cfr. CIA DIRECTORATE OF INTELLIGENCE REPORT, China: Potential for Political Crisis, February 9, 1989, in NSAEBB, USTP, Confidential, doc. 2. 32 Cfr. TOMBA, Storia della Repubblica Popolare Cinese, cit., p 155. 206 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” Bush, né con i leaders cinesi. 33 Costoro, inoltre, accettando malvolentieri la volontà dell’amministrazione americana, riuscirono anche ad impedire, predisponendo una serie di ostacoli, l’arrivo di Fang al banchetto prima che questo terminasse. La cosa non turbò affatto il banchetto di benvenuto, tanto che lo stesso George Bush esordì, nel suo discorso, con un vecchio proverbio cinese: «Una generazione pianta un albero e la prossima si siederà sotto la sua ombra»; 34 con tale frase, il presidente intendeva evidenziare il cambiamento dinamico e la crescita straordinaria di un paese, che, nonostante le trasformazioni, conservava una profonda e millenaria cultura. Bush ribadì, infatti, il ruolo determinante della Cina nel mondo, grazie alla sua apertura internazionale ed alla sua collaborazione per una nuova e duratura pace, prosperità e leadership mondiale. Il neo-presidente spiegò come differenti fossero le relazioni tra i due paesi rispetto alla sua prima visita in Cina nel 1974, 35 anno in cui i due paesi cominciarono, dopo quasi un quarto di secolo, ad instaurare rapporti pacifici e di collaborazione reciproca che portarono alla firma del Comunicato di Shangai, 36 ben 17 anni prima. Alla TV cinese Bush affermò: «I nostri paesi si trovano di fronte a molte sfide e insieme dobbiamo trovare soluzioni politiche ai conflitti regionali […]. In quanto membri delle Nazioni Unite e potenze nucleari, i nostri paesi hanno il dovere di preservare la pace nel mondo e la stabilità internazionale, favorendo il disarmo e il dialogo con paesi come l’Unione Sovietica […]». 37 Le dichiarazioni del presidente americano non servirono, però, a placare 33 Cfr. U.S. Embassy Beijing Cable, President’s Banquet – Chinese Guest List, February 18, 1989, in NSAEBB, USTP, Limited Official Use, doc. 5. 34 Toast at the Welcoming Banquet in Beijing, February 21, 1972, in http://beijing.usembassy-china.org/cn. 35 Il presidente Bush aveva lavorato durante la presidenza Ford, dal 1974 al 1976, come principale funzionario di collegamento tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, prima della costituzione di relazioni diplomatiche ufficiali. 36 Il 27 febbraio 1972, la Cina e gli Stati Uniti rilasciarono il loro primo comunicato congiunto, con cui entrambe le nazioni si impegnavano a lavorare verso la piena normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Tale comunicato è noto anche come Shangai Communique. Cfr. Joint Communique of the United States of America and People’s Republic of China (Shangai Communique), February 28, 1972, in http:/www.chinaorg.cn/english/china-us/26012html. 37 We Value the New Relationship, in Press Conference by President Bush (Extract), June 5, 1989, in U.S. DEPARTMENT OF STATE, American Foreign Policy Current Documents, N.L. GOLDEN – S. BROWN WELLS, eds., Washington, DC, U.S. Government Printing Office, 1990, p. 513. 207 Francesca De Pascalis gli animi della popolazione cinese. Dopo la partenza di Bush, infatti, a scatenare la protesta studentesca fu il diffuso senso di commozione per la morte di Hu Yaobang, il 15 aprile 1989, che fece da detonatore per la ripresa delle attività politiche e delle contestazioni. Dal momento della morte di Hu fino alla mattina del 17 aprile, arrivarono al partito centrale e al Consiglio di Stato almeno cinquanta rapporti inviati dai governi locali e dai ministeri della Sicurezza. Negli anni Ottanta Hu si era guadagnato la reputazione di acceso fautore di una politica che facesse uscire la Cina dalle soffocanti costrizioni che avevano caratterizzato gli anni di Mao. Sebbene quasi tutti i cinesi fossero soddisfatti della valutazione di Hu da parte del Centro, alcuni lamentarono che non gli era stato riservato sufficiente rispetto negli anni successivi al suo ritiro forzato. 38 L’analisi di più di settecento manifesti, distici ed elogi funebri, da parte dei ministeri della Sicurezza, evidenziarono che i contenuti riguardavano tre concetti essenziali: normali espressioni di cordoglio (la maggior parte), proteste contro le ingiustizie subite in vita dal Compagno Hu Yaobang e attacchi provocatori contro l’attuale situazione sociale. 39 Il 22 aprile si svolsero i funerali di Hu e gli studenti si riunirono in Piazza Tiananmen, prendendo d’assedio Porta Xinhua, per salutare il feretro dell’esponente riformista. Dopo due notti di tumulti a Porta Xinhua, Li Peng, parlando con Luo Gan, segretario generale del Consiglio di Stato, gli confidò che la situazione stava loro sfuggendo di mano. Ordinò, quindi, alla Commissione di insistere perché ogni Università si adeguasse allo spirito del partito centrale, esigendo che il governo municipale intraprendesse un’azione decisa; come conseguenza, le autorità municipali dichiararono provvisoriamente la legge marziale nella zona di Porta Xinhua. 40 Continuarono i disordini in tutto il paese e folle di giovani studenti, sfidando il divieto delle autorità, 41 38 April 15-17: Initial Reaction at Home and Abroad, in Tiananmen, cit., pp. 23-24. Excerpts from Beijing Municipal Government, “Report on Mourning Activities for Comrade Hu Yaobang at Beijing Institutions of Higher Education”, April 18, in Tiananmen, cit., pp. 27-28. 40 Beijing Municipal Party Committee and Beijing Municipal People’s Governments, “Trends Worth Close Attention during the Mourning for Comrade Hu Yaobang at Beijing Institutions of Higher Education”, April 20, in Tiananmen, cit., pp 33-35. 41 La notte del 18 aprile, un gruppo di studenti si radunò sotto la residenza dei dirigenti per contestare la politica del PCC, ma esso fu allontanato dall’intervento della polizia. Da allora, le autorità cinesi vietarono le manifestazioni in piazza Tiananmen. Cfr. COLLOTTI PISCHEL, Dietro Tian an men, cit., p. 157. 39 208 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” occuparono permanentemente Piazza Tiananmen, avanzando delle richieste. I dirigenti del partito, però, ignorarono le istanze dei dimostranti e, di conseguenza all’Università di Pechino fu indetto lo sciopero generale da parte della nuova Federazione Autonoma degli Studenti, la FAS. 42 All’interno del PCC si contrapposero due diverse posizioni sulla linea da tenere con i manifestanti: da una parte, il segretario Zhao Ziyang si espresse a favore del dialogo; dall’altra, Li Peng, favorevole ad adottare una linea più dura, cercò una autorevole alleato nel leader Deng Xiaoping. 43 Nei giorni seguenti, Li Peng, parlando con Deng, disse: «Compagno Xiaoping, con la situazione che si evolve così rapidamente, i membri del Comitato permanente sono d’accordo che la situazione a Pechino è grave […]. Alcuni dei manifesti di protesta e degli slogan sono antipartitici e antisocialisti. Chiedono un ribaltamento del verdetto sull’inquinamento spirituale e la liberalizzazione borghese. Le critiche sono rivolte direttamente a te e agli altri appartenenti alla generazione dei rivoluzionari proletari». 44 Continuando nel convincimento della natura anti-governativa del Movimento per la Democrazia, Cheng Xitong, sindaco di Pechino e membro del Consiglio di Stato, riferì a Deng che all’Università di Pechino alcuni studenti avevano imitato il movimento di solidarietà polacca, formando una loro Unione Studentesca di Solidarietà. 45 In risposta a ciò, il 26 aprile uscì un editoriale sul «Quotidiano del Popolo», che accusava gli studenti di sedizione e cospirazione, mettendo, così, il movimento fuori dalla legalità. 46 Ad esso seguì una tra le più importanti manifestazioni del movimento studentesco, segnando la prima vera sfida aperta su larga scala al governo cinese e il cui successo determinerà, poi, le dinamiche successive del movimento fino alla repressione. 47 Nel pomeriggio del 1° maggio, Zhao Ziyang, di ritorno dal suo viaggio in Corea, presiedette una 42 Excerpt from Beijing Municipal Party Committee and Beijing Municipal People’s Government, “Bulletin: Peking University Students Prepare to Establish a United Student Association”, Bulletin to Party Central and State Council Duty Officies, April 20, in Tiananmen, cit., pp. 36-37. 43 Cfr. D. LU, Do Not Forget the Young Man Who Defied the Tanks, May 26, 2009, in http://www.asianews.it-CHINA-Tiananmen. 44 Excerpt from Party Central Office Secretariat, “Important Meeting Minutes”, in Tiananmen, cit., p. 71. 45 Ibid., p. 72. 46 Cit. in TOMBA, Storia della Repubblica Popolare Cinese, cit., p. 162. 47 Cfr. Z. DINGXIN, The Power of Tiananmen: State-Society Relations and the 1989 Beijing Student Movement, Chicago, The University of Chicago Press, 2001, p. 255. 209 Francesca De Pascalis riunione del Comitato Centrale del Politburo, durante la quale espose la sua linea evidentemente discordante con le intenzioni e le impressioni del compagno Li Peng e degli Anziani del partito. Zhao Ziyang disse, infatti: «Il partito deve adattarsi ai nuovi tempi e alle nuove situazioni e imparare ad usare la democrazia e la legge per risolvere nuovi problemi […]. Dobbiamo far sentire alla gente che sotto la guida del Partito comunista e del sistema socialista può godere pienamente e oggettivamente della democrazia e della libertà. Il socialismo può dimostrare la propria superiorità diventando più attraente agli occhi del popolo […]. D’ora in poi, la funzione importante della direzione del partito dovrebbe essere quella di guidare il popolo nella costruzione di un sistema di legalità e democrazia, per trasformare il nostro paese socialista in un paese effettivamente governato dalla legge». 48 Intanto, il 4 maggio, decine di migliaia di studenti di cinquantuno università sfilarono lungo il viale di Changan e in Piazza Tiananmen ed uno dei capi degli studenti, sotto l’insegna del FAS, lesse la Dichiarazione del 4 maggio. Essa chiariva che il movimento era una continuazione ed uno sviluppo del grande movimento patriottico degli anni Settanta. Aveva in comune con il governo il fine ultimo della modernizzazione della Cina e sosteneva i valori della democrazia, della scienza, della libertà, dei diritti umani e della legalità. 49 Ad esso seguirono nuove e più importanti manifestazioni (con evidente riferimento al Movimento del 1919), 50 durante le quali i manifestanti minacciarono lo sciopero della fame e Zhao, contrariamente alla linea adottata dai vertici del partito, cercò di convincere gli studenti a rientrare nelle scuole. In risposta agli appelli della FAS e delle organizzazioni studentesche autonome delle università, il pomeriggio del 10 maggio più di diecimila studenti di Pechino percorsero in bicicletta le strade della città, distribuendo copie della loro richiesta di dialogo e altro materiale di stampa. Gli studenti in corteo si fermarono a gridare slogan davanti ai maggiori organi di 48 Excerpt from party Central Office Secretariat, “Minutes of Politburo Standing Committee Meeting”, May 1, in Tiananmen, cit., pp. 102-108. 49 May 4. The “May Fourth Declaration”, in Tiananmen, cit., p. 113. 50 Il “Movimento del 4 Maggio” del 1919 nacque in conseguenza della decisione presa dalle potenze europee, vincitrici della guerra, di assegnare i possedimenti tedeschi in Cina al Giappone, calpestando, così, la sovranità del paese. In tal modo, la situazione mutò radicalmente, dando nuovo slancio alle forze della Cina moderna. Cfr. J. GUILLERMAZ, Storia del partito comunista cinese, 1921-1949, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 44. 210 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” informazione, giungendo persino alla sede centrale del «Quotidiano del Popolo». 51 L’indifferenza delle autorità cinesi, comunque, radicalizzò ulteriormente le loro richieste: non solo essi pretendevano un riconoscimento di legittimità della loro protesta, ma criticavano anche la corruzione del partito ed il ritorno al conservatorismo da parte di Deng Xiaoping, chiedendo la concessione di riforme politiche democratiche. In Occidente cominciò a circolare largamente un documento con cui i dimostranti annunciavano lo sciopero della fame e dichiaravano: «[…] La democrazia non è un affare che riguardi poche persone; la battaglia democratica non può essere vinta da una sola generazione […]. Noi chiediamo la riabilitazione del nostro movimento, che è solo patriottico e democratico». 52 A differenza delle proteste del 1987, a queste ultime si unirono anche i lavoratori, che, allarmati dalla crescente inflazione e corruzione, erano giunti da molte città per esprimere la loro solidarietà agli studenti. I malumori all’interno del partito divenivano sempre più evidenti e le diverse posizioni sulle politiche da adottare più marcate. Questa situazione riaffiorò proprio nel discorso tra Zhao e Deng a pochi giorni dalla visita del presidente Gorbačev in Cina. Il 13 maggio, infatti, Zhao, in visita a Deng, esordì dicendo: «Compagno Xiaoping, il movimento studentesco è nato improvvisamente ad aprile e tutti hanno cercato di sopirlo il più in fretta possibile. Ho notato, però, che questo movimento ha due peculiarità: primo, gli slogan degli studenti appoggiano la Costituzione […], in linea con quanto sostengono il partito e il governo; pertanto non possiamo respingerle in toto. Secondo, il numero di simpatizzanti e dimostranti è enorme e di ogni provenienza sociale». Deng rispose: «Era chiaro sin dall’inizio che una piccola minoranza stava sobillando la maggioranza, fomentando le inquietudini», ma Zhao continuò: «Ecco perchè dobbiamo separare la massa degli studenti dalla piccola minoranza che cerca di creare confusione. Dobbiamo affidarci al nostro ruolo di guida: perseguire un dialogo a più livelli e su più canali, entrare in contatto con la gente e costruire un’intesa». Ma il piccolo timoniere replicò: «Il dialogo va bene, ma il punto è risolvere il problema. Non possiamo farci prendere per il naso. Questo movimento si è trascinato troppo a lungo, ormai è quasi un mese […]. Tiananmen è il simbolo della Repubblica Popolare Cinese. La piazza deve essere in ordine all’arrivo di Gorbačev. Dobbiamo mantenere la nostra immagine 51 52 Beijing Bicycle Demonstration, in Tiananmen, cit., p. 139. Cit. in COLLOTTI PISCHEL, Dietro Tian an men, cit., pp. 163-166. 211 Francesca De Pascalis internazionale. Che figura ci faremo se la piazza è nel caos?». 53 A metà maggio, però, dopo un’apparente tregua, le manifestazioni ripresero in occasione proprio della visita storica del segretario del PCUS, Mikhail Gorbačev, visita che segnò la ripresa delle relazioni diplomatiche fra i due paesi, interrotte per più di 19 anni; Gorba čev stesso venne preso come esempio di riformatore democratico nel suo paese. Nonostante l’arrivo del leader sovietico, il 15 maggio a Pechino gli studenti non mutarono atteggiamento, continuando lo sciopero della fame sulla piazza, forti dell’appoggio crescente della popolazione e delle autorità locali. La stampa internazionale, convenuta nella capitale per l’incontro tra i dirigenti sovietici e quelli cinesi, considerò il movimento democratico, che ormai aveva superato i limiti del mondo studentesco, come l’evento principale del momento. Vennero riproposti in tutto il mondo gli slogan dei manifestanti, tra cui «La democrazia e la legge sono garanzie di stabilità sociale», oppure «Il popolo ha diritto di conoscere i fatti, di partecipare e di controllare gli affari dello Stato». 54 Nella Dichiarazione della fame e nel manifesto affisso nell'Università di Pechino si leggeva: «La nazione è in crisi: soffocata dalla crescente inflazione, dai traffici illegali dei funzionari disonesti, da abusi di potere, burocrati corrotti, dalla fuga di persone valide verso altri paesi e dal decadimento della legge e dell’ordine […]. La democrazia è la più nobile aspirazione umana, la libertà è un sacro diritto umano […], questo sciopero della fame ci è imposto. Non abbiamo scelta […]». 55 Nella piazza venne pure innalzata, in segno provocatorio, una gigantesca statua di cartapesta alta quasi 10 metri, che rappresentava la “Dea della Democrazia” e che assomigliava alla Statua della Libertà newyorkese. 56 Se, da una parte, il viaggio di Gorbačev portò alla normalizzazione delle relazioni tra i due paesi, dall’altra la situazione tra dirigenti e manifestanti si radicalizzò del tutto. Secondo un rapporto del ministero della Sicurezza, il numero degli studenti in sciopero della fame continuò a crescere, a dispetto dei continui appelli a desistere. Nella notte, gli abitanti della città vennero ripetutamente svegliati dalle sirene delle ambulanze, che portavano via gli studenti in preda al collasso. Buona parte della cittadinanza scese in strada e 53 Excerpt from Memoranda of Conversations Supplied by a Friend of Yang Shangkun Who Cannot Be Further Identified, in Tiananmen, cit., pp. 147-149. 54 Ibid., pp. 150-151. 55 Original Handbills Provided by the Public Security Ministry to Party Central and the State Council, May 13, in Tiananmen, cit., pp. 153-155. 56 Cfr. Secretary of State Morning Summary for June 2, 1989, China: Stalemate Continues, Confidential, in NSAEBB, doc. 8. 212 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” si unì ai cori di richiesta di dimissioni del gruppo dirigente. Il ministero stimò che i dimostranti in quei giorni fossero complessivamente un milione e duecentomila. In base a tale rapporto, i manifestanti risultavano provenire dalle scuole, dalle fabbriche, dagli uffici governativi di tutti i livelli, dai settori della comunicazione e da altri posti. 57 Tra il 19 e il 20 maggio, subito dopo la partenza del leader sovietico, nel pieno della crisi di fronte all’immobilismo dei massimi dirigenti del partito, fu Deng Xiaoping a prendere l’iniziativa, emanando un’ordinanza firmata da tutti i dirigenti, ad eccezione di Zhao Ziyang, che proclamava l’introduzione della legge marziale, per dare un segnale ancora più forte agli studenti. Deng consegnò un rapporto alla Commissione Centrale Militare, la CCM, sul dispiegamento delle truppe a Pechino; l’ordine finale, emanato a nome di Deng, recitava così: «In conformità all’art. 89, comma 16, della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, il Consiglio di Stato ha deciso di instaurare la legge marziale in alcune zone di Pechino a partire dal giorno 21 maggio 1989. Le varie unità hanno l’ordine di prendere posizione nelle aree designate di Pechino». 58 Questo fatto è molto importante se si considera che la legge marziale, nella storia della Repubblica Popolare Cinese, era stata proclamata una sola volta a Lasha, capitale del Tibet, ed ora si trattava di dichiararla a Pechino, capitale dello Stato. Intanto, Zhao, dopo aver fatto visita agli studenti, si recò direttamente nel suo ufficio e stilò una lettera di dimissioni indirizzata al Comitato permanente del Politburo e al compagno Xiaoping: «Dopo lunghe riflessioni sono giunto alla conclusione che, dato il mio attuale livello di consapevolezza e il mio stato d’animo, non posso acconsentire alla vostra decisione di imporre la legge marziale a Pechino. Rimango ancora della mia opinione. Di conseguenza, chiedo di dimettermi da segretario generale del Partito Comunista Cinese e da primo vice-presidente della Commissione per gli Affari Esteri». 59 Davanti a ciò, lo stesso Deng allontanò Zhao dal partito e nominò al suo posto il tecnocrate Jang Zemin. L’ex segretario riformista, però, prima di abbandonare il quartier generale del PCC, scese in piazza tra gli studenti cercando di convincerli ad interrompere lo sciopero della fame e l’occupazione della piazza e promettendo che le loro ragioni sarebbero state 57 A Million-Person Demonstration in Beijing, in Tiananmen, cit., pp. 193-194. Excerpt from Central Military Commission Office, “Minutes of Central Military Commission meeting”; May 18, as Excerpted in Central Party Office Secretariat, “Daily Report” (Meiri yibao), May 19, in Tiananmen, cit., p. 212. 59 May 18: An Unsent Letter of Resignation, in Tiananmen, cit., p. 199. 58 213 Francesca De Pascalis ascoltate. 60 Le sue parole recitavano così: «Il vostro entusiasmo per la democrazia e la legge, per la lotta alla corruzione e per l’avanzamento della riforma è di estremo valore. Il centro prende molto seriamente le vostre opinioni e richieste ragionevoli, e le studierà immediatamente e con attenzione. Vogliamo migliorare ogni settore del partito e del governo, e speriamo che voi tutti torniate in salute […]. Quindi, vi prego di non continuare il digiuno. Siete giovani e avete molto tempo davanti per dare il vostro contributo alla nazione e al popolo, quindi dovreste per prima cosa prendervi cura della vostra salute». 61 Tuttavia, egli non fu ascoltato e l’episodio decretò anche la fine della sua carriera politica. Solo successivamente avrebbe dichiarato che il tentativo di dialogo con gli studenti era presente nell’agenda del partito da molti giorni, in quanto gli stessi dirigenti temevano che, dopo una settimana di occupazione e di sciopero della fame, sarebbe aumentato il rischio di creare dei martiri, che avrebbero potuto destabilizzare ancora di più il regime, senza contare la crescente simpatia di cui gli studenti erano oggetto tra la popolazione. 62 Molteplici furono le reazioni degli organi internazionali presenti a Pechino in quei giorni; la stessa ambasciata americana sostenne che quanto stava accadendo era una conseguenza della nuova apertura della società cinese, un’apertura attuata per conquistare il sostegno popolare alle riforme, ma che aveva reso più difficile, per i dirigenti cinesi, imporre la propria volontà alla popolazione civile, e che tali iniziative avrebbero finito per provocare uno stallo non soltanto nel processo di riforma economica, ma anche e soprattutto in quello politico e sociale. 63 All’inizio, le autorità cinesi esclusero l’occupazione militare di scuole e università, anche se in tali istituzioni vennero insediati direttori militari, coadiuvati da collaboratori del governo in tutti i mass media. Furono ampliate anche le restrizioni sulla stampa e proibita la copertura dei media sulle dimostrazioni degli studenti, costringendo, così, i giornalisti stranieri a richiedere l’approvazione del governo cinese per i vari servizi 60 Quella fu l’ultima apparizione di Zhao Ziyang, che, da allora, fu costretto agli arresti domiciliari. Su tale argomento, cfr. TOMBA, Storia della Repubblica Popolare Cinese, cit., p. 163. 61 May 19: Zhao Ziyang’s Sorrowful Speech, in Tiananmen, cit., p. 217. 62 Cfr. G. SAMARANI, Zhao Ziyang e la Primavera di Pechino. Nuovi documenti e testimonianze, in «Mondo Cinese», 128, luglio-settembre 2006, pp. 4-8, in http://www.tuttocina.it/Mondo_Cinese/128. 63 Cfr. CIA INTELLIGENCE ASSESTMENT, Perspective on Growing Social Tension in China, May 1989, Secret, in NSAEBB, USTP, doc. 9. 214 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” d’informazione. 64 Nonostante il divieto imposto dalle autorità, tuttavia, le manifestazioni continuarono, sia con l’occupazione della piazza da parte degli studenti, intellettuali e cittadini, intervenuti a sostegno del movimento di protesta, sia con l’organizzazione di blocchi stradali generalizzati contro l’irrompere delle truppe. Fin dal momento del loro ingresso in città, le forze armate incontrarono una resistenza passiva di massa nei sobborghi e non riuscirono ad entrare nel centro urbano. Gli Anziani cominciarono a preoccuparsi quando vennero a sapere che non era possibile far rispettare come volevano l’ordinanza di legge marziale. Ma a Yang Shangkun, responsabile dei dettagli tecnici e pratici, la situazione non sembrava così nera. Yang, infatti, era convinto che il solo arrivo delle truppe in città avesse suscitato un forte effetto intimidatorio e, dato che questo era uno degli obiettivi originali della legge marziale, si poteva ritenere soddisfatto; ma egli si sbagliava. 65 Intanto, tutta la stampa estera focalizzava la propria attenzione sui disordini di Pechino, tant’è che tra il 29 e il 30 maggio giunsero ventisette rapporti sulle notizie relative alla situazione cinese come prospettata dalla stampa estera. Per i giornalisti occidentali, la presenza delle truppe nelle periferie di Pechino era un’occasione per la leadership cinese di verificare l’equipaggiamento e la modernità dell’esercito. 66 In risposta a tali accuse, Li Peng scrisse, il 1° giugno, al Politburo, un rapporto dl titolo La vera natura dei disordini, all’interno del quale affermava l’idea che il perdurare dell’occupazione della piazza era la strategia di coloro che avevano organizzato e tramato per realizzare questi disordini. Un elemento importante era, per Li Peng, il grande appoggio, sia morale sia materiale, dato — direttamente ed indirettamente — ai cospiratori e agli organizzatori da diverse forze reazionarie, organizzazioni e singoli individui in patria e all’estero. Egli accusava «Voice of America» 67 di aver avuto un ruolo di primo piano nel gettare benzina sul fuoco, avendo a disposizione quotidianamente tre trasmissioni con un totale di dieci ore, in cui diffondere 64 Cfr. Secretary of State Morning Summary for June 2, 1989, China: Stalemate Continues, Confidential, cit. 65 Excerpt from Central Military Commission Office, “Minutes of the [May] 20 Enlarged Meeting of the Central Military Commission”, in Tiananmen, cit., pp. 239240. 66 Foreign News Coverage, ibid., p. 323. 67 La VOA è l’unica stazione radio internazionale del governo americano che trasmette in tutto il mondo. Secondo la dirigenza cinese, essa costituì il principale canale d’infiltrazione politica ed ideologica nei paesi socialisti. 215 Francesca De Pascalis notizie infondate e istigare i disordini. 68 Il 1° giugno, poi, il ministero della Sicurezza di Stato sottopose all’attenzione del Centro un rapporto dal titolo Infiltrazioni ideologiche e politiche nel nostro paese dagli Stati Uniti e da altre forze politiche internazionali, in cui si leggeva: «Tutte le amministrazioni americane, compresa l’amministrazione Bush, non hanno mai rinunciato ai tentativi di penetrazione ideologica […]. Dopo aver fallito con l’accerchiamento militare, l’unica arma a disposizione è puntare sul programma di riforme e apertura della RPC per riuscire nell’infiltrazione spirituale in Cina tramite gli scambi economici e culturali. Vogliono far leva sulla cultura americana per spingere la Cina verso la liberalizzazione […]. Tra questi metodi [vi è] il programma Fulbright […]». 69 La convinzione che la degenerazione e la continuazione delle manifestazioni fossero causa dell’appoggio di forze esterne al paese portò la dirigenza cinese ad accusare anche Taiwan di inviare in Cina missionari, sotto mentite spoglie, per la creazione di squadre di propaganda; tra i rapporti, infatti, si legge anche che il regime di Taiwan aveva organizzato ogni strato della società in modo che offrisse il proprio sostegno ai disordini. Il segretario generale del Consiglio di Sicurezza Nazionale di Taiwan, Jang Weiguo, secondo il rapporto, aveva lanciato un progetto di solidarietà in favore di Tiananmen, inviando un contributo di 100.000 dollari e creando anche fondazioni a sostegno del Movimento per la Democrazia. 70 Davanti a ciò, Deng era ormai deciso a risolvere al più presto la situazione di stallo in cui da dodici giorni versava il cuore di Pechino e le principali città del paese. Già il 2 giugno gli Anziani del partito si incontrarono col Comitato permanente del Politburo e durante l’incontro, Deng, convinto, disse :«Questi disordini sono stati una dura lezione, ma 68 Excerpts from Beijing Municipal Party Committee and Beijing People’s Government, “On the True Nature of the Turmoil”, Report to the Politburo, June 1, in Tiananmen, cit., pp. 330-335. 