Donald Trump alla Casa Bianca, i primi 100 giorni di insuccessi Credit – Gage Skidmore Il presidente Trump in un’intervista alla Reuters racconta la fase iniziale della sua permanenza alla Casa Bianca, che giudica più difficile di quanto previsto. A dire il vero a complicarsi la presidenza è stato lui stesso, con decisioni più da imprenditore che da Capo di Stato. Ciò che Trump, in campagna elettorale, escludeva di fare, l’ha poi fatto da presidente ovvero puntare su un’agenda che guardava più alla politica internazionale che agli affari interni. L’ha fatto, fra l’altro, nel modo peggiore possibile, andando cioè a mettere il naso negli interessi della Russia in Siria, e in quelli cinesi con le minacce a Pyongyang. Le mosse che gli hanno fatto perdere credibilità: in tempi record dall’insediamento a Washington, Trump ha subito scalato la classifica dei presidenti meno amati di sempre, andando così a sgretolare anche lo zoccolo duro del suo elettorato. Donald infatti non è riuscito a portare a casa nessun risultato circa i suoi cavalli di battaglia tra cui il Travel Ban, bocciato da più giudici, la controriforma all’Obamacare, rigettata dagli stessi Repubblicani, e la costruzione del famigerato Muro al confine con il Messico. Quella che sembrava la priorità assoluta ha avuto un chiaro stop pochi giorni fa, quando lo stesso Presidente ha dovuto constatare che non erano reperibili fondi per la sua costruzione. Se ne riparlerà dunque a fine anno o nel prossimo. Forse. La Crisi con la Corea del Nord e il rapporto con la Cina: Il rapporto con la Cina, al contrario della Russia, non era iniziato sotto i migliori auspici. Già prima del suo insediamento alla Casa Bianca, il Presidente Eletto aveva avuto delle schermaglie con il governo cinese a causa della telefonata con la Presidente di Taiwan, mettendo così in discussione il concetto della “One-China Policy”, l’integrità di una sola Cina. La visita del Presidente Xi Jinping in Florida ha però avvicinato i due leader nonostante la crisi coreana. Anzi, proprio questa ha aiutato Trump a superare la diffidenza nei confronti dell’omologo cinese che in queste ore sta pressando il leader della Corea del Nord Kim Jong-Un. Una soluzione diplomatica alla crisi nordcoreana secondo Trump è difficile; ora bisogna capire se la sua è solo tattica oppure se vuole davvero rischiare di mettere in pericolo la vita di migliaia di persone a Seoul. Sempre nell’intervista alla Reuters, Trump afferma che sarà La Corea del Sud a pagare per il dispiegamento dello scudo anti-missile Thaad, ma da Seoul rispondono picche. Secondo i sudcoreani il costo è a carico degli Usa in quanto, secondo i trattati, loro mettono a disposizione le basi e gli Stati Uniti gli armamenti. NordCorea, Trump frena sui raid aerei Trump rompe il silenzio sulla crisi della Corea del Nord e lo fa alla sua maniera, su Twitter: “Perchè dovrei chiamare la Cina un manipolatore di valuta quando sta lavorando con noi sul problema nordcoreano? Vediamo cosa succede!”, ha scritto alle otto di mattina il presidente Usa dalla sua residenza di Mar-a-Lago. Seguito da un semplice: “Buona Pasqua a tutti”. La pressione della Cina su Pyongyang è, secondo tutti gli analisti, l’unica strada possibile per una soluzione della crisi: i cinesi sono gli alleati numero uno del regime, anche se negli ultimi mesi la distanza fra le due Capitali è cresciuta sempre di più. E i nordcoreani sono andati verso posizioni via via più estreme che non sono piaciute a Pechino. Che la strada che si sta cercando di percorrere sia questa lo ha confermato anche il consigliere per la Sicurezza Nazionale H. R. McMaster, arrivato oggi a Kabul dopo che gli Usa hanno usato nei giorni scorsi in Afghanistan una bomba Moab, il più potente ordigno non nucleare del loro arsenale contro un gruppo alleato allo Stato Islamico. “C’è un consenso diffuso a livello internazionale, e questo comprende la Cina e i suoi dirigenti, sul fatto che la situazione in Corea del Nord non può durare così”, ha detto in un’intervista alla Abc registrata prima di partire. E ancora: “La Corea del Nord è un regime ostile che porta avanti un comportamento provocatorio”. Di Corea del Nord si sta occupando anche il vicepresidente Mike Pence, che oggi da Seul ha iniziato il suo tour di dieci giorni in Asia: Pence ha definito “una provocazione” l’ultimo, fallito test missilistico nordcoreano. Un missile lanciato nella notte fra sabato e domenica da una zona sulla costa orientale nordcoreana ed esploso a mezz’aria: il fallito test è avvenuto mentre il suo aereo, l’Air Force Two, era in volo sopra il mare di Bering, da poco decollato dall’Alaska. Secondo alcuni analisti a interromperne la traiettoria potrebbe essere stato un cyberattacco degli Stati Uniti, ma la voce non trova al momento alcuna conferma ufficiale. affaritaliani.it Usa, allertati 150mila riservisti. Trump si prepara per la guerra Sta per iniziare una vera guerra? I segnali che giungono in queste ore sono molto allarmanti. L’esercito americano sta inviando in queste ore a 150 mila riservisti delle lettere con un preavviso di mobilitazione. L’annuncio ufficiale del ministero della Difesa dovrebbe essere dato a breve, ma alcuni riservisti che hanno già ricevuto la missiva lo stanno raccontando ad amici e parenti, i quali iniziano a far circolare le notizia. Secondo queste indiscrezioni provenienti dagli Stati Uniti, si legge su http://www.cdt.ch, l’obiettivo del Pentagono sarebbe di poter disporre di questa forza entro un paio di settimane dall’annuncio della mobilitazione vera e propria. Il messaggio che viene lanciato in queste ore è chiaro: decisioni potrebbero essere imminenti, tenetevi pronti a partire. Centocinquantamila riservisti: per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? La svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin. E non è un caso che Assad, il governo iraniano e il Cremlino in queste ore abbiano dichiarato che “l’attacco americano alla base siriana ha superato molte linee rosse che da adesso in avanti “risponderemo con la forza a qualunque aggressione”. Questo significa che Putin ha perso ogni speranza di raggiungere un accordo con Washington. E che si prepara agli scenari peggiori. Fonte: www.affaritaliani.it Gli USA attaccano la Siria: lanciati 59 missili sulla base dei raid chimici Gli Stati Uniti hanno lanciato circa 60 missili Tomahawk verso la base aerea siriana di Al Shayrat, quella da dove sarebbero partiti i jet di Bashar al Assad che hanno portato alla strage di Khan Sheikhoun in cui sono morte più di 80 