I PADRI E L’INCULTURAZIONE DELLA FEDE Premessa Uno dei motivi dell’attualità dei Padri della Chiesa segnalati dall’Istructio della Congragazione per l’Educazione Cattolica nel 1989: Lo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, è l’opera di inculturazione della fede che essi hanno attuato con originalità e sapienza nei confronti della cultura greco-romana. Al n. 32, il documento così si esprime: “Grazie a tale oculato discernimento dei valori e dei limiti nascosti nelle varie forme di cultura antica, sono state aperte nuove vie verso la verità e nuove possibilità per l’annunzio del Vangelo. Istruita dai Padri greci, latini, siriaci… la Chiesa, infatti, ‘fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi, allo scopo, cioè, di adattare, quanto conveniva, il vangelo sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti’ (GS 44). In altre parole, i Padri, consapevoli del valore universale della rivelazione, hanno iniziato la grande opera di inculturazione cristiana, come si suole chiamarla oggi. Sono diventati l’esempio di un incontro fecondo tra fede e cultura, tra fede e ragione, rimanendo una guida per la Chiesa di tutti i tempi, impegnata a predicare il Vangelo a uomini di culture tanto diverse e ad operare in mezzo ad esse”. Il termine ‘inculturazione’. La prima volta che la parola ‘inculturazione’ compare in un documento ecclesiale è nel Messaggio del Sinodo sulla catechesi nel 1977. L’uso del termine pare che evidenzi l’analogia con l’Incarnazione del Verbo. Il termine ‘inculturazione va distinto dal termine ‘acculturazione’ che designa piuttosto il primo contatto del cristianesimo con le culture; ‘inculturazione’, invece designa un processo dinamico, profondo del cristianesimo in una determinata cultura che coinvolge l’uomo con tutti i suoi valori. All’inculturazione della fede ha dedicato ampio spazio l’enciclica Redemptoris missio, dove si afferma che essa è “l’intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture” (n.52). L’enciclica nell’usare il neologismo ‘inculturazione’ presuppone un concetto di cultura non ristretto alla dimensione noetica dell’uomo, ma piuttosto nella stessa linea della Gaudium et spes (n. 53), cioè all’intero patrimonio di esperienze proprie di un gruppo sociale. Aspetti problematici nel rapporto evangelizzazione e cultura oggi Paolo VI, nell’Evangelii nuntiandi, 20, parla della “rottura tra Vangelo e cultura” come “il dramma della nostra epoca”. E’ impensabile immaginare il Vangelo sganciato dalla cultura; sarebbe ridotto a un insieme di verità astratte. Per sua natura il Vangelo è fatto per entrare nelle parole, nei pensieri e sentimenti della vita quotidiana di una comunità. La frattura tra la fede e la cultura contemporanea oggi è un fatto più che evidente e non chiama in causa la Chiesa da una parte e il mondo dall’altra parte. La linea di demarcazione della frattura passa all’interno degli stessi cristiani, che appaiono come sdoppiati, da un lato con l’adesione teorica alle verità della fede e ai valori cristiani, dall’altra parte, nel concreto della vita quotidiana, con un modo di pensare e di agire estraneo al mondo della fede. L’origine di tale incoerenza, che non rende credibili i cristiani nei confronti dei non credenti, non è di carattere morale bensì culturale. E rimane del tutto inutile il richiamo ai valori quando questi ultimi non sono tradotti in modi di pensare e di sentire diffusi. A questo proposito Giovanni Paolo II, durante il Convegno ecclesiale di Loreto del 9-13 aprile del 1985, affermò che “occorre por mano a un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza del vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita, in modo che il cristianesimo continui ad offrire, anche all’uomo della società industriale avanzata, il senso e l’orientamento dell’esistenza”. “Per inculturazione si intende quel processo che consente alla Parola di Dio di assumere il linguaggio degli uomini di un determinato luogo e di un determinato tempo della storia, arricchendosi degli apporti che le vengono dalle diverse culture e valorizzando, a sua volta, i germi di verità e di bene che esse contengono” (G. SAVAGNONE, Evangelizzare nella post-modernità, ELLE DI CI, Leumann (Torino) 1997, p. 