69 Excerpts from State Security Ministry, “On Ideological and Political Infiltration into Our Country from the United States and Other International Political Forces”, Report to Party Central, June 1, in Tiananmen, cit., pp. 338-341. Con questo programma, secondo l’accusa cinese, gli Stati Uniti dopo aver stabilito normali relazioni diplomatiche con la Cina, avevano inviato 172 professori in 24 grandi università cinesi, con lo scopo di influenzare la cultura cinese. La United States Information Agency inviava ogni anno in Cina una ventina di docenti per tenere lezioni negli istituti di ricerca del paese. 70 Per maggiori approfondimenti sui sospetti cinesi sulla partecipazione di Taiwan ai disordini, cfr. ibid., pp. 346-348. 216 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” almeno ora abbiamo capito che la nostra priorità è tutelare la sovranità e la sicurezza dello Stato. Alcuni paesi occidentali strumentalizzano quelli che chiamano i “diritti umani” e sostengono l’illegalità o l’irrazionalità del sistema socialista per criticarci, ma in realtà hanno un unico scopo, e cioè dominarci […]. Dobbiamo solo sforzarci di mantenere una situazione ottimale per il progresso e lo sviluppo del nostro paese […]. La nostra responsabilità è nell’aver trascurato l’educazione dei nostri figli e dei nostri studenti, l’educazione è l’unica arma che ci resta con gli studenti. I disordini non vanno più tollerati. La stabilità deve avere la precedenza su tutto […]». 71 In quanto presidente della Commissione Militare, fu lui a far pervenire alle truppe l’ordine di utilizzare qualsiasi mezzo per allontanare chiunque avesse sfidato la legge. Nella mattina del 3 giugno, il Comando della legge marziale iniziò le mosse mirate a uno sgombero pacifico della piazza e la polizia cominciò a sparare gas lacrimogeno sulla folla nei pressi di Zhongnanhai, quartier generale del PCC, vicino a Piazza Tiananmen, mentre gli studenti reagivano scagliando pietre e rifugiandosi nei complessi adiacenti. Il Comando della legge marziale fece il seguente annuncio :«A partire da ora, Pechino è in stato d’allerta […]. I cittadini sono pregati di non stare in strada e di non recarsi in Piazza Tiananmen […]». 72 Intorno alle 20:30, gli elicotteri iniziarono a sorvolare viale Changan e Piazza Tiananmen, per controllare la situazione in vista dell’imminente arrivo delle truppe in piazza. Alle 22:00, il Comando della legge marziale ordinò alle unità di stanza nelle periferie di entrare in città, dove queste incontrarono la dura resistenza di cittadini e studenti. Il 27° Corpo d’Armata, composto da quasi 5.000 soldati, fu, infatti, costretto a tornare indietro di fronte all’opposizione dei manifestanti. Intanto, nella notte, migliaia di studenti e cittadini si riunirono spontaneamente a Muxidi (a circa 5 chilometri da Piazza Tiananmen), dopo aver saputo dell’avvicinamento delle truppe. 73 Nonostante le truppe cominciassero a sparare colpi di avvertimento in aria e con i megafoni invitassero i manifestanti a liberare il passaggio per gli autocarri, la gente non mostrò segni di paura. Ma, a seguito di un costante pioggia di pietre da parte dei manifestanti e dei continui cori che 71 Excerpts from Party Central Office Secretariat, “Minutes of Important Meeting, June 2, 1989”, Document Supplied to Party Central Office Secretariat for Its Records by the Office of Deng Xiaoping, ibid., pp. 354-362. 72 Excerpt from Martial Law Command, “Situation in Tiananmen Square and Surrounding Districts”, in “Bulletin” (Kuaibao), June 3, ibid., p. 371. 73 Excerpt from Martial Law Command, “Situation in the Muxidi District”, in “Bulletin” (Kuaibao), June 3, ibid., p. 372. 217 Francesca De Pascalis inneggiavano contro i militari, urlando loro “fascisti!” o “assassini”, le truppe decisero di puntare le armi contro la folla, di aprire il fuoco e permettere l’avanzata delle truppe. 74 Gli studenti che si trovavano in Piazza Tiananmen, intanto, continuarono l’occupazione, convinti che il PLA non avrebbe mai aperto il fuoco contro di loro. Nelle strade che costeggiavano il cuore di Pechino furono installati numerosi posti di blocco con barricate umane e con filobus dati alle fiamme. 75 Mentre la stampa internazionale raccoglieva le prime testimonianze del fallito sgombero della piazza, la tensione aumentò bruscamente quando dieci o quindicimila soldati completamente equipaggiati marciarono a bordo di autocarri verso il centro urbano. 76 Nonostante le esortazioni provenienti dall’estero (soprattutto dall’amministrazione americana), cominciò il giro di vite a Pechino. Le truppe che avanzarono con carri armati impiegarono quasi sette ore per raggiungere il cuore della città a causa della resistenza della folla di civili. 77 Alcuni studenti riuscirono ad abbandonare la piazza prima dell’assalto militare e le truppe aprirono il fuoco sui dimostranti rimasti a Tiananmen. Gli episodi di maggior violenza avvennero, tuttavia, nelle zone semiperiferiche e sui grandi sovrappassi stradali, dove lo scontro tra le truppe corazzate, che sparavano in direzione della folla, si caratterizzò per una grande violenza. Le testimonianze oculari rivendicarono, in un primo momento, la morte di più di 10.000 persone uccise a Tiananmen, altre drammaticamente travolte dal passaggio degli autocarri, insieme alla distruzione, da parte del PLA, di negozi ed edifici. 78 Mentre la stampa internazionale riportava in prima pagina il massacro di Piazza Tiananmen, le truppe continuarono a intervenire sporadicamente in tutto il paese. Nelle università, il 4 giugno prevalevano sentimenti di shock, rabbia e dolore. Quella domenica mattina i sistemi d’informazione delle FAS e delle varie università trasmisero continuamente programmi dal titolo Bagno di sangue 74 Excerpts from State Security Ministry, “Situation at Muxidi on the Evening of the Third”, in “Important Intelligence” (Yaoqing), 2 A.M., June 4, ibid., pp. 373-375. 75 Excerpt from State Security Ministry, “Situation in Beijing urban districts on the fourth”, in “Important intelligence” (Yaoqing), June 4, ibid., pp. 375-377. 76 Cfr. U.S. Embassy Beijing to Department of State, Wash DC, SITREP No. 28: Ten To Fifteen Thousand Armed Troops Stopped at City Perimeter by Human and Bus Barricades, June 3, 1989, in NSAEBB, doc. 11. 77 Cfr. Secretary of State’s Morning Summary for June 4, 1989, China: Troops Open Fire, Top Secret, in NSAEBB, doc. 13. 78 Cfr. U.S. Embassy Beijing to Department of State, Wash DC, The Morning of June 4 (June 4, 1989), Confidential, in NSAEBB, SITREP, No. 32, doc. 14. 218 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” a piazza Tiananmen e La verità sul massacro di Pechino; in questi servizi si disse che «il sangue era stato versato come un fiume su viale Changan» e che la Croce Rossa di Pechino aveva fatto una prima stima di 2.600 vittime. 79 Naturalmente le autorità cinesi smentirono le notizie diffuse dai manifestanti; anzi, ribadirono che nel corso dell’intero processo di sgombero le truppe del PLA non avevano ucciso, né investito con i carri armati alcun manifestante. 80 Per tutto il giorno, invece, un flusso continuo di studenti e cittadini entrò e uscì dall’ospedale di Fuxing, dove si era raccolta un’immensa folla per avere notizie dei propri familiari, mentre all’ospedale della stazione si contavano già nel pomeriggio ventitré vittime e in quello delle Poste e delle Telecomunicazioni sedici. Sulla base delle stime, il numero di persone uccise in tutta la città già la sera del 3 giugno ammontava a circa duecento. 81 Un’atmosfera di terrore pervase Pechino per tutta la giornata del 4 giugno. In corrispondenza degli incroci principali vi erano camion e autoblindati in fiamme, si sentivano colpi di arma da fuoco e i pedoni in giro non coinvolti nelle rappresaglie erano veramente pochi. Ma la mattina del 5 giugno la gravità dell’assalto divenne chiara. Le truppe spararono con armi automatiche indiscriminatamente su folle di civili disarmati, inclusi donne e bambini; gli studenti in fuga erano stati raggiunti alla schiena dagli spari dei soldati e anche all’interno delle truppe del PLA cominciarono i disordini tra i soldati accusati di azioni efferate. 82 La popolazione di Pechino rimase inorridita dalla violenza utilizzata contro i sostenitori del Movimento per la Democrazia, mentre i rifugiati politici che avevano chiesto asilo ai paesi occidentali avevano portato con sé testimonianze delle atrocità subite. Ancora oggi le stime dei morti variano. Il governo cinese parlò inizialmente di 200 civili e 100 soldati morti, ma poi abbassò il numero di soldati uccisi a qualche dozzina; la CIA stimò, invece, 79 Public Security Ministry, “A Counterrevolutionary Pamphlet Signed by FAS Appears on Beijing Campuses”, in “Public Security Bulletin” (Gongan Kuaixun), June 4, in Tiananmen, pp. 384-386. 80 Excerpt from State Security Ministry, “Trends in Tiananmen Square”, Fourth of Six Overnight Faxes to Party Central and State Council Duty Offices. 4:04 A.M., June 4, ibid., pp. 379-382. 81 Cit. in Excerpt from State Security Ministry, “Situation in Beijing Urban Districts on the fourth”, in “Important Intelligence” (Yaoqing), June, ibid., p. 375. 82 I giornalisti americani parlarono anche di più di 1.000 arresti nelle ore successive al massacro (cifra confermata anche da Amnesty International). Cfr. E. COLLOTTI PISCHEL, Cina oggi. Dalla vittoria di Mao alla tragedia di Tian an men, Bari, Laterza, 1991, pp. 178-179. 219 Francesca De Pascalis in 800 i morti solo a Tiananmen; la Croce Rossa riferì di 2.600 morti e di 30.000 feriti; altri stranieri, invece, parlavano di circa 3.000 civili morti durante l’assalto della piazza; le stime più alte fecero riferimento a ben 12.000 morti, mentre organizzazioni non governative, come Amnesty International, denunciarono che, ai morti durante lo sgombero della piazza, dovevano essere aggiunti i giustiziati per “ribellione”, “incendio di veicoli”, ferimento o uccisione di soldati, e reati simili. La repressione della protesta fu seguita in tutto il mondo e rimarrà nelle menti di tutti, grazie anche ad una foto che circolò in quei giorni sulle TV internazionali e che, più di tutte, simboleggia la fine drammatica della rivoluzione mancata degli studenti cinesi. La foto, rinominata dal «Time» col titolo “Il ribelle sconosciuto”, ritrae un giovane che, sul viale di Changan, aveva cercato di fermare l’avanzata dei carri armati, forte solo della convinzione profonda delle sue idee riformiste e “troppo” occidentali. Di quel ragazzo non si seppe più niente. La leadership cinese, intanto, aveva ripreso il controllo del paese, ma, da allora, quell’immagine cominciò ad essere il simbolo del mancato rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali dell’uomo in Cina. 4. La Cina dopo Tiananmen I giorni che seguirono al massacro di Piazza Tiananmen furono caratterizzati da una calma “uneasy”; molti furono i dissidenti scomparsi e molti quelli fuggiti dal paese. 83 Un’indagine nazionale condotta dall’agenzia Xinhua alla fine di giugno scoprì che ovunque gli studenti universitari erano in preda al terrore e ad una tacita resistenza. Le università erano pervase da un’atmosfera di tensione, con il terrore incombente di incorrere in una punizione o nell’arresto. Alcuni fecero dei parallelismi con gli arresti arbitrari durante la campagna di Mao e la rivoluzione culturale. Si stimò che in tutto il paese circa uno studente su cinque era ancora ribelle e circa uno studente su tre manteneva un deliberato silenzio, unito alla politica dei “quattro divieti” verso i media nazionali: divieto di ascoltare, di leggere, di credere, di domandare. 84 83 Cfr. Secretary of State’s Morning Summary for June 9, 1989, China: Uneasy Calm, Top Secret, in NSAEBB, doc. 23. 84 Excerpt from Xinhua News Agency, “The Ideological Condition of College Students Nationwide”, “Proofs on Domestic Situation” (Guonei dogtai qingyang), June 29, in Tiananmen, cit., pp. 453-455. 220 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” Il cuore della crisi cinese era ormai solo la lotta al potere per la successione di Deng Xiaoping; quest’ultimo, però, dopo i fatti di Tiananmen, nel tentativo di riacquistare un minimo di credibilità, il 10 giugno, fece la sua prima apparizione pubblica, dopo quella del 16 maggio, ribadendo il supporto alla legge marziale ed all’azione governativa nei confronti dei controrivoluzionari e rispolverando la formula «Un centro (lo sviluppo economico) e due punti (il controllo del partito sulle riforme e l’apertura verso l’estero)». 85 Evidente risultò a tutti, a sei giorni dal massacro, il ruolo cruciale che l’organo militare aveva assunto per la struttura interna alla Cina e quanto fosse divenuto importante il suo appoggio per l’azione politica. 86 I militari dimostrarono a Deng, infatti, che senza di loro era impossibile conservare il potere, la loro forza andava oltre Deng e il partito. 87 Le sentenze di morte di Shangai e Pechino non fecero che approfondire la ferita aperta nelle settimane precedenti; la detenzione, l’arresto e l’uccisione degli attivisti erano chiaramente contrari al riconoscimento internazionale dei diritti umani. Già il 9 giugno, Deng si assunse la responsabilità dell’intervento e condannò, per l’ennesima volta, il movimento studentesco come un tentativo controrivoluzionario di rovesciare la RPC. Per legittimare la repressione, la propaganda ufficiale sostenne che i manifestanti avevano attaccato l’esercito, il quale, a costo di pesanti sacrifici, era comunque riuscito a salvare il socialismo. A livello internazionale, la repressione di Piazza Tiananmen provocò la ferma condanna da parte di numerosi paesi occidentali, condanna che portò l’amministrazione americana ad imporre, tra le altre cose, un pacchetto di sanzioni nei confronti della Repubblica Popolare Cinese, sospendendo, così, le emissioni di licenze per l’esportazione in Cina di qualsiasi articolo per la difesa, contenuto nella Munition List, 88 insieme all’interruzione dei rapporti 85 Cfr. Secretary of State’s Morning Summary for June 10, 1989, China: Mixed Signal of Purge, Top Secret, in NSAEBB, doc. 25. 86 Cfr. CIA, China: Situation Report, June 10, 1989, Top Secret, RUFF/UNBRA, in NSAEBB, USTP, doc. 10. 87 Cfr. H.E. SALISBURY, Diario di Tien an men. Testimone oculare del massacro di Pechino, Milano, SugarCo, 1989. 88 La Munition List comprendeva armi letali e non-letali, come le attrezzature per lo sviluppo della Marina militare cinese, o radio, radar e altre specifiche tecnologie militari. Cfr. CHINA: Military Imports from the United States and the European Union since the 1989 Embargoes, June 1989, National Security and International Affaire Division, Wash DC, “United States General Accounting Office”, in 221 Francesca De Pascalis diplomatici ad alto livello. Ad essa seguì anche, il 27 giugno 1989, la dichiarazione del Consiglio Europeo di un embargo per la vendita di armi in Cina. Contrariamente a queste decisioni, l’Unione Sovietica, che ignorò volutamente la repressione, aumentò i propri scambi militari con la RPC. L’importanza geopolitica della Cina, così come il suo enorme sviluppo economico, condusse, però, ad uno scongelamento dei rapporti sinostatunitensi ed europei già dai primi anni Novanta, fino ad una collaborazione ancora più serrata a partire dal 1997. La società cinese cadde, intanto, in uno stato di assoluta anomia. Molte persone si allontanarono dalla politica. La classe intellettuale e soprattutto i giovani studenti, con il loro esuberante idealismo, si affacciarono negli anni Novanta privi di quell’ammirevole impegno sociale che avevano mostrato negli anni Ottanta. Le università erano tranquille e la Cina sembrava avvolta in una nebbia austera che celava un vuoto spirituale. Il denaro regolava ogni cosa, la morale scomparve, la corruzione prosperò e quando tutto ciò fu reso noto, gli studenti universitari si allontanarono definitivamente dalla politica e si concentrarono solo sul loro destino individuale. Qualcosa era definitivamente scomparso. Il 1989 segna una svolta nella storia della Cina contemporanea. Appare, infatti, come un monito severo rivolto verso chi, in Cina ed all’estero, aveva ritenuto il processo di riforme socio-economiche, avviato dieci anni prima, un primo passo verso un reale processo di democratizzazione e di tolleranza anche nei confronti delle forme più vivaci di dibattito e di critica politica. È vero che, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, la dirigenza post-maoista aveva decisamente optato per un modello economico misto, aveva ammesso il ruolo costruttivo dell’iniziativa privata e della cooperazione con l’estero, aveva promosso una sempre più ampia autonomia delle imprese pubbliche, ricevendo, così, una piena legittimazione politica; ma ciò non significava affatto che potessero essere messi in discussione, o addirittura ribaltati i “quattro principi fondamentali” su cui reggeva la Cina comunista: socialismo, “marx-leninismo-Mao Zedong pensiero”, dittatura democratica del proletariato e ruolo guida del partito. 89 In questo senso, nel giugno 1989, il governo comunista di Li Peng non fece altro che confermare la tradizionale indisponibilità del potere cinese ad un dibattito politico aperto e pluralista, rigettando contemporaneamente, con la stessa determinazione, sia le richieste di libertà che provenivano dalle categorie intellettuali http://www.gao.gov., p. 3. 89 Cfr. R. CAVALIERI, Tendenze del diritto commerciale cinese dopo Tiananmen, in «Mondo Cinese», settembre-dicembre 1994, p. 1. 222 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” privilegiate, che quelle di giustizia sociale provenienti dai ceti meno favoriti. La stabilità sociale, l’unità del paese e la realizzazione del progetto di sviluppo economico non potevano essere esposti al rischio di una trasformazione troppo rapida e traumatica. È evidente che, di fronte all’adozione di un’opinabile legge marziale, di fronte alla deliberata violazione, da parte del governo, di quelle regole vagamente garantistiche (che esso stesso si era posto con la Costituzione del ’79), di fronte agli arresti senza mandato, ai processi segreti ed al diniego del diritto alla difesa in giudizio, tutti concordarono sul fatto che la legalità fosse stata violata e che le legittime aspettative di un sistema più giusto generate dalla riforma, fossero state disattese. 90 Tiananmen, inoltre, non è solo il momento di una tragica disillusione circa le intenzioni della dirigenza cinese in materia di diritti e libertà individuali, ma è anche il momento in cui il passo della modernizzazione dimostra di non voler essere in alcun modo interrotto, ed all’opposto, assume il ritmo vertiginoso che tuttora conserva, sospinto da una crescita economica eccezionale. I primi anni Novanta sono caratterizzati da una sempre maggiore importanza dell’economia di mercato e della virtuale scomparsa della pianificazione economica, da una massiccia regolamentazione dell’intera vita sociale, da un’apertura sempre più evidente all’estero e da una sempre maggiore partecipazione al mercato internazionale. È difficile pensare che si possa davvero istituire un mercato aperto e pluralista, senza che in tal modo, primo o poi, ci si veda costretti ad accettare regole uniformi a quelle dello standard internazionale, ed a riconoscere a tutti i soggetti sociali un grado elevato di uguaglianza, di autonomia, di mobilità e di aspettative; né si può prevedere se la crescita di classi nuove e la loro internazionalizzazione non abbiano potenzialità di rischio esplosive per i dogmi del sistema socialista, tra l’altro di fatto superati sul piano internazionale. Tre generazioni di leaders – dopo Deng è stata la volta di Jang Zemin ed ora di Hu Jintao – sono riuscite a condurre uno Stato demograficamente e territorialmente immenso e una società estremamente complessa e tecnologicamente arretrata verso un crescente benessere e un sempre più incisivo ruolo internazionale. 91 Infatti, nel corso degli ultimi decenni, la leadership cinese 90 In realtà, non vi era contraddizione tra l’intervento dell’esercito sui dimostranti ed il principio di legalità postulato dalla dirigenza cinese, giacché quest’ultimo era comunque ritenuto subordinato ai principi fondamentali su cui si basava l’ordinamento socialista. Cfr. CAVALIERI, La legge e il rito, cit., p. 256. 91 Cfr. R. ALCARO – M. COMELLI – R. MATARAZZO, La politica estera della Cina, maggio 2005, in Documentazione per le delegazioni presso le assemblee 223 Francesca De Pascalis è riuscita a promuovere uno sviluppo economico accelerato, a mantenere l’ordine e la sicurezza interni ed a rafforzare l’apparato militare. Pilotando la crescita economica su un binario completamente distinto da quello delle riforme politiche, la dirigenza del PCC ha saputo mantenere il controllo dello Stato e ha preservato il sistema di governo da ulteriori cambiamenti di tipo rivoluzionario. Naturalmente, il grande sviluppo è andato a discapito dell’intero sistema sociale cinese. Come nell’89, ancora oggi elemento fondamentale del mantenimento della stabilità, da parte della leadership cinese, è la repressione e la prevenzione. Per repressione, si intende non solo quella armata di Piazza Tiananmen, ma anche quella promossa dal governo cinese con la rieducazione nei “laogai” 92, campi voluti da Mao Zedong, che hanno accolto non meno di cinquanta milioni di persone dalla loro costituzione; si presume, infatti, che non esista un cinese che non conosca almeno una persona che abbia subito tale “rieducazione”. Si tratta di una detenzione che non prevede processo, non prevede imputazione, tanto meno esame o riesame giudiziario o possibilità di confrontarsi con un’autorità. Lo scopo è creare un “nuovo socialista” ed un nuovo prodotto, tant’è che ogni laogai ha due nomi, quello del centro di detenzione e quello della fabbrica, che può essere di scarpe, vestiti, spezie, tessuti e così via. Questi centri sono, dunque, parte integrante dell’economia cinese e le stesse autorità li considerano delle fonti inesauribili di mano d’opera gratuita. Numerose rimangono, anche, le sentenze di morte, la detenzione di dissidenti negli ospedali psichiatrici, la sparizione di quasi cinquecentocinquantamila bambine all’anno 93, a causa, soprattutto, della politica del figlio unico introdotta da Deng nel ’79, e migliaia sono le morti accidentali di prigionieri che precipitano dai piani più alti dei palazzi. 94 A internazionali, a cura dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) del Senato della Repubblica, XIV Legislatura, in www.XIVleg.camera.it/lavori/2005, p. 5. 92 Per maggiori informazioni, cfr. W. HONGDA HARRY, Laogai: i gulag cinesi, Napoli, L’Ancora, 2006. 93 Sono poche le informazioni che arrivano direttamente dalla Cina e le notizie a nostra disposizione sono per lo più riportate da varie organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights, Amnesty International ed altre, così come da superstiti in giro per il mondo. Cfr. F. FACCI, Vi racconto gli orrori dei laogai, i lager cinesi, in «Il Giornale», 21 novembre 2005, in http://creativamente.splinder.com/post/6999861/laogai. 94 Lo strumento principale per la riduzione della nascita femminile è l’aborto selettivo, praticato quando viene conosciuto il sesso della nascitura. Mancano alla conta anche le bambine che nascono, ma che non sono registrate, e perciò virtualmente non esistenti, facili vittime di sfruttamento. Certamente le femmine 224 Piazza Tiananmen, 1989: la “rivoluzione mancata” conferma di ciò, è bene riportare le dichiarazioni che il governo cinese fece in un trattato internazionale sulla “sua” definizione di diritti umani: «L’universalità dei diritti umani e delle libertà fondamentali deve essere rispettata ma si specifica portando avanti e sostenendo le diversità nel mondo […]. Paesi con diversi sistemi sociali, livelli di sviluppo, valori e contesti storico-culturali diversi hanno diritto di scegliere ciascuno il proprio approccio e modello di promozione dei diritti umani. La politicizzazione dei diritti umani e l’imposizione di condizioni – relativamente al rispetto dei diritti umani – legate all’aiuto economico devono essere combattute vigorosamente giacchè costituiscono esse stesse una violazione dei diritti umani». 95 Evidente è, quindi, la volontà del governo cinese di portare avanti una politica che, dal “Grande Balzo” di Mao, abbia come scopo principale quello di fare della Cina una nazione economicamente avanzata e politicamente rilevante, a discapito delle necessità e dei diritti individuali del popolo cinese. A ciò si aggiungono le politiche di repressione “non violenta”, che oggi la Cina continua ad attuare, intendendo con ciò tutte le misure che non colpiscono direttamente l’individuo, ma la gestione della sua crescita, della sua cultura e della sua vita all’interno della società. Una tra le più evidenti è la censura imposta su Internet a tutti i siti web stranieri, così come la repressione imposta alle manifestazioni in memoria, per esempio, della strage del giungo 1989. Numerose sono, infatti, le petizioni delle madri degli studenti di Piazza Tiananmen, che chiedono una rivisitazione degli episodi e delle condanne comminate in occasione della strage. Gli ambienti ufficiali cinesi continuano, quindi, a definire il massacro come la riuscita soppressione di una “rivolta controrivoluzionaria” che ha salvato la Cina dalla triste sorte toccata alla Russia e dall'ondata di “rivoluzioni colorate” che in anni recenti hanno fatto crollare molti regimi autoritari da un capo all’altro dell’Eurasia. C’è tuttavia un movimento in crescita che spinge per una revisione di questo giudizio ufficiale. Per alcuni intellettuali cinesi — e persino per alcuni funzionari — nonché per molti osservatori occidentali, Tiananmen è un simbolo degli abusi dei diritti sono le principali vittime dell’evasione scolastica infantile; ma rimane il fatto che i ricercatori stimano un numero piuttosto alto di decessi di bambine. Molte sono date in adozione e altre spariscono nei primi anni di vita per abbandono, vendita e persino perché uccise. Cfr. G. CRIVELLER, Bambine cinesi cercasi, in http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=558. 95 Cfr. Beijng Declaration of the Forum on China-Africa Co-operation, ottobre 2000, testo integrale su www.focac.org/eng/zyzl/hywj/tl57833.htm. 225 Francesca De Pascalis umani in Cina. Per molti giovani cinesi, Tiananmen è uno spazio vuoto, che non fa parte della loro esperienza, un qualcosa di cui sanno che “in Cina non si parla”. Focalizzare l’attenzione su Tiananmen e sul 1989 vorrebbe dire, però, offrire un’immagine distorta di quella che è oggi la vita in Cina. Nell’esperienza concreta dei cinesi, il ricordo degli studenti contestatori e dell’uomo davanti al carro armato, è offuscato dagli eventi del 1992, l’anno in cui il PCC si votò irrevocabilmente al “socialismo di mercato” e al “socialismo con caratteristiche cinesi”. Il viaggio nel Sud di Deng nel marzo del 1992 conferì alle riforme di mercato promosse dal governo autoritario il sostegno autorevole degli ultimi veterani della “lunga marcia”. Questa svolta fu poi codificata nel quattordicesimo Congresso del partito nell’ottobre dello stesso anno e dall’Assemblea nazionale del popolo nel marzo successivo. Il programma di riforme varato allora ha dominato la vita cinese per un decennio ed è ancora operante oggi. Questo processo ha portato la Cina, sul piano internazionale, ad essere un attivo partecipante delle organizzazioni deputate alla tutela della sicurezza internazionale (come l’ONU) e della cooperazione economica (come l’ASEAN e il WTO) nonché, più in generale, ad essere coinvolta nel mercato capitalistico globalizzato. Di fatto, è il peso specifico della Cina, dettato semplicemente dalle sue dimensioni, dalla sua economia e dalla sua popolazione a definirne il ruolo nel mondo. Data la sua influenza politica, le linee di condotta preferenziali del governo cinese e gli effetti cumulativi delle scelte di vita fatte da agricoltori, lavoratori, imprese e amministrazioni locali hanno, ormai, un’enorme rilevanza per il resto del mondo. Dalla repressione di quel mese di giugno, quindi, il PCC ha imparato a gestire ed a controllare ogni momento della vita del popolo cinese. 