persone, fra cui 28 bambini, e le cui immagini sono ancora vive dagli agli occhi del mondo. La tv di Stato siriana ha confermato l’attacco missilistico americano, definendolo una “aggressione” che ha anche “provocato vittime”, almeno quattro secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani. L’orario indicato dell’impatto è delle 20.45 ora di Washington (le 2,45 in Italia), le prime ore del mattino in Siria. Poi è arrivato l’annuncio del Presidente americano: “Questa sera ho ordinato un attacco mirato contro la base da cui è partito l’attacco chimico. E’ un interesse vitale degli Stati Uniti prevenire e fermare la diffusione e l’uso di armi chimiche mortali”, ha detto Trump che era a cena con il presidente cinese Xi Jinping, nel resort di Mar-a-Lago in Florida. La Siria, ha aggiunto, “ha ignorato gli avvertimenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu” perché “non si possono discutere le responsabilità della Siria nell’uso delle armi chimiche”. E ancora: “Nessun bambino dovrebbe soffrire” come hanno sofferto quelli siriani. E si è poi rivolto “a tutte le nazioni civilizzate” per chiedere di interrompere il bagno di sangue in corso: “Il mondo – ha detto Trump – si unisca agli Usa per mettere fine al flagello del terrorismo”. http://www.fanpage.it Turismo. Cala l’interesse per gli Stati Uniti in salsa Trump Dopo il “travel ban”, la restrizione degli ingressi a persone e il “goods ban”, l’imminente aumento dei dazi per i beni provenienti dall’estero, cala l’interesse per gli Stati Uniti come meta turistica. A renderlo noto è il World Travel &Tourism Council, l’organizzazione mondiale che tiene assieme i più grandi attori del turismo internazionale, che sottolinea come già si percepiscano i primi segnali di anti-americanismo tra i viaggiatori. A confermare il trend è anche Dara Khosrowshahi, amministratore delegato di Expedia che, in un’intervista al Financial Times, spiega come l’industria turistica americana si stia preparando ad un calo di interesse internazionale. A contribuire alla perdita di fascino ci sarebbe anche il rafforzamento del dollaro (a causa dell’aumento dei tassi di interesse da parte della Fed), ma ciò non sarebbe da solo giustificabile, dal momento che sia hotel che compagnie aeree hanno già provveduto ad abbassare i prezzi per tentare di arginare il calo. La motivazione principale sarebbe invece attribuibile alle manovre scriteriate del presidente Trump e della sua Amministrazione. Se è vero che il Presidente americano perde internamente sempre più consensi, è anche vero che all’estero risulta difficile metabolizzare un passaggio al vertice così brusco, da un presidente del calibro di Obama (con anche le sue incompiute) a un goffo imprenditore impulsivo che prima prende le decisioni e poi ne studia le conseguenze. Il travel ban è stata la prima mossa che ha mostrato le vere intenzioni politiche di Trump ed anche il primo atto a veicolare una pubblicità largamente negativa verso la nuova Amministrazione, quindi verso gli Stati Uniti come nazione e meta turistica. Cercare di rimuovere l’Obamacare e il sostegno ai più deboli (riforma peraltro bocciata dagli stessi repubblicani al Congresso), innalzare i limiti d’inquinamento, reintrodurre pericolosi pesticidi banditi dal presidente Obama e aumentare i dazi alle importazioni sembrano, anche agli occhi dei viaggiatori di tutto il mondo, mosse anacronistiche fuori dalla realtà, sicuramente lontane da un Paese democraticamente e civilmente avanzato. Per tutte queste ragioni compagnie aeree e hotel hanno già abbassato i prezzi per voli e soggiorni, ma secondo Dara Khosrowshahi, iraniano trasferitosi negli USA nel 1978 con la famiglia, ciò non sarà sufficiente: “…Le cose sono due: o si abbasseranno i prezzi per tenere i volumi alti oppure questi scenderanno. Vogliamo far capire alla nuova Amministrazione che è nel nostro interesse economico mostrare una faccia aperta e amichevole al mondo”. Clima, Wwf contro Trump: “Accordi di Parigi irreversibili, rispettare impegni” ROMA – Il governo degli Stati Uniti ha annunciato di voler retrocedere rispetto ad alcuni elementi che compongono la strategia per assolvere ai propri impegni sul clima, assunti in seguito all’accordo di Parigi. Questo atto dell’amministrazione Trump include passi per smantellare il Clean Power Plan, una componente chiave del piano degli Stati Uniti per raggiungere i suoi impegni di riduzione delle emissioni di gas serra. “Gli ostacoli posti agli interventi degli Stati Uniti per raggiungere i propri impegni internazionali avranno un impatto sulla traiettoria mondiale sul clima, ma non definiranno il suo esito“, ha dichiarato il Leader globale del programma Clima ed Energia del Wwf, ManuelPulgar Vidal. “La capacità di mantenere le promesse dell’Accordo di Parigi- ha proseguito- non si basano sulle azioni di un governo da solo. Alla COP22 tenutosi a Marrakech lo scorso anno, il presidente francese Holland ha detto l’accordo di Parigi è un processo ‘irreversibile’. Siamo d’accordo“. Secondo il Wwf “La velocità e la dimensione della sfida del clima ha sempre richiesto soluzioni globali che coinvolgano tutta la comunità internazionale. È compito di tutti riaffermare l’impegno per un futuro di energia pulita e di rispettare gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Le aziende e le città non sono rimaste a guardare, stanno già agendo. Portare avanti l’accordo di Parigi significa più posti di lavoro, meno problemi di salute e un maggiore accesso a fonti più pulite e più economiche di energia elettrica. Non abbiamo tempo da perdere: lo slancio rimane dalla nostra parte e, insieme, siamo inarrestabili”. “Le nazioni più importanti del mondo si sono unite negli ultimi anni per affrontare la minaccia del cambiamento climatico e per creare milioni di nuovi posti di lavoro legati a un’economia basata sull’energia rinnovabile”, ha detto Carter Roberts, presidente e Ceo del Wwf USA. “La leadership dagli Stati Uniti- ha aggiunto- si è rivelata fondamentale in questo successo. Oggi più di 3,3 milioni di americani sono impiegati in lavori legati alla costruzione di veicoli a basse emissioni di carbonio, alla riduzione degli sprechi di energia e alla fornitura di energia pulita: negli Stati Uniti, questi settori danno più occupazione di tutti quelli dei combustibili fossili messi insieme. La retromarcia degli Stati Uniti nei tagli previsti rispetto all’inquinamento da carbonio danneggia non solo il futuro dei nostri figli e nipoti, ma mina la capacità degli USA di competere nella forte crescita