14). I Padri hanno iniziato questo processo di valorizzazione delle culture a loro contemporanee, attraverso l’assimilazione degli elementi positivi contenuti in quelle culture ma anche attraverso la disassimilazione degli elementi contrari alla fede, quali ad esempio, il sincretismo, il razionalismo, la mitologia che alimentava il politeismo (Cf Istructio n. 31). Un altro elemento che caratterizza il rapporto fede e cultura è il considerare la fede come la risposta di una domanda reale che scaturisce dal di dentro del tessuto culturale proprio dell’uomo di oggi. Gesù Cristo è la risposta non ad una domanda supposta ma alla domanda che di volta in volta l’uomo manifesta con la sua cultura. La professione di fede nella forma in cui viene formulata non è il frutto di chi annunzia il Vangelo ma del destinatario. Gesù stesso ha fatto in modo che la sua conoscenza e la sua accoglienza fossero il frutto di una domanda e del senso di meraviglia nei suoi confronti: “chi è mai costui a cui il vento e il mare obbediscono?” (Mt 8,27). Cap. I. Cristianesimo antico e cultura classica 1. Il passaggio del cristianesimo dall’ambiente palestinese a quello ellenistico Il trapasso del messaggio cristiano dall’ambiente rurale palestinese, dove era sorto, a quello urbano ellenistico contrassegnò il cristianesimo come un fenomeno prioritariamente metropolitano (es. il cristianesimo di Antiochia) con tutte le conseguenze che ne potevano derivare. Nelle metropoli dell’impero greco-romano non si ritrova quell’assetto socio-politico-religioso che caratterizzava la Palestina. Non c’è quindi da meravigliarsi che il momento teocratico radicale del primitivo movimento cristiano scomparisse. Legato a tale osservazione è il fatto che Paolo in territorio ellenistico non parla di regno di Dio, caratteristica invece della predicazione palestinese. La conseguenza di tutto ciò è che le lettere del cristianesimo primitivo raramente si richiamano alle parole del Maestro. Queste verranno conservate nella fonte dei ‘loghia’ e dei vangeli. Si trattava di riformulare la fede cristiana adattandola al nuovo mondo e traducendola in nuovi concetti ed esperienze. Un grosso adattamento avviene nell’ambito linguistico concettuale. Senza entrare nel vivo di tale argomento è sufficiente ricordare l’assunzione di neologismi, di una terminologia cosiddetta ‘neutrale’ (es. ecclesia, etne, katholicos, saeculum, ecc.), filosofica (airesis, aphatheia, enkrateia, ecc.), religioso-misterica (eusebeia, consecratio, sanctus, ecc.), dando ad essa nuovi significati. La terminologia che meglio esprime questo fenomeno di inculturazione rimane quella cristologica. Il titolo di ‘messia’ (Christos, Unto) non avendo significato per i Greci, divenne il soprannome di Gesù. E così Gesù il Messia si tramutò in Gesù Cristo. Anche la parola e il concetto di ‘soter’, venne applicata a Gesù, più rispondente all’universo culturale ellenistico. Insomma, quanto gli uomini cercavano nelle loro religioni : forza giustizia, santità, tutto era offerto nella realtà storica di Gesù Cristo. Soprattutto il bisogno di ‘salvezza’ o ‘redenzione’, fortissimo presso gli adepti delle religioni misteriche, trovava in Gesù la risposta adeguata. Il cristianesimo, varcando i confini della Palestina ed entrando nel mondo ellenistico, viene in contatto anche con le classi colte di quella società. Da qui il bisogno di presentare il messaggio cristiano in forma più familiare all’ascoltatore pagano. E così con concetti cristiani che trovavano riscontro nella filosofia, in particolare in quella platonica e stoica, si cercava di creare il collegamento. Fu questo l’impegno primario degli Apologisti, i quali trovarono un precedente in Filone di Alessandria. Il più importante tra gli Apologisti è Giustino, che con la sua teoria dei ‘logoi spermatikoi’ sostiene che vivere secondo ragione equivale a vivere secondo Dio. Il rapporto che egli stabilisce tra filosofia e fede cristiana è lo stesso che intercorre tra ciò che è imperfetto e ciò che è perfetto. Colui che vive secondo il Verbo, anche se è vissuto prima di Cristo, è cristiano, come Socrate, Eraclito, Abramo, ecc. La relazione stabilita da Giustino tra ragione e fede avrà un riscontro sul piano storico. Infatti il