96 96 Cfr. T. CHEEK, Living with Reform: China since 1989, New York, Zed Books, 2006. 226 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 227-242 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p227 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Katia Scarlino «Paidomazoma»: il rapimento dei bambini greci da parte dei ribelli comunisti durante la guerra civile (1944-1949) Abstract: At the end of World War II the Greek Communist Party purposed to seize power soon after the withdrawal of the British forces, but it was blocked by US initiative. From 1946 to 1949, about 28,000 children were kidnapped and brought beyond the Iron Curtain by Communist rebels and afterwards obliged to fight against their own population. This crime is called in history as Paidomazoma. The United Nations Special Committee on the Balkans (UNSCOB) reported the child-traffic was directed to Bulgaria, Yugoslavia and Albania. The UN resolution no. 193, issued on 17 November 1948 by the United Nations General Assembly, recommended that the children come back to Greece and invited all UN members to take all necessary measures. In 1949, the UN approved the resolution no. 288 concerning the children's return. The Communist governments asserted that their purpose was to save children and young people from war sufferings. Keywords: Greek Civil War, 1944-1949; Greek Childs Kidnapping; Communist Guerrilla. 1. Il contesto internazionale La fine della seconda guerra mondiale segnò in maniera indelebile la storia dell’umanità. Gli effetti materiali e morali non possono essere paragonati a nessun altro evento bellico: il numero elevato delle vittime, la distruzione di centinaia di città, di campagne e di fabbriche. Dal punto di vista economico, la guerra fu sinonimo di catastrofe per l’Europa, per il Giappone e per la Cina. Gli Stati Uniti, invece, ne uscirono rafforzati e diedero avvio ad un periodo di crescita non paragonabile a nessuna altra nazione al mondo. Dal punto di vista geopolitico, la fine della guerra rappresentò una cesura rispetto agli anni precedenti. L’Europa non era più al centro delle relazioni internazionali. Il nuovo sistema vedeva vittoriose due potenze antitetiche, Katia Scarlino ma unite dal ruolo assunto a livello mondiale: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. 1 Il mondo, alla metà degli anni Quaranta, era divenuto bipolare. Stalin trovò nel trionfo militare il modo per consolidare il proprio potere e lo utilizzò per rendere permanente l’ascesa dell’Unione Sovietica a superpotenza e difenderla da ogni minaccia alla sua sicurezza. A questo scopo, attirare quante più nazioni possibili all’interno della sua orbita era necessità prioritaria per affermare la propria egemonia e contrastare quella statunitense, ormai indiscutibile. L’interesse di Stalin si rivolse verso il Mediterraneo, il continente africano e il Medio Oriente. 2 Alcuni Stati erano considerati dalla potenza sovietica come conquiste necessarie per aprire le porte del Mediterraneo e non solo. Infatti, se la conquista della Turchia e dei suoi Stretti facilitava l’accesso al mare, la sovietizzazione della Grecia e, poi, dell’Italia poteva portare la rivoluzione comunista sino in Francia e, quindi, in tutta l’Europa occidentale. La leadership staliniana, alla fine della seconda guerra mondiale, inoltre, assegnava un’importanza strategica al controllo comunista del movimento partigiano nella zona di influenza occidentale. In questo modo, ogni partito comunista locale poteva essere finanziato e consolidato in vista di un’insurrezione armata. Sin dal 1944, infatti, la dirigenza sovietica dovette affrontare il problema delle organizzazioni militari dei partiti comunisti occidentali che, come in Grecia, rappresentavano un esercito parallelo a quello centrale sovietico. 3 2. La Grecia alla fine della seconda guerra mondiale La Grecia entrò nella seconda guerra mondiale il 28 ottobre 1940 come conseguenza dell’invasione italiana del suo territorio. Nonostante la superiorità numerica e tecnica dell’esercito italiano, i greci riuscirono a far indietreggiare gli avversari fino all’Albania. La Germania inviò rinforzi per sostenere il suo alleato e solo nel 1944 lasciò il paese dopo una dura occupazione, a cui seguì morte e distruzione. Inoltre, tra gli anni 1941 e 1 Cfr. E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali dal 1918 ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 595-603. 2 Cfr. ibid, pp. 625-626. 3 Cfr. V. ZASLAVSKY, Aprile 1948, l’insurrezione mancata. La politica mediterranea di Stalin e i suoi riflessi sull’Italia, in «Ventunesimo Secolo», I, 1, marzo 2002, p. 17. 228 "Paidomazoma" 1942 una grave carestia contribuì alla degenerazione della vita del popolo greco. 4 Dopo la ritirata tedesca, il principale movimento di resistenza greca era guidato dai comunisti e la brutalità dello scontro in atto aveva favorito i gruppi più estremisti. Essi si arroccarono nelle regioni montuose del nord dove ottennero il sostegno aperto di Jugoslavia, Bulgaria e Albania. Furono proprio questi i luoghi da cui partirono le forze comuniste per scatenare una nuova guerra che provocò ulteriore disperazione e dolore. La conformazione geografica e orografica dello Stato ellenico, costituito da numerose catene montuose, e la quasi totale assenza di moderne vie di comunicazione erano fattori che ben si prestavano alla guerra guerreggiata 5 e all’utilizzo di forze irregolari. L’aspra divisione e violenza che inghiottì la Grecia negli anni Quaranta fu il risultato della sovrapposizione dei conflitti che furono combattuti, con varia intensità e livelli differenti, da soggetti mossi da interessi locali, nazionali e internazionali. La violenza iniziò con l’occupazione nemica, terminata con la liberazione di Atene ed esplose, infine, con la guerra civile. Fu proprio la situazione greca a rendere esecutiva la dottrina Truman. Infatti, nonostante inizialmente l’Unione Sovietica non si fosse schierata apertamente con i ribelli comunisti greci, era chiaro ai leaders americani che, dietro al flusso di armi provenienti dalla Jugoslavia e dall’Albania verso i ribelli greci, ci fosse la mano dell’impero di Stalin. Così, dopo l’annuncio del ritiro delle truppe britanniche dalla Grecia, Truman s’impegnò a creare consenso alla possibilità di inviare aiuti militari ed economici in questi territori. 6 Nel suo discorso al Congresso del 12 marzo 1947, il presidente affermò che «la politica degli Stati Uniti deve essere quella di offrire sostegno ai popoli liberi che stanno resistendo a tentativi di sottomissione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne». 7 Gli 4 Cfr. Background Note: Greece, November 23, 2010, Boureau of European and Eurasian Affairs, in http://www.state.gov/r/pa/ei/bgn/3395.htm. 5 Cfr. A. ROSSELLI, Breve storia della guerra civile greca, 1944-1949, Roma, Settimo Sigillo, 2009, p. 38. Il corsivo è mio. 6 Cfr. R. CROCKATT, Cinquant’anni di guerra fredda, Roma, Salerno, 1997, pp. 108109. 7 H.S. TRUMAN, Special Message to the Congress on Greece and Turkey: The Truman Doctrine, March 12, 1947, in http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=12846&st=&st1=#ixzz1IfnO5e4v. 229 Katia Scarlino Stati Uniti non potevano non intervenire per due ragioni fondamentali: il governo greco non era in grado di fronteggiare la situazione e, inoltre, la vittoria dei comunisti in Grecia avrebbe portato l’intera penisola balcanica nell’orbita sovietica. 3. Il Partito comunista greco e la guerra civile. L’influenza della politica staliniana. Per meglio capire gli avvenimenti che portarono alla guerra civile greca, è necessario analizzare la storia del Partito comunista, causa e protagonista principale degli stravolgimenti di quel periodo. Il Partito comunista greco fu fondato il 4 novembre 1918 come Partito socialista del lavoro (SEKE) da Avraam Benaroya. Al Congresso del SEKE nell’aprile 1920, il direttivo del partito si affiliò alla Terza Internazionale, ampliando il suo nome in SEKE-K (Partito socialista del lavoro di Grecia comunista). Al III Congresso straordinario, la compagine prese il nome di Partito comunista greco (KKE). 8 Furono i vertici di questa formazione a prendere le redini della rivolta, dopo la liberazione di Atene dall’occupazione nazista. Le prime organizzazioni resistenziali greche nacquero nel nord del paese, cioè in Macedonia e Tracia, già nel maggio 1941. Alla fine di giugno dello stesso anno, le prime due unità operative, Athanasios Diagos e Odysseas Androutosos, composte da circa 300 uomini, scatenarono una campagna di attentati, provocando la distruzione di ponti e stazioni di polizia inadeguatamente difese. Il 27 settembre 1941, i comunisti greci, insieme con cinque partiti centristi e di sinistra, formarono l’EAM (Fronte di Liberazione Nazionale), il cui braccio armato era rappresentato dall’ELAS (Esercito di Liberazione Nazionale Popolare). Nel febbraio 1942, l’ELAS, seguendo i suggerimenti di Mosca, si propose al popolo greco come un movimento democratico. Questo tentativo, però, non trasse in inganno la popolazione, tradizionalmente fedele alla monarchia. Inoltre, a preoccupare i leaders comunisti greci era la presenza di militari inglesi, perché temevano che, a guerra finita, il primo ministro Winston Churchill, uomo carismatico e soprattutto riluttante a ogni forma di comunismo, potesse aiutare a restaurare il potere monarchico. 9 Il coinvolgimento sovietico nella guerra civile greca e, quindi, l’influenza di Stalin sul KKE non è esente da incertezze. Lo storico greco 8 9 Cfr. ROSSELLI, Breve storia della guerra civile greca, cit., pp. 20-21. Cfr. ibid., pp. 38-43. 230 "Paidomazoma" John Iatrides, infatti, mette in evidenza come il giudizio sul partito abbia avuto valutazioni differenti. Per la storiografia tradizionale, l’insorgenza fu fomentata da Mosca per portare il paese sotto l’orbita sovietica. I revisionisti, invece, seguono la tesi secondo cui i partigiani avevano il solo scopo di espellere i nazisti. 10 Si può affermare, però, che la posizione sovietica circa la situazione greca è mutata nel corso degli anni del conflitto. Infatti, il tentativo britannico di escludere i comunisti dalla formazione del nuovo esercito regolare, subito dopo la liberazione dal giogo nazista, provocò uno scontro armato tra le truppe comuniste e le forze governative, da cui uscirono vittoriose queste ultime grazie all’appoggio britannico. In quel periodo, il governo sovietico non intraprese alcuna iniziativa al fine di rafforzare la sua influenza in Grecia ed espresse una forte disapprovazione verso le forze comuniste greche, che avevano cercato di prendere il potere con la forza militare. Stalin guardava alla Grecia come parte di un programma molto più ambizioso, che mirava a stabilire il controllo di Mosca sui Balcani. Per questo motivo, l’atteggiamento del Cremlino era stato molto prudente, e nel 1946 era disponibile a fornire ai partigiani ellenici i finanziamenti, il vestiario e i medicinali, ma non le armi richieste dai rivoltosi, pur nella consapevolezza che senza un intervento militare esterno, questi non avrebbero potuto vincere. 11 I comunisti ellenici ritenevano di dover insorgere e prendere il potere nel momento in cui le truppe britanniche si fossero ritirate (marzo 1947). Essi avevano interpretato il ritiro britannico come un disimpegno occidentale, ma così non fu, data l’iniziativa del presidente Truman. La sua dottrina, infatti, provocò una triplice reazione dell’Unione Sovietica: l’accelerazione della sovietizzazione dell’Europa orientale, l’istituzione del Cominform e la mobilitazione dei partiti comunisti per non far accettare gli aiuti economici americani ai rispettivi governi. Nel 1947, Stalin diede il via libera alla decisione del partito comunista greco di ingaggiare una lotta armata contro il governo di Atene. Il 23 dicembre 1947 i comunisti proclamarono la formazione del governo democratico della Grecia, guidato dal generale Markos. Si preparava un riconoscimento da parte dei paesi dell’Europa orientale. Ciò scatenò il governo di Washington, che avrebbe considerato la 10 Cfr. J.O. IATRIDES, Revolution or Self-Defense? Communist Goals, Strategy and Tactics in the Greek Civil War, in «Journal of Cold War Studies», III, 7, 2005, pp. 34. 11 Cfr. ZASLAVSKY, Aprile 1948, l’insurrezione mancata, cit., pp. 20-21. 231 Katia Scarlino partecipazione diretta della Jugoslavia come un atto di aggressione alle Nazioni Unite. Due condizioni furono necessarie alla definitiva sconfitta del movimento partigiano greco: la rottura tra Stalin e Tito e la chiusura dei confini da parte della Jugoslavia. 12 Vignetta satirica sulla guerra civile greca (1947) 4. Paidomazoma: la più grande tragedia della storia greca Durante l’ultima fase della guerra civile, i comunisti intrapresero una campagna che prevedeva il rapimento dei bambini greci dai tre ai quattordici anni in modo da strappare linfa vitale alle forze governative. I bambini vennero suddivisi per sesso e poi rinchiusi nei “centri di rieducazione socialista”. Alcuni dati testimoniano che i sequestri, alla fine del 1948, erano 28.296. Il governo greco definì il sequestro di massa dei 12 Cfr. ibid., pp. 23-27. 232 "Paidomazoma" fanciulli come paidomazoma, perché l’azione ricordava i tempi in cui i turchi razziavano il popolo ellenico. 13 Il primo incontro dei capi comunisti sulla rappresaglia ai danni dei bambini ebbe luogo a Bled, in Yugoslavia, nel 1947. Tra i partecipanti erano presenti il generale Markos e i rappresentanti di Albania, Bulgaria, Yugoslavia e Unione Sovietica. I negoziati avevano lo scopo di fissare le linee guida attraverso le quali doveva avvenire il trasferimento dei bambini dietro la cortina di ferro. I guerriglieri misero a punto le modalità con cui rapire i bambini: si doveva aspettare che l’oscurità calasse sui villaggi della Macedonia, dell’Epiro e della Tracia per eseguire il piano con forza e brutalità ed entrare, quindi, nelle mura domestiche per distruggere le famiglie greche. L'obiettivo dei ribelli comunisti greci era quello di trasformare la Grecia in satellite sovietico. All’inizio, la pratica dei rapimenti fu sporadica ma, alla metà del 1947, specialmente nella Macedonia greca, nell’Epiro e in Tracia, essa divenne 14 una costante. In molte occasioni, i ribelli consideravano le loro operazioni un divertimento. Essi, infatti, radunavano i bambini rapiti, piccoli e affamati, nelle piazze dei villaggi, dove li deridevano, mostrando loro pane tagliato a fette e farcito con burro e marmellata. Distribuivano, poi, un pezzo di pane a ciascuno di loro e li spingevano a salire su vecchi camion, affermando che quello sarebbe stato il cibo quotidiano se li avessero seguiti senza indugio. Era, invece, l’inizio di un viaggio che li avrebbe portati in luoghi lontani, in cui i ribelli facevano di tutto per annullare le vite dei 15 piccoli, vite che sarebbero servite a formare l’uomo nuovo. I bambini rapiti venivano dapprima portati nei territori al nord della Grecia. Da qui, poi, venivano trasferiti nei campi dietro la cortina di ferro. I maggiori centri erano ubicati in Albania, Yugoslavia e Bulgaria. Altri bambini furono deportati anche in centri minori in Cecoslovacchia, Polonia, Romania e Ungheria. 16 Quando arrivavano nelle cosiddette "Case della 13 Cfr. ROSSELLI, Breve storia della guerra civile greca, cit., p. 79. Cfr. N. KARAVASILIS, The Abducted Greek Children of the Communist «PAIDOMAZOMA», Pittsburgh, PA, RoseDog Books, 2006, pp. 10-11. 15 Cfr. ibid., pp.17-18. Il corsivo è mio. 16 Alcuni dati della Croce Rossa riportano il numero esatto dei campi e della distribuzione dei bambini rapiti: 18.500 bambini furono deportati nei “Centri di rieducazione socialista” di Bulgaria (17 campi), Romania (11 campi), Ungheria (11 campi), Cecoslovacchia (18 campi), Polonia (3 campi), Germania Est (3 campi) e 14 233 Katia Scarlino Gioventù" non trovavano quanto era stato loro promesso. La scena cambiava drasticamente. Dormivano stipati tutti insieme, piangevano e urlavano, ma nessuno prestava loro attenzione. Alcuni adolescenti provavano a scappare ma, una volta scoperti, venivano uccisi con un colpo alla testa davanti a tutti gli altri bambini. Così, terrorizzate, le piccole vittime passavano gli anni della loro giovinezza nella sporcizia, affamati e svuotati nell’anima. 17 Occorre precisare che i sequestri dei fanciulli rientravano all’interno di una strategia geopolitica. Infatti, le bande marxiste della Grecia settentrionale, consapevoli di poter contare sull’appoggio di Stalin e di Tito, agirono anche al fine di separare la Macedonia greca dal resto dello Stato ellenico, per renderla una repubblica socialista indipendente. Per questo motivo, ai bambini macedoni residenti in Grecia che vennero rapiti fu dato l’appellativo di Desta Begaltsi (Bambini sfollati). Anche ai bambini che non erano di origine macedone fu fatto credere di essere macedoni. Nell’estate del 1948, quando la rottura tra Stalin e Tito fu ufficiale, il leader iugoslavo volle allontanarsi completamente dalla politica sovietica e, quindi, 11.600 fanciulli sequestrati e reclusi nei campi iugoslavi furono trasferiti in 18 Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Polonia. I ragazzini sequestrati, considerati cellule primarie di una società contadina corrotta e legata alla monarchia e alla religione, oltre a vivere in misere condizioni, venivano sottoposti ad una martellante propaganda politica, che spesso sfociava in un vero e proprio lavaggio del cervello, al solo scopo di trasformarli in attenti servi del verbo marxista, secondo i dettami di Lenin (“Dateci un ragazzino e nell’arco di otto anni lo Albania (3 campi); 9.500 bambini furono detenuti nella sola Yugoslavia, dove erano ubicati 15 campi. Dal 1° gennaio 1949, 1.561 bambini furono trasferiti dalla Yugoslavia in Cecoslovacchia e in Polonia, nei cui campi ne arrivarono altri 153. Tra l’aprile 1948 e il marzo 1949, i bambini greci che attraversarono il suolo iugoslavo per essere trasferiti negli Stati dell’Europa dell’Est furono 13.500. Su tale argomento, si vedano, tra gli altri, G. MANOUKAS, Paidomazoma: Communist Children Abductions in the Greek Civil War, March 13, 2007, http://history-ofin «Modern Macedonia History», macedonia.com/wordpress/2007/03/13/paidomazoma-communist-children abductions-in-the-greek-civil-war; O.L. SMITH, Studies in the History of the Greek Civil War 1945-1949, Copenhagen, Museum Tusculanum Press, 1987, pp. 148-149. 17 Cfr. KARAVASILIS, The Abducted Greek Children, cit., p. 22. 18 Cfr. ROSSELLI, Breve storia della guerra civile greca, cit., p. 75. 234 "Paidomazoma" 19 rieducheremo”). Un articolo del 1950, pubblicato sul «Time Magazine U.S.», riporta la testimonianza di una madre, la quale ricorda la presenza dei guerriglieri comunisti nel proprio paese e gli assalti alla sua proprietà che ne derivarono e, poi, racconta del sequestro dei suoi figli, ai quali non ebbe la possibilità di dire addio perché, durante il rapimento, i militari del KKE 20 affermarono che le tre piccole vittime non erano più figli suoi, ma loro. Lo scopo principale della strategia dei sequestri dei bambini era la creazione di una Repubblica Internazionalista Macedone. Questa decisione fu favorita da Tito (fino alla rottura con Stalin) e fu uno dei punti-cardine della politica del Cominform che voleva distruggere tutti gli Stati nazionali dei Balcani, sostituendoli con la creazione di Repubbliche internazionaliste 21 comuniste. Tra il 1947 e il 1949, i bambini rapiti e trasferiti oltre la cortina di ferro erano in costante aumento. Durante i lunghi viaggi, molti bambini morivano per dissenteria, privazioni e fame. Petros Kokkalis, il ministro dell’Educazione, della Salute e dei Servizi Sociali del KKE, creò prigioni istituzionalizzate, gestite da direttori definiti Ambassadors of 22 Paidomazoma. Quando la regina greca, Federica di Hannover, venne a conoscenza dei rapimenti dei bambini e delle campagne di distruzione a cui erano sottoposti i villaggi greci, creò le “Città dei bambini”, chiamate anche Paidoupolis, per sottrarre i piccoli perseguitati ai ribelli comunisti e proteggerli da ogni violenza. La vita dei bambini in queste strutture scorreva con serenità: erano nutriti, vestiti e andavano a scuola, nel rispetto del loro patrimonio culturale, 23 della loro lingua e della loro religione. Questa iniziativa, però, non bastò a frenare l'azione comunista: i ribelli utilizzarono l’iniziativa della regina per 19 Cfr. ibid. Cfr. Refugees: Innocents’ Day, January 9, 1950, in «Time Magazine U.S.», in www.time.com/time/magazine/article/0,9171,811653-1,00.html. 21 Cfr. Tragedies of the Abducted Greek Children of 1948: The Reality of the FYROM Claims, November 17, 2009, in «Modern Macedonian History», in http://modern-macedonian-history.blogspot.com/2009/11/in-1948-cominform-firstofficial-forum.html. 22 Cfr. KARAVASILIS, The Abducted Greek Children, cit., pp. 28-29. 23 Cfr. ibid., p. 36. 20 235 Katia Scarlino una falsa propaganda, che accusava il governo greco del rapimento dei 24 bambini dalle loro famiglie. I guerriglieri comunisti, oltre alla tattica dei rapimenti, che aveva lo scopo di terrorizzare la popolazione per ottenere un consenso estorto in caso di vittoria, volevano distruggere il governo greco, attraverso l’assassinio di figure politiche importanti. Il 1° maggio 1948, venne assassinato in una chiesa il ministro della Giustizia, Christos Ladas. Una serie di omicidi seguirono e sconvolsero il paese. Il 9 maggio dello stesso anno, poi, fu la volta di un giornalista americano, George Polk, corrispondente della CBS (Columbia Broadcasting System), che si occupava del coinvolgimento 25 americano nella guerra civile greca. Famiglie distrutte dai ribelli comunisti 24 25 Cfr. ibid., p. 99. Cfr. ibid., p. 51. 236 "Paidomazoma" Il dolore di una mamma alla notizia della perdita del figlio Le rotte dei trasferimenti nei campi socialisti 237 Katia Scarlino 5. Il richiamo internazionale La questione greca fu portata davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite tre volte nel 1946. I primi due dibattiti furono inconcludenti. Il terzo, il 3 dicembre 1946, portò alla creazione di un Comitato che doveva 26 occuparsi dei problemi relativi ai territori balcanici. Nel 1947, infatti, fu creato il Comitato Speciale delle Nazioni Unite (UNSCOB) per verificare la situazione in Grecia. Il suo compito principale fu quello di indagare sulle accuse, mosse dal governo greco, circa il sostegno di Albania, Yugoslavia e Bulgaria ai guerriglieri comunisti. Ma tali Stati rifiutarono di collaborare e il Comitato non ebbe la possibilità di entrare nei loro territori per osservarne i contesti. Il 1° dicembre 1947 l’UNSCOB stabilì la sua sede a Tessalonica. Si formarono sei gruppi, costituiti ciascuno da quattro osservatori, a cui vennero assegnate delle zone di analisi. Il rapporto del giugno 1948 del Comitato, dal titolo Rimozione e detenzione dei bambini greci, riportava che un gran numero di bambini greci erano stati trasferiti dai territori del nord della Grecia nei territori di Albania, Bulgaria e Yugoslavia, e ribadiva la difficoltà di stabilirne il numero esatto. 27 Il 17 novembre 1948, la Terza Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò la risoluzione n. 193, che condannava il rapimento dei fanciulli greci da parte dei ribelli comunisti e raccomandava «il ritorno in Grecia dei bambini che attualmente sono lontani dalle loro case […]; invita[va] tutti i membri delle Nazioni Unite e gli altri Stati nei cui territori questi bambini si [trovavano] a prendere tutte le misure necessarie per l’implementazione 28 della presente raccomandazione». Dopo un anno, l’ONU richiese, con la risoluzione n. 288, agli Stati comunisti di far rientrare in Grecia tutti i bambini sequestrati. La risposta dei governi di Praga, Budapest, Bucarest e Varsavia fu data attraverso un comunicato congiunto, in cui si affermava che la deportazione era un “atto umanitario”, avente il solo scopo di 26 Cfr. SMITH, Studies in the History of the Greek Civil War, cit., p. 132. Cfr. The Creation of UNSCOB and Its Investigation into the Question of the “Paidomazoma” (Greek Abducted Children), November 25, 2009, in «Modern Macedonian History», in http://modern-macedonianhistory.blogspot.com/2009/11/creation-of-unscob-and-its.html. 28 ONU, United Nations Resolution (III): Threats to the Political Independence and Territorial Integrity of Greece, November 27, 1948, in http://www.un.org/depts/dhl/resguide/r3.htm. 27 238 "Paidomazoma" 29 sottrarre i bambini agli orrori del conflitto. I capi marxisti, infatti, sostennero sempre che la pratica dei sequestri fosse stata adottata per 30 salvare la gioventù greca, allontanandola dai luoghi di combattimento. La moglie di Zachariadis, il segretario generale del KKE, in un incontro internazionale dell’Organizzazione delle Donne Comuniste, sostenne addirittura che era il governo greco la causa principale delle sofferenze subite dai bambini greci, a cui non si permetteva di andare nei “ricchi” Stati 31 comunisti, lontani dalle atrocità e dalla povertà della guerra. Il presidente Truman, il 19 aprile 1950, parlando alla Camera dei Rappresentanti definì moralmente inammissibile che considerazioni politiche o difficoltà tecniche ostacolassero il ricongiungimento dei bambini con i loro genitori. Il testo della risoluzione n. 514 adottata chiedeva la collaborazione delle Nazioni Unite, dei governi degli Stati in cui i fanciulli erano stati deportati, e di tutte le organizzazioni internazionali, affinché le 32 vittime innocenti dei comunisti greci facessero ritorno in patria. 6. Le vittime alla fine della guerra civile greca Nell’agosto 1949 l’esercito governativo greco costrinse i partigiani alla resa o a fuggire nei paesi comunisti confinanti. L’insorgenza provocò 100.000 33 morti, 70.000 sfollati e una catastrofe a livello economico. Dopo la fine della guerra civile, la percentuale di bambini che fece ritorno nelle proprie case fu esigua. Tra il 1950 e il 1952, i regimi comunisti acconsentirono al rientro di soli 684 bambini. Occorre ricordare che, alla fine degli anni Cinquanta, molti bambini, divenuti ormai adulti, riuscirono a trovare la salvezza raggiungendo il confine della Germania occidentale. Tanti altri, invece, non riuscirono a ritornare in patria: alcuni perché, dopo 29 Tali governi, tuttavia, comunicarono di essere d’accordo a far rientrare i bambini su petizione dei loro genitori. La Croce Rossa ne presentò 8.000, ma, nonostante ciò, nessun bambino rimpatriò. Cfr. Refugees: Innocents’ Day, cit. 30 Cfr. ROSSELLI, Breve storia della guerra civile greca, cit., p. 75. 31 Cfr. KARAVASILIS, The Abducted Greek Children, cit., p. 11. 32 Cfr. H.S. TRUMAN, Letter to the Speaker on the Plight of Greek Children Abducted by Communist Guerrilla, April 19, 1950, in http://trumanlibrary.org/publicpapers/viewpapers.php?pid=713. 