della domanda di energia rinnovabile in tutto il mondo”. “Come dimostrano recenti sondaggi della università di Yale- ha aggiunto-, la maggioranza degli americani in ogni parte del paese sostiene i tagli alle centrali inquinanti. Questa decisione è in contrasto con le azioni significative già intraprese in tutti gli Stati Uniti dalle aziende, dagli stati, dalle città e dalle comunità locali, che stanno creando un futuro alimentato da energia pulita, e che ora dovranno assumere la leadership nella battaglia sul clima per conto degli Stati Uniti senza il supporto del governo federale”. “In un mondo reso certo dagli accordi tra gli Stati- ha concluso il ceo del Wwf- la decisione statunitense annullerebbe l’attuale piano statunitense per rispettare gli impegni degli Stati Uniti nel quadro dell’accordo di Parigi, senza fornire alternative. Sollecitiamo, quindi, con forza il presidente Trump e la sua amministrazione a sviluppare un piano chiaro ed efficace per rispettare gli impegni internazionalisottoscritti dagli USA e salvaguardare l’economia; li esortiamo a proteggere il popolo americano e le comunità, come richiesto dal Clean Air Act”. Agenzia Dire – www.dire.it Trump contro i prodotti Ue e italiani. Nel mirino anche la Vespa e l’acqua San Pellegrino Un’imposta commerciale al 100% su tutte le importazioni negli Usa di diversi prodotti Made in UE: dalla regina delle acque minerali francesi, la Perrier, passando per il Roquefort e altri noti formaggi francesi, il foie gras, poi le moto leggere di fabbricazione europea come le svedesi Husqvarna e le austriache Ktm, fino ad uno dei simboli del boom economico italiano, la Vespa Piaggio, e anche l’acqua minerale San Pellegrino, di proprietà della Nestlé. Il protezionismo del Presidente americano Donald Trump si concretizzerebbe così, secondo un articolo del Wall Street Journal. Il tycoon newyorkese nel suo discorso di insediamento aveva già lasciato intendere l’intenzione di erigere barricate tra i “suoi” Stati Uniti e tutto ciò che viene da fuori, non solo dal punto di vista razziale, ma anche commerciale. Negli ultimi mesi l’amministrazione Trump aveva manifestato il desiderio di proteggere i confini, le industrie e l’economica USA attraverso la futura imposizione di dazi doganali di quasi il 50% sui prodotti provenienti dalla Cina. Ora però, il principale quotidiano economico del Paese parla anche dei prodotti economici, segnalando che si tratterebbe di una sorta di ritorsione contro il bando europeo sulla carne di manzo americana trattata con gli ormoni. “Il caso della carne fornirà un’indicazione su quanto l’amministrazione intenda essere aggressiva con i partner commerciali”, ha osservato il WSJ. Il contenzioso USA-UE sulla ‘carne agli ormoni’ risale al 1998. Nel corso degli anni Bruxelles e la Casa Bianca aveva trovato un accordo per cui l’Ue aveva acconsentito ad aprire il suo mercato alla carne americana non trattata con gli ormoni. Ma secondo i produttori Usa, il mercato Ue non sarebbe stato adeguatamente aperto. La Commissione Ue aveva quindi proposto di risolvere la controversia nell’ambito dell’accordo commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) poi naufragato lo scorso mese di settembre. Stando ai dati del dipartimento del Commercio americano, la carne è tra i settori economici più importanti negli USA: l’esportazione vale 6 miliardi di dollari l’anno con un indotto di 7,6 miliardi che garantisce 50.000 posti di lavoro. Nel frattempo, nel 2015 il Congresso americano ha approvato la legge che rende più semplice l’utilizzo di dazi punitivi sulle importazioni. Ma se quanto ipotizza il Wall Street Jornual dovesse essere realmente messo in atto i prodotti importati subirebbero un rincaro fortissimo che finirebbe per ripercuotersi direttamente sulle imprese americane e di conseguenza anche sulle famiglie. Il protezionismo trumpiano infatti porterebbe ad un sicuro aumento dei prezzi (risultato dell’alto costo della “manodopera”, visto che numerosi prodotti definiti “made in USA” vengono infatti assemblati o direttamente prodotti in aziende cinesi, vietnamite e messicane, dove il costo del lavoro, è drasticamente più basso) e da una diminuzione dei salari reali, nonché da effetti a medio-lungo termine sull’occupazione. Fonte: http://www.fanpage.it l direttore dell’Fbi smentisce Trump: accuse a Obama sono false Dopo le accuse lanciate dal presidente americano Donald Trump all’ex inquilino della Casa Bianca Barack Obama il direttore dell’Fbi, James Comey, ha chiesto al Dipartimento di giustizia di respingere pubblicamente le affermazioni del tycoon secondo cui Obama avrebbe ordinato di intercettarlo alla Trump Tower prima delle elezioni. Lo riporta il New York Times, secondo cui Comey ha sottolineato come le accuse di Trump siano false e devono essere corrette. Per il momento, dal Dipartimento di giustizia non è arrivato alcun commento. Ha invece commentato le accuse di Trump, definendole “un insulto”, Nancy Pelosi, leader dei democratici alla Camera dei rappresentanti del Congresso americano. Con una serie di tweet il presidente americano ha sostenuto, senza comunque fornire alcuna prova, che il suo predecessore avrebbe fatto sorvegliare le sue comunicazioni telefoniche prima del voto negli Stati Uniti. Trump insiste e chiede al Congresso di valutare se l’amministrazione Obama abbia commesso abusi – Dopo le accuse tramite Twitter Trump da parte sua ha chiesto al Congresso di indagare su possibili abusi di potere da parte dell’amministrazione precedente a ridosso delle elezioni presidenziali del 2016 che lo hanno portato alla Casa Bianca. “Le notizie riguardanti possibili indagini motivate politicamente prima delle elezioni del 2016 – si legge in una nota della Casa Bianca – sono un grande problema. Il presidente Trump ha quindi richiesto che, come parte delle loro indagini sull’attività della Russia, le commissioni intelligence del Congresso esercitino la loro autorità di vigilanza per appurare se nel 2016 c’è stato un abuso da parte del governo nell’uso dei suoi poteri esecutivi”. “Né la Casa Bianca – si legge ancora nella nota – né il presidente commenteranno ulteriormente la vicenda fino a che questa supervisione non sarà portata a termine”. Fonte: http://www.fanpage.it La Gran Bretagna si mobilita per bloccare la visita di Trump: “volgare e misogino” Centomila persone per le strade della capitale, alla Marcia delle Donne del 21 gennaio. Altre 30mila persone nelle strade di Londra, Newcastle, Edimburgo, Glasgow e Manchester, assieme a tutte le principali città il 30 