conflitto che scoppiò tra cristianesimo e paganesimo è l’espressione dell’eterno conflitto tra il Verbo di Dio e i demoni, autori dell’idolatria. In questa luce va letta anche la persecuzione di Socrate e di altri. Di qui scaturiscono alcune conseguenze: -rinnegare l’idolatria e abbracciare il cristianesimo non equivale ad abbandonare la tradizione classica; -il cristianesimo è la manifestazione di una rivelazione progressiva di cui la filosofia e l’A. T. sono parte integrante; -il passaggio al cristianesimo non è altro che il passaggio dalle verità parziali alla verità totale che è Cristo. A questo punto sarebbe errato ritenere che il contatto tra l’ellenismo e il cristianesimo abbia tolto a quest’ultimo la sua specificità e originalità. L’eresia gnostica, che rappresenta un tentativo di inculturazione mal riuscito, ne diventa la contro prova. 2. La letteratura anticristiana: Celso e la risposta di Origene La simpatia espressa da Giustino e dagli altri apologisti greci nei confronti della cultura classica, in particolare della filosofia, non ottiene alcun esito positivo negli ambienti colti pagani. Una prova è data dall’opera di Celso (Aletès lògos). Cerchiamo di cogliere gli elementi essenziali della critica che la letteratura pagana muove verso il cristianesimo del II sec. per poi passare a esaminare la risposta cristiana. Di Celso conosciamo solo quel poco su cui ci riferisce Origene nel Contra Celsum, scritto poco più di 70 anni dopo. Dagli ampi frammenti del testo di Celso riportati da Origene, possiamo dedurre che Celso conosceva bene il libro della Genesi, dell’Esodo, e in genere l’A. T., così come era a conoscenza dei testi del N. T e probabilmente degli scritti apologetici di Giustino e degli altri Apologisti; sicuramente doveva essere al corrente dei temi trattati dagli Apologisti. Sulla identità di Celso permangono gli stessi dubbi che aveva Origene. Probabilmente doveva trattarsi del filosofo platonico al quale Luciano dedica l’opuscolo Alessandro ovvero il falso profeta. L’Autore dell’Aletès lògos si manifesta come un uomo colto, addentrato nella filosofia platonica, interessato ai fenomeni religiosi e sociali del suo tempo e appassionato a sostenere l’ordine e le leggi dello Stato. L’intento di Celso nei confronti dei cristiani è quello di portarli al ravvedimento o almeno a un compromesso, a non essere nocivi nei confronti dello Stato. Egli mostra d’essere a conoscenza oltre che della vita del popolo cristiano anche della dottrina elaborata dai primi filosofi e dotti cristiani. Queste conoscenze, però, sono contrassegnate da un limite: lo spirito spiccatamente polemico induce Celso a servirsi di tante informazioni senza un vaglio critico. Gli stessi testi e le stesse informazioni sono usate ora in un senso ora in un altro del tutto contrario al primo. Per accusare il Cristianesimo, Celso si avvale della dottrina ebraica, contro la quale, però, rivolge la stessa critica utilizzata contro il cristianesimo. Ecco un elenco di accuse contro il cristianesimo presenti nell’Aletès lògos. Parte introduttiva: -il carattere clandestino della società cristiana: “La carità che lega vicendevolmente i cristiani è basata sul comune pericolo …Queste associazioni costituiscono una trasgressione alla legge comune” - Nessuna novità nel cristianesimo, dove, invece, ha un ruolo importante la magia. - I cristiani hanno fatto propria la concezione del mondo che gli ebrei, a loro volta, avevano mutuato dagli antichi popoli. Parte I: Celso introduce la figura di un ebreo che muove critiche a Gesù. - Falsità del racconto intorno alla nascita di Gesù. -I giudeo-cristiani sono dei disertori del giudaismo. -Menzogne di Gesù sulla sua presunta divinità. - Le profezie ebraiche non si riferiscono a Gesù. - Gesù non è né il Verbo, né Dio, ma un presuntuoso ciarlatano. - I miracoli di Gesù sono prodotti di magia, la risurrezione è una favola. Parte II: Critiche mosse agli ebrei e ai cristiani: - Radice delle due dottrine è la ribellione. - I cristiani rifiutano la ragione e la scienza. - E’ assurdo pensare che Dio possa scendere fra gli uomini per salvarli. - E’ assurdo pensare che Dio si preoccupi in particolare degli uomini e che il creato sia in funzione dell’uomo. Parte