33 Cfr. Background note: Greece, cit. 239 Katia Scarlino l’annientamento provocato dai comunisti, dimenticarono le proprie radici; altri, invece, perché scomparvero misteriosamente all’interno dei campi socialisti, come documentò la Croce Rossa greca. Agli inizi degli anni Ottanta, alcune vittime del Paidomazoma erano ancora presenti in Europa orientale. In Polonia, in quegli anni, ne erano presenti più di mille, rapiti in giovane età nel 1948. La maggior parte di essi aderì al movimento Solidarnosc, fondato nel 1980 e venne, poi, arrestata dal regime comunista di Varsavia dopo l’introduzione della legge marziale nel 1981. Alla fine degli anni Ottanta, quando ebbe inizio la democratizzazione 34 del paese, molti profughi ellenici fecero domanda di rientro in patria. 7. Il “perdono” per i comunisti Le conseguenze della guerra civile furono catastrofiche e le condizioni economiche che ne seguirono furono peggiori di quelle ereditate dall’occupazione nazista degli anni 1941-1944. Il popolo ellenico fu diviso tra i due principali schieramenti politici e ideologici. Molti guerriglieri comunisti passarono diversi anni in carcere o furono mandati in esilio nelle isole di Yaros e di Makronisos. Altri dovettero chiedere rifugio in Europa orientale, oppure emigrare in Australia, Germania, Stati Uniti e in altri paesi. La polarizzazione e la precarietà della politica greca negli anni Sessanta fu un effetto diretto dei sentimenti e delle ideologie esplose durante la battaglia civile. I conflitti tra conservatori e progressisti, infatti, furono numerosi. Durante questo periodo, i comunisti non si arresero: gli ufficiali dell’ASPIDA, un’organizzazione paramilitare e anti-monarchica di sinistra, furono accusati di tramare un piano per impadronirsi del potere. Il colpo di Stato non avvenne, ma i presunti responsabili del complotto vennero giudicati davanti alla corte marziale. Il 21 aprile 1967, un gruppo di ufficiali di destra riuscì, attraverso un golpe, a salire al potere. La giunta militare durò fino al 1974, anno in cui un governo conservatore, guidato da Konstantinos Karamanlis legalizzò il KKE ed emanò una Costituzione per garantire libertà politiche, diritti civili ed elezioni democratiche. Nel 1981, dalle consultazioni uscì vittorioso un governo di centro-sinistra, che consentì ai membri dell’esercito comunista, rifugiati nell’Europa dell’Est, di rimpatriare e di riappropriarsi dei loro beni. 34 Cfr. ROSSELLI, Breve storia della guerra civile greca, cit., p. 76. 240 "Paidomazoma" Nel 1989, fu persino assegnato ai ribelli comunisti lo status di patrioti e, 35 inoltre, fu garantita loro una pensione di guerra. 35 Cfr. ibid., pp. 95-96. 241 Eunomia. Rivista semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Eunomia 1 n.s. (2012), n. 1, 243-266 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a1n1p243 http://siba-ese.unisalento.it, © 2012 Università del Salento Francesca Salvatore Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling Abstract: Nowadays in the world there are a lot of game theory fans among politicians, economists, mathematicians and psychologists: also a “pure” economist like Thomas C. Schelling was charmed by game theory and in 1994 his studies, shared with Robert Aumann, led him to win the Nobel Prize for Economics. His masterpiece, The Strategy of Conflict, published in 1960, was the first study in the world about strategic behavior and is considered now as one of the most important books that influenced Western culture after 1945. With The Strategy of Conflict Schelling inaugurated a new stream of international relations known as “strategic neorealism”. In this essay, that explains the link between international relations and maths, there is a reflection about Cold War and nuclear deterrence: the study of game theory highlights how weapons of mass destruction (this is the paradox of the atomic age) avoided, at the same time, the nuclear destruction of the planet. Keyword: Game Theory; Strategic Neo-Realism; Thomas C. Schelling. 1. Thomas C. Schelling e l’avvento del neorealismo strategico La teoria dei giochi, pur non essendo un filone scientifico “nuovo”, ha vissuto nell’ultimo decennio una nuova primavera grazie al film A Beautiful Mind, diretto da Ron Howard, vincitore nel 2001 di ben quattro premi Oscar; è stato proprio con l’avvento del nuovo millennio che la comunità scientifica internazionale sembrò aver riscoperto l’interesse per quella che l’economista Thomas C. Schelling definì “una scienza in ritardo”, ovvero la 1 strategia internazionale. La grossa pecca di questa disciplina, secondo Schelling, risiedeva nel fatto che, negli Stati Uniti, «chi lavora nel campo dell'economia, della medicina, della sanità, della tutela del suolo, dell'educazione o del diritto penale può facilmente individuare la sua 1 Cfr. TH.C. SCHELLING, The Strategy of Conflict, Cambridge, Harvard University Press, 1960, p. 3. Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling controparte accademica […], ma dov'è la controparte accademica nella 2 professione militare?». Oggi, la game theory si configura, nel tentativo scientifico di conciliare matematica e scienze sociali, come un insieme di modelli e strategie che, attingendo ai principi dell’economia, della psicologia, della scienza politica e sociale, tenta di creare analisi e previsioni circa il comportamento dei soggetti sociali, siano essi esseri umani, economie nazionali o eserciti. Impostasi con forza nel 1944 con la pubblicazione di Theory of Games and Economic Behaviour di John von Neumann e Oskar Morgenstern, questa disciplina è approdata nelle maggiori università americane come Princeton e Stanford e, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, è divenuta oggetto di ricerche coperte da segreto militare negli Stati Uniti: gli anni della Guerra Fredda sembrarono l’occasione giusta per utilizzare alcuni “giochi” allo scopo di prevenire mosse e contromosse dei sovietici, anche se in seguito è stata proposta più volte per l’analisi della questione arabo-israeliana e per la divisione etnica di Gerusalemme. La teoria dei giochi, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ha costituto una semplice applicazione delle leggi di probabilità, poiché, in un gioco, l’incertezza di ogni giocatore deriva dal comportamento del suo avversario. “Mettersi nei panni altrui”: fu esattamente questa la portata innovativa della teoria dei giochi rispetto alle previsioni basate su situazioni di probabilità semplice. La teoria, un’emanazione a stelle e strisce, ha conquistato in seguito anche il tradizionalista mondo scientifico europeo, nonché un economista puro come Schelling, professore per gli affari esteri, sicurezza nazionale, strategie nucleari e controllo degli armamenti presso l’università del Maryland. Negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, il baricentro delle relazioni internazionali divenne la Guerra Fredda, un perenne stato di tensione internazionale che si prestava facilmente ad un’interpretazione realista del mondo; eppure, su questo stato di cose i liberali furono in grado di fondare un nuovo tentativo di creare una teoria delle relazioni internazionali, alternativa al realismo ma, allo stesso tempo, 3 lontana dal liberalismo utopico degli anni Venti. Negli anni Settanta, tra gli studiosi, era pressoché unanime la convinzione che tale forma di neoliberalismo, basato sulla speranza che l’aumento del volume di scambi 2 Ibid., p. 8. Fu Edward Carr che definì il liberalismo degli anni Venti “utopico”. Cfr. E.H. CARR, The Twenty Years’ Crisis, New York, Harper&Row, 1964. 3 244 Francesca Salvatore tra i due blocchi rappresentasse il segno di un disgelo progressivo, fosse sul punto di prendere il sopravvento. Fu la nuova formulazione del realismo, dovuta a Kenneth Waltz, a far pendere l’ago della bilancia verso il realismo: l’equilibrio del terrore, per tutti gli anni Settanta e Ottanta, continuava a convincere più del disgelo in un mondo in cui le difficoltà della socialdemocrazia esprimevano la generale crisi della vita democratica in 4 tutti i paesi occidentali. Alla luce di questi cambiamenti, il realismo sembrava nuovamente adatto a descrivere lo scenario di quegli anni: 5 Kenneth Waltz, con il suo Theory of International Politics, propose una teoria realista sostanzialmente diversa da quelle precedenti, poiché ispirata alle ambizioni scientifiche del behaviourismo. A differenza del realismo classico, il neorealismo prese le mosse proponendo una soluzione al problema della distinzione tra fattori esterni alla struttura politica internazionale e fattori interni. Concetto base del neorealismo è la “struttura”: essa emerge dall’interazione tra Stati sovrani ed è questa la condizione che continuamente li scoraggia a comportarsi in un modo, spingendoli ad intraprendere determinate azioni; la struttura internazionale, perciò, muta quando mutano le caratteristiche e il numero delle grandi potenze: variano, infatti, decisioni, calcoli e comportamenti degli Stati, che vedono nel cambiamento la possibilità di imporsi o il pericolo di tramontare. La teoria della struttura si configura come il principale punto di rottura tra il neorealismo e il realismo classico: il neorealismo crede, infatti, che realmente la politica internazionale possa essere un sistema dotato di regole e caratteri ben precisi. È proprio questo aspetto che teorici come Robert Keohane e Barry Buzan criticarono a lungo, sostenendo come la teoria neorealista non prenda in considerazioni variabili come la densità dinamica, la ricchezza delle informazioni, i mezzi di comunicazione, cioè una serie di caratteristiche “in movimento” che poco collimerebbero con 6 una teoria apparentemente sistemica come quella neorealista. Il mondo 4 Sul sistema mondiale al termine della Guerra Fredda, cfr., tra gli altri, J. MEARSHEIMER, Back to the Future: Instability in Europe after the Cold War, in S. LYNN JONES, ed., The Cold War and After: Prospects for Peace, Cambridge, MIT Press, 1993. 5 Cfr. K. WALTZ, Theory of International Politics, New York, McGraw-Hill, 1979. 6 Cfr. R. KEOHANE, Power and Interdependence Revisited, in «International Organization», XLI, 4, October 1987, pp. 725-753. Inoltre, sull’argomento cfr. B. BUZAN, The Logic of Anarchy: Neorealism to Structural Realism, New York, Columbia University Press, 1993. 245 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling neorealista, del resto, è molto diverso da quello che rappresentarono i primi realisti. Per i neorealisti, gli Stati interagenti possono essere studiati solo se si distingue fra cause ed effetti a livello della struttura ed a livello delle unità: esattamente l’opposto di ciò che sosteneva Hans Morgenthau, la cui opera fu caratterizzata da una logica prevalentemente comportamentale e, di 7 conseguenza, induttivista. Sebbene Morgenthau trovasse conferma dell’antico adagio dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria nel succedersi di tensioni e conflitti, il realismo classico non era ancora in grado di spiegare meccanismi come la cooperazione, che edulcorano l’animus 8 dominandi così caro ai classici. A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, emersero nuovi approcci realisti, scaturiti dalla rivoluzione behaviorista. Il più innovativo di questi, il neorealismo strategico, appunto, concentrando l’attenzione sui processi decisionali della politica estera, costituì uno dei tanti connubi tra realismo moderno e approcci positivisti. Thomas C. Schelling, miniera di idee e studioso interdisciplinare di scienze sociali, cominciò a produrre negli anni Cinquanta durante le prime battute della Guerra Fredda. A suo avviso, il limite fondamentale delle teorie strategiche degli anni QuarantaCinquanta risiedeva nel fatto che esse analizzavano compiutamente solo le situazioni di conflitto puro; ma, in realtà, perfino in guerra il conflitto puro non esiste, testimoniando come i “giochi” internazionali non sono 9 necessariamente a “somma zero”. Nemmeno la guerra, espressione paradigmatica della forza bruta, può ritenersi un gioco a somma zero: lo stesso Schelling, in un saggio dal titolo Experimental Games and Bargaining Theory, pubblicato nel 1961, sostenne che «la guerra – guerreggiata o strategica che sia – non è un gioco a somma zero. Richiede almeno un minimo di cooperazione o di accomodamento fra le parti […]. Esse sono sia partner che avversari, sia per evitare seri danni reciproci, sia 7 Sull’argomento cfr. H. MORGENTHAU, Politics among Nations: The Struggle for Power and Peace, New York, Knopf, 1960; e ID., Scientific Man versus Power Politics, Chicago, Phoenix, 1965. 8 Sul confronto tra neorealismo e realismo classico, cfr. M. CESA, Le relazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2004; e R. JACKSON – G. SORENSEN, Relazioni internazionali, Milano, Egea, 2005, pp. 41-66. 9 Un gioco a somma zero è un’interazione strategica in cui la vincita di un giocatore è quantitativamente uguale alla perdita del suo avversario. 246 Francesca Salvatore 10 per guadagnare l'uno a spese dell'altro». Ecco perché la coordinazione tacita è stata il fulcro delle sue teorie, ed ha ispirato generazioni di economisti, manager, politici e diplomatici, fornendo loro nuove categorie interpretative e affrontando in modo originale e, spesso paradossale, problemi di economia, di strategia politica e militare, di vita quotidiana e di sociologia. Uno dei concetti chiave del realismo strategico è quello di “minaccia”, in particolar modo quella di tipo nucleare; proprio Schelling affermava: «Abbiamo concluso che l'efficacia della minaccia può dipendere da quali alternative sono a disposizione del nemico potenziale, che, se non vogliamo che reagisca come un leone in trappola, deve poter avere qualche via 11 d'uscita». Bisogna, quindi, chiedersi come usare in modo intelligente la propria forza per indurre l’avversario militare a fare ciò che si vuole: ecco perché il realismo strategico si configura come un filone a-morale, poiché non prende in considerazione l’eticità di una scelta politica, ma la sua possibilità di successo. La teoria dei giochi è, perciò, il modello psicomatematico che meglio aiuta a valutare queste alternative. Sebbene ogni tipo di strategia parta dalla volontà di un individuo o di un gruppo (ad esempio gli Stati) di vincere, la teoria della strategia non nega l’esistenza né di interessi comuni, né di interessi divergenti fra i partecipanti: il caso in cui gli interessi dei due antagonisti siano totalmente contrapposti (ovvero situazioni di conflitto puro) è assolutamente eccezionale, poiché nemmeno la guerra, come già detto, può ritenersi tale. È per questa ragione che, per Schelling, “vincere” non vuol dire battere i propri avversari, ma piuttosto guadagnare rispetto al proprio sistema di valori: ciò si può ottenere contrattando ed evitando comportamenti di reciproco danno. Ergo, la strategia nulla ha a che fare con l’applicazione della forza, se non della forza potenziale: vale a dire, essa non si riferisce a nemici che vogliono distruggersi, ma a partner che non si fidano gli uni degli altri. È da qui che nasce una situazione negoziale. Non erano ancora iniziati gli anni Cinquanta quando la deterrenza fu chiaramente formulata come chiave di volta della strategia internazionale 10 Cfr. TH.C. SCHELLING, Experimental Games and Bargaining Theory, in «World Politics», XIV, 1, The International System: Theoretical Essays, October 1961, p. 50. Si veda, inoltre, E.N. AYDINONAT, An Intervew with Thomas C. Schelling: Interpretation of Game Theory and the Checkerboard Model, in «Economics Bulletin», II, 2, October 2005, pp. 1-7. 11 Cfr. SCHELLING, The Strategy of Conflict, cit., p. 6. 247 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling statunitense. Da quel momento, e a caro prezzo, gli Stati Uniti compresero che una minaccia, per essere efficace, doveva essere credibile e che la sua credibilità poteva dipendere dai costi e dai rischi associati alla sua messa in atto. Da allora, la teoria della deterrenza è stata continuamente affinata, anche se negli anni della sua formulazione, all’interno delle università, soltanto un numero ristretto di storici e politologi si è preoccupato di strategia militare, con un seguito abbastanza esiguo. Solo istituti di ricerca paragovernativi, come la RAND Corporation e l’Institute for Defense 12 Analysis, per primi hanno colmato questa lacuna. Ma come dovrebbe essere una teoria della strategia e, quindi, della deterrenza? C’è una certa analogia, afferma Schelling, tra la minaccia della punizione di un genitore al proprio figlio e la minaccia che una nazione ricca e paternalistica rivolge al governo debole e disorganizzato di una nazione povera quando, per così dire, elargisce aiuti esteri e richiede in cambio cooperazione. Affinché la propria strategia abbia effetto, bisogna innanzitutto definirne gli elementi essenziali: tanto più chiari saranno questi, tanto più sarà possibile influenzare le scelte che farà la nostra controparte attraverso una serie di informazioni che permetteranno al nostro avversario di credere che il nostro comportamento sarà determinato dal suo. Di conseguenza, la deterrenza non è solo teoria dei giochi, ma anche psicologia, teoria della scelta e comunicazione. Nonostante si parli di “strategia del conflitto”, Schelling ha precisato due punti: il primo è che la teoria non riguarda l’effettiva applicazione della violenza; non è, insomma, una teoria di aggressione, bensì una teoria di minaccia di aggressione. Il baricentro della teoria schellinghiana sembra, dunque, essere il concetto di “razionalità”: questa si basa sul presupposto che i partecipanti calcolino freddamente e razionalmente i propri vantaggi rispetto ad un sistema di valori. “Razionale”, dunque, per Schelling, non equivale a “buono e giusto”, ma a quel processo strategico che, tramite costruzioni logiche, cerchi di raggiungere l’obiettivo: l’irrazionalità razzista di Hitler, ad esempio, è razionale, perché, infatti, tramite la strategia, egli perseguiva un obiettivo, moralmente deprecabile certo, ma molto chiaro. La razionalità schellinghiana parte, dunque, dal fondamento che «il sistema di comunicazione, il processo di decisione collettiva, la probabilità di commettere un errore, la perdita del controllo possono essere considerati un 12 La RAND Corporation (Research and Developement) e l’Institute for Defense Analisys sono enti no profit che si occupano, negli Stati Uniti, di ricerche su problemi di sicurezza nazionale. 248 Francesca Salvatore tentativo di formalizzare lo studio dell'“irrazionalità”. Hitler, il parlamento francese, il comandante di un bombardiere, gli operatori radar a Pearl Harbour, Kriscev e l'elettorato americano possono soffrire tutti di qualche 13 forma di irrazionalità, ma senza che questa sia intesa nello stesso modo». Eppure, afferma Schelling, troppa razionalità non sempre è un vantaggio: essa può diventare, in alcuni casi, incapacità strategica. Un buon negoziatore, infatti, deve essere razionale, ma deve anche possedere una buona capacità di azzardare o lasciare qualcosa al caso, quando si rendesse necessario. Per Schelling, la contrattazione è la base della negoziazione: essa ha precise caratteristiche che possono facilitare o complicare un negoziato. Nella strategia del conflitto, egli ne individua almeno otto: 1) la contrattazione mediante un agente. La riuscita del negoziato è, in questo caso, nelle mani del negoziatore e del suo ampio o ristretto potere contrattuale, affidatogli da un’autorità a lui superiore; 2) la segretezza o pubblicità dei negoziati. La segretezza o pubblicità – lo dimostra spesso la strada delle contrattazioni sindacali – sono fondamentali perché determinano o meno la messa in gioco della reputazione delle parti: quando una delle parti è cosciente di poter raggiungere un successo potrà, per accrescere il proprio prestigio, rendere pubblica la contrattazione. Viceversa, se una delle parti o tutte le parti temono l’influenza dell’opinione pubblica, hanno buone probabilità di soccombere o sono convinte di poter ricorrere a forme di negoziazione “sporca”, preferiranno tentare di applicare accordi segreti; 3) negoziazioni incrociate. Se una delle parti che negozia è impegnata in più contrattazioni, rischia fortemente la reputazione: un insuccesso può, infatti, generare una reazione a catena; 4) negoziazioni continue. Questa tecnica si verifica quando due parti negoziano qualcosa nel presente e qualcos’altro nel futuro: in questo caso, promesse e minacce del presente si ripercuotono in tempi futuri, rinforzando o indebolendo la credibilità delle parti nel tempo; 5) l’ordine del giorno restrittivo. Questo metodo sottolinea come trattare due questioni differenti nello stesso momento possa complicare la contrattazione. Un esempio tipico è quello sulla contrattazione delle tariffe: vale a dire, se si devono negoziare i dazi su delle merci, una delle due parti potrebbe alterare il risultato, minacciando un cambiamento in altre tariffe a titolo puramente sanzionatorio; 6) la possibilità di indennizzo. Spesso la contrattazione è tanto più efficace quanto meglio distribuiti sono costi e guadagni della negoziazione. Senza 13 Cfr. SCHELLING, The Strategy of Conflict, cit., pp. 16-17. 249 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling questa compartecipazione, le parti potrebbero rinunciare all’accordo, arroccandosi sulle proprie opinioni; 7) la meccanica della negoziazione. Il modo in cui una negoziazione è condotta è fondamentale per la trattativa. Il voto parlamentare ne è la dimostrazione: la presenza o meno del voto palese, ad esempio, sortisce effetti diversi. Non è un caso che la segretezza del voto sia una delle conquiste più importanti della modernità; 8) principi e precedenti. Per essere convincenti, gli impegni, di solito, devono essere di tipo qualitativo, anziché quantitativo, e devono basarsi su una logica. Un comune tipo di impegno qualitativo è la formulazione di un principio, e i principi sono la scala di valori che i negoziatori si impegnano a rispettare: violare i principi, dunque, significa mandare a monte il negoziato. Nell’analisi schellinghiana della contrattazione, alla luce di tutte le considerazioni precedenti, il tema che ricorre maggiormente è, dunque, la minaccia, ovvero la comunicazione delle proprie intenzioni, concepita per far comprendere alla controparte le conseguenze automatiche della propria azione. Ebbene, è proprio la minaccia ad essere alla base del processo negoziale: essa non è altro che la chiara intenzione di non voler ricorrere al comportamento minacciato, bensì di usarlo come deterrente. In La diplomazia della violenza, altra opera di Schelling datata 1966, il concetto di minaccia viene raffinato dallo studioso, trasformandosi così in “minaccia compellente”: compellente, infatti, in inglese deriva dal sostantivo “compellence”, ovvero “costrizione”, termine utilizzato proprio per sottolineare il rapporto di connessione fra l’azione proibita e la reazione 14 minacciata. Una parte può minacciare in vari modi: bluffando, mettendo in gioco la propria reputazione, o, addirittura, impegnandosi a stipulare un contratto (una penale, ad esempio, che cos’è, se non una minaccia?). Diverse sono anche le ragioni che spingono a sostenere una campagna compellente: «In primo luogo, contribuisce ad eliminare ogni incertezza circa i termini delle condizioni in essa poste, nonché circa i mezzi che si intendano impegnare al fine di favorire una più rapida adesione della controparte». Inoltre, «qualora si intenda provocare una semplice adesione dell’avversario, e non già iniziare una spirale di azioni e reazioni, può apparire utile chiarire esattamente i termini delle proprie richieste: tutto ciò può meglio ottenersi, quando si conduca una campagna volta ad individuare 14 Cfr. TH.C. SCHELLING, La diplomazia della violenza, Bologna, Il Mulino, 1966, p. 87. Sull’argomento, inoltre, cfr. H. BULL, Arms and Influences, in «Bulletin of Atomic Scientist», XXIII, 3, March 1967, p. 25. 250 Francesca Salvatore precisamente i propri obiettivi, ed a separarli da ogni altro obiettivo 15 potenziale». Contrattare, per Schelling, è un’azione sempre collegata ad un sistema che vuole evitare lo scontro aperto: contrattare evita o chiude la guerra. Le guerre richiedono limiti, ma i limiti richiedono un accordo o, almeno, una qualche forma di riconoscimento e reciproco consenso. Lo studio della contrattazione tacita, in relazione alla guerra limitata, consiste nello sviluppare una modalità di negoziazione in una situazione in cui una o tutte le parti in causa non possano o non vogliano negoziare esplicitamente, o quando nessuna delle due parti abbia abbastanza fiducia nell’altra, anche in presenza di un accordo esplicito. Uno degli esempi più comuni utilizzati da Schelling è tratto dalla vita quotidiana ed è una tipica situazione di coordinamento tacito: si verifica un coordinamento tacito quando due giocatori, che non possono o non vogliono comunicare tra loro, raggiungono, comunque, un accordo se hanno qualche tipo di interesse comune. Pensiamo ad un uomo e a sua moglie che si perdono all’interno di un supermercato: sono altissime le probabilità che riescano ad aspettarsi l’un l’altro nello stesso luogo: questo accade perché, a vari livelli, ognuno di noi è in grado pensare strategicamente; ovvero, le possibilità che gli individui si comportino in maniera coordinata sono molto maggiori di quanto una semplice logica, basata sulla probabilità casuale, suggerirebbe. Quando, invece, esistono interessi divergenti, in assenza di comunicazione si parla di contrattazione tacita. In questo caso, i termini “vincere” e “perdere” potrebbero non essere abbastanza precisi: essi sono concetti relativi rispetto alle previsioni che i giocatori hanno formulato, o rispetto alle vincite e alle perdite che i giocatori avrebbero conseguito, se avessero potuto o voluto comunicare. Il concetto di coordinamento nella contrattazione tacita non è, per Schelling, applicabile alla contrattazione esplicita: non c’è, infatti, bisogno di intuizione quando si può comunicare. Gran parte delle situazioni di contrattazione prevedono una gamma di possibili risultati, entro cui ciascuna parte sarebbe disposta a fare una concessione, piuttosto che non giungere affatto ad un accordo: qualsiasi potenziale è, quindi, un risultato che una delle due parti, volendo, avrebbe potuto migliorare. Il risultato finale dovrà essere un punto da cui nessuna delle due parti si aspetta che l’altra indietreggi. Fondamentale è, perciò, la ricerca di un punto fermo reciprocamente identificabile. Se un giocatore fa una concessione, deve fermarsi e riflettere sulle aspettative del suo 15 Ibid., p. 88. 