gennaio. Per protestare contro Donald Trump. Non si tratta dell’America colpita dai provvedimenti razzisti del nuovo presidente e dal “muslim ban”: queste affollate manifestazioni sono avvenute negli ultimi giorni in tutto il Regno Unito. Da settimane in Gran Bretagna – nel paese che si appresta a lasciare l’Unione Europea dopo il referendum che poco più di 6 mesi fa aveva decretato la Brexit – migliaia di persone stanno scendendo in piazza contro Donald Trump. Il motivo? Impedire che al leader degli Stati Uniti sia permesso di venire nel paese per una visita di stato ufficiale con tutti gli onori, come annunciato dal premier Theresa May nella sua recente visita negli Stati Uniti. A seguito dell’annuncio della visita, infatti, è stata lanciata in rete una petizione ufficiale per impedire l’evento diplomatico: “La ben documentata misoginia e volgarità di Trump lo squalificano dall’incontrare la Regina e il Principe del Galles”, recita il testo della petizione creata da Graham Guest, avvocato britannico che alla stampa ha detto di essere soprattutto: “Preoccupato per la sua Regina”. Ma una petizione nata con spirito monarchico ha superato in poche ore il milione di firme, e in pochi giorni ha raggiunto quasi 2 milioni. Il 30 gennaio, si diceva, migliaia di persone sono scese nelle piazze di tutto il paese per protestare contro questa visita di stato, e per fare pressioni su Theresa May affinché condannasse i provvedimenti di Trump per il blocco dei musulmani negli aeroporti – e alla fine May ha dovuto ammettere: “Non siamo d’accordo”. Solo a Londra hanno manifestato 30.000 persone. Quello che sta succedendo nel paese non ha precedenti: anche a seguito del referendum per la Brexit, che ha spaccato il paese con una campagna referendaria piena di odio, le manifestazioni per rimanere dentro l’UE erano state partecipate, ma non quanto la recente Marcia delle Donne. Che a Londra ha visto la sua più grossa affluenza fuori dagli USA, con 100mila persone in piazza. Ora, intellettuali ed artisti del paese hanno lanciato un manifesto per una nuova grande manifestazione contro Donald Trump (la cui data deve essere ancora decisa). “Theresa May dovrebbe vergognarsi per avere stretto la mano a Trump”, ha spiegato alla BBC Clare Solomon, fra gli organizzatori della manifestazione di Manchester del 30 gennaio, che da sola ha coinvolto 3.000 persone. In questi giorni, infatti, sui social media britannici un’immagine di May che in visita alla Casa Bianca cammina mano nella mano col presidente Trump è diventata virale in rete, suscitato critiche e speculazioni. “Theresa the appeaser, Theresa la compiacente”, ha canzonato in parlamento il deputato della sinistra Stephen Pound, in un motto che è piaciuto molto al web. Fra i manifestanti di questi giorni, i cittadini di minoranze etniche e religiose molto diffuse nel paese – che a partire dagli anni ’60 ha avuto un grande afflusso di immigrati dai paesi del vecchio Commonwealth britannico: Pakistan, Bangladesh, India, Jamaica, Nigeria. Presenti anche gli attivisti delle comunità LGBTQ, che ora temono nuovi provvedimenti contro i gay da parte di Trump. Ovviamente, una grossa fetta di manifestanti è rappresentata dalle donne: la marcia delle donne, infatti, è stata la più grande manifestazione globale degli ultimi anni. Theresa May ha difeso l’invito al Presidente degli Stati Uniti: “Se non lo facessimo potremmo compromettere le trattative per un accordo fra i due paesi”, ha sostenuto May, che pochi giorni fa si era recata in visita da Trump – prima fra i premier di tutto il mondo – proprio per cercare di discutere un ipotetico accordo politico e commerciale fra UK e USA. Un accordo che, nelle intenzioni del premier, potrebbe mettere riparo agli eventuali danni di una “Brexit dura”, senza un nuovo accordo commerciale con i 27 paesi dell’Unione Europea. Trump ha sostenuto di voler fare un accordo: “Prima possibile, molto velocemente”, ma i dubbi sono tantissimi, troppi per poter sperare che si possa fare entro i due anni che servono al paese per uscire dall’UE. C’è la questione della sanità, ad esempio, pubblica nel Regno Unito e privata negli USA, che rimane un forte rischio. Il tema degli OGM, proibiti in Inghilterra ma non in America. E una miriade di leggi e regolamenti per cui servirebbero anni di discussioni e trattative. Di recente, infatti, May aveva delineato – dopo mesi di attese – la strategia del governo per procedere alla Brexit, accennando la possibilità che il paese possa anche decidere di uscire dall’UE senza trovare un nuovo accordo con questa. In quell’occasione, inoltre, Theresa May aveva spiegato che il Regno Unito sarebbe definitivamente uscito anche dal mercato unico europeo – e dunque procedendo alla strada nota come “Brexit dura”. Questa settimana il parlamento britannico ha votato l’autorizzazione a procedere con l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, e dunque alla richiesta formale e definitiva per uscire dall’UE. 498 parlamentari hanno votato per la Brexit, mentre solo 114 si sono schierati contro (50 del Partito Nazionalista Scozzese e 47 ribelli del Labour, il cui leader Jeremy Corbyn aveva imposto l’obbligo di votare a favore della Brexit). Nonostante l’indifferenza del premier Theresa May, tuttavia, il parlamento britannico ora è tenuto a discutere in aula la petizione per cancellare la visita di stato di Donald Trump: oltre le 100.000 firme la discussione diventa obbligatoria. Il raggiungimento di quasi 2 milioni di firme, dunque, è ben più che sufficiente perché il parlamento prenda in considerazione l’ipotesi. Il dibattito parlamentare è fissato per il prossimo 20 febbraio. Per quella data – o poco dopo – artisti, parlamentari ed intellettuali del paese stanno organizzando una nuova grande manifestazione. In una lettera inviata al quotidiano The Guardian sono tanti i nomi celebri a richiamare l’attenzione su una nuova manifestazione popolare. Fra loro le cantanti Lily Allen e Paloma Faith, il comico televisivo Frankie Boyle, Bianca Jagger, il giornalista e scrittore Owen Jones. “Vogliamo portare in piazza un milione di manifestanti”, dice il testo della lettera. Ma sembra improbabile che il governo possa tornare indietro su una relazione diplomatica così fondamentale per la Gran Bretagna che si appresta a uscire dall’Unione Europea. Il governo di Theresa May, inoltre, sembra spaventosamente vicino alle politiche xenofobe e discriminatorie di Trump. È stata May, dopotutto, ben prima che Trump fosse eletto Presidente, ad avanzare l’ipotesi che le aziende