III: Critiche alla dottrina cristiana. - I cristiani non danno dimostrazioni sui contenuti della loro dottrina, ma esigono solo una cieca fede e ritengono stoltezza la scienza. - L’umiltà, la povertà, il regno dei cieli dei cristiani sono corruzioni di concezioni greche. - La magia è la massima espressione della sapienza cristiana. - La vera guida che ci conduce a Dio: Platone. -Superiorità degli eroi greci rispetto a Gesù. - Porgi l’altra guancia, l’aveva detto meglio Platone. Parte IV: La pericolosità dei cristiani. - I cristiani non rispettano la religione tradizionale. - In quanto uomini, dovrebbero essere grati alle divinità che amministrano le cose terrene. - In quanto sudditi, dovrebbero onorare l’imperatore, del quale, invece, suscitano la collera. - Esortazione finale ai cristiani perché si comportino da cittadini leali. Vediamo, in particolare, qualche testo di Celso, sopra menzionato. Circa la nascita e i genitori di Gesù: “T’inventasti la nascita da una vergine: in realtà tu sei originario da un villaggio della Giudea e figlio di una donna di quel villaggio, che viveva in povertà filando a giornata. Inoltre costei, convinta di adulterio, fu scacciata dallo sposo, falegname di mestiere. Ripudiata dal marito e vergognosamente randagia, essa ti generò quale figlio furtivo. Spinto dalla povertà andasti a lavorare a mercede in Egitto, dove venisti a conoscenza di certe facoltà per le quali gli Egiziani vanno famosi. Quindi ritornasti, orgoglioso di quelle facoltà e grazie ad esse ti proclamasti Dio. Tua madre, dunque, fu scacciata dal falegname, che l’aveva chiesta in moglie, perché convinta di adulterio e fu resa incinta da un soldato di nome Pantera. Ma l’invenzione della nascita da una vergine è simile alle favole di Danac, di Melanippe, di Auge e di Antiope. Ma era forse una bella donna tua madre e, appunto perché bella, a lei si unì Dio, che pur non è portato ad amare un corpo corruttibile? Non sarebbe stato neppure verisimile che Dio si fosse innamorato di lei. Ella non era donna di condizione ricca o regale, dal momento che nessuno la conosceva, nemmeno i vicini, e una volta venuta in odio al falegname e ripudiata, non la salvò né la divina Potenza né il Verbo della Persuasione. Tutto questo, dunque, non ha nulla a che vedere col regno di Dio” (pp. 81-83). I cristiani esigono una fede cieca e ritengono stoltezza la scienza: “Platone dunque non è un millantatore e non sostiene, mentendo, di scoprire qualche novità e di annunciarla venendo dal cielo, ma dichiara apertamente da dove trae queste conclusioni. I cristiani invece, a tutti quelli che loro si accostano, dicono: ‘Prima di tutto devi credere che colui che io ti presento è il figlio di Dio, anche se è stato ignominiosamente incatenato e turpemente giustiziato, e anche se ieri e l’altro ieri alla vista di tutti veniva sballotto lato nella maniera più vergognosa: proprio per questo ancor più abbi fede’. Ma qualora questi proponessero come Dio costui ed altri un altro, e tutti però allo stesso modo fossero pronti a dire: ‘Se vuoi salvarti, credi, altrimenti vattene’, che faranno dunque quelli che veramente vogliono salvarsi? Dovranno indovinare, tirando a testa e croce, da qual parte volgersi e a chi accostarsi? I Cristiani sostengono che la sapienza umana è stoltezza davanti a Dio. Ne abbiamo già esposto il motivo: essi vogliono trarre dalla loro solo gli incolti e gli stolti. Di ciò ho già parlato sopra, ma ora voglio dimostrare che questa affermazione è stata dai cristiani modellata e ripresa da quei sapienti della Grecia che affermarono che altro è la sapienza umana, altro quella divina. Per esempio Eraclito dice: ‘L’umana natura non possiede conoscenze, quella divina sì’. E ‘L’uomo si sente dare dell’infante dalla divinità, così come il bimbo dall’uomo’. E nell’Apologia di Socrate Platone scrive così: ‘Io, o Ateniesi, ho avuto questo nome per nient’altro se non per via della sapienza. Ma qual è poi questa sapienza? Una sapienza umana forse ed è in essa in realtà che io probabilmente sono saggio…’. L’antichità di questa distinzione risale dunque ad Eraclito ed a Platone. I cristiani però espongono i contenuti della sapienza divina alla gente più ignorante e agli schiavi. Ma essi sono ciurmatori e davanti alle persone perbene, ben sapendo che non son disposte a lasciarsi ingannare, fuggono a rotta di collo, mentre fanno il richiamo ai più grossolani” (pp. 2001-2003). 