251 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling avversario; la sua concessione deve essere tale e non deve apparire come una resa o un segno di ritirata: ad esempio, se un esercito batte in ritirata al di là del fiume, ci si aspetta che esso si arresti in tale posizione; ma, se dovesse ulteriormente arretrare, indurrà l’esercito nemico a pensare che batterà in ritirata all’infinito e potrà essere messo con le spalle al muro. Questo esempio dimostra come il coordinamento delle aspettative è sempre una componente essenziale delle negoziazione, anche quando la comunicazione è interrotta. I risultati dei giochi condotti da Schelling dimostrano come – sia in presenza, che in assenza di qualche forma di comunicazione – i giocatori, in una strategia, tendono sempre a coordinare le proprie aspettative. Nella contrattazione tacita ciò avviene intuitivamente appellandosi alla logica e ad una serie di esperienze precedenti; nella contrattazione esplicita, il coordinamento delle aspettative avviene ancora prima che le parti si accordino e viene comunicato tramite qualche forma di comunicazione. Ciò dimostra come contrattazione esplicita e tacita non siano concetti totalmente separati, poiché mostrano tutti una certa dipendenza dal bisogno di coordinare le aspettative. La contrattazione esplicita non utilizza esclusivamente la comunicazione, ma fa anche appello a manovre nascoste, a forme di comunicazione indiretta, a lotte e spionaggio, dimostrando che il bisogno di aspettative convergenti e il ruolo di segnali, in grado di coordinarle, possono essere molto potenti. Schelling sostiene che questo meccanismo d’azione è facilmente rintracciabile in due fenomeni estremi della vita associata: l’azione di gruppi di interesse e le rivolte di massa. Nel caso di gruppi di interesse, si assiste, infatti, ad un coordinamento tacito tra individui che, una volta organizzatisi, comunicano ai vertici istituzionali i propri bisogni e le proprie intenzioni. Anche una rivolta di massa può riflettere principi simili: quando i leaders politici possono facilmente essere destituiti, le masse hanno bisogno di un segnale per coordinarsi (un appello, uno slogan), un segnale che deve essere immediatamente comprensibile e così potente, che si possa essere sicuri che esso farà agire tutti i protagonisti nello stesso modo. Ma in che modo una tale dissertazione politologico-matematica può aiutare a risolvere problemi di manovre strategiche e guerra limitata? Il lavoro schellinghiano ci suggerisce che è possibile trovare dei limiti ad un conflitto, di qualunque tipo esso sia, anche in assenza di un’aperta negoziazione. Questo perché gli accordi taciti, o gli accordi cui si è giunti attraverso negoziazioni parziali o fortuite, richiedono termini qualitativamente distinguibili, affinché possano essere misurati i progressi 252 Francesca Salvatore della negoziazione; inoltre, quando si deve raggiungere un accordo con una comunicazione incompleta, i partecipanti devono essere pronti a lasciare che sia la stessa situazione ad esercitare dei vincoli sul risultato stesso: ad esempio, una soluzione che discrimini una delle due parti o crei disagi ad entrambe, spesso, può essere l’unica via percorribile. A sostegno di ciò si possono fornire alcuni esempi storici, come la guerra di Corea o il conflitto tra la Cina popolare di Mao Tse-Tung e la Cina nazionalista di Chang KaiShek. Nel primo caso, la storia dimostra come la conformazione fisica della Corea abbia indirettamente posto dei limiti al conflitto: l’area era circondata da acqua, e il principale confine politico settentrionale era segnato visibilmente da un fiume. Il 38° parallelo sembra aver segnato, per fortuna, un punto cruciale per lo stallo della situazione. Nel caso del conflitto cinese del 1949, lo Stretto di Formosa ha permesso di consolidare un confine tra le forze comuniste e quelle nazionaliste cinesi, non solo perché le acque circostanti favorivano la difesa e inibivano l’attacco, ma perché un’isola è un’unità completa e non violare i suoi confini significa accettare un certo status quo. Questi esempi dimostrano come, in una situazione negoziale, le regole possono essere rispettate, perché, una volta infrante, non vi è certezza sulla possibilità di trovarne delle nuove. Violare le regole pattuite con una rappresaglia porta alla distruzione di aspettative reciproche stabili. Da questa analisi emerge che il problema di limitare la strategia di guerra sottende un meccanismo portato a riconoscere differenze qualitative, anziché quantitative, un meccanismo spiazzato dalla molteplicità delle strategie delle parti, che spesso si accorderanno per il “male minore”. Affinché questo accordo avvenga, è necessario, ovviamente, tenere aperti i canali di comunicazione: identificare chi manda e riceve messaggi, con quali mezzi, in base a quale autorità, è un elemento fondamentale; nel caso di uno sforzo bellico per combattere una guerra nucleare contenuta, potrebbero esserci brevi istanti in cui le parti devono decidere se sia in corso una guerra limitata o se una guerra illimitata sia appena cominciata: un gap anche di poche ore su come creare un contatto potrebbe compromettere il contenimento del conflitto. Questi elementi, unitamente a decine di altri fattori contingenti, dimostrano che, quando tutte le parti hanno un disperato bisogno di un segnale, anche quello più piccolo o discriminatorio può ispirare riconoscimento, in mancanza d’altro. Una volta che la contingenza viene fondata su questi segnali, gli interessi, che originariamente divergevano nel gioco delle minacce e dei deterrenti, potranno coincidere nel disperato bisogno di un punto focale per l’accordo. 253 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling 2. I fondamenti della teoria dei giochi Il secondo Novecento è stato la culla delle teorie della strategia, in particolar modo delle teorie strategiche descrittive, sviluppate soprattutto dagli studiosi di storia e sociologia militare, i quali miravano a spiegare le effettive strategie perseguite nei conflitti bellici. L’idea, invece, oggi molto diffusa, che la strategia possa avere un carattere normativo risale almeno a 16 Carl von Clausewitz. Tra i teorici della strategia del secondo dopoguerra, un posto di rilievo va attribuito agli esperti di strategia atomica: fra questi, Andrè Beaufre, padre della forza atomica francese, che si distinse per aver 17 coniato il concetto di force de frappe. Beaufre ritiene che l’analisi dei conflitti tra potenze atomiche imponga di superare l’antico concetto di strategia militare, vista come l’arte di impiegare le forze militari per raggiungere i risultati determinati dalla politica. Definizione, questa, troppo ristretta, in quanto si riferisce soltanto alle forze militari: occorre, invece, includere nel dominio della strategia anche l’impiego di forze materiali diverse da quelle militari – per esempio, la forza economica – e di forze non materiali, come quelle psicologiche. Poiché il conflitto fra Stati è un caso peculiare di dialettica della volontà, non deve sorprendere che i mezzi utilizzabili a questo scopo possano includere la psicologia. Infatti, nella contrapposizione fra due Stati, ciascuno dei due cerca di ottenere dall’avversario ciò che desidera: convincerlo che potenziare la lotta o semplicemente proseguirla è perfettamente inutile e poco auspicabile. Il carattere limitativo della vecchia concezione della strategia emerge chiaramente in tutti quei casi in cui gli scopi della politica non possono essere raggiunti attraverso una guerra aperta. In una guerra atomica, le forze armate tradizionali non sono in grado di proteggere il territorio di uno Stato dalla distruzione fisica e dalla contaminazione nucleare: ergo, in caso di minaccia nucleare, l’obiettivo 16 Sull’argomento si veda C. VON CLAUSEWITZ, Della guerra, a cura di G.E. RUSCONI, Torino, Einaudi, 2000. 17 La force de frappe è il termine con il quale è conosciuto l’arsenale atomico francese. Durante gli anni Cinquanta, due avvenimenti internazionali, come la guerra d’Indocina e la crisi del Canale di Suez, avevano convinto il governo che, per ottenere risultati rilevanti in politica estera, avrebbe dovuto dotarsi di una propria forza militare abbastanza potente da poter condizionare le scelte di qualunque paese: il deterrente nucleare fu la risposta a questa esigenza. Cfr. A. BEAUFRE, Strategy of Action, New York, Praeger, 1967. 254 Francesca Salvatore desiderabile non è quello di vincere la guerra, bensì quello di rendere credibile la propria minaccia per dissuadere il proprio avversario da qualsiasi azione. Strategie dissuasive di vario genere possono essere utilizzate, infatti, anche nelle fasi precedenti e successive al dispiegamento delle forze militari, vale a dire nella preparazione dello scontro e nella sua conduzione. La prima regola da stabilire in guerra è il suo grado di intensità: ciò implica, appunto, un problema di strategia della deterrenza. Infatti, persino nel corso dei conflitti più violenti, i contendenti possono tacitamente accordarsi per non superare certe soglie di intensità o, al contrario, minacciare di farlo. La storia militare ci mostra che promesse e minacce spesso si collocano in uno scenario di guerra limitata. Proprio con l’intento di condurre una guerra limitata, infatti, la moderna scienza matematica e la politologia si sono unite per dar vita alla “teoria dei giochi”. La teoria dei giochi può essere definita come la scienza matematica che analizza situazioni di conflitto e ne ricerca soluzioni competitive e cooperative tramite modelli; le sue applicazioni sono molteplici: dal campo economico e finanziario a quello strategico-militare, dalla politica alla sociologia, dalla psicologia all’informatica, dalla biologia allo sport; viene introdotta anche l’azione del caso, connessa con le possibili scelte che gli individui hanno a disposizione per raggiungere determinati obiettivi, obiettivi che possono essere comuni, comuni ma non identici, differenti, individuali, individuali e comuni, contrastanti. Nel modello della teoria dei giochi tutti devono essere a conoscenza delle regole del gioco ed essere consapevoli delle conseguenze di ogni singola mossa. La mossa o l’insieme delle mosse che un individuo intende fare è chiamata “strategia”. In dipendenza dalle strategie adottate da tutti i giocatori (o agenti), ognuno riceve un “pay-off” (secondo un’adeguata unità di misura), che può essere positivo, negativo o nullo. Un gioco si dice a “somma costante” se per ogni vincita di un giocatore v’è una corrispondente perdita per altri. In particolare, un gioco “a somma zero” fra due giocatori rappresenta la situazione in cui il pagamento viene corrisposto da un giocatore all’altro. La nascita della moderna teoria dei giochi può essere fatta coincidere con la pubblicazione del libro Theory of Games and Economic Behaviour di John von Neumann e Oskar Morgenstern nel 1944, anche se altri autori come Ernst Zermelo, Armand Borel e von Neumann stesso avevano scritto di 18 Il più famoso studioso ad essersi occupato teoria dei giochi. 18 Sull’argomento, cfr. E. BOREL, Valeur Pratique et Philosophie des Probabilites, Sceaux, Editions J. Gabay, 1991. Sul lavoro di Zermelo, si veda H.-D. EBBINGHAUS 255 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling successivamente della teoria dei giochi, in particolare per quel che concerne i “giochi non cooperativi”, fu il matematico John Forbes Nash Jr., al quale è dedicato il film di Ron Howard. Nash – che, ricordiamo, visse tra incarichi presso il governo americano, Princeton e gli ospedali psichiatrici – adottò un approccio completamente nuovo al problema di predire come le due parti coinvolte in una negoziazione avrebbero potuto interagire. Invece di definire direttamente una soluzione, definì una serie di condizioni ragionevoli che qualsiasi soluzione avrebbe potuto soddisfare. Nella teoria di Nash si presuppone che le aspettative di entrambe le parti riguardo ai comportamenti reciproci si basino sugli aspetti intrinseci della situazione stessa della contrattazione. L’essenza di una negoziazione che dia come risultato un patto è procurata da due “giocatori”, che hanno l’opportunità di collaborare per un comune risultato in più di un modo. Il concetto di equilibrio di Nash, che il giovane matematico formulò per la prima volta nel 1949 in un brevissimo articolo, è sicuramente il contributo più importante di 19 questa mente meravigliosa allo studio dei giochi non cooperativi. Quando era ancora studente a Princeton, Nash dimostrò che, nella strategia più razionale che un giocatore possa adottare quando compete con un avversario anch’esso razionale, esiste sempre una situazione di equilibrio, ottenuta quando ciascun giocatore sceglie la propria mossa strategica, in modo da massimizzare la sua funzione di retribuzione. Tutti i giocatori, dunque, possono operare una scelta, dalla quale tutti traggano un vantaggio (o, quantomeno, una limitazione del proprio svantaggio). Una differenza sostanziale, questa, rispetto ai giochi a “somma zero” studiati in precedenza da von Neumann, in cui la vittoria di uno dei due (unici) partecipanti era totale e necessariamente accompagnata dalla sconfitta all’altro. Il contributo – V. PECKHAUS, Ernst Zermelo: An Approach to His Life and Work, Berlino, Springer, 2007. Sull’opera di von Neumann cfr., invece, la raccolta di lettere a cura di M. REDEI, John von Neumann: Selected Letters, Providence, American Mathematical Society, 2005. 19 Sulla vita di Nash, cfr. S. NASAR, Il genio dei numeri, Milano, Rizzoli, 1999. La trattazione dei giochi non cooperativi è stata elaborata da John Nash nella sua tesi di dottorato dal titolo Non Cooperative Games, datata 1950, tuttora in possesso dell’Università di Princeton e disponibile alla pagina www.princeton.edu/mudd/news/faq/topics/noncooperative_games_nash.pdf. Sull’intero lavoro di Nash e sul suo apporto alla teoria dei giochi, cfr. J. NASH, Essays on Game Theory, Cheltenham, UK, Elgar, 1996. 256 Francesca Salvatore più importante dato da John Nash alla teoria dei giochi è la dimostrazione matematica dell’esistenza di tale equilibrio. In particolare, egli ha dimostrato che ogni gioco finito che ammetta strategie miste, ammette almeno un equilibrio di Nash, dove per “gioco finito” si intende un gioco con un numero finito di giocatori e di strategie, e per “strategia mista” si intende un sottoinsieme di strategie, a ciascuna delle quali l’agente associa una data probabilità, che gli consentirà una scelta ponderata. L’equilibrio di Nash rappresenta, quindi, la situazione nella quale il gruppo si viene a trovare se ogni componente fa ciò che è meglio per sé, cioè se mira a massimizzare il proprio profitto a prescindere dalle scelte degli avversari. È questa la soluzione migliore per tutti? Non è detto. Infatti, se è vero che, in un equilibrio di Nash, il singolo giocatore non può aumentare il proprio guadagno modificando solo la propria strategia, non è affatto detto che un gruppo di giocatori o, al limite, tutti, non possano aumentare il proprio guadagno allontanandosi congiuntamente dall’equilibrio. È noto, infatti, che 20 l’equilibrio di Nash può non essere un “ottimo di Pareto”, ovvero quella condizione economico-sociale in cui non è possibile migliorare la situazione di un individuo senza peggiorare quella di un altro. Oggi, il concetto di equilibrio di Nash relativo ai giochi strategici è uno dei paradigmi 21 fondamentali delle scienze sociali. È grazie al suo contributo che il mondo scientifico ha accettato la teoria dei giochi come un «metodo potente ed elegante per affrontare una materia che era diventata sempre più barocca, in modo molto simile a quello in cui i metodi della meccanica celeste newtoniana avevano sostituito i metodi primitivi e sempre più ad hoc degli 22 antichi». Come spesso accade ai grandi della scienza, l’idea di Nash non fu immediatamente condivisa, perché ritenuta troppo semplice, troppo 20 Il concetto di “ottimo paretiano” venne introdotto dall’economista italiano Vilfredo Pareto. L’idea di “ottimo paretiano”, o meglio, la sua compatibilità con il liberismo è oggi contestata dal premio Nobel per l’Economia Amartya Sen, che ha tentato di dimostrare, attraverso calcoli matematici, la possibile inesistenza dell’“ottimo paretiano” in un sistema liberista. A tal proposito, cfr. A.K. SEN, The Impossibility of a Paretian Liberal, in «Journal of Political Economy», LXXVIII, 1, January-February 1970, pp. 152-157. 21 Per una più chiara comprensione del concetto di equilibrio di Nash, cfr. J. NASH, Equilibrium Points in N-Person Games, in «Proceedings of the National Academy of the Usa», XXXVI, 1, January 1950, pp. 48-49. 22 Cfr. J. EATWELL – M. MILGATE – P. NEWMAN, The New Palgrave: Game Theory, New York, W.W. Norton, 1989, p. 13. 257 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling ristretta per trovare un'ampia applicazione e, in seguito, così ovvia da sembrare deducibile da chiunque. Come ha affermato Reinhard Selten, l’economista tedesco che vinse il premio Nobel nel 1994 insieme a Nash e a John C. Harsany, «nessuno avrebbe previsto il grande impatto che l’equilibrio di Nash ebbe sulle scienze economiche e sociali in generale. Ancor meno ci si sarebbe aspettati che il concetto del punto di equilibrio di Nash avrebbe mai avuto una qualsiasi importanza per la teoria biologica». 23 Schelling fece tesoro delle novità, introdotte dal contributo di Nash, per arricchire la propria analisi del panorama internazionale con una serie di riflessioni aventi per oggetto categorie come la minaccia, la promessa o la dissuasione, categorie che sono andate, a loro volta, a costituire un campo di studi interdisciplinari denominato “teoria del conflitto”. Alla pari della teoria dei giochi, della quale condivide il carattere normativo, la teoria del conflitto si propone di identificare i principi che governano il comportamento di un agente razionale coinvolto in un conflitto con altri agenti razionali. Il comune interesse ad evitare che il risultato del conflitto sia congiuntamente indesiderabile non basta, tuttavia, a mettere d’accordo i giocatori: potrebbe accadere, infatti, che qualche risultato rovinoso per un giocatore sia estremamente desiderabile per un altro. Tra le più comuni strategie dissuasive figurano le minacce, le promesse e gli avvertimenti; a livello informale, la minaccia può venire descritta come una strategia dissuasiva in forma condizionale, il cui tratto distintivo consiste nel fatto che chi applica la minaccia non avrebbe alcun interesse a metterla in atto. Il successo della minaccia consiste, quindi, nella sua non attuazione: risulta riuscita solo se non viene applicata, poiché ciò significa che ha prodotto l’effetto di distogliere la controparte da una certa azione. La promessa, invece, è l’esatto contrario della minaccia: infatti, se si minaccia solo qualcosa di congiuntamente distruttivo, l’effetto di una promessa riguarda sempre qualcosa di congiuntamente desiderabile. Quest’ultima può essere definita come un impegno condizionale unilaterale preso dal giocatore che muove per secondo in un gioco dinamico, allo scopo di incentivare la controparte a fare una scelta vantaggiosa per entrambi; lo scambio di promesse, invece, è un impegno non condizionale bilaterale, preso da giocatori che devono muovere simultaneamente in un gioco statico. Per 23 Cfr. R. SELTEN, “Nobel Seminar”, Le prix Nobel 1994, in www.wikipedia.org_selten, p. 297. Inoltre, si veda anche ID., Game Theory and Economic Behaviour: Selected Essays, Northampton, Edgar Elgar, 1999. 258 Francesca Salvatore Schelling, la teoria dei giochi propone diverse strategie di carattere bilaterale per vincolare a sé, nel bene o nel male, il proprio avversario: la più importante di questi è il metodo del contratto; con questo metodo, gli impegni vengono trasformati in contratti che prevedono il ricorso ad un arbitro in grado di amministrare una punizione a chi violi l’impegno sancito dal contratto stesso. Ciò significa che l’obbligatorietà degli accordi viene garantita attraverso un sistema di punizioni, che può ridurre le funzioni dei pay-offs dei giocatori. La seconda strategia è quella di mettere in gioco la propria reputazione; questo tipo di impegno non prevede alcun accordo con la controparte, che, anzi, potrebbe essere danneggiata dall’eventuale attuazione dell’impegno preso unilateralmente da un giocatore. Questo metodo ha, però, un punto debole: il danno subito da chi “perde la faccia” si manifesta solo dopo la fine del gioco, quando ormai il “dado è tratto”. Perdere la faccia, inoltre, non è per tutti qualcosa di negativo: è penalizzante solo per quei giocatori sui quali si proietta – come affermò Robert Axelrod 24 La terza in The Evolution of Cooperation – “l’ombra del futuro”. strategia, infine, consiste nel bruciare i ponti alle proprie spalle: ciò permette di distruggere interamente la libertà di attuare una condotta alternativa. Così, per esempio, l’esercito che si brucia i ponti alle spalle, si priva volontariamente di ogni via di fuga, rendendo in tal modo assolutamente credibile la propria minaccia di combattere fino in fondo. Il metodo dei “ponti bruciati” include una grande varietà di sistemi e tattiche che operano attraverso qualche volontario, ma irreversibile, sacrificio della libera scelta. Poiché la teoria dei giochi è strettamente connessa a calcoli matematici complessi, spesso può accadere che le soluzioni dei giochi stessi possano portare a paradossi validi per la matematica, ma non di certo per la vita reale; infatti, il mondo della strategia ha una sua logica da iperuranio, spesso in contrasto con la nostra logica ordinaria. Tali paradossi possono manifestarsi quando l’irrazionalità si “impossessa” dei giocatori: pensiamo alla fermezza di John Foster Dulles, alla collera che fa battere i tacchi delle scarpe a Nikita Kruscev, all’ostinazione fredda di De Gaulle, all’“impero del male” annunciato da Ronald Reagan. Tutti piccoli grandi esempi del fallimento della razionalità intesa nel senso schellinghiano del termine: l’elemento decisivo, in tutti questi casi, riposava sulla volontà di scatenare il cataclisma, poiché far credere che si ha questa volontà è più importante di 24 Cfr. R. AXELROD, The Evolution of Cooperation, New York, Basic Books, 1985, p. 18. 259 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling tutto il resto. Diplomazia compresa, purtroppo. La tattica di simulare follia, stupidità e altre forme di irrazionalità – in aggiunta a quella di cui si è “naturalmente” dotati – è vecchia, infatti, quanto il pianeta. Ma in che misura la teoria dei giochi può essere illuminante nell’analisi degli equilibri internazionali? Come si evince dalla storia di questa disciplina, i concetti di razionalità e strategia hanno subito un boom scientifico intimamente correlato allo sviluppo delle armi di distruzione di massa: i primi “giochi” studiati, infatti, furono proprio i “giochi del terrore”, in cui il primo colpo – il cosiddetto first strike – consisteva nel lancio di un attacco atomico volto alla completa distruzione delle forze atomiche dell’avversario, così da lasciarlo alla mercé dell’aggressore. Come osserva 25 la strategia è governata da una dialettica particolare che, Luttwak, soprattutto in campo atomico, può provocare la coincidenza degli opposti. Per esempio, inesorabilmente i pacifisti attirano la guerra, gli implacabili espansionisti perdono potere, gli inflessibili invasori sconfiggono la loro forza, i fautori del disarmo provocano la corsa al riarmo e quelli del riarmo generano il disarmo. Un classico paradosso dell’età atomica sembra costituito dal fatto che le armi nucleari siano state rese inutili dalla loro stessa potenza distruttiva, nonché dall’efficacia delle strategie di reciproca 26 dissuasione. Il primo a parlare, infatti, di quell’“equilibrio del terrore” che fa capolino dai manuali di storia contemporanea fu Winston Churchill. In occasione di un discorso tenuto alla Camera dei Comuni nel novembre del 1934, egli affermò: «Resta il fatto che quando tutto è stato detto e fatto riguardo ai sistemi difensivi, in mancanza di nuove scoperte, l’unica misura diretta di difesa su vasta scala è la certezza di poter infliggere immediatamente al nemico un danno altrettanto grave di quello che egli può infliggere a noi. Non sottovalutiamo l’efficacia di un tale sistema. In pratica, anche se non lo posso provare teoricamente, potrebbe dimostrarsi sufficiente per fornirci una totale immunità. Se due potenze si dimostrano ugualmente capaci di infliggere danni reciproci con alcuni particolari strumenti bellici, in modo che nessuno tragga vantaggio dalla loro adozione ed entrambe soffrano i danni più terribili, è non solo possibile, ma probabile 27 che nessuno impiegherà tali strumenti». Schelling, dal canto suo, non 25 Cfr. E.N. LUTTWAK, Strategia, Milano, Rizzoli, 1989, p. 181. Cfr. L. BONANATE, La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Bari-Roma, Laterza, 2005, p. 106. 27 Cfr. SCHELLING, La diplomazia della violenza, cit., p. 24. 26 260 Francesca Salvatore avendo mai smesso di occuparsi di strategia e di proliferazione nucleare, ha recentemente allargato la cornice teorica che aveva sviluppato negli anni della Guerra Fredda a nuove tematiche come la globalizzazione e il terrorismo internazionale. È proprio dalle pagine della rivista on line del «Chicago Project on Security and Terrorism» che, in un caustico articolo pubblicato il 6 agosto del 2011, l’anziano economista ha ipotizzato l’ennesimo effetto deterrente delle armi atomiche: «[…] I terroristi non hanno ancora acquistato armi nucleari: sarebbe molto più che rubare solo materiale fissile. Ma loro possono ancora farlo. […] Sicuramente avranno speso centinaia di ore cercando di pensare strategicamente circa i possibili usi di poche armi nucleari più di quanto un capo di governo o un consigliere abbiano mai fatto. […] Credo che loro concluderebbero che far esplodere un’arma su Los Angeles o Vladivostok o Brema “sprecherebbe” l’arma stessa. Loro penseranno “siamo un potere nucleare”. Ci sono Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina, Israele, India, Pakistan, Nord Corea, Iran, e 28 adesso noi. Abbiamo status, potere, influenza. Usiamoli!”». Il successo delle strategie di dissuasione, nel corso dei decenni, ha puntato ad evitare conflitti nucleari generalizzati, consentendo il tranquillo svolgimento di conflitti locali di enorme violenza; tali conflitti sono stati caratterizzati da un feroce primitivismo bellico, con intere popolazioni sterminate con armi da fuoco, pugnali, asce e bastoni: si pensi ai casi del Rwanda, della Bosnia o del Kossovo. È, così, accaduto che, per paradossale ironia della ragione strategica, la bomba atomica abbia condotto, proprio per il suo carattere catastrofico, alla pace atomica, aprendo, però, nel contempo la via al più massiccio uso bellico di pugnali e armi bianche dell’intera storia umana. Einstein l’aveva previsto quando, dopo essere venuto a conoscenza del progetto Manhattan, restò talmente sconvolto da affermare: «Non so se ci sarà una terza Guerra Mondiale, ma posso dirvi che la quarta 29 sarà combattuta con le pietre!». 3. Alcune applicazioni della teoria dei giochi La scienza del conflitto, assieme a tutti gli studi strategici, ruota attorno ad un chiaro obiettivo: la sicurezza nazionale. Da qui due evidenze: la 28 Cfr. TH.C. SCHELLING, Whatever Happened to Nuclear Terrorism?, in «Chicago Project on Security and Terrorism (CPOST)», August 6, 2011. 29 Cfr. A. CALAPRICE, Albert Einstein: A Biography, Westport, Greenwood Publishing Group, 2005, p. 124. 