britanniche potessero stilare degli elenchi per identificare i propri dipendenti immigrati, con lo scopo di: “Svergognare le aziende che non assumono cittadini britannici”. Fu sempre May ad annunciare, solo pochi mesi fa, che dopo la Brexit il sistema sanitario nazionale avrebbe potuto licenziare in tronco i medici europei, per dare lavoro ai britannici. È stato il governo di May a decidere di usare i tre milioni di cittadini dell’UE residenti nel Regno Unito come “moneta di scambio” nelle trattative. Insomma, se nel paese si scende in piazza per protestare contro Trump, è vero che proposte simili sono state avanzate in maniera quasi identica da Theresa May. Ma se in America l’attenzione si è concentrata sui musulmani, in Gran Bretagna l’obiettivo delle discriminazioni sono immigrati e cittadini europei. A cui più volte il ministro degli interni ha intimato (illegalmente) di lasciare il paese a seguito delle richieste (legittime) di passaporto britannico. Secondo i numeri del Ministero degli Interni britannico le aggressioni razziste nel paese – che coinvolgono particolarmente i cittadini polacchi – sono aumentati del 41% nei mesi seguenti al referendum per la Brexit. L’organizzazione East European Resource Centre (EERC) sta cercando di sensibilizzare i cittadini europei dell’est residenti in UK a riportare i casi di violenze e aggressioni. Secondo il nuovo rapporto delle organizzazioni ebraiche del Regno Unito, inoltre, nel 2016 c’è stato un picco di aggressioni antisemite nel paese, con una crescita del 36% rispetto all’anno precedente. Insomma, sembra che a seguito della Brexit non solo il nuovo governo conservatore eletto, ha avanzato l’ipotesi di preoccupanti provvedimenti razzisti. Ma il clima paese, e l’insistenza del governo a non condannare questi episodi, ha legittimato violenti di ogni tipo ad agire liberamente. E allora, c’è da chiedersi cosa possa visita di stato di Trump, in un paese che già discrimina senza l’aiuto di partner Anche per questo, forse, migliaia di persone frustrate dalla situazione del paese piazza a manifestare in questi giorni. Fonte: http://www.fanpage.it di May, non politico del estremisti e cambiare la esteri. scende in Proteste agli scali negli Usa, anche i repubblicani contro il Muslim Ban Centinaia di manifestanti si sono affollati nei principali aeroporti degli Stati Uniti alla notizia del #muslimban, l’ordinanza firmata ieri dal PresidenteDonald Trump che blocca l’accesso agli immigrati provenienti da sette paesi a maggioranza islamica: Siria, Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Un giudice federale dello Stato di Brooklin è già intervenuto a bloccare il provvedimento, nel tentativo di porre fine al caos scoppiato negli scali americani e in altre capitali del pianeta, dove vari passeggeri – seppur provvisti di Green card – si sono visti negare il permesso a imbarcarsi. Non si tratta solo di rifugiati, ma anche di persone che negli Stati Uniti risiedono da tempo e hanno un impiego. Tra questi anche il regista iraniano Asghar Farhadi, autore del film ‘The Salesman’ (Il cliente) che corre per il Oscar 2017 che si terranno il 26 febbraio prossimo. A confermare la sua assenza tramite Twitter è il presidente del National Iranian American Council, Trita Parsi, che sempre attraverso il suo profilo denuncia maltrattamenti da parte degli agenti ai viaggiatori iraniani: “anche se in possesso della Green card- ha scritto- sono stati ammanettati, i loro profili social sono stati controllati e gli è stato chiesto di dire cosa pensano di Trump“. Molti i messaggi di condanna alla decisione del neoeletto inquilino della Casa Bianca, non solo da parte dei leader internazionali, come Hollande e Trudeau, ma anche dai politici americani di entrambi gli schieramenti: la senatrice democratica Elizabeth Warren al Logan Airport, nel Massachusetts, megafono in mano ha incoraggiato i manifestanti a “far sentire la propria voce forte e chiara contro questa ordinanza”, che trovano “illegale, incostituzionale”, nonché un “attacco ai fondamenti della democrazia”. Dello stesso parere anche il repubblicano Jeff Flake, che ha definito “inaccettabile” il provvedimento: “Il Presidente Trump e la sua amministrazione- ha aggiunto, stando a quanto riferisce la stampa statunitense- hanno ragione a essere preoccupati per la sicurezza nazionale, ma è inaccettabile quando i residenti permanenti sono detenuti o allontanati negli aeroporti”. “Ci sono due modi per perdere la nostra battaglia generazionale contro il jihadismo- ha detto invece Ben Sasse, del Gop del Nebraska- Il primo è quello di continuare a fingere che il terrorismo jihadista non abbia alcuna connessione con l’Islam o con alcuni paesi. Sarebbe un disastro. Ed ecco il secondo- ha proseguito- Se al Medio Oriente arriva il messaggio che gli Stati Uniti considerano tutti i musulmani come jihadisti, i reclutatori di terroristi vinceranno, poiché diranno ai ragazzi che l’America sta bandendo i musulmani e che questa è l’America rispetto a una religione. Contro il jihadismo serve intelligenza”, ha concluso. “E’ un approccio estremo, del tutto incoerente rispetto ai nostri valori”, il commento invece di Justin Amash, del Michigan. Fonte: Agenzia Dire – www.dire.it Dietro a Trump e alla Brexit c’è un ritorno al mercantilismo Il programma economico proposto in campagna elettorale e, per ora, mantenuto dal neopresidente americano Donald Trump non è né incoerente né imprevedibile, ma una forma molto rigorosa di neo-mercantilismo. A spiegare cosa questo significhi è Didier Saint-George, managing director e membro del Comitato Investimenti di Carmignac che nota come questa forma di nazionalismo economico non sia affatto una prerogativa statunitense. “L’idea economica dietro Brexit, o programmi economici promossi da partiti di estrema destra in Francia o in Olanda sostengono ambizioni analoghe” alla Trumpnomics nota l’esperto, secondo cui “non c’è alcun dubbio che il liberalismo economico e la globalizzazione abbiano avuto i propri difetti”, che in parte spiegano l’affermarsi di movimenti e candidati populisti in Europa come in America, ma la domanda più pressante dovrebbe essere: quali saranno le conseguenze di questa deriva verso politiche mercantilistiche? E’ presto detto: la prima conseguenza sarà il ritorno dell’inflazione. “La politica di Donald Trump è in corso di attuazione in un momento in cui l’inflazione è già in ripresa un po’ dovunque, a vari livelli” nota Saint-George; se il liberalismo, la globalizzazione e l’innovazione si sono rivelate misure deflazionistiche, “è