3. Clemente Alessandrino: fede cristiana e filosofia J. Daniélou ha ampiamente dimostrato, al contrario di quanto affermava Harnack, che la teologia cristiana non è nata dall’incontro con l’ellenismo, e, ancor meno, che la teologia sia l’ellenizzazione del cristianesimo. Elementi di teologia cristiana sono già presenti nel giudeo cristianesimo, soprattutto attraverso la gnosi delle apocalissi giudaiche. Nel giudeo cristianesimo la formulazione teologica prenderà la forma apocalittica (sarà una teologia visionaria). Nel mondo ellenistico, l’incontro della fede cristiana con la filosofia, porrà le basi per la formulazione concettuale del dogma cristiano. L’autore cristiano che per la prima volta affronterà tale problema è Clemente Alessandrino. L’ambiente in cui vive Clemente, il cristianesimo alessandrino, era fortemente condizionato dallo gnosticismo. Poco si sa del cristianesimo dell’epoca precedente a Clemente. La linea di demarcazione tra ortodossia ed eresia non era così netta come in ambienti della Chiesa asiatica e italiana. Il tentativo di Clemente è rendere più chiara questa linea di demarcazione senza però cedere alle pressioni di chi guardava con sospetto oltre che allo gnosticismo anche alla filosofia e alla cultura classica in genere. Per la prima volta nella Chiesa, con Clemente, si pone, con metodo, la questione se e fino a che punto è bene utilizzare la filosofia al servizio della fede cristiana. Già prima di lui tale problema era stato posto e affrontato da Giustino e Taziano in forma diametralmente opposta l’uno dall’altro. Entrambi comunque hanno utilizzato il vocabolario della filosofia greca. Ma è con Clemente che questa utilizzazione acquista coscienza di ciò che essa implica. Nell’opera intitolata Stromata (letteralmente: Tappezzeria) egli si rivolge a quei cristiani che per un motivo o per un altro avversano la filosofia. Nel I libro spiega chiaramente quale è il motivo della composizione dell’opera: “Questi Stromati racchiuderanno pertanto la verità mescolata alle teorie dei filosofi, o meglio inviluppata e nascosta in esse, come nel guscio la parte commestibile della noce: è conveniente, mi pare, che i semi della verità sian lasciati in custodia ai soli coltivatori della fede. Non mi sfugge poi quello che è sempre ripetuto da certi pavidi ignoranti: sostengono l’opportunità di occuparsi delle cose più essenziali, cioè di quelle che contengono la fede, e di trascurare quanto è estraneo e superfluo come travaglio per noi inutile, che ci impegna nelle attività che non servono al nostro scopo. Alcuni anzi sono d’avviso che la filosofia è penetrata nella nostra vita provenendo dal maligno, escogitata da un malvagio inventore a rovina del genere umano. Io mostrerò al contrario lungo questi Stromati che il vizio, sì, ha una natura malvagia e non potrà mai adattarsi a coltivare un bene qualsiasi, e lascerò capire in certo modo che fra le opere della divina provvidenza è anche la filosofia” (Strom. I,1,18). Nei confronti di coloro che avevano paura della filosofia, come i compagni di Ulisse delle sirene, egli dice: “Purtroppo, a quanto pare, i più di coloro che si fregiano del nome (di cristiani), come i compagni di Ulisse, coltivano il Logos goffamente: essi passano oltre, non alle sirene, ma al ritmo e alla melodia, dopo essersi turati le orecchie per ignoranza, giacché sono persuasi che, una volta che abbiano porto orecchio alla sapienza greca, non potrebbero poi più trovare la via del ritorno. Chi invece sa delibare ciò che serve al profitto dei catecumeni, specialmente se sono greci (“del Signore è la terra e ciò che la riempie” (Sal. 23,1), non deve rifiutare l’amore del sapere, a mo’ di animali privi di ragione, ma deve piuttosto raccogliere dappertutto ciò che può aiutare i suoi ascoltatori” (Strom. VI,11,89). Clemente aveva di mira soprattutto una categoria di cristiani che consideravano l’impegno umano e dunque il sapere umano completamente inutile ritenendo solo la fede quella che è necessaria e rende perfetti: “Senonché alcuni ritenendosi già ben dotati