261 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling sicurezza come esigenza legata a specifici interessi e il profondo legame tra sicurezza e potere. Attorno a quest’ultima è possibile distinguere studiosi che vedono l’accumulo progressivo di potere come l’unico mezzo per potersi garantire la sicurezza, e altri che, invece, ritengono che un accumulo indefinito possa essere addirittura controproducente per la propria sicurezza. Ma quali strategie hanno elaborato teorici e matematici per poter fornire alla politica un ausilio reale per affrontare il problema? Le definizioni concettuali differiscono di molto da studioso a studioso ma, in linea generale, però, se ne possono individuare almeno tre. La prima è quella del balancing, ovvero della politica di bilanciamento che, di per sé, è inevitabile quanto stabilizzante. Essa assicura due funzioni fondamentali: da un lato, la stabilità dei rapporti di forza e, dall’altro, l’autonomia degli Stati; in altre 30 parole, impedisce che uno Stato sia dominato dall’altro. Diverso è, invece, il buckpassing (lo “scaricabarile”), grazie al quale la grande potenza minacciata cerca di indurre un altro Stato a farsi carico dell’impegno di intimidire o sconfiggere lo Stato che rappresenta la minaccia. Barry Posen sostenne che le dottrine militari difensive o la percezione della superiorità 31 della difesa rispetto all’attacco facilitano il buckpassing, poiché esso appare come la strategia migliore, dati gli alti costi dell’attacco: si sottovaluta la probabilità di essere attaccati o che sia attaccato il “caricato” (la persona sulla quale viene fatto il buckpassing) e, contemporaneamente si sopravvaluta il potere deterrente della superiorità, vera o presunta, della 32 33 difesa sull’attacco. Last but not least, vi è poi il bandwagoning, tipico di quegli attori nazionali o internazionali che si uniscono alla parte più forte fra due coalizioni. Questa formula, secondo l’interpretazione di Robert Schweller, non è una forma di sconfitta politica, ma si presta ad interpretazioni sia machiavelliche, che “alla Waltz”. La ragione più comune per scegliere il bandwagoning è la previsione di un guadagno: affinché uno Stato adotti questa strategia, non è necessaria una minaccia per la sicurezza, 30 Cfr. Q. WRIGHT, A Study of War, Chicago, University of Chicago Press, 1964, p. 116. 31 Cfr. R. SCHWELLER, Bandwagoning for Profit: Bringing the Revisionist State Back in, in «International Security», XIX, 1, October 2004, pp. 72-107. 32 Cfr. B. POSEN, The Sources of Military Doctrine: France, Britain and Germany between the World Wars, Ithaca, Cornell University Press, pp. 63, 74 e 232. 33 Il concetto di bandwagoning può essere approssimativamente tradotto in italiano con “effetto carrozzone” o “istinto del gregge”. Indica, in linea generale, la tendenza sociale, economica o elettorale ad allearsi con chi ha maggiori probabilità di vittoria. 262 Francesca Salvatore poiché è la sanzione positiva (la ricompensa) a spingere gli Stati a fare bandwagon. Eppure, non sempre la scelta della strategia da seguire è così “pacifica”. Spesso, nella scienza politica e nelle relazioni internazionali, si analizzano situazioni (come la crisi di Cuba) definite “sull’orlo della guerra”. Questa tattica è definita brinkmanship ed indica, appunto, la pratica di spingere una situazione pericolosa sull’orlo del disastro al fine di raggiungere il risultato più vantaggioso possibile, costringendo la parte opposta a fare delle concessioni. Ergo, in questi casi è necessaria una buona dose di lucida irrazionalità per lasciare intenzionalmente che la situazione sfugga di mano, semplicemente perché il fatto che sia fuori controllo può diventare insopportabile per l’altra parte, costringendola così, ad un 34 accomodamento. Tra le diverse ipotesi “di gioco” che prevedono una situazione sull’orlo del baratro, una delle formulazioni più interessanti è il cosiddetto “MAD”, acronimo di Mutually Assured Destruction (distruzione reciproca assicurata), relativo all’escalation nucleare, file rouge di 35 cinquant’anni di Guerra Fredda. La teoria MAD assume che ogni parte abbia sufficiente potenziale bellico da distruggere l’altra e che ognuna delle parti, se attaccata per qualsiasi motivo, reagirebbe con forza pari o superiore o comunque paragonabile. Risultato? L’olocausto nucleare. Lo sperabile atteso risultato degli assunti di questa versione della teoria dei giochi è che tali considerazioni possano indurre alla pace, seppur “fredda”, ma resa stabile dal mutuo deterrente. I critici della teoria della distruzione mutua assicurata notarono che l’acronimo “MAD” condivideva qualcosa di più di una mera assonanza con la parola inglese mad (pazzo), poiché l’equilibrio e lo stato di quiete (almeno quella atomica) dipendevano da diverse condizioni necessarie per la sua applicabilità, tutte inevitabilmente soggette a rischi insostenibili o irrimediabili. Interessante, a tal proposito, fu un pamphlet pubblicato nel novembre del 1945 da Bernard Brodie, che sarebbe diventato uno dei più importanti strateghi nucleari al mondo preannunciando gli effetti “equilibratori” delle armi nucleari. In The Atomic Bomb and American Security, Brodie concluse che le armi atomiche annunciavano un cambiamento «non meramente della distruttività della guerra moderna, ma delle sue caratteristiche fondamentali». In primo luogo, 34 Sull’argomento, cfr. R.N. LEBOW, Soviet Incentives for Brinkmanship, in «Bulletin of the Atomic Scientist», XXXVII, 5, May 1981, pp. 14-21. 35 Cfr. COL. A.J. PARRINGTON, Mutually Assured Destruction Revisited, Strategic Doctrine in Question, in «Airpower Journal», XI, 4, Winter 1997, pp. 5-19. 263 Il ruolo della teoria dei giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling la bomba atomica non era «un altro, più distruttivo armamento che si aggiungeva a una già lunga lista, [ma] qualcosa che rischia[va] di rendere il resto dell’elenco relativamente inutile». Le nuove armi, infatti, annullavano non solo la distinzione classica tra offesa e difesa, ma, secondo Brodie, «il cambiamento essenziale introdotto dalla bomba atomica è […] che essa concentrerà la violenza in termini di tempo. Un mondo abituato a ritenere mostruoso che la durata delle guerre sia di quattro o cinque anni è ora terrorizzato alla prospettiva che le future guerre possano durare non più di 36 pochi giorni». La teoria fu oggetto di un’amara satira nel film di Stanley Kubrik, Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba del 1964. Nel film, i sovietici dispongono di un ordigno da fine del mondo, che individua automaticamente ogni attacco nucleare all’URSS e, di conseguenza, distrugge tutta la vita sul pianeta. Il film mostra anche un comandante impazzito, che (inconsapevole del dispositivo sovietico) ordina alla sua squadriglia un attacco nucleare preventivo, scommettendo che l’alto comando sarà costretto ad appoggiarlo, lanciando tutto l’arsenale atomico per sopravvivere al contrattacco sovietico. Alcuni teorici sostengono che la distruzione mutua assicurata venne abbandonata il 25 luglio del 1980, quando il presidente statunitense Jimmy Carter adottò la 37 countervalling strategy con la Direttiva Presidenziale 59: la dottrina, anticipata da una serie di direttive risalenti al 1977, aveva per oggetto la mobilitazione, la difesa, il comando e il controllo nel caso di un conflitto nucleare prolungato, rappresentando, come affermò l’assistente per la Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski, un vero scostamento rispetto al 38 MAD o, meglio, una sua evoluzione. A partire da questa data, la linea strategica statunitense fu orientata verso l’obiettivo di riportare la vittoria in un’eventuale guerra nucleare e non di distruggere l’URSS stessa. L’ironia del destino, però, volle che fosse uno dei più emblematici cold warrior, Ronald Reagan, a porre la propria firma al trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) nel 1987, segnando una delle più grandi battute d’arresto 36 Cfr. B. BRODIE, The Atomic Bomb and American Security, in Us Nuclear Strategy: A Reader, PH. BOBBIT – L. FREEDMAN – G.F. TREVERTON, eds., Londra, Macmillan, 1945, pp. 65-67. 37 Cfr. W. SLOCOMBE, The Countervalling Strategy, in «International Security», V, 4, Spring 1981, pp. 18-27. Il testo della PD 59, invece, è disponibile alla pagina web www.jimmycarterlibrary.gov/documents/pddirectives/pd59/pdf. 38 Cfr. R. CROCKATT, Cinquant’anni di Guerra Fredda, Roma, Salerno Editrice, 1997, p. 367. 264 Francesca Salvatore all’escalation nucleare. Quello che comunemente viene indicato come “controllo degli armamenti” rappresentò «veramente lo sforzo per compiere un passo avanti, dopo troppe e troppo lunghe incertezze, verso una più corretta conoscenza del ruolo che le forze armate hanno nel mondo moderno; […] ora, con il controllo degli armamenti si viene a riconoscere che le sanzioni, le costrizioni o i fermi atteggiamenti di una seria diplomazia implicano posizioni di forza, e che, perciò, è precipua funzione delle forze armate influenzare il comportamento degli Stati, non quella di essere 39 adoperate soltanto per l’altrui distruzione». Appena due anni dopo la firma del Trattato INF, cadeva il muro di Berlino, ultimo baluardo di un mondo che era già cambiato da un pezzo. Sulle sue macerie si risanò una delle fratture politiche più tristi del XX secolo: gli Stati Uniti avevano vinto, ma pagando un prezzo altissimo. Se un tempo, infatti, le potenze nucleari erano state soltanto due, lo smantellamento dell’arsenale nucleare sovietico coincise con la nascita dell’incubo dell’“ennesimo paese”, che portò le potenze nucleari ad un numero sempre maggiore (soprattutto fra i paesi governati da leadership dispotiche e illiberali), minando, oggi più che mai, la sicurezza del sistema politico mondiale. 39 Cfr. TH.C. SCHELLING – M. HALPERIN, Strategia e controllo degli armamenti, Bologna, Il Mulino, 1961, p. 197. 265 Quis leget haec? Recensioni FRANCESCO PERFETTI – ANDREA UNGARI – DANIELE CAVIGLIA – DANIELE DE LUCA, a cura di, Aldo Moro nell’Italia contemporanea, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 816. Il testo raccoglie gli interventi degli studiosi in due convegni celebratisi a Lecce ed a Roma. Articolato in due sezioni, la prima, curata da Perfetti e da Ungari (concernente il ruolo di Moro nella politica interna italiana), la seconda, curata da Caviglia e De Luca (che analizza l’azione svolta dal dirigente della DC nelle relazioni internazionali dell’Italia), il volume ripercorre tutto l’arco temporale della vicenda politica di Moro, tendendo ad identificarla, di fatto, con quella del paese, specie nel passaggio nodale degli anni Sessanta e Settanta. La prima parte scandaglia la figura di Moro analizzandone la formazione politica (pp. 27-48), il ruolo all’interno della DC (pp. 49-80) e del mondo cattolico (pp. 81-104), i rapporti con i partiti, la sua percezione del movimentismo (pp. 257-276) ed un’analisi – che rilegge criticamente le tesi di Gotor e Flamigni – del suo rapimento ed omicidio (pp. 277-299). Moro «aveva un’idea della politica come luogo di mediazione delle culture diverse e, quindi, del partito come strumento in grado di filtrare le esigenze complesse della vita del paese e caratterizzarsi per la funzione mediatrice» (p. 14). Nonostante il fallimento dell’esperimento del centrosinistra, Moro, specie dopo il ’68, si oppose fermamente alla possibi- lità di una convergenza tra la DC e il MSI, ribadendo, come sostiene Ungari, «il rifiuto dell’involuzione verso destra della Democrazia cristiana, rivendicando la necessità di riprendere il percorso del centro-sinistra, proprio a fronte delle richieste popolari e sociali che provenivano dal paese» (p. 249). Negli anni della contestazione, Moro continuò a caratterizzarsi per «un approccio realistico ai problemi, presentandosi come il massimo interprete, nell’Italia della “grande trasformazione”» (p. 145). Atteggiamento che, supportato da un certo realismo, fu alla base del suo dialogo con Berlinguer, che Guiso libera da un’interpretazione apologetica, tendente ad identificare Moro come ideologo di una «democrazia “trans-ideologica” o, se si preferisce, “post-ideologica”» (p. 140). Rapporto che egli gestì «in forme tali da non indebolire nella sostanza la posizione della DC. Dunque, tenendo conto in primo luogo che l’anticomunismo è stato, e resta, uno dei collanti più forti del partito» (p. 157). Di qui, la conclusione che il rapporto con Berlinguer non sarebbe potuto «andare oltre un confronto per verificare se e come DC e PCI possano dare un contributo comune alla soluzione dei problemi più urgenti del paese […]. Pertanto è senza ambiguità il rifiuto di Moro del “compromesso storico”» (p. 156). La propensione al dialogo che emerge dalla prima parte del volume risulta amplificata nella seconda sezione, dedicata agli indirizzi di politica estera. L’azione diplomatica che lo statista di Maglie assegnò ai rapporti internazio- 269 nali dell’Italia è analizzato in tutti i contesti in cui esso si esplicò: dall’azione politica in ambito ONU, ai rapporti con i partners europei; dalla risoluzione delle questioni alto-atesine e del confine orientale italiano, alla politica monetaria, coprendo anche i rapporti con il Corno d’Africa. La politica nei riguardi degli Stati Uniti emerge in gran parte dei saggi, ma assume un carattere di rilievo se rapportata all’atlantismo, alla crisi del Vietnam ed alla questione mediorentale. Negli anni ’60, nella fase di passaggio dalla forte contrapposizione USAURSS alla «manifesta intenzione di individuare percorsi di dialogo» (p. 309), la politica di Moro si caratterizzò per la fedeltà all’atlantismo che, come sostiene Daniele De Luca, ebbe modo di evidenziarsi nell’adesione al progetto costitutivo di una Forza Multilaterale lanciato da Kennedy. Lo statista pugliese difese il progetto sia in sede interna, sia in ambito europeo, bloccato dallo sviluppo del programma nucleare francese, da «una Gran Bretagna riluttante e per nulla persuasa, [e da] una Germania in cui il partito di maggioranza appariva diviso sulla strada da prendere» (p. 418). Una propensione alla mediazione che, come rileva Imperato, si manifestò anche nei riguardi della guerra in Vietnam. Moro, conscio del fatto che la crisi indocinese «[avrebbe potuto contribuire] a mettere in crisi il rapporto già precario esistente tra DC e PSI» (p. 424), passò «da un’adesione iniziale, quasi acritica, all’azione americana, […] ad un più cauto atteggiamento di “comprensione”» (p. 425). Atteggiamento che non si limitò ad «una passiva attesa di un negoziato» (p. 435), ma che si tradusse nel tentativo di Giorgio La Pira di avviare dei colloqui negoziali con Ho Chi Minh. Come evidenzia Luca Riccardi, le prime divergenze con Washington si manifestarono in ambito mediorentale. Già dal suo primo governo, Moro non si era staccato dalle «tradizioni consolidate della politica estera italiana che aveva fatto del mondo arabo il suo principale punto di riferimento in Medio Oriente» (p. 553). Ciò si tradusse in una linea diplomatica improntata al mantenimento dell’“equidistanza” tra le parti e sull’adesione alla Risoluzione 242 dell’ONU. Il rifiuto di Gerusalemme di accettarne i termini spinse Moro «a manifestare una sempre maggiore “comprensione per il mondo arabo”» (p. 567). Una linea filo-araba che Moro amplificò durante la Guerra dello Yom Kippur con un’«azione di riavvicinamento anche ai paesi più radicali […] “concepita in piena autonomia” dagli Stati Uniti» (p. 579). Lo shock petrolifero fece emergere in Moro «la necessità di mantenere rapporti economici privilegiati con l’Egitto, la Libia, i paesi del Maghreb e l’Arabia Saudita [e] portò progressivamente l’Italia verso una politica più apertamente filo-araba» (p. 634). Un’apertura che si estese anche a Stati arabi radicali come Iraq e Siria, paesi in cui il sottosegretario agli esteri Bensi fu inviato con il fine «di migliorare i rapporti con i due Stati arabi, nella speranza […] che ciò potesse ripagare 270 [gli italiani] nel lungo periodo» (p. 635). Un atteggiamento, questo, come afferma Labbate, che, se da un lato rafforzò «quella cooperazione economica multilaterale orientata al dialogo con i paesi produttori», dall’altro, generò «delle tensioni nei rapporti con Washington» (p. 734). Un contrasto che si condensa nel ritratto caustico che di lui fece Henry Kissinger nelle proprie memorie: «Era chiaramente il personaggio di maggior spicco. Era taciturno quanto intelligente, possedeva una formidabile reputazione intellettuale. L'unica prova concreta che ebbi di questo suo ingegno fu la complessità bizantina della sua sintassi. Ma poi gli feci un effetto soporifero, durante più della metà degli incontri che tenne con me, mi si addormentò davanti; cominciai a considerare un successo il semplice fatto di tenerlo desto. Moro si disinteressava chiaramente degli affari internazionali [...]; stava preparando, indirettamente e quasi impercettibilmente, com'era suo solito, quei cambiamenti fondamentali che avrebbero portato il partito comunista a un passo dalle leve del potere» (H. Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, Milano, 1989, p. 94). Lucio Tondo STANLEY WOLPERT, India and Pakistan: Continued Conflict or Cooperation?, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2010, pp. 126. Nella sua più recente pubblicazione Stanley Wolpert, considerato uno dei più importanti autori della storia moderna, politica ed intellettuale di India e Pakistan, entra nel cuore delle problematiche che hanno contribuito ad acuire i rapporti tra questi due Stati, dal crollo dell’Impero britannico in India nell’agosto del 1947 sino ai giorni nostri. Il divario esistente tra le due principali confessioni religiose del subcontinente indiano, induismo e islamismo, si accentuò sino a diventare una spina nel fianco dell’Asia Meridionale, quando la Gran Bretagna decise di decretare la nascita di due Stati separati, India e Pakistan, effettuando una divisione arbitraria del territorio, non tenendo conto delle differenti etnie presenti in ciascuna parte e lasciando in balia degli interessi geopolitici dei neonati Stati la sorte di alcuni territori, primo tra tutti il Kashmir. Partendo da questo presupposto, l’autore passa in rassegna tutti i principali avvenimenti storici che hanno caratterizzato la storia di questi due Stati a partire dall’indipendenza, illustrando i numerosi conflitti scoppiati per la contesa dello Stato del Kashmir e per ottenere la supremazia in Asia Meridionale. La trattazione descrittiva delle guerre è integrata con aspetti altrettanto rilevanti. Il Pakistan, contra- 271 riamente all’India, non presentava una situazione politica stabile, e durante i primi anni dalla sua nascita vide numerosi ricambi ai vertici, con il predominio della dittatura militare. A questa debolezza regionale si unì la presenza di due superpotenze esterne, Stati Uniti e Unione Sovietica, la cui “tensione” non contribuì certo ad allentare i contrasti nel subcontinente indiano. Le alleanze “regionali”, prima tra tutte quella stretta tra Pakistan e Afghanistan, ormai in mano ai fondamentalisti islamici, contribuirono a rendere ancora più incandescente il clima di quest’area geografica. L’attenzione dell’autore, però, sembra concentrarsi su un altro aspetto più recente e preoccupante del contrasto tra India e Pakistan, ossia il deterrente nucleare. Già a partire dagli anni ’70, entrambi i Paesi cominciavano a confrontarsi non solo a livello territoriale, ma anche nucleare, sommando alle vecchie discordie un elemento che rendeva sempre più improbabile un riavvicinamento. Testimonianza di ciò furono i tentativi falliti di trovare un accordo tra gli anni ’80 e ’90, il riaccendersi della disputa in Kashmir nel 1999 e il perpetuarsi dello scontro sino a oggi. Nella parte finale del testo, l’autore prospetta la possibilità di un futuro pacifico in Asia Meridionale. A suo avviso, l’India dovrebbe assumere il ruolo di una vera democrazia, promuovendo l’autonomia del Kashmir, il Pakistan potrebbe inaugurare un processo di evoluzione politico ed economico e, soprattutto, non sostenere più il terrorismo, diventando più credibile nell’ambito delle relazioni internazionali. La soluzione, dunque, starebbe in un accordo diplomatico tra India, Pakistan e Kashmir, con le potenze esterne a fare da supporto e accelerare il processo di riavvicinamento. Wolpert “prevede” il miglioramento di rapporti in un futuro indefinito e affida questo importante compito alle nuove generazioni, ai giovani, il cui spirito prevarrà, cercando di “mettere da parte antichi odi religiosi o anguste antipatie nazionali” (p. 105). Nadia Schina PRAVEEN K. CHOUDRY – MARTA VANDUZER-SNOW, eds., United States and India: A History through the Archives – The Later Years, New Delhi–Thousand Oaks, Sage Publications, 2011, pp. 479. Questo volume dà concettualmente seguito alla serie inaugurata dagli autori Praveen K. Choudry e Marta Vonduzer-Snow (entrambi impegnati nel progetto “Security development and democracy” presso la New York University) in occasione dell’uscita di United States and India: A History through Archives-The Formative Years, pubblicato nel 2008. Il libro si propone di analizzare i rapporti tra Stati Uniti e India attraverso una raccolta di documenti declassificati provenienti da diverse agenzie governative americane, includendo nell’analisi 272 anche documenti provenienti dalla Central Intelligence Agency, dal dipartimento della Difesa, dal Federal Bureau of Investigation, dal National Security Council e dalla Casa Bianca. Il periodo compreso tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta segnò il lento passaggio verso il processo della decolonizzazione: le nuove nazioni furono letteralmente catapultate in nuove situazioni politiche, senza che le popolazioni indigene possedessero una consolidata esperienza politica e di governo. L’India era l’eccezione a questo stato di cose, tranne che per un aspetto: qui, come nel resto dei paesi del Terzo Mondo, la moltitudine di gruppi etnici, tribali e religiosi in lotta fra loro ostacolava gli sforzi volti a creare una solida struttura nazionale, nonché un sentimento nazionale condiviso. A raccogliere il fardello, che un tempo era stato britannico, furono gli Stati Uniti e la loro esigenza primaria: contenere l’avanzata comunista. La forte tensione internazionale degli anni Sessanta, culminata, secondo gli autori, nell’incidente dell’U2, viene rispolverata attraverso le fonti per spiegare come quelle stesse tensioni furono propedeutiche alla détente della decade successiva. Focalizzando l’attenzione generale su quegli anni che coincisero con la prima metà della carriera politica di Indira Gandhi (1966-1972), gli autori ricostruiscono, da un lato, quel lento passaggio che portò gli Stati Uniti a sconfessare progressivamente e definitivamente la precedente alleanza militare con il Pakistan; dall’altro, il percorso dell’India, orfana felice della gran Bretagna dal 1947, che scelse di legarsi con l’“aquila” al di là del Pacifico per ragioni economiche e di sicurezza. La Guerra Fredda, dunque, si estendeva all’Indocina e al continente asiatico, come aveva dimostrato la vicenda della Corea negli anni Cinquanta e come avrebbe dimostrato, poi, il dramma del Vietnam. Due nazioni molto diverse, di cui la più giovane, l’India appunto, non conosceva il linguaggio liberoscambista, ma soltanto il regime della pianificazione quinquennale e che aveva sposato, a Bandung, la linea neutralista. Sono soprattutto i documenti diplomatici, anche quelli dai toni più informali, a far emergere il rapporto problematico tra questi due novizi alleati. A seguire, l’analisi dello scacchiere internazionale, sul quale si colloca un corollario di vicende assolutamente non marginali, come i rapporti con l’Urss, il problema dell’affermazione (e dell’eventuale riconoscimento) internazionale della Cina comunista, la vicenda del Kashmir, nonché il delicato tema del programma nucleare indiano. Eventi che trascinarono in un vortice senza fine India, Cina, Pakistan, Unione Sovietica e Stati Uniti: un intreccio inestricabile che persiste ancora oggi, a più di vent’anni dal tramonto della cortina di ferro. Francesca Salvatore 273 GLEEN J. AMES, L'età delle scoperte geografiche 1500-1700, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 200. Il volume di Ames è un’opera che, attraverso una scorrevole trattazione, ripercorre le tappe che segnarono la fondazione e lo sviluppo degli imperi coloniali di Portogallo e Spagna, oltre che di Olanda, Inghilterra e Francia, tra il XVI e il XVII secolo. L’introduzione presenta una rapida descrizione dei presupposti sociali, politici, economici e tecnico-scientifici alla base delle scoperte geografiche: il fermento sviluppatosi in Europa nel XV secolo, animato dalla necessità di accaparrarsi nuove ricchezze e da propositi di conversione alla fede cristiana, portò gli europei a scoperte e sperimentazioni in campo scientifico (cartografia, mezzi di navigazione, strumentazione), che si rivelarono indispensabili per raggiungere terre e civiltà lontane. Così, quell’Europa che nel Medioevo aveva in parte dimenticato la cultura geografica classica e aveva perso terreno, in materia culturale, rispetto ad altre civiltà (Islam, Cina), ora tornava alla ribalta, pretendendo di conquistare il mondo intero, con un rinnovato spirito d’avventura e d’impresa che metteva d’accordo Chiesa, nobiltà e classe media. Il Portogallo fu il motore propulsore di questo fenomeno europeo. Tramite i progressi tecnologici patrocinati da Enrico il Navigatore e da diversi re intraprendenti, grazie a figure di esploratori carismatici come Bartolomeu Dias e Vasco da Gama, la monarchia portoghese intraprese campagne di navigazione che la condussero a creare dapprima empori sulla costa occidentale dell’Africa e poi a raggiungere le Indie, la terra promessa delle spezie. Qui, nella prima metà del '500, dopo aver combattuto e vinto un’aspra guerra contro gli arabi, i portoghesi diedero vita ad un impero commerciale (l’Estado da Ìndia), costituito da fortezze che, dalle coste del Mozambico a Macao, servivano a proteggere il trasporto delle spezie verso Lisbona. Contemporaneamente, però, il Portogallo si premurava di fondare un vero e proprio Stato territoriale in Brasile, dove l’attività preminente divenne la coltivazione del tabacco e della canna da zucchero, per la quale fu impiegata massicciamente manodopera africana. Tuttavia, se il vasto e potente Impero portoghese vide una rapida ascesa nel corso del Cinquecento, esso fu soggetto ad un profondo declino nella seconda metà del XVII secolo, allorché venne insidiato dalla nascente potenza olandese. Per l’impegno della Spagna nella corsa all’espansione oceanica, il 1492 fu una data cruciale: i regni uniti di Castiglia ed Aragona, esaltati dalla recente conquista di Granada, finanziarono la spedizione di Colombo, che avrebbe portato alla scoperta dell’America. In circa cinquant’anni da quella data, la monarchia spagnola, attraverso le imprese dei conquistadores, riuscì a sottomettere gli imperi azteco e inca e a fondare veri e propri Stati territoriali, che si estendevano dalla Florida al Cile, ma anche ad im- 274 pegnarsi, sebbene in misura minore, in Asia, dove ottenne l’importante conquista delle Filippine. Nel XVI secolo la madrepatria organizzò e controllò i nuovi vicereami americani: in ambito economico, istituì strutture agricole sostanzialmente feudali (le encomiendas) e organizzò i lavori di estrazione dei metalli preziosi; in ambito amministrativo, venne a crearsi una sofisticata rete di istituzioni politiche e giudiziarie che mantenevano l’ordine e il controllo; persino in materia religiosa i re spagnoli ebbero voce in capitolo, coordinando l’operato delle diocesi e delle missioni nella conversione degli indios, sottomessi e sfruttati dai coloni. Questo sforzo nell’organizzazione dell’impero permise ai vicereami americani di non soccombere alle mire espansionistiche delle altre potenze europee e di autogestirsi anche quando la madrepatria si trovava in gravi difficoltà economiche e politiche, come avvenne per la Spagna del XVII secolo. Tardivo e differente fu l’approccio olandese alla formazione di un impero. Caratterizzata da una vocazione mercantile pragmatica, la neonata repubblica delle Province Unite nella prima metà del XVII secolo s’insediò in Indonesia e, da lì, scalzò l’ormai debole Impero portoghese, ambendo al monopolio delle spezie nell’Oceano Indiano. Ciò le fu possibile grazie a scelte mirate e soprattutto alla fondazione della Compagnia delle Indie orientali (VOC), una società