probabile che il supporto a vecchi settori industriali non competitivi, attraverso barriere tariffarie, contribuirà a incrementare l’inflazione”. Così c’è il rischio concreto che l’incremento dell’inflazione ciclica finisca con l’essere rafforzato dall’anticipazione di una maggiore inflazione strutturale. Ad oggi i mercati obbligazionari, nota l’esperto, “non stanno prezzando questo rischio”, il che significa che sono vulnerabili: meglio non farsi irretire da tassi leggermente più consistenti di quelli di poche settimane fa, dunque, perché la risalita degli stessi (e il parallelo calo delle quotazioni dei titoli di stato) rischia di proseguire a lungo. La seconda conseguenza saranno le tensioni commerciali, che potrebbero danneggiare l’attività economica globale, o anche aumentare i premi per il rischio politico in alcune regioni. Il mercantilismo, ricorda l’esperto di Carmignac, “si era inizialmente esaurito per due motivi: in primo luogo il crescente risentimento dei partner commerciali”, che in diversi casi “aveva trasformato le guerre commerciali in guerre vere e proprie”, un rischio che evidentemente la Trumpnomics “spinta” rischia di riportare d’attualità. In secondo luogo gli economisti (come abbiamo già ricordato) “erano giunti alla conclusione di David Ricardo, secondo cui il commercio mondiale non è un gioco a somma zero. Piuttosto che lottare gli uni contro gli altri sui volumi di scambi commerciali, i vari paesi dovrebbero capire che promuovere il libero scambio è vantaggioso per tutti” o quanto meno dovrebbe esserlo fatto salve disfunzioni strutturali dei singoli paesi. Alla fine il mercantilismo che pare tanto piacere ai leader populisti e, per ora, ai loro elettori, “genera vincitori e vinti, e quindi instabilità” economica e politica e questo non è necessariamente un bene, anzi. Così se gli investitori azionari “hanno ragione quando pensano che valga la pena di investire sui vincitori, che probabilmente sono in primo luogo i settori ciclici e il mercato statunitense”, gli stessi, conclude l’esperto, “farebbero altrettanto bene a prepararsi per affrontare l’instabilità”. A giudicare alle polemiche subito sollevate col Messico, al rischio di lasciare, con buona pace del Giappone, campo libero alla Cina in tutta l’area del Pacifico con la rinuncia al Ttp e all’immediato ribaltamento della posizione americana nei confronti della questione israelopalestinese, non solo gli investitori devono stare pronti a convivere con una crescente instabilità. Fonte: http://www.fanpage.it/ Muro al confine, è già crisi USA-Messico. Ipotesi tassa del 20% sullʼimport messicano Ad una settimana esatta dall’inizio del suo mandato parlamentare, Donald Trump si trova ad affrontare la sua prima crisi diplomatica. Il presidente del Messico, Enrique Pena Nieto, ha annullato l’incontro fissato per martedì prossimo a Washington. Il motivo, manco a dirlo, è il chiacchieratissimo muro che il 45° presidente americano vuole costruire a tutti i costi al confine tra i due Paesi per contrastare l’immigrazione clandestina. La decisione di Pena Nieto è giunta dopo che il nuovo inquilino della Casa Bianca lo aveva bacchettato di non voler “pagare per il muro di cui c’è disperato bisogno”. Messico-USA: è scontro “L’ho detto e ripetuto: il Messico non pagherà per il Muro”, aveva detto il presidente del Messico in un discorso in tv che ha innescato la polemica in relazione all’incontro. “Condanno e mi rammarico per la decisione del governo statunitense di continuare con la costruzione di un confine che per anni ci ha diviso più di quanto ci abbia unito il Messico dà e chiede il rispetto dovuto come nazione sovrana” aveva detto Pena Nieto, che già nel periodo di campagna elettorale per le presidenziali USA aveva espresso i suoi dubbi sulla costruzione. I costi del muro E così coprire i costi dell’edificazione del muro al confine il neo presidente Usa starebbe pensando ad una tassa del 20% sulle importazioni dal Messico: si tratta naturalmente solo di possibilità al vaglio dell’amministrazione di Donald Trump così riportata dal portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. L’imposta, ha precisato, permetterebbe di raccogliere 10 miliardi di dollari l’anno. Il muro dovrebbe costare 12-15 miliardi di dollari, ha annunciato lo speaker della Camera Paul Ryan, prevedendo che il Congresso approvi i fondi entro fine settembre. Il nodo immigrazione Ad ogni modo, le polemiche col Messico non sembrano frenare Trump, che ha intenzione di bloccare il più possibile l’ingresso di musulmani “dai Paesi a rischio” negli USA. Il tycoon ha spiegato che il suo programma per ridurre temporaneamente l’ingresso di rifugiati e musulmani da alcuni Paesi a maggioranza islamica non è quello ‘stop’ a cui aveva fatto spesso riferimento in campagna elettorale: “Non è un divieto contro i musulmani. ma si tratta di Paesi che hanno un sacco di terrorismo”. L’idea è quindi quella di bloccare per un mese l’ingresso in America dei cittadini di sette Paesi musulmani: Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Il progetto, secondo la stampa americana, è intitolato “Protezione della nazione da attentati da parte di stranieri”; e include anche l’interruzione completa per almeno quattro mesi del programma USA di ammissione di rifugiati in fuga da guerre. Fonte: http://www.fanpage.it TRUMP, INDIETRO TUTTA NEL SOLCO DEL “POLITICALLY CORRECT”. Il Presidente eletto Trump continua il suo cammino di avvicinamento alla Casa Bianca sull’onda del “Politically Correct”. Dalla sera stessa in cui il candidato ha preso coscienza della vittoria, i toni aspri e sprezzanti della campagna elettorale hanno lasciato spazio a riflessioni e atteggiamenti inediti, senza dubbio più moderati. Già nel momento in cui il 45esimo Presidente degli Stati Uniti ha incontrato Obama alla Casa Bianca, l’atteggiamento mostrato davanti alle telecamere era ben diverso rispetto a quel piglio sprezzante che ha caratterizzato tutta la sua ascesa politica. In quel momento egli aveva una disposizione più accondiscendente verso chi non gli chiudeva la porta in faccia, ma cercava di venirgli incontro. Obama in quell’occasione, pur con un’espressione lontana dall’essere serena, ha fatto presente al futuro inquilino di Pennsylvania Avenue che farà di tutto per facilitare la transizione, mettendo tutto il suo team di collaboratori a sua disposizione per far sì che questo accada. Trump, davanti a tale apertura, ha avuto parole d’elogio nei confronti dell’attuale Presidente (he is a very good man): una drastica retromarcia