da natura non vogliono accostarsi né alla filosofia, né alla dialettica e nemmeno apprendere la scienza naturale: essi rivendicano la sola e semplice fede, come se, senza essere presa nessuna cura della vite, volessero coglierne subito da principio i grappoli. ‘Vite’ è detto per allegoria il Signore, dal quale bisogna vendemmiare il frutto, per mezzo di cura e arte della coltivazione (condotta) secondo le norme razionali…” (Strom. I,9,43). (Interessante leggere tutto il capitolo 9). A tutte queste difficoltà, Clemente cerca di dare una risposta. Egli non esita di mettere subito in evidenza i limiti propri della filosofia. Quest’ultima, necessaria per la salvezza dei pagani prima della venuta di Cristo, dopo la venuta di Cristo non è più indispensabile, essendo stata sostituita dalla fede. Per la salvezza è necessaria solo la fede. La filosofia è soltanto utile. Alla verità dà accesso solo la fede; la filosofia da sola non ne è capace: “La dottrina del Salvatore è esauriente e sufficiente a se stessa, poiché è ‘potenza e sapienza di Dio’; la filosofia greca, se vi si accompagna, non perciò rende più valida la verità, ma rende inefficaci gli attacchi della sofistica contro di essa e respinge le ingannevoli insidie tese alla verità…” -(Strom. I,20,97). Clemente, dunque, riconosce alla filosofia (intesa in senso storico, come un insieme delle discipline appartenenti alla paideia concernenti il corretto esercizio del pensiero) un ruolo subordinato ma reale per il cristiano. Soprattutto la filosofia è di aiuto per precisare il contenuto della fede ed evitare l’eresia. Il dato della fede ha bisogno d’essere interpretato. Clemente vede nel buon uso della dialettica un valido aiuto per la fede perché la mette al riparo dagli attacchi dei sofisti. (Cfr Strom. I,20,100). Ma quale era la filosofia al tempo di Clemente? Nel libro VIII degli Stromata egli ci ragguaglia sulle sue fonti. Studi di R. E. Witt hanno individuato tali fonti in Antioco d’Ascalona, vale a dire, al platonismo medio sincretista del I sec. a. C., lo stesso che si ritrova in Cicerone. Clemente diventa una fonte preziosissima della filosofia del II sec. del cristianesimo. Per Clemente punto di partenza che accomuna filosofia e fede è che all’origine della filosofia c’è una zetesis (ricerca) così come c’è nel cristianesimo (Cfr. Mt 7,7: “Cercate e troverete”). Più precisamente si può dire: all’interno della fede c’è posto per una ricerca (zetesis) che è intelligenza della fede, ed è la vera filosofia (Cfr Strom. I,5,32). Se la fede è sufficiente per la salvezza, è meglio comprendere ciò che si crede. Il punto più importante sul quale Clemente vuole convincere i cristiani scettici verso la filosofia è che la cultura è un dovere. L’ideale della paideia viene da lui trasferito nel cristianesimo. Egli è convinto che una fede istruita aiuti a vivere moralmente meglio: “Aderire a quanto detto in modo giusto e distogliersi da ciò che non lo è, non è semplicemente opera della fede, ma della fede istruita” (Strom. I,6,35). A Clemente sta molto a cuore l’immagine della vigna, che è il simbolo della sinergia. Dio ha piantato la vigna che è la fede, ma spetta all’uomo il dovere di coltivarla. Ma qual è l’oggetto della ricerca (zetesis)? E’ la scienza (episteme), vale a dire l’acquisizione solida che è fondata sulla dimostrazione. Per Clemente ciò che è valido per la scienza lo è ancor più per la fede: “Ora gli alunni dei filosofi definiscono la scienza un abito non mutabile ad opera del ragionamento” (Strom. II,2,9). Questa definizione si applica pienamente alla gnosi cristiana: “…la Scrittura vuole sgomentarci nel modo più drastico, insegnandoci Dio che ci ha dato i comandamenti; ma pure delicatamente ci esorta a cercare Dio, a sforzarci di conoscerlo come più si può: ed è senz’altro la più grande contemplazione, quella mistica, la verace scienza, non mutabile mediante il ragionamento. Questa sola sarà la ‘gnosi’ della sapienza, da cui mai andrà disgiunta la pratica della giustizia” (Strom. II,10,47). Per Clemente la “gnosi” rappresenta il carattere essenziale della scienza (episteme) (Cfr Strom. VII,3,17). Molti altri testi riproducono in modo diverso lo stesso concetto (Cfr VI,18,162; VI,7,61; VI,9,77; I,2,20). La