per azioni a cui la repubblica affidava totalmente le operazioni politiche, militari e commercia- li nell’impero. Intanto, incoraggiati da questi successi, gli olandesi si insinuarono anche nei possedimenti iberici dell’Atlantico, colonizzando le coste del Nord America e cercando di monopolizzare il commercio degli schiavi dall’Africa occidentale al Brasile; tuttavia, la Compagnia delle Indie occidentali (WIC) non riuscì ad ottenere i successi della VOC. In realtà, lo strapotere olandese cominciò a declinare anche in Asia: l’Olanda non disponeva di risorse adeguate per mantenere un impero commerciale così vasto e, nella seconda metà del XVII secolo, dovette fare i conti con l’emergente espansionismo coloniale di nuovi rivali. Il 1600 fu il secolo in cui ebbe inizio il promettente imperialismo britannico, poi divenuto imbattibile nel '700. Dopo i primi decenni di attività corsara ed esplorativa (basti pensare ai nomi di Drake, Releigh e Caboto), gli inglesi si adeguarono al sistema olandese delle compagnie per azioni, con ottimi risultati: nell’Atlantico fondarono importanti colonie nel Nord America e, sfidando la potenza spagnola, raggiunsero i Caraibi, instaurando un commercio “triangolare” che faceva circolare il pesce e il legname del New England, il tabacco e lo zucchero delle colonie meridionali, il rum dei Caraibi e gli schiavi africani. Nell’Oceano Indiano, invece, gli inglesi opposero un’accanita concorrenza all’Impero olandese e a quello portoghese fino al proprio definitivo insediamento in India. La Francia, che fino alla metà del ‘600 si limitò a incerte operazioni di 275 colonizzazione nel Canada, messe spesso in crisi dalla rivalità degli indiani Irochesi, conobbe un vero imperialismo solo con la politica aggressiva di Luigi XIV, grazie alla quale nacque la colonia della Louisiana e i francesi si guadagnarono un importante spazio nei Caraibi e nel commercio triangolare atlantico. Meno fortunato fu l’intervento francese nell’Oceano Indiano, dove l’estenuante guerra commerciale con i Paesi Bassi frustrò le mire espansionistiche del Re Sole. Ad ogni modo, gran parte di questo impero sarebbe stato poi fagocitato dall’Inghilterra nei conflitti europei del XVIII secolo. Alberto Rescio GREGORY GAUSE III, The International Relations of the Persian Gulf, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, pp. 258. Il libro è un autorevole resoconto della politica internazionale della regione del Golfo dal 1971 al 2008, che si distingue per completezza delle chiavi interpretative utilizzate, nonché prudenza e profondità storica con cui vengono esaminati anche gli eventi più recenti. Gregory Gause parte dall’assunto per cui il miglior modo per comprendere i rapporti fra gli Stati del Golfo Persico sia quello di vedere l’area come un “sistema di sicurezza regio- nale” che, per quanto appartenente ad un più ampio sistema mediorientale, non può essere con quest’ultimo completamente identificato, pena l’errore di attribuire un peso eccessivo alla questione arabo-israeliana nell’analisi della politica regionale. Definita la struttura di tale sistema – e posto, lo stesso, in relazione a quello mondiale – l’autore esamina nel dettaglio cause ed effetti dei più importanti e complessi sviluppi della politica internazionale del Golfo degli ultimi quattro decenni: dal ritiro degli inglesi dall’area east of Suez, passando per la rivoluzione iraniana, la Guerra Iran-Iraq del 1980-88 e quella del Golfo del 1990-91, sino ad arrivare al rovesciamento di Saddam a seguito dell’invasione dell’Iraq guidata dall’America nel 2003. A dare coerenza alla trattazione è la triplice prospettiva sottesa all’analisi: identità transnazionali, petrolio e coinvolgimento americano – sebbene con un peso diverso – concorrono nell’interpretazione delle cause delle guerre e delle rispettive alleanze. Le classiche interpretazioni realiste incentrate sulla teoria della balance of power sono considerate necessarie, ma non sufficienti per comprendere le dinamiche della regione. Gause è del parere, infatti, che «il fattore più importante e distintivo del sistema di sicurezza del Golfo non è lo squilibrio di potere, ma la rilevanza delle identità transnazionali» (p. 9) araba, curda, musulmana, sunnita, sciita, tribale. L’esistenza di identità e idee politiche transnazionali aumenta tanto le possi- 276 bilità che ambiziosi leaders cerchino di sfruttare le stesse per espandere la propria influenza, tanto il senso di insicurezza dei regimi che costituiscono, di volta in volta, il bersaglio dei primi. L’autore mette in luce, perciò, come la decisione di Saddam di scatenare le due guerre del 1980 e 1990 fu fortemente influenzata dalla percezione che potenze regionali ed internazionali stessero sfruttando il pluralismo della società irachena per indebolire il suo potere interno. Seguendo questo ragionamento, la decisione dei regimi sunniti in Arabia Saudita e nei piccoli Stati del Golfo di sostenere Saddam contro l’Iran negli anni ’80 viene spiegata alla luce della minaccia costituita dal carattere rivoluzionario del nuovo regime sciita a Teheran. Similmente, dopo il 2003, gli Stati Uniti ritennero l’Iran una minaccia alla stabilità dell’Iraq per via della capacità iraniana di influenzare la politica irachena attraverso i suoi legami con i gruppi sciiti – e non – nel paese. «Il riconoscimento dell’importanza delle idee non nega le intuizioni dei Realisti rispetto all’anarchia, il potere e il conflitto nelle questioni del Golfo Persico; [piuttosto] contestualizza tali intuizioni, permettendo una comprensione più profonda di come i capi di Stato definiscano i loro interessi e valutino le risorse a loro disposizione» (p. 243). Sulla base di un giudizio parimenti equilibrato, l’autore valuta il peso del petrolio come fattore di conflittualità nella regione. Sebbene sostenga che la decisione di Washington di scatenare una guerra contro Baghdad non sia da ricondurre primariamente alla volontà di assicurarsi le risorse petrolifere del paese, riconosce che, se non fosse esistita una tale risorsa strategica, probabilmente non ci sarebbe stata un’invasione americana dell’Iraq, né uno sforzo militare americano per impedire l’annessione irachena del Kuwait agli inizi degli anni ’90. D’altro canto, se il petrolio aumenta le occasioni di guerra fra gli attori regionali – sia nella misura in cui fornisce i mezzi per acquistare armi e finanziare eserciti, sia perché rende più desiderabile un territorio che ne sia ricco –, non può spiegare perché determinati conflitti scoppino in precisi momenti della storia. Ritornando, quindi, al caso delle guerre Iran-Iraq e del Golfo, Gause, pur ritenendo che la chiave di lettura primaria per comprendere il comportamento di Saddam sia quella delle identità transnazionali, non nega che l’ambizione di controllare ulteriori risorse petrolifere costituisca parte della spiegazione. Per quanto riguarda, infine, la questione del crescente coinvolgimento militare americano nel Golfo, particolarmente interessante è l’accento posto da Gause sulla discontinuità della politica americana nella regione, prima e dopo l’11 settembre; una discontinuità resa manifesta dalla decisione americana di invadere l’Iraq e rimuovere dal potere Saddam. Rimodellare gli equilibri regionali e favorire la diffusione della democrazia divennero i nuovi imperativi dell’amministrazione Bush, dopo che per decenni gli obiettivi ame- 277 ricani si erano limitati a preservare lo status quo e assicurare l’accesso americano al petrolio della regione, oltre che circoscrivere l’influenza sovietica durante la Guerra Fredda. In una lunga disamina del processo attraverso cui si giunge alla decisione americana di dichiarare guerra, l’autore non manca di sottolineare le forzature e gli errori di valutazione commessi dall’amministrazione Bush rispetto alla minaccia posta dall’Iraq in termini di armi di distruzione di massa, ai legami del regime iracheno con al-Qaeda e, soprattutto, alle previsioni ottimistiche riguardanti i costi e le difficoltà di stabilizzare il paese dopo il rovesciamento del dittatore. Patrizia Carratta ROBERT P. GEORGE, Il diritto naturale nell’età del pluralismo, Torino, Lindau, 2011, pp. 274. Contrariamente a quello che spesso si tende a pensare, l’appello al diritto naturale non esprime un pensiero principalmente religioso, ed è anzi oggi avvertito da più parti come una delle forme di rinnovamento dello stesso pensiero giuspositivista, come dimostrano i recenti dibattiti sulla riapertura del nesso diritto-morale, sul neocostituzionalismo, sulla questione dei principi, o ancora sull’universalità dei diritti umani. Giusnaturalismo e positivismo giuridico sono due modi diversi di considerare il fenomeno giuridico, che non si escludono a vicenda, anzi sono necessariamente complementari. La problematica della legge naturale, proveniente dal pensiero greco e potenziata dall'influsso cristiano, fiorisce e si sviluppa lungo un arco di tempo che va dal Medioevo all'Età moderna, ma ha perduto per la cultura europea buona parte della sua capacità d'incidere nei dibattiti pubblici, giuridici e politici, restando al più confinata nell'ambito ecclesiale ed ecclesiastico, nonché nei dotti studi di storia delle idee. Il paradosso è quello di vivere in un contesto culturale che, pur avendo “inventato” la teoria del diritto naturale – per difendere l’individuo dall’ordine impositivo del potere politico o delle maggioranze –, ormai da moltissimi anni l’ha ripudiata come qualcosa di sconveniente, «quasi come si tace d’un onta», verrebbe da dire con i versi di Rilke. Tutto ciò è accaduto nonostante l’abbandono della credenza nel diritto naturale, di un diritto superiore al diritto positivo, sia innegabilmente stata una delle cause dell’avvento degli Stati totalitari. La vecchia Europa divora i suoi figli. A meno che essi non riescano ad emigrare nel Nuovo Mondo. Negli Stati Uniti, infatti, il diritto naturale si presenta vivo e battagliero, in dialogo con le concezioni contemporanee della vita pratica. Nel campo della ragion pratica, infatti, non ci si può accontentare dello sviluppo teorico delle dottrine, ma queste devono dimostrare di essere capaci di una presenza attiva nella vita sociale attraverso le loro applicazioni e la loro partecipazione ai dibattiti etici e 278 politici. Conseguentemente, il diritto naturale è tutt’altro che estraneo al diritto costituzionale e al costituzionalismo statunitense. Prova di tutto ciò si ha nel recentissimo volume, curato da A. Simoncini e con un saggio introduttivo di F. Viola, che raccoglie le lezioni magistrali tenute nel 2007 dal prof. Robert P. George all’Università di Macerata. George – McCormick Professor of Jurisprudence all'Università di Princeton, dove insegna anche “Constitutional Intepretation”, “Civil Liberties” e “Philosophy of Law” e dirige il James Madison Program in American Ideals and Institutions, istituto che si dedica allo studio di problematiche relative al diritto costituzionale americano e al pensiero politico occidentale – da anni è membro del Consiglio di Bioetica della Presidenza degli Stati Uniti d’America e uno degli accademici più noti e stimati d’America. È fedele seguace e strenuo difensore della concezione tomista della legge naturale nell’interpretazione sviluppata da un gruppo di studiosi, in cima ai quali svetta John Finnis, professore di Filosofia del Diritto nelle Università di Oxford e di Notre Dame, a cui dobbiamo, tra l'altro, la migliore trattazione del diritto naturale scritta negli ultimi quattro decenni. Questa concezione – tra i cui rappresentanti si annoverano anche German Grisez, Joseph Boyle, Patrick Lee, Christopher Tollefsen e Gerard Bradley – si è autodefinita come “nuova teoria della legge naturale” o anche come “teoria neoclassica della legge naturale”, per prendere le distanze da quella neoscolastica. Essa è, di fatto, l’unica forma di giusnaturalismo, presa oggi molto sul serio anche dai giuspositivisti non ideologici, che è riuscita a conquistare un ruolo significativo nel dibattito contemporaneo riguardante i rapporti tra etica, politica e diritto e che è riconosciuta come rilevante dai teorici del diritto, oltre che dai filosofi. Le lezioni del prof. George presentano le idee centrali di tale teoria. Esse cercano di dimostrare la falsità di molti pregiudizi diffusi nel giuspositivismo contemporaneo a proposito della concezione del diritto di Tommaso d’Aquino e, invece, la fecondità della dottrina della legge naturale nella sua applicazione a problematiche attuali come quelle concernenti la bioetica, il costituzionalismo, il ruolo della religione nella sfera pubblica e la filosofia del diritto internazionale. Nella prima (ma anche nella seconda e nella settima) lezione, è racchiusa una descrizione della teoria della “nuova teoria della legge naturale” o “teoria neoclassica della legge naturale”. Essa si definisce tale in quanto assegna un ruolo assolutamente centrale alla ragione e alla ragionevolezza nella sua concezione della legge naturale con il conseguente rigetto di ogni volontarismo e di ogni naturalismo. In ciò ardisce di rispecchiare con fedeltà il pensiero di Tommaso, che ha ripetutamente sostenuto come contrario al bene umano ciò che è contrario all'ordine della ragione. Conseguentemente, rifiuta tutti i tentativi di confinare la legge naturale nell'ordine della Rivela- 279 zione. Se così fosse, del resto, la legge naturale varrebbe solo per i credenti e sarebbe tagliata fuori del dibattito pubblico. La questione è allora – e sembra di rileggere il magistero del pontefice Benedetto XVI – quella di recuperare o mettere a punto una concezione adeguata della ragione e della ragionevolezza umana. La razionalità della legge naturale, infatti, incrocia le istanze dell’etica, della politica e del diritto del nostro tempo, che, allontanandosi dall’emotivismo e dallo scetticismo, manifestano un desiderio – poi mal realizzato – di interrogarsi con rinnovato vigore sul ruolo della ragione nelle cose umane. Del resto, pluralismo e multiculturalismo che connotano la post-modernità conducono all’incomprensione, all’incomunicabilità ed alla “dittatura del relativismo” non cognitivista, se non affrontati con fiducia nella ragione rettamente intesa e adoperata. Ma in cos’altro consiste ogni ricerca di “ragionevolezza” se non in una ricerca del diritto naturale? Nella “nuova teoria della legge naturale” questa capacità di dialogo con le etiche contemporanee è rafforzata dalla precisazione che la legge naturale non è, in modo neoscolastico, un insieme di norme già compiute aventi valore oggettivo e validità metastorica; non è un oggetto posto di fronte alla ragione, al modo di qualcosa da apprendere e da subire, come suggerirebbe il riferimento alla “natura”. I precetti basilari del diritto naturale non sono dedotti da precedenti giudizi sulla natura: è attraverso le acquisizioni della ragion prati- ca, ancor prima che della conoscenza speculativa, che l’uomo formula proposizioni circa la natura umana e apprende i fini che devono guidare il suo agire e quale sia l’azione più adeguata per il loro conseguimento. Nel raccordo tra il guidare le azioni e il fine del bene comune si evidenzia il rapporto tra legge morale e legge umana positiva. Nella terza lezione dal titolo ampiamente significativo, Kelsen e il Diritto Naturale, George si impegna nell’obiettivo accennato di demistificare false ed erronee immagini del giusnaturalismo tomista, radicate nel pensiero giuridico contemporaneo. Egli analizza con dovizia di particolari gli equivoci presenti nel pensiero kelseniano a proposito della legge naturale e confuta punto per punto – in un’atmosfera da duello cavalleresco – alcune affermazioni fatte da Kelsen nel famoso The Natural-Law Doctrine before the Tribunal of Science. Centrale è la dimostrazione, da parte di George, di come quasi nessuno, in verità, tra i giusnaturalisti, e men che mai Tommaso d’Aquino, abbia pensato al diritto naturale come a un ordine giuridico preesistente e neppure come un ordine morale già compiuto. Se, infatti, la legge positiva è obbligatoria per la coscienza dei consociati, essa viene in contatto con i valori morali di cui la legge naturale è espressione. A tanto consegue che la stessa definizione del diritto positivo non può prescindere dalla relazione tra i contenuti di quest’ultimo e i valori fondamentali, che si esprimono non nella forma di 280 precetti già formati al modo della legge positiva, ma come orientamenti per l’agire, che aspirano a coagularsi in norme morali e giuridiche. Insomma, siamo ben lontani da quella immagine semplicistica della mera derivazione logica deduttiva dei contenuti della legge positiva dalla legge naturale, costruiti, sulla scia del sistema statico di norme disegnato da Kelsen, dai seguaci del giuspositivismo per rafforzare le proprie convinzioni. Il terzo obiettivo della nuova teoria della legge naturale riguarda la sua fecondità ermeneutica nei confronti dei fenomeni principali del diritto e del costituzionalismo contemporaneo. Nella quarta lezione, quindi, George affronta il tema dello statuto giuridico dell’embrione umano, nella quinta la questione dell’ordine internazionale e, nella sesta, quella della ragione pubblica con particolare riferimento al ruolo pubblico della religione nel pensiero di Rawls e Habermas. Tali approfondimenti tematici confermano come George e la nuova teoria del diritto naturale abbiano il merito di portare le loro prospettive e i loro argomenti nel dibattito pubblico, senza complessi di inferiorità nei confronti delle più diffuse teorie del liberalismo contemporaneo. Queste ultime, infatti, non riescono a risolvere mai definitivamente il conflitto tra ragioni giustificative, né quello derivante dalla ritenuta pretesa inconoscibilità oggettiva di valori (che pone tutte le concezioni sullo stesso piano, senza alcuna possibilità di differenziazione) e, in applicazione di un preteso principio di neutralità, elimina- no dalla vita sociale e politica l’esercizio della ragione, confinando nel privato e nella mera preferenza istanze avanzate in nome della giustizia e della dignità umana. È indubbio: i risultati dell’applicazione della nuova teoria del diritto naturale sono coincidenti con la dottrina e la morale cattolica. Ma questa complessa articolazione poggia su presupposti assolutamente laici, mette alla prova il metodo della ragionevolezza pratica e può essere difesa con mezzi esclusivamente razionali. Di più, richiede una sorta di contesto dialogico aperto: la legge naturale non è un codice prefissato di precetti scritti nei cieli, ma una sfida alla ragione umana nel tempo e nella storia. In ogni caso, la teoria neoclassica non può essere accusata di fideismo. Proprio per tali ragioni, essa lascia prevedere di poter svolgere un ruolo decisivo sui tanti fronti che si aprono al giusnaturalismo evidenziando – a tutti coloro che non si rifiutano di vederle – le falle del giuspositivismo. Si pensi all’ampio campo dei diritti umani, all’evoluzione del costituzionalismo contemporaneo, alla crisi della visione statocentrica del diritto, al ritorno di attenzione sul caso giuridico concreto come guida interpretativa delle norme, alla circolazione degli argomenti giuridici (e non) tra le corti supreme di giustizia, al ridimensionamento del principio di autorità. Altri aspetti potrebbero aggiungersi, ma questi sono sufficienti a mostrare che il castello giuspositivista è andato in frantumi e i tentativi continui di ristrutturazione 281 sono spesso vani e deboli sul piano teorico, segno di un giuspositivismo abbarbicato ai dogmi della rigida separazione tra diritto e morale e del rifiuto di qualsiasi forma di oggettivismo morale, dunque non di rado divenuto, esso sì, niente più che un atto di fede. Francesco Cavallo GUSTAVO GOZZI, Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 400. Il volume di Gustavo Gozzi non vuole essere unicamente una ricostruzione storica dell’evoluzione del diritto internazionale; non la semplice enunciazione di teorie che si susseguono durante i secoli, dalla nascita degli Stati nazionali sino al consolidamento delle democrazie occidentali e del loro rapporto con le altre culture. Esso è un’attenta ricerca storico-filosofica su come si è sviluppata la dottrina giuridica occidentale e sulla sua pretesa di universalità all’interno del sistema giuridico internazionale. Gozzi riprende con attenzione l’excursus storico dei diritti umani proposto da Gerhard Oestreich nel suo Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, cogliendo la necessità di svolgere una ricostruzione della storia delle dottrine politiche e giuridiche per meglio comprendere il ruolo odierno del diritto internazionale. Per Gozzi, è fondamentale che si riescano a evidenziare nel modo più chiaro possibile le varie interpretazioni dei diritti, in quanto, solo così facendo, è possibile conservare intatte le basi etiche e politiche dei diritti dell’individuo. Il diritto internazionale, per Gozzi, è stato frutto di una disparità di visione tra l’ordinamento occidentale e le altre dottrine globali; pertanto, nel suo volume, cerca di osservare il diritto internazionale con gli occhi di chi non è figlio della nostra cultura e di offrire al lettore la possibilità di andare a ritroso sino ad evidenziarne i problemi che vigono a monte. La sua tesi è sempre correlata allo studio delle più significative dottrine della tradizione filosofica occidentale, offrendo, quindi, un’ottima interdisciplinarietà nello sviluppo della ricerca. L’autore, in questo suo volgersi al passato, comincia la sua analisi dagli scritti di Francisco da Vitoria e dalla Seconda Scolastica, ponendo in evidenza come, dal XVI secolo, fu riscoperto il diritto naturale attraverso la consapevolezza di dover riprendere le virtù etiche dello stoicismo greco. De Vitoria è solo il precursore di un ritorno allo stoicismo, poiché il suo pensiero è posto al centro tra la prospettiva giusnaturalistica, che reinterpreta lo ius gentium, e la sua visione cattolica. De Vitoria accetta la concezione che ogni popolo possieda dei diritti inviolabili, ma, dall’altra parte, non disconosce il diritto cristiano di imporre con la forza la nuova religione e la propria cultura alle popolazioni indigene del nuovo continente. Il passaggio ad una piena consapevolezza dello stoicismo avviene, 282 nell’evoluzione storica proposta, attraverso lo studio degli scritti di Grozio. In una fase in cui le guerre di religione imperversavano in Europa, l’affermazione, dapprima nei Paesi Bassi e, successivamente, in altre zone del centro-nord Europa, dei principi laici, fondati unicamente sui basi etiche, posero le fondamenta per il consolidamento degli Stati moderni, privi di qualsivoglia influenza religiosa. Per l’autore, Grozio fu il primo che mise in evidenza il processo di colonialismo egemonico portato avanti dalla cultura occidentale, prettamente cattolica, nei confronti di popolazioni considerate all’epoca come barbare. In questa prima parte del volume, Gozzi è abile nell’inquadrare quelli che sono stati i precursori di una visione globale del diritto internazionale, inserendo il pensiero di Pufendorf e Kant all’interno del loro contesto storico. Pufendorf, in particolare, non viene studiato soltanto come il filosofo che pone al centro lo Stato assoluto, ma soprattutto come il pensatore che guarda al rapporto tra Stati sovrani e ai loro doveri in una prospettiva di interesse globale. Il diritto di conservare i propri costumi e tradizioni ha fondamenta giusnaturalistiche, come quello di ospitalità, che pone il filosofo tedesco alla stregua di Kant. Pufendorf difende, dunque, i diritti dei popoli contro le pretese degli Stati occidentali, e ciò avvalora la tesi proposta da Gozzi. Anche Kant è analizzato nel volume come il filosofo della pace ed è molto interessante il capitolo nel quale si attualizza lo scritto Per la pace perpe- tua attraverso la visione di Jurgen Habermas. Il filosofo di Könisberg aveva, infatti, secondo Habermas, posto le condizioni ideali per la creazione di un ordine politico-giuridico sovrastatale. Gozzi vuole offrire una visione del diritto internazionale come prettamente europea e la sua nascita trae radici proprio tra i secoli XVI e XVIII. Il legame che vige tra diritto internazionale e la cultura occidentale emerge nella seconda parte del volume, quando si analizza il secolo XIX e il processo di positivizzazione dei principi emersi nei secoli precedenti. Il diritto positivo occidentale è studiato nella sua evoluzione, partendo dal contesto nel quale si diffonde, prima come uno dei sistemi giuridici internazionali e, successivamente, come sistema universalistico, frutto della cultura occidentale dominante. La tesi di un’evidente egemonia del diritto internazionale europeo e del suo processo di universalizzazione è portata avanti dall’autore in modo fluido, toccando sia gli aspetti più propriamente storici, sia quelli filosofici. Degno di attenzione lo spazio dedicato allo studio del concetto di “nazion civile”, che compare proprio nell’Ottocento, e al conseguente concetto di “civiltà”, inteso come confronto tra il mondo occidentale e le altre zone del globo. Gozzi offre un quadro completo del cosmopolitismo attraverso lo studio del pensiero di Kelsen, Wolff ed Hegel, affrontando il problema della crisi della sovranità degli Stati nazionali nel lasso di tempo a cavallo tra Otto e Novecento. L’autore ha il merito di mantenere alto 283 l’interesse sulla costruzione dello ius gentium, quel diritto dei popoli che, nella sua visione, deriva dal diritto di natura e garantisce dei principi fondamentali per il riconoscimento di un diritto internazionale che esula dalla volontà degli Stati nazione. Merita, poi, particolare attenzione la parte terza del libro, nella quale Gozzi attualizza i problemi di un mancato riconoscimento del diritto internazionale vigente. L’autore introduce l’argomento attraverso il pensiero di John Rawls nel suo scritto Diritto dei popoli, per mettere a raffronto la visione idealistica del filosofo, che auspicava una “pace democratica”, e la cruda realtà, che, invece, caratterizza i rapporti interculturali esistenti. Al centro della sua analisi è posto, infatti, il rapporto tra Occidente e Mondo Islamico e tra Occidente e Terzo Mondo, con particolare attenzione allo studio dei diritti dell’uomo a seguito del secondo conflitto mondiale. La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo è, per Gozzi, il momento culminante e fondamentale, in cui emerge la frattura tra cultura occidentale e Islam, soprattutto in tema di matrimonio e ruolo della donna. L’autore, presentando con dovizia di particolari l’evoluzione storica di tale diatriba, non propone alla questione una facile soluzione, nella quale l’Occidente sia sempre dalla parte della ragione e in cui l’Islam venga etichettato come arretrato e invitato ad adeguarsi ai principi occidentali, ma mette in luce, soprattutto, quelli che sono i punti di vista islamici su tali delicate problematiche e su come l’Occidente abbia cercato di imporre la propria visione delle cose. Di notevole interesse è, inoltre, lo studio analitico sul termine “democrazia” nella cultura islamica, che pone in evidenza quelle limitazioni che, recentemente, hanno spinto diverse popolazioni di Stati arabi a ribellarsi al potere costituito. Gozzi, nel tentativo di trovare dei punti d’incontro, offre una possibile luce alla fine del tunnel dove ancora arrancano le due culture contrastanti: ritrovare unità attraverso il Mediterraneo; ciò può costituire la chiave per trovare una visione comune in tema di diritto internazionale, in quanto il bacino è stato da sempre il punto