se si pensa che lo aveva sempre considerato quale peggiore Presidente degli Stati Uniti e aveva più volte messo in dubbio il suo certificato di nascita (solo chi nasce nel territorio statunitense può essere eletto Presidente ndr). Nello stesso incontro Obama aveva illustrato, fra l’altro, quali fossero i risultati raggiunti dall’Obamacare, la riforma sanitaria osteggiata dai Repubblicani e da alcune lobby. Anche in questo caso Trump aveva lasciato spiragli aperti e, qualche giorno più tardi, confermava che l’impianto della riforma avrebbe potuto rimanere pressocché tale. In questi ultimi giorni tutti i vessilli della campagna elettorale sembrano sciogliersi come neve al sole. In un’intervista al New York Times il multimilionario fa una parziale marcia indietro su molti temi, ad iniziare dalla protezione dei confini col Messico, dove il muro si è ora trasformato in “a fence” ovvero una rete, passando per l’accordo sul clima di Parigi per il quale è «aperto» a trovare un’intesa, ammettendo (smentendo le sue teorie espresse nella campagna elettorale) che vi è una correlazione tra il riscaldamento globale del Pianeta e le azioni dell’uomo. Il futuro Presidente ha anche avuto parole di riguardo per i Clinton «che non voglio ferire» visto che Hilary «ha già sofferto abbastanza in molte maniere». Qualcuno potrebbe obiettare che tutte queste esternazioni sarebbero frutto di una condotta studiata a tavolino con il suo entourage, ma, conoscendo l’uomo, si può supporre che egli stesso non sia in grado di gestire così bene le sue esternazioni, spingendosi a tal punto. Abituato ai recenti veleni e alle bordate provenienti sia da parte dei democratici, con in testa Hilary Clinton, sia dalla quasi totalità dei repubblicani che hanno fatto di tutto per ostacolare la sua ascesa, Trump si è sentito per la prima volta, se non altro, preso in considerazione. Donald Trump non è un politico, è un uomo che cerca affinità personali ancor prima di quelle politiche; basti pensare alla liaison con Putin e alla moderata apertura al dittatore nordcoreano Kim Jong Un col quale, parole sue, non avrebbe alcun problema a parlarci. Anche da questo si evince una evidente inesperienza politica insieme ad un approccio alle cose, a voler essere comprensivi, sui generis. Tutta la retorica in chiave anti Nato, secondo cui gli Stati Uniti non dovrebbero intervenire automaticamente se uno Stato membro fosse attaccato, sembra ormai svanita. Durante la campagna elettorale Trump aveva affermato che se il Giappone (che non fa parte della NATO, ma ha accordi bilaterali in campo militare con gli USA) avesse ingaggiato una guerra con la Corea del Nord, il suo Paese non sarebbe intervenuto in soccorso dell’alleato. Perché? Perché nel caso in cui si verificasse un attacco agli Stati Uniti, da parte di qualsiasi avversario, il Giappone non potrebbe intervenire per vincoli imposti dalla sua Costituzione. In più, l’imprenditore statunitense ha sempre accusato Tokyo di giocare sporco ribassando lo Yen per favorire l’export. Ebbene, è appena bastato vedersi con il Primo Ministro nipponico per avere “un incontro franco e cordiale” tanto da spingere il Primo Ministro Abe ad affermare che Trump è un leader “affidabile”. Per il futuro inquilino della Casa Bianca l’incontro ha messo le basi per “una grande amicizia”. Ancora una volta l’hanno fatta da padrone i rapporti personali. Ma che cosa succederebbe se qualcosa dovesse andar storto e il Presidente non dovesse avere affinità con altri suoi omologhi? Sarebbe davvero un problema per il suo mandato, il carattere così imprevedibile? Troppo presto per dirlo, impensabile giudicare adesso. Una risposta, attualmente, non l’avrebbe neanche Donald. Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America ROMA – Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, la sua consacrazione è arrivata alle 8.30 ora italiana. IL PERSONAGGIO Ricco, ricchissimo, un magnate cresciuto nel lusso più sfrenato e che si è dedicato, tra le altre cose, alla costruzione di luccicanti grattacieli color dell’oro che portano il suo nome. Donald Trump, newyorchese, è nato nel 1946. Figlio del miliardario Fred, ha sempre frequentato scuole private e dal 1974 gestisce le società di famiglia: ha edificato palazzi, hotel, casinò, strutture di ogni tipo e grandezza. Attualmente il suo patrimonio personale è stimato in 2,7 miliardi di dollari, con uno stipendio mensile di 60 milioni. Ha cinque figli da tre mogli diverse. LA STORIA FINANZIARIA Nel 1980 Donald creò la Trump organization per gestire al meglio gli immobili, “ma già nel 1990- raccontano i giornalisti di Lookout news nel libro ‘Trump vs Usa’– la nuova società si ritrovò con un debito tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari. Il salvataggio della società fu possibile solo grazie a un accordo raggiunto ad agosto di quell’anno con ben 70 banche che gli permisero di stipulare una seconda e una terza ipoteca su quasi tutte le proprietà, fidando solo sul miliardo personale di Donald Trump. Il grande rischio assunto dalle banche gli garantì di evitare la bancarotta e di rimettersi in pista”. Nel 1995, infatti, Trump “quotò la Trump hotels & Casino Resorts Inc. in borsa e ricevette così una notevole spinta finanziaria, grazie anche al placet della Security and Exchange Commission (SEC), l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza sugli scambi finanziari. Trump vendette inizialmente 10 milioni di azioni a 14 dollari per azio-ne e poi nel 1996 vendette 13,25 milioni di titoli a 32,5 dollari cia-scuno. Questo garantì alle società di Trump una stabilità e una legittimazione nel mondo, attraverso investimenti altrimenti impossibili data la situazione finanziaria di partenza”. Nel suo libro “The America we deserve” (L’America che meritiamo) pubblicato nel 2000, Donald scrive che “la più grande minaccia al sogno americano è l’idea che i sognatori abbiano bisogno di uno sguardo indagatore e un controllo stretto. La prima cosa per noi è assicurarci che il settore pubblico si limiti”, di fatto disconoscendo i vantaggi ricevuti dal sistema pubblico americano. LA CANDIDATURA “Rendiamo l’America di nuovo grande” (“Make America great again”) è il grido di battaglia che ha sostenuto tutta la sua campagna elettorale, dominata da aggressività e modi politicamente scorretti. “It’s gonna be Donald” titolava il 4 maggio scorso la CNN. Quel giorno Donald John Trump Senior, dopo la vittoria nello Stato dell’Indiana e il contestuale ritiro del rivale Ted Cruz, è stato investito della candidatura: sarà lui a