gnosi, la vera scienza è quella di Cristo. Alla gnosi cristiana si perviene partendo dalla tradizione (paradossi), cioè, l’insieme dei fatti e dei precetti trasmessi dalla Chiesa (Cfr Strom. VII,16,104,7). Questa tradizione contiene la vera filosofia, le verità ultime sulla realtà. Alla tradizione si aderisce con la fede, che è fondata sull’autorità della Parola di Dio, ma occorre poi fare i passi ulteriori, far passare la fede allo stadio di scienza (episteme), mediante la dimostrazione (apodeixis). Clemente riconosce due tipi di dimostrazione: la prima, quella umana, semplicemente congetturale, propria dei retori e dei sillogismi della dialettica; la seconda dimostrazione è quella superiore, scientifica, che fonda la fede mediante la presentazione delle Scritture a coloro che desiderano istruirsi (Cfr Strom. II,11,48). La dimostrazione fondata sulla Scrittura costituisce la trasformazione cristiana dell’apodeixis: “E forse la nostra dimostrazione è la sola vera, in quanto fornita da divine Scritture…” (Strom. II, 11,48). E’ il Signore stesso che introduce il discepolo nella vera scienza attraverso la Scrittura: i profeti, i vangeli e gli Apostoli (Cfr Strom. VII,16,95). La gnosi, dunque, è una scienza che a sua volta si ricava attraverso una dimostrazione. Il punto di partenza di questa dimostrazione è la S. Scrittura. Ma la S. Scrittura non è oggetto di dimostrazione ma di fede. Quale dunque il valore della fede da cui dipende tutta la dimostrazione? La dimostrazione, abbiamo visto, non può procedere all’infinito, deve essere fondata su dei principi indimostrabili. Nella filosofia classica questi principi indimostrabili sono dati dall’evidenza sensibile o intelligibile. Per Clemente la S. Scrittura sta al posto di questi principi primi indimostrabili. “Soltanto dalla fede ci si può attendere il principio delle cose” (Strom. II,4.13). A questo punto Clemente cerca di precisare la sua concezione di fede rispetto ai pregiudizi manifestati dai vari filosofi. Questi ultimi indicano la fede come una preconcezione (prólepsis) libera, un assenso della pietà (eusébeia) (Cfr Strom. II,2,8). Clemente valorizza questa concezione di fede manifestata dai filosofi e ne trae le conseguenze: “Invero non è ipotesi l’assenso volontario dato prima della dimostrazione, ma appunto assenso dato ad un’autorità valida. E chi più potente di Dio? L’incredulità è invece un’ipotesi debole dell’oggetto contrapposto, e resta sulla negativa, come la ritrosia a credere è l’abito di chi accetta con difficoltà la fede. La fede è ipotesi volontaria e ‘prolessi’ cioè anticipazione della comprensione, propria di uomo assennato; come attesa è rappresentazione di un futuro, mentre l’attesa degli altri è rappresentazione di una incertezza” (Strom. II, 27,4-28,1). Punto di partenza, allora è la fede (pistis), come preconcezione autorevole da cui si dispiega la dimostrazione (apódeixis) che conduce alla vera scienza (epistéme). Il logos che per gli stoici è il principio di dimostrazione, per Clemente è il Logos stesso. La differenza tra il semplice credente e lo gnostico consiste in una conoscenza più progredita della Scrittura, che approfondisce ciò che è già conosciuto e fortifica ciò che è già certo, in quanto il contenuto della gnosi è lo stesso di quello della fede, cioè, l’autorità del Logos. Pur sottolineando la superiorità della gnosi rispetto alla semplice fede (Cfr Strom. I,6,33), Clemente non si stanca di mostrare l’unità esistente tra gnosi e fede. La gnosi può essere chiamata fede, in quanto è lo sviluppo della stessa fede, e la fede può essere chiamata gnosi, in quanto è l’abbozzo della gnosi. E ancora: “Non c’è fede senza gnosi, né gnosi senza fede” (Strom. V,1,1); oppure “La fede dunque è, per così dire, una gnosi abbreviata dei principianti, la gnosi una dimostrazione solida e sicura di ciò che è stato colto con la fede, costruito sulla fede con l’insegnamento del Signore in vista dell’incrollabile e che procura la presa di possesso con scienza” (Strom. VII,10,57). Se la fede manifesta l’aspetto più soggettivo, la gnosi quello più oggettivo. La fede si basa sull’autorità del Logos; la conoscenza è fondata sulla dimostrazione e questa non è altro che la presentazione dei passi