La filosofia dopo Auschwitz Se il problema delle circostanze storiche (materiali, tecniche, burocratiche, giuridiche) in cui è avvenuto lo sterminio degli ebrei può considerarsi oggi sufficientemente chiarito ben diversa è la situazione per quanto concerne il significato etico e politico dello sterminio o anche soltanto la comprensione umana di ciò che è avvenuto , cioè, -in ultima analisi- la sua attualità. Nonostante teologi e filosofi si siano prodigati a chiarirne i significati è abbastanza evidente che non soltanto manca uno strumento intellettuale che ci permetta di comprendere a fondo la Shoà, ma anche il senso e le ragioni del comportamento dei carnefici e delle vittime e, molto spesso, le loro stesse parole continuano ad apparirci come un enigma. L'impossibilità di una teodicea dopo Auschwitz , che significa una volta per tutte, la patente contraddittorietà fra l'onnipotenza di Dio e la sua infinita bontà è stata oggetto della precedente relazione , mentre a me preme affrontare la necessaria ridefinizione dell' indagine filosofica, dei suoi obiettivi e del suo ruolo dopo Auschwitz, per evitare quel conflitto della ragione con se stessa, che per Kant rappresentava l' esito finale del fallimento della metafisica come impresa realmente conoscitiva. O, almeno, si deve dare per definitivamente tramontata e ,quindi, improponibile una filosofia che volesse proporsi come salvaguardia o testimonianza della tradizione cristiana, o industriarsi a preparare i preamboli della fede come pure una filosofia che ambisse a rimanere nel " circolo ermeneutico" della tradizione cristiana - del depositum fidei- che ha condizionato profondamente tutta la filosofia occidentale. La filo -Sofia, quella senza aggettivi, comincia esattamente dove questi tre modi di pensare comunque condizionati essenzialmente dalla fede, o -come nel caso della nascente filosofia grecanon sono ancora cominciati, o sono stati sospesi da un' epoché che si sforzi di essere quanto più possibile radicale. Ed è proprio questo il senso di quel "sapere aude" che accompagna necessariamente ogni ricerca filosofica, quello da cui significativamente il giovane Agostino si congedò per aprirsi la via verso la " filosofia cristiana". La " testimonianza " della filosofia è portatrice di un ethos destinato a rimanere eterogeneo rispetto a quella che già Aristotele chiamava una disposizione (diathesis) interiore che colui che va verso Dio deve patire (pathein) piuttosto che "conoscere" (mathein); sia rispetto ad ogni forma di intellectus fidei , ossia alle "mediazioni" o punti di equilibrio possibili che il teologo, il filosofoteologo-ermeneuta o le Chiese ritengono di dover stabilire tra fede e filosofia, muovendosi appunto già all' interno del "patimento" di Dio. Le testimonianze sono due: fede e filosofia . Gerusalemme e Atene ci consegnano due forme di sapienza, che risultano eterogenee alla radice. La tensione fra "dimostrazione razionale" e "dono di Dio" trova in Pascal il suo acme: " La fede è differente dalla dimostrazione: l'una è umana, l'altra è un "dono di Dio" [.....] e fa dire non” scio” ma “credo". E non è l' esercizio della ragione a far trovare Dio a Pascal, ma al contrario sono la grazia e la fede, che non sono un " dono del ragionamento" ma di Dio, a consentirgli di uscire dal piano dell'umana ricerca della verità e della sopportazione dei suoi esiti incerti. Non il ragionamento che " non vi arriva mai", ma la fede gli ha fatto trovare una risposta capace di soccorrere i dubbi e le inquietudini dello stesso credente: " Guardo da tutte le parti e vedo per ogni dove solo oscurità. La natura non mi presenta nulla che non sia materia di dubbio e di inquietudine...", offrendoci così una delle testimonianze più significative del travaglio cui va incontro ogni fede che conosca anche il dubbio e l' incertezza della scepsi filosofica. Ma ora, dopo Auschwitz , è ancora possibile scommettere su un Dio così oscenamente impotente o così ostinatamente maligno? Ma se nessun Dio ci può salvare, non ci resta che ascoltare l'invito di Nietzsche : "Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze". A questo ciclo eterno di nascite e di morti, in cui ogni forma d'esistenza raggiunge il proprio compimento ( telos) alla fine del suo ciclo, dove si estingue per consentire la nascita di nuove forme. Senza tentare di giocare a proprio vantaggio la legge del Tutto, perché la rovina dell'individuo sta proprio in questa tracotanza (hybris) , in questo oltrepassamento della misura, perché recita il mito: il dio manda in rovina chi si inganna circa la propria potenza. E allora la fine della storia , la fine di Tutto , le nostre esistenze stesse avranno un senso in questa profonda assenza di senso, fuori da quell' unico senso che noi stessi sapremo dare. E, in questo contesto, non sarà né deprimente né nichilista , semmai poetico e commovente, quello squarcio sugli ultimi tempi che Nietzsche così preannuncia e con il quale concludo: "In un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c'era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia del mondo: ma tutto durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Quando tutto sarà finito, non sarà avvenuto nulla di notevole". E così sia. Prof. Vito Balduccio