C.A.F.E.
Briefing speciale n.1 - 2017
Libero commercio: perché sì?
28 Febbraio 2017
Testi di Davide Tentori – Mappa di Claudia De Bari
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Libero commercio: perché si?
Negli ultimi mesi sono diventate sempre più insistenti le spinte per un aumento del protezionismo a
livello globale. L’elezione di Trump negli Stati Uniti da un lato, la Brexit in Regno Unito dall’altro,
potrebbero assestare due duri colpi al proseguimento degli scambi commerciali, sia nell’Atlantico
che nel Pacifico. All’Italia conviene rimanere un’economia aperta?
GLI SCAMBI RALLENTANO – Il commercio internazionale è un elemento fondamentale
dell’economia globale. I Paesi scambiano tra loro non soltanto perché i produttori cercano di
aumentare i loro mercati di sbocco (è questo principalmente il caso dei prodotti finiti), ma anche
perché trovano conveniente (il che significa essenzialmente ad un minor prezzo) acquistare
determinati input da aziende localizzate in Paesi diversi (è il caso dei beni intermedi per cui risulta
cruciale per un’impresa essere integrata nelle catene globali del valore). Negli ultimi trent’anni – in
cui la globalizzazione si è imposta come modello economico a livello mondiale – il commercio
estero è aumentato a tassi molto elevati, costituendo un elemento trainante per il PIL e potendo
godere di una progressiva liberalizzazione degli scambi, grazie alla positiva conclusione di accordi
in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) che hanno portato alla riduzione di
dazi e altre barriere non tariffarie (standard, regolamenti). Dice l’Economist che tra il 1985 e il
2007 il tasso del commercio globale è cresciuto a velocità doppia rispetto al PIL, mentre da circa
nove anni il trend si è invertito: ora l’import/export cresce ad un tasso inferiore rispetto
all’economia nel suo complesso e, in particolare, il 2016 è stato l’anno con l’aumento più basso,
come illustrato dall’OMC (1,7% a fronte di un 2,2% del PIL mondiale in termini reali).
DOPO LA CRISI, AUMENTA LA PAURA – E’ evidente che lo spartiacque è rappresentato dalla crisi
economico/finanziaria globale scoppiata tra 2007 e 2008. La recessione si è tradotta anche in un
crollo immediato degli scambi, per effetto di una riduzione della domanda e di una depressione
dei consumi. La ripresa seguente non è stata però vigorosa come ci si attendeva. Perché?
Innanzitutto, in molti Paesi l’effetto combinato di caduta del PIL e di aumento della
disoccupazione hanno provocato un’erosione della capacità produttiva. Non va inoltre
sottovalutata la “distorsione” provocata sugli scambi globali dalla Cina, che si sta trasformando
dall’essere un produttore a basso costo a un’economia sviluppata sempre più focalizzata sullo
stimolo dei consumi interni. Infine, un ruolo decisivo è stato giocato dal protezionismo crescente,
causato in gran parte da un sentimento generalizzato di diffidenza e paura, soprattutto nelle
economie più avanzate, nei confronti delle merci straniere che invaderebbero i nostri mercati
togliendo lavoro ai produttori nazionali. Risultato? I principali round per la liberalizzazione del
commercio e degli investimenti sono praticamente a un punto morto. I negoziati per l’accordo
transatlantico tra Unione Europea e Stati Uniti, il famoso (o famigerato) TTIP, sono bloccati così
come il processo di ratifica della partnership trans-pacifica (TPP), dopo che il nuovo Presidente
degli Stati Uniti Donald Trump ha notificato la volontà di recedere dall’accordo, che era stato
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siglato da Obama soltanto pochi mesi prima (anche se va ricordato che persino la Clinton aveva
espresso forte scetticismo nei confronti di questi due accordi).L’elezione di Trump potrebbe essere
fatale anche per la sopravvivenza del North American Free Trade Agreement (NAFTA), l’accordo di
libero scambio tra USA, Canada e Messico, a causa delle aggressive dichiarazioni del Presidente
repubblicano nei confronti della presunta concorrenza sleale da parte dei produttori messicani. La
retorica protezionista di Trump da un lato stride con l’elevato livello di integrazione produttiva e
commerciale tra Stati Uniti e Messico, che ha portato ad un aumento esponenziale di scambi e
investimenti; dall’altro vanno tuttavia tenuti in considerazione fattori quali l’aumento della
disoccupazione in alcuni settori quali il settore automobilistico e l’aumento del deficit
commerciale verso il Messico, come ben spiegato in questa analisi del Council on Foreign
Relations.