convergenti della S. Scrittura, la cui convergenza suscita la certezza. Clemente in ciò rimane nel solco della tradizione allo stesso modo di Ireneo nella sua Dimostrazione della predicazione apostolica. A differenza di Ireneo, Clemente introduce l’uso della dialettica[1] che conferisce più rigore alla dimostrazione e costituisce l’apporto principale di Clemente, il quale apriva così alla teologia nuove vie. Origene assumerà questo stesso impegno, traendo dalla filosofia non solo il metodo, ma anche il contenuto, portando, così, la teologia in una direzione piuttosto rischiosa. Il rapporto fede e filosofia in Clemente ricorda piuttosto Filone e Giustino. Come Filone, anche Clemente è convinto che la filosofia è una preparazione alla teologia, come la grammatica prepara agli studi superiori (Cfr Strom. I,5,30-32). Clemente non cita mai Giustino, ma non c’è dubbio che ha letto le sue opere. Come Giustino, Clemente riassume in Cristo tutta la saggezza. L’Antico Testamento e la filosofia sono come due affluenti dello stesso fiume, il cristianesimo (Cfr Strom. I,5,29). Cristo rappresenta la verità piena, le scuole filosofiche rappresentano una parte della verità. Clemente fornisce una giustificazione teologica del suo eclettismo filosofico, una miscela di metafisica platonica e di etica stoica insieme a logica e terminologia aristotelica. Egli conosce i filosofi e dalle antologie e dalle fonti dirette. Come Giustino, anche Clemente critica lo stoicismo per il suo panteismo e materialismo, aspetti questi inconciliabili con il cristianesimo. Manifesta vicinanza all’etica stoica, ad eccezione del suicidio e della compassione ritenuta dagli stoici una debolezza. In comune con lo stoicismo egli vede la concezione della vita come un viaggio da fare con un bagaglio sobrio, la concezione della felicità che si ottiene mediante la virtù morale interiore. Dall’ideale platonico del Teeteto, dell’uomo pienamente assimilato a Dio, lo stoicismo ricava l’ideale stoico secondo natura (Cfr Strom. II,19,100-101). Clemente sostituisce all’ideale stoico l’ideale dell’uomo che vive secondo Cristo (Cfr Strom. II,5,21). L’affinità tra la filosofia e il cristianesimo, questione che portò Giustino a confrontarsi senza però dare una risposta adeguata, porta Clemente ad elaborare la teoria secondo la quale la teologia naturale dei filosofi combacia con tanti testi dell’A. T. per il semplice fatto che la loro riflessione era il frutto di quella ragione donata da Dio. Clemente corregge l’idea di tanti cristiani messi in guardia da S. Paolo di stare attenti alla filosofia e alle vane astuzie, dicendo che l’Apostolo si riferiva alla cattiva filosofia. Il fatto che Paolo citi Arato, Epimenide e Menandro dimostra che egli non aveva alcun timore della cultura classica (Cfr Strom. I, 11,51. 19,91). La convinzione che i greci scoprirono molte verità è giustificata dall’altra convinzione che i Greci plagiarono l’A. T.[2] Il tema del plagio è particolarmente sviluppato da Clemente, più in linea con Taziano che con Giustino. Giustino limita le verità che Platone avrebbe da Mosè, Clemente, invece allunga la lista delle verità plagiate dai filosofi forse per farsi ben volere da quei cristiani che osteggiavano la filosofia. Pur tuttavia, Clemente, nei confronti dei filosofi pagani, è meno critico di Giustino. In particolare l’accettazione del platonismo è più profonda rispetto a Giustino, a causa dell’influsso di Filone, ritenendo che molte dottrine platoniche siano sostenute dall’autorità della Bibbia. Troviamo, comunque, in lui una netta distanza dallo stoicismo e dal platonismo circa la dottrina del Creatore trascendente, dalla cui volontà e provvidenza dipende tutta la creazione. Clemente afferma con chiarezza che la creazione è stata fatta dal nulla (Cfr Strom. V,14,89. 92.126). [1] Contro i cristiani oscurantisti che considerano la logica come un’invenzione del demonio, Clemente replica che ciò è impossibile perché Satananon riuscì a scoprire un’astuta ambiguità nel corso del colloquio con il Signore nel deserto (Cfr Strom. I,44,3-4). Sul valore della logica Clemente cita Platone, Repubblica 534E (Cfr Strom. VI,10, 81,4. 17,156,2). [2] Il tema del plagio in Clemente è ricorrente: Strom. I,66ss; V,86ss.