d’incontro di diverse civiltà, un incontro fatto soprattutto di storia e di cultura, che ha accomunato e che potrebbe riaccomunare questi popoli. Per l’autore, la Dichiarazione di Barcellona del 1995 ha fatto emergere con evidenza quelli che dovrebbero essere i principi fondamentali per la messa in atto di un diritto internazionale, riconosciuto da entrambi i contraenti, anche se, a distanza di tempo, i risultati non sono ancora quelli sperati. Un altro tema centrale del volume è il rapporto tra Occidente e Terzo Mondo, analizzato attraverso lo studio del postcolonialismo e del neo-colonialismo come momenti di imposizione della cultura occidentale in tema di diritti. Nello studio dell’attuale diritto internazionale, è fondamentale dare voce a tesi che vedono, in tale diritto, un mezzo per favorire l’egemonia occidentale. Dopo aver affrontato le problematiche che dividono le culture mondiali, 284 Gozzi ritorna ad occuparsi delle origini dei diritti umani. In tale contesto, emerge chiaramente la sua visione giusnaturalistica e la necessità di garantire all’essere umano i diritti di natura. Il rapporto forte che vige tra diritti umani e dignità umana è messo in evidenza per offrire al lettore una proposta interculturale dei diritti. Per l’autore, è fondamentale che, nella creazione di un diritto internazionale, accettato da tutti, valgano dei principi giusnaturalistici fondati sulla ius gentium, ed egli stesso si interroga se tali principi siano utopistici, rispetto alle leggi basate sul rapporto di forza tra gli Stati. La governance globale va combattuta attraverso una “costituzionalizzazione del diritto internazionale”. Solo un’utopia o una reale possibilità? Pierandrea Casto SAVERIO DE BELLIS, a cura di, Studi su diritti umani, Bari, Cacucci Editore, 2010, pp. 287. Il tema della protezione internazionale dei diritti umani non cessa di rivestire un ruolo cruciale nell’agenda degli Stati. Le costanti violazioni che, nonostante gli sforzi profusi, continuano a verificarsi in diverse parti del globo impongono di mantenere alta l’attenzione e di continuare a impegnarsi affinché il rispetto dei diritti umani diventi sempre più un valore diffuso e condiviso, nonché minimo comune denominatore di ogni società umana. Con il volume collettaneo Studi su diritti umani, curato da Saverio de Bellis, gli autori – un gruppo di studiosi dell’Università del Salento – hanno cercato di fornire approfondimenti su alcune particolari categorie di diritti umani fondamentali e sul ruolo che gli Stati e le Nazioni Unite rivestono in merito alla loro protezione e attuazione a livello statale e sovranazionale. Spunto per la pubblicazione di tale interessante iniziativa editoriale è stato il ricorrere del sessantesimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo (10 dicembre 1948). In Diritto alla vita e pena di morte in Italia tra Costituzione e obblighi internazionali, Saverio de Bellis ha dapprima ripercorso le tappe che hanno condotto alla definitiva abolizione della pena di morte nel nostro paese, avvenuta con legge costituzionale 2 ottobre 2007, n. 1, ed ha poi affrontato la questione di una conseguente configurabilità di un vero e proprio “diritto alla vita” di derivazione costituzionale, giungendo ad escluderla. Il problema su cui lo scritto si focalizza è poi quello dell’analisi del contenuto di questo preteso “diritto alla vita” – mera esistenza biologica o raggiungimento e mantenimento di un livello ottimale di diritti e situazioni soggettive? – e delle diverse circostanze in cui esso viene a vario titolo invocato: la pretesa del nascituro di nascere e di conservare tale esistenza e la pretesa di rinuncia alla vita (right to die). Cruciale è la spinosa questione del cosiddetto “te- 285 stamento biologico”, che l’autore compiutamente analizza sia con riguardo alla disciplina internazionale che lo legittima di principio, sia dal punto di vista del dibattito e degli iter normativi in atto nel nostro paese. La conclusione cui giunge l’autore è quella di rilevare la “debolezza” della tutela accordata al diritto alla vita nelle sue varie sfaccettature, pur non escludendo possibili novità normative, almeno a livello nazionale. Il diritto alla vita e il problema dell’eutanasia sono poi affrontati in maniera specifica nel contributo di Andrea Starace, intitolato La tutela del diritto alla vita e della dignità umana negli atti internazionali. Riflessioni per una disciplina dell’eutanasia. In esso l’autore, dapprima analizza ampiamente le disposizioni internazionali, sia universali che a carattere regionale, in materia di diritto alla vita e rispetto della dignità umana, e poi si sofferma sul rapporto tra questo diritto e la pratica dell’eutanasia, avendo come punto di riferimento l’importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 29 aprile 2002, resa nel caso Pretty, nella quale la Corte ha escluso che gli artt. 2 e 3 della Convenzione (che tutelano rispettivamente il diritto alla vita e il divieto di tortura) possano essere invocati anche per tutelare un profilo negativo del diritto alla vita, ossia il diritto di morire. L’autore rileva poi come la Corte giunga ad affermare «l’assoluta imprescindibilità del principio della santità della vita, il quale raccomanda che la legge si adoperi per la protezione dei soggetti più deboli e più vulnerabili, quali sono […] i malati terminali» (p. 279). Nelle conclusioni dello scritto viene, infine, evidenziata, anche alla luce della sentenza esaminata, la necessità di individuare puntualmente il confine tra la vita e la morte, tra ciò che debba intendersi “trattamento medico doveroso” e quello che è invece definibile “accanimento terapeutico”. Tale intervento, però, dovrà tenere conto dell’emergente (e, ad avviso dell’autore, allarmante) tendenza ad invocare il diritto di ognuno di vivere la propria esistenza dignitosamente. In questa collettanea trovano spazio anche scritti relativi all’importante processo di specificazione dei diritti umani, sia ratione personae, che ratione materiae. Un esempio di specificazione che ha riguardato i destinatari della tutela è quello dei diritti oggi riconosciuti ai fanciulli rilevato dall’interessante saggio di Giuseppe Gioffredi, intitolato Il ruolo della Dichiarazione universale nella protezione dell’infanzia: traguardo o premessa della tutela dei diritti del fanciullo? Dopo aver esaminato approfonditamente le linee di tendenza dell’evoluzione dei diritti umani, l’autore si sofferma sul tema della tutela internazionale dei diritti dell’infanzia, in generale, e sull’analisi della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, in particolare. Cuore della normativa internazionale in materia è il riconoscimento del principio del “superiore interesse del fanciullo”: esso costituisce oggi la ratio e il fondamen- 286 to di molte leggi relative ai minori. Il testo presenta anche una descrizione del meccanismo di controllo istituito dalla Convenzione e uno studio sull’interazione tra sistema convenzionale e ordinamento giuridico italiano. Nelle sue conclusioni, l’autore evidenzia come, sebbene in Italia il livello di protezione dell’infanzia sia elevato e in linea con gli standard internazionali, ciò nonostante sono invece ancora troppe le violazioni dei diritti dei minori a livello mondiale. I maggiori problemi messi in luce, cui è necessario trovare risposte celeri, efficaci e concrete, sono lo sfruttamento dei minori nei conflitti armati e lo sfruttamento del lavoro minorile. Nonostante gli sforzi profusi dalla Comunità internazionale, viene infine rilevato come ancora oggi si debba purtroppo parlare di infanzia “troppo ferita”. Nel solco dell’analisi del processo di specificazione ratione personae dei diritti umani si pone anche lo scritto di Martina Cutazzo, dal titolo I diritti umani delle donne. L’autrice mette in evidenza come, prima di giungere all’attuazione di politiche a tutela delle donne a livello internazionale, si sia prima dovuta diffondere e affermare una vera e propria “prospettiva di genere”: è stato, dunque, necessario un cambiamento culturale, prima che giuridico, cambiamento che deve ancora giungere ad effettivo compimento, in quanto le donne non sono ancora percepite ovunque come “l’altro ‘io’ nella comune umanità”. I maggiori sforzi in materia di protezione delle donne si sono avuti con gli interventi delle Nazioni Unite, volti all’eliminazione delle discriminazioni fondate sul sesso. L’autrice ha, infine, messo in risalto un delicatissimo problema connesso alla protezione del genere femminile, ovvero quello della lotta alle mutilazioni genitali, barbara pratica che ha come vittime principali giovanissime donne, se non addirittura bambine. Esse, in quanto pratica propria solo di alcuni contesti socioculturali, sono rappresentative dell’odierna estrema difficoltà di considerare i diritti delle donne come universali e rappresentano un motivo in più per continuare la lotta per l’affermazione della piena eguaglianza giuridica e morale tra i due sessi. Il diritto all’alimentazione, della stessa autrice, esprime, invece, il processo di specificazione ratione materiae della tutela internazionale dei diritti umani. Tale diritto umano fondamentale è stato espressamente riconosciuto nell’art. 11 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali del 1966. Ad essere destinatari di questa e altre norme in materia di diritto al cibo sono principalmente gli Stati, che devono rispettare, proteggere e attuare tale diritto. Un paragrafo dello scritto è poi dedicato allo specifico aspetto del diritto all’alimentazione delle donne e dei bambini, soggetti, questi, che risultano essere quelli maggiormente colpiti dalla fame e dalla malnutrizione nel mondo e che per questo motivo subiscono «la cristallizzazione di uno status che li porterà ad essere ai margini della società per il resto della vita» (p. 287 84). Nonostante gli sforzi per combattere la fame nel mondo, profusi soprattutto da organizzazioni internazionali e non governative, la freedom from hunger, rileva infine l’autrice, rimane ad oggi purtroppo ancora lontana. Maria Antonietta Brucoli affronta, invece, il tema, quanto mai attuale, del diritto d’asilo. Il suo scritto Prospettive di tutela del diritto di asilo offre una panoramica completa del tema sia dal punto di vista interno, che internazionale; non manca, poi, una parte dedicata al diritto dell’Unione europea. Il ‘caso Italia’ è affrontato per la rilevanza che hanno nel nostro paese le vicende – spesso tragiche – legate al fenomeno migratorio. L’autrice mette immediatamente in rilievo la difficoltà oggi esistente di distinguere tra i semplici migranti e i richiedenti asilo: sebbene il motivo principale che spesso spinge a lasciare il proprio paese sia spesso di natura economica, i continui conflitti in atto in molte parti del mondo e, per quanto ci riguarda da vicino, dell’Africa, spingono parte delle popolazioni colpite da queste tragedie a emigrare per motivi umanitari. Sul divieto di refoulement, lo strumento internazionale rilevante è individuato nella Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951. Importante è anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul divieto di respingimento nei casi in cui, nel paese d’origine, l’immigrato rischi di subire atti di tortura o trattamenti inumani e degradanti. Quanto al diritto dell’Unione europea, l’autrice mette in risalto come la politica comune nel settore dell’asilo costituisca uno degli elementi fondamentali per la compiuta realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Il problema delle sparizioni forzate in ambito internazionale è il tema affrontato da Francesca Pulimeno, la quale analizza la sparizione forzata di individui, fenomeno che in passato era «circoscritto alla realtà latinoamericana degli anni Settanta» ma che è oggi «legata soprattutto al problema della lotta al terrorismo internazionale (trattasi dell’ormai noto fenomeno delle extraordinary renditions – n.d.a.)» (p. 97). Il lungo percorso iniziato in seno alle Nazioni Unite per contrastare il fenomeno in oggetto si è concluso con l’adozione, il 20 dicembre 2007, della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate. Una norma cruciale di questo testo è quella che impone agli Stati contraenti di riconoscere e garantire nel proprio ordinamento il diritto alla riparazione per le vittime e di impegnarsi affinché si conducano azioni volte alla ricerca degli scomparsi. Una parte dello scritto è dedicata alla ricostruzione delle norme internazionali che permettono di imputare allo Stato l’illecito di sparizione forzata: l’autrice fa riferimento al Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati, approvato dalla Commissione di diritto internazionale nel 2001. Sono, inoltre, evidenziati quelli che devono essere gli obblighi positivi incombenti in capo agli Stati in materia di sparizioni forzate, ovvero l’obbligo di prevenire siffatte violazioni e quelle 288 di predisporre misure effettive e adeguate procedure investigative, ogni volta che vengono denunciati casi di scomparsa forzata. Da ultimo, vengono posti in rilievo l’obbligo di punire gli autori delle violazioni, siano essi privati o organi statali, e il già richiamato obbligo di riparazione per le vittime o i loro familiari per la violazione subita. In Responsabilità sociale delle imprese multinazionali e diritto internazionale, Giuseppe Gioffredi offre una puntuale panoramica su una questione che nel mondo globalizzato riveste sempre maggiore importanza: il problema del ruolo e della responsabilità delle multinazionali rispetto a possibili violazioni di diritti umani fondamentali. Dopo aver spiegato che cosa giuridicamente debba intendersi per “impresa multinazionale”, l’autore individua un nesso tra il potere economico che queste esercitano nei Paesi, spesso in via di sviluppo, in cui operano e le possibili violazioni dei diritti umani che possono commettere direttamente (ad esempio attraverso particolari modalità di reclutamento o mediante l’impatto che i processi di produzione possono avere sui lavoratori, le comunità locali e l’ambiente) o anche indirettamente, qualora si rivelino complici delle politiche repressive dei governi locali. La responsabilità sociale d’impresa è oggi oggetto di alcuni importanti documenti internazionali: in primis, le Norme sulle responsabilità delle imprese multinazionali del 13 agosto 2003 e, in ambito UE, il Libro verde della Commissione europea del 18 luglio 2001, dal titolo Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese. Importantissimi sono poi i vari ‘codici di condotta’ e le ‘linee guida’ adottati in seno a varie organizzazioni intergovernative per «tentare di bilanciare l’accresciuto potere delle multinazionali con un altrettanto livello di accountability, [… che] eviti che questi nuovi ‘attori’ delle relazioni internazionali possano godere di una sorta di impunità» (p. 200). Il limite di questi strumenti, rileva giustamente l’autore, è però la loro natura non vincolante e la mancanza di sistemi efficaci di monitoraggio. Egli ricorda, poi, che già la nostra Costituzione, all’art. 41, tutela sì la libertà di iniziativa economica privata, ma ammonisce che questa non debba “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Particolare risalto è dato nello scritto anche all’attività delle Nazioni Unite in materia, in particolare al progetto Global Compact del 2000, con il quale si è richiesto al mondo delle imprese di «allineare l’economia globale al riconoscimento e al rispetto di dieci principî universalmente riconosciuti nelle aree dei diritti dell’uomo, del lavoro, dell’ambiente e […] della lotta alla corruzione» (p. 208). Infine, viene evidenziato come, dal giugno 2005, sia stata istituita l’importante figura del rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite sui diritti umani e le imprese multinazionali, figura che, con il suo operato, potrà contribuire a monitorare il rispetto dei diritti umani da parte delle multinazio- 289 nali. Il delicato tema dei rapporti tra Israele e la popolazione palestinese è affrontato nell’interessante scritto di Lucia Russo, Il muro d’Israele nell’ottica del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani: strumento di protezione o mezzo di espansione? L’autrice pone subito in risalto gli effetti sulla popolazione civile palestinese della costruzione del muro, iniziata ad opera di Israele nel giugno del 2002. Centrale per la ricostruzione della vicenda è il contenuto del parere emanato dalla Corte internazionale di giustizia del 9 luglio 2004 e della decisione della Corte Suprema di Israele del 30 giugno 2004: in entrambi i fori è stata messa in discussione la legittimità di tale iniziativa, in quanto la barriera, oltrepassando i limiti tracciati dalla Green Line, arrecava ingenti danni alle popolazioni ivi residenti e costituiva un’annessione de facto di parti di territorio non occupate dallo Stato israeliano. A conclusioni diverse sono, però, giunte le due istanze giurisdizionali: la Corte Suprema ha riconosciuto la legittimità delle decisioni del governo israeliano, pur avendo ravvisato una forte sproporzione tra le esigenze di sicurezza ed i sacrifici patiti dai civili palestinesi; i giudici dell’Aia hanno invece negato la legittimità della costruzione di detta barriera e l’avvenuta violazione del diritto del popolo palestinese ad autodeterminarsi. In maniera molto approfondita sono poi analizzate le varie violazioni subite dai palestinesi a causa di questa costruzione e le norme internazionali cui tali violazioni sono riconducibili. L’autrice conclude affermando che, sebbene il parere della Corte internazionale di giustizia costituisca un’importante novità perché si è per la prima volta affrontata in quella sede giurisdizionale una delle questioni più spinose di diritto internazionale, ciò nonostante non vi è stata alcuna positiva evoluzione nei rapporti tra i due soggetti a seguito della pronuncia. Infine, lo scritto La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e gli obblighi positivi di protezione dei diritti umani violati di Caterina Rizzo offre un interessante esempio di “giustiziabilità” delle violazioni di diritti umani fondamentali, nella specie quelli riconosciuti e tutelati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (meglio nota come Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Il procedimento che si instaura innanzi la Corte europea dei diritti dell’uomo si conclude con una sentenza vincolante per lo Stato in causa. Quest’ultimo è obbligato a darvi esecuzione. L’autrice analizza alcune caratteristiche delle decisioni della Corte, anche attraverso lo studio della sua giurisprudenza. Importanti riflessioni sono svolte rispetto all’autorità di res interpretata delle sentenze e ai loro cosiddetti effetti erga omnes. Altro obbligo incombente in capo agli Stati è quello di non ripetizione dell’illecito, che può essere adempiuto attraverso misure normative di carattere generale, revirements giurisprudenziali o in virtù di adozione di misure materiali. Un ulteriore argomento affrontato 290 dall’autrice è quello delle sentenzepilota rese dalla Corte in casi di violazioni strutturali di diritti fondamentali ad opera di uno stesso Stato: tale nuova tecnica è volta ad evitare i ricorsi ripetitivi causati dalla persistenza negli ordinamenti di alcuni Stati di problemi a carattere strutturale, che incidevano sulle libertà di numerosi individui e che rallentavano il lavoro dei giudici di Strasburgo. In proposito vengono richiamati i noti casi Broniowski (2004) e Scordino (2006). Un ultimo paragrafo è, invece, dedicato agli obblighi positivi di protezione incombenti sugli Stati contraenti. L’autrice mette in evidenza come solo l’azione delle autorità statali possa concretamente scongiurare il perpetrarsi di ripetute violazioni di diritti fondamentali: viene, così, superata la tradizionale concezione delle libertà fondate esclusivamente su un obbligo di astensione dello Stato, che doveva limitarsi a non ostacolarle. Claudia Morini ITALO TALIA, Le tracce della città: una geografia dell’urbano. Metamorfosi, culture, identità, Roma, Aracne, 2011, pp. 161. Il volume si sviluppa come un intenso racconto sulle metamorfosi di quello che è senza dubbio l’oggetto geografico più affascinante: la città. Talia chiama a testimoni di questa narrazione non solo geografi, ma anche storici, demografi, sociologi, teologi, politologi, a dimostrazione di un approccio epistemologico all’argomento che impone ad ogni disciplina di abbandonare qualsiasi complesso di superiorità. In questo lavoro, che si struttura in cinque capitoli, il ruolo della città come propulsore dei cambiamenti emerge in tutta la sua forza: dalla polis greca all’immagine visionaria dell’ecumenopoli di Doxiadis, è sempre nella città che nascono i maggiori mutamenti economici e politici e si producono le nuove identità. Dal primo capitolo, “Città e spazi globali”, prende corpo il protagonismo di metropoli e aree urbane, che si candidano a guidare la globalizzazione formando reti mondiali, di diverso livello, che sembrano voler prescindere o, addirittura, superare le forme degli Stati nazionali. Si profila, pertanto, una sorta di “solitudine dello Stato” di fronte alle città, che dialogano/competono tra loro senza l’intermediazione delle nazioni, dove sfuma e si confonde il concetto stesso di sovranità territoriale. Il titolo del secondo capitolo prende a prestito la definizione di città di Chombart de Lauwe (ripresa ed ampliata da Henri Lefebvre) come “società tracciata sul suolo”, partendo dall’antichità per analizzare le diverse fasi della metamorfosi nella cultura urbana. Già in questa epoca si possono enucleare due modelli: quello della città greco-romana, con al centro il forum degli scambi e degli incontri tra cittadini, e quello orientale, che riproduce, nella cittadella centrale fortifica- 291 ta, il segno di un potere autocratico. Con l’Impero romano, la città diviene elemento riproducibile in altri territori, ma è solo dopo il Medioevo che la città europea diviene “articolo da esportazione” (per dirla con Sergio Romano), ossia, la proiezione dell’Occidente in altri continenti. La città medievale (la cui aria “rende liberi”, secondo un antico detto tedesco), la città dei diritti individuali e delle libertà politiche, del nuovo ceto della borghesia cittadina, rappresenta l’ulteriore metamorfosi culturale ed identitaria che produce, a parere dell’autore, il primo discrimine tra città sviluppate e aree sottosviluppate. La città è lo spazio della ragione cartesiana, è la dimensione culturale dove germinerà l’Illuminismo e la rivoluzione industriale: ciò che diverge da questo paradigma si rassegna a sottrarsi al progresso. Nel terzo capitolo, “La modernità”, viene sviluppato il rapporto causale tra urbanizzazione ed industrializzazione; la concentrazione spaziale di funzioni ristruttura la città in nuovi ambiti funzionali e ne frammenta la struttura sociale in nuovi ceti: borghesia, proletariato, sottoproletariato. La città assume, in questa fase, una struttura piramidale fortemente gerarchizzata per funzioni che Burgess e la “scuola ecologica di Chicago” descriveranno con il modello delle quattro zone socioeconomiche concentriche. Questo modello entra in crisi alla metà del XX secolo, quando la concentrazione delle attività produttive inizia a generare diseconomie di scala e di agglomerazione: i costi della vita urbana diventano superiori ai benefici, sia per i privati, che per le imprese. Tuttavia, questa crisi della città centrale contemporanea non è irreversibile: è anch’essa una delle fasi del mutamento della cultura urbana. «L’approdo delle metamorfosi urbane è rappresentato dalla città in rete e dalle reti di città. Queste generano un insieme di flussi e di reazioni non più gerarchici ma orizzontali» (p. 83): il quarto capitolo, “I nuovi nomadi”, contiene una rassegna di “nodi globali” e di “città globali”. I primi sono rappresentati da quelle realtà metropolitane che controllano e dirigono i grandi flussi globali; le seconde sono quelle aree urbane che esercitano un influsso geoeconomico sovranazionale. Questi flussi globali (di informazioni, di capitale finanziario, di merci, di persone) hanno messo in movimento sia i nuovi cosmopoliti, apolidi mondialisti occidentali che dominano il cyberspazio, che i nuovi nomadi, migranti di tutte le aree del pianeta, portatori di identità diverse. La loro compresenza nello stesso spazio urbano crea la “città duale” dove si incontrano/scontrano persone, etnie, culture e lingue diverse. Nell’ultimo capitolo, “I cittadini globali”, Talia si inoltra tra i temi delicatissimi dell'integrazione e della tolleranza, che sottostanno alla questione della cittadinanza, di quel “diritto alla città” quale tema permanente che ha percorso l’intero volume e che appare quanto mai attuale ed urgente. Il principio di libertà che ha alimentato la città europea e occidentale, nutrendosi 292 del valore voltairiano della tolleranza, oggi trova di fronte a sé una sfida grandiosa, che mette in discussione il destino stesso della città e dell’Occidente. Cosimo Alessandro Quarta 293 GLI AUTORI Ennio Di Nolfo, professore emerito dell'Università di Firenze, dove ha insegnato Storia delle Relazioni Internazionali per molti anni. Autore, tra le molte sue opere, della fondamentale Storia delle relazioni internazionali dal 1919 ai nostri giorni (Laterza). Il suo lavoro più recente: Lessico di politica internazionale contemporanea (Laterza). Antonio Donno, professore ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali nel Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali dell'Università del Salento, Lecce. L'opera più recente (con Giuliana Iurlano): Nixon, Kissinger e il Medio Oriente, 1969-1973, Le Lettere, 2010. Maurizia Pierri, ricercatrice di Diritto Pubblico Comparato, disciplina che insegna nel Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali dell'Università del Salento, Lecce. Giuseppe Patisso, ricercatore di Storia Moderna, disciplina che insegna nel Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali dell'Università del Salento, Lecce. Alessandro Isoni, ricercatore di Storia delle Istituzioni Politiche, insegna Storia dell'Integrazione Europea nel Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali dell'Università del Salento, Lecce. Francesco Martelloni, studioso di storia contemporanea, lavora nel Dipartimento di Storia Società e Studi sull'Uomo dell'Università del Salento, Lecce. Paolo Macrì, dottore di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, svolge attività di ricerca presso la cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali dell'Università del Salento, Lecce. Giuliana Iurlano, ricercatrice di Storia delle Relazioni Internazionali, insegna Relazioni Internazionali e Storia degli Stati Uniti nel Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali dell'Università del Salento, Lecce. Francesca De Pascalis ha conseguito la laurea magistrale in Scienze della Politica. Il presente lavoro è tratto dalla sua tesi triennale in Relazioni Internazionali. Katia Scarlino ha conseguito la laurea magistrale in Scienze della Politica. Il presente lavoro è frutto di uno studio svolto nell'ambito di un seminario in Storia dei Trattati e Politica Internazionale. Francesca Salvatore è dottoranda di ricerca in Studi Storici, Geografici e delle Relazioni Internazionali (sezione di Relazioni Internazionali). Il lavoro è tratto dalla sua tesi triennale in Relazioni Internazionali. Eunomia Rivista del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia © 2012 Università del Salento – Coordinamento SIBA http://siba2.unisalento.it