COSA SIGNIFICA TUTTO QUESTO PER L’ITALIA? - Il nostro Paese ha sofferto una pesante
recessione tra il 2011 e il 2014, perdendo durante tutto l’arco della crisi circa il 10% del PIL. In
questo periodo, l’unico fattore in grado di trainare l’economia sono state proprio le esportazioni:
non a caso, le imprese che sono riuscite più facilmente a sopravvivere e a trovare una via d’uscita
sono state proprio quelle aperte ai mercati esteri. L’Italia nel 2016 ha fatto registrare un record nel
proprio surplus commerciale di quasi 52 miliardi di euro. È dunque nell’interesse dei produttori
locali che, attraverso l’UE (che, lo ricordiamo, ha competenza esclusiva sugli Stati membri per
negoziare i trattati commerciali), si proceda alla conclusione di accordi via via più ambiziosi.
Il fallimento (non ancora sancito formalmente) del TTIP rappresenta un’occasione persa per le
imprese esponenti del cosiddetto “made in Italy”, dal momento che gli USA sono il nostro terzo
partner commerciale, dopo Germania e Francia. L’Italia può però avvantaggiarsi dagli altri accordi
che vedono l’UE protagonista: il recente CETA, free-trade agreement concluso con il Canada alla
fine di numerose peripezie, la partnership economica con il Giappone e, fattore potenzialmente
molto interessante, la possibile ripresa dei negoziati con l’area del Mercosur (Brasile, Argentina,
Uruguay, Paraguay), che rappresenta un mercato di quasi trecento milioni di persone. È evidente
dunque che la ripresa di lungo periodo dell’economia italiana non può prescindere dal
mantenimento dell’apertura internazionale, al netto di possibili ricadute occupazionali che
dovrebbero essere affrontate con politiche strutturali per favorire lo sviluppo di nuove
professionalità: un chiaro esempio sono gli incentivi fiscali varati di recente dal Governo per
favorire gli investimenti delle PMI nelle tecnologie innovative della cosiddetta Industria 4.0.
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RISCHI
•Prevalere di partiti populisti in Europa nel corso della tornata elettorale del 2017 (Francia,
Germania, Italia) che potrebbe portare ad una maggiore chiusura a livello economico
• Adozione di misure protezionistiche (barriere tariffarie e non) da parte della nuova
amministrazione Trump che potrebbero danneggiare le importazioni dall’Europa
• Incognita rappresentata dall’esito del negoziato tra Unione Europea e Regno Unito per la
“Brexit”, che porteranno Londra ad abbandonare il mercato unico.
VARIABILI
• Esito delle elezioni nei Paesi europei: molto dipenderà dalle coalizioni vittoriose nell’influire sul
proseguimento dei processi di apertura commerciale
• Conferma della volontà del prossimo Governo italiano di continuare a sostenere le PMI nel
processo di innovazione che può renderle più competitive a livello internazionale
• Russia/USA: atteggiamento maggiormente accomodante di Trump potrebbe portare ad un
ammorbidimento delle relazioni e progressiva riduzione delle sanzioni, con effetti positivi per gli
esportatori italiani.
• Cina: velocità della transizione a modello basato su consumi interni potrebbe costituire
opportunità per aumentare esportazioni (insieme a politiche governative per promuovere settori
del made in Italy in Cina).
CONCLUSIONI
L’apertura agli scambi internazionali è inevitabile per l’economia italiana. Il contesto
internazionale è attualmente poco propizio per ulteriori aperture, ma un futuro governo italiano
dovrebbe mantenere la liberalizzazione degli scambi tra i principali obiettivi di politica economica.
Le PMI, dal canto loro, dovrebbero evitare di farsi trovare impreparate puntando con più decisione
sull’internazionalizzazione e sull’innovazione, con interventi strutturali in grado di aumentare la
competitività del settore produttivo.
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