correre per la Casa Bianca sotto le insegne dei Repubblicani. “Cosa che per un “non politico” non accadeva dai tempi di Eisenhower (che però era già stato generale), negli anni Cinquanta- spiegano i giornalisti di Lookout news nel libro ‘Trump vs Usa’-. Chi non credeva possibile che un imprenditore newyorchese prestato alla politica, un battitore libero senza peli sulla lingua, nonché un festaiolo con tre mogli all’attivo e il portafoglio gonfio di dollari potesse sbancare e raccogliere così tanti consensi nel paese, si è sbagliato di grosso”. Secondo molti osservatori, il grande successo di Trump è dovuto alla capacità di intercettare gli Stati Uniti delusi, amareggiati, poveri, che, senza di lui in gara, non sarebbero andati a votare. Il linguaggio di Trump è esplicito, infarcito di bassezze e volgarità, e proprio per questo comprensibile da tutti. I suoi toni sempre alti, spesso aggressivi, hanno risvegliato molti dal torpore. Per portarli dove, è delineato nel suo programma elettorale. IL PROGRAMMA Trump ha iniziato la sua campagna, e la sua scalata nei consensi, definendo l’immigrazione illegale un’emergenza nazionale e i messicani che attraversano di notte la frontiera con gli Stati uniti “criminali e stupratori” e promettendo, in caso di vittoria, di “lanciare un programma di deportazione su larga scala” di tutti gli immigrati clandestini (di qui anche l’idea di edificare un muro tra Usa e Messico). Anche sulla possibile accoglienza di profughi dalla Siria, Trump è stato netto: “Questi profughi potrebbero essere un Cavallo di Troia. Il nostro paese ha problemi enormi da risolvere. Non possiamo accollarci un altro problema”. Sulla pena di morte, “gli slogan e le parole di Trump sembrano essere stati scelti per andare in-contro con brutale schiettezza ai desideri della fascia più tradizionalista, e maggioritaria, dell’elettorato. “La pena di morte – ha affermato – andrebbe ripristinata e applicata con durezza.C’è chi dice che non è un deterrente. Magari sarà anche così, ma resta il fatto che i due criminali recentemente giustiziati per aver ucciso dei poliziotti non ammazzeranno più nessuno. Questo è certo”. Con un occhio molto attento alle esigenze del ceto medio, deluso dalle mancate riforme del welfare e della sanità pubblica promesse e non attuate negli otto anni della presidenza Obama, Trump si è discostato dalle posizioni storiche del partito repubblicano, da sempre contrario alla creazione di un servizio sanitario in grado di fornire ai tutti i cittadini assistenza pubblica sul modello europeo. “Se noi renderemo il nostro paese di nuovo ricco – ha dichiarato in proposito – ci potremo permettere un sistema di sicurezza sociale pub-blico. Io sono probabilmente l’unico repubblicano che non vuole tagli allo stato sociale, voglio solo rendere l’America più ricca così da poterci permettere una sicurezza sociale e un’assistenza sanitaria pubblica pagate dallo stato». Sul diritto degli americani di possedere liberamente un’arma Trump, conquistandosi immediatamente l’appoggio politico e finanziario della National Rifle Association, la potente lobby dei produttori di armi, sostiene che se tutti avessero un’arma l’America sarebbe più sicura, motivo per cui ha promesso che abolirà tutte le restrizioni all’acquisto e alla detenzione: “Guardate quello che è successo a Parigi e Orlando, se la gente attaccata dai terroristi fosse stata armata le pallottole sarebbero andate in un’altra direzione e non sarebbero morte tante persone. Quindi alla domanda sulla possibile limitazione della libera vendita delle armi rispondo con un semplice no”. In politica estera, Trump promette di correggere tutti gli errori fat-ti dalle amministrazioni precedenti, comprese quelle di George W. Bush: “Per anni ho detto ‘non andate in Iraq’. Loro sono andati in Iraq e hanno destabilizzato tutto il Medio Oriente. ora c’è l’ISIS che si è appropriato del petrolio. Io dico mandiamo le truppe adesso e togliamogli il petrolio. Togliamo loro la ricchezza. Ora lo dobbiamo fare”. Agenzia DIRE , www.dire.it ELEZIONI USA. TRUMP AI RIVALI REPUBBLICANI “DOVETE ANDARE A CASA”. Continua inarrestabile l’ascesa di Donald Trump alle primarie del “Grand Old Party”, il partito conservatore americano. Nelle ultime tornate il Tycoon americano ha surclassato i suoi avversari con numeri “pesanti” (a volte con percentuali oltre il 60%), tanto da spingerlo ad autodefinirsi il “presunto candidato” alla Casa Bianca. Ad essere convinti dalla sua investitura ci sono tutti i cinque Stati dove si è votato ovvero Maryland, Connecticut, Pennsylvania, Delaware e Rhode Island. Una vittoria che non lascia molto spazio di manovra agli altri due candidati ancora in corsa Ted Cruz e John Kasich. Sebbene la matematica ancora non li condanni, pare ormai scontato quale sarà l’esito finale delle primarie repubblicane. Eppure i due, uno ultraconservatore (Cruz) e l’altro moderato (Kasich), le hanno provate tutte per fermare la scheggia impazzita newyorkese. Il loro obiettivo comune è quello di impedire che Trump arrivi alla soglia dei 1237 delegati, il numero magico che gli consentirebbe la vittoria sicura alle primarie repubblicane e, dunque, l’accesso alle presidenziali. Questa strategia, però, già da subito si è rivelata fallimentare poiché ha mostrato il lato difensivo e le debolezze dei due candidati, inermi davanti al dilagante populismo trumpiano. E, si sa, gli elettori americani sono molto sensibili a queste dinamiche; se scopri le tue debolezze, hai perso in partenza. Sul fronte democratico, nonostante il rivale della Clinton Bernie Sanders si dimostri ancora battagliero, tira un’aria decisamente diversa. Il Senatore, infatti, aveva già affermato che in caso di vittoria dell’ex first lady non avrebbe lasciato il partito, anzi l’avrebbe appoggiata nella sua corsa alla Casa Bianca. Già prima di queste ultime votazioni, Sanders aveva bollato una sua vittoria come un “cammino difficile”, lasciando intendere che la strada della Clinton era quasi spianata e che non l’avrebbe messa in difficoltà. E, infatti, la candidata democratica da Filadelfia parla di una vittoria che passerà grazie a quell’unità di partito che invece manca totalmente dalle parti dei repubblicani. Nei suoi discorsi non si parla più tanto del collega-avversario democratico quanto di quello che, salvo sorprese, sarà il suo rivale per la Casa Bianca. Nelle recenti votazioni la Clinton non ha fatto l’en plein come il rivale, ma ha vinto in quattro stati su cinque, una vittoria ad ogni modo “di peso” che la lancia verso la nomination.