C.A.F.E. Briefing speciale n.1 - 2017 Libero commercio: perché sì? 28 Febbraio 2017 Testi di Davide Tentori – Mappa di Claudia De Bari Questo contenuto è dedicato ai soci della nostra associazione: buona lettura! Per info e contatti: [email protected] Associazione Culturale www.ilcaffegeopolitico.net - [email protected] C.F./P.IVA 07017300968 Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Milano, aut. n.398 del 10/12/2013 Libero commercio: perché si? Negli ultimi mesi sono diventate sempre più insistenti le spinte per un aumento del protezionismo a livello globale. L’elezione di Trump negli Stati Uniti da un lato, la Brexit in Regno Unito dall’altro, potrebbero assestare due duri colpi al proseguimento degli scambi commerciali, sia nell’Atlantico che nel Pacifico. All’Italia conviene rimanere un’economia aperta? GLI SCAMBI RALLENTANO – Il commercio internazionale è un elemento fondamentale dell’economia globale. I Paesi scambiano tra loro non soltanto perché i produttori cercano di aumentare i loro mercati di sbocco (è questo principalmente il caso dei prodotti finiti), ma anche perché trovano conveniente (il che significa essenzialmente ad un minor prezzo) acquistare determinati input da aziende localizzate in Paesi diversi (è il caso dei beni intermedi per cui risulta cruciale per un’impresa essere integrata nelle catene globali del valore). Negli ultimi trent’anni – in cui la globalizzazione si è imposta come modello economico a livello mondiale – il commercio estero è aumentato a tassi molto elevati, costituendo un elemento trainante per il PIL e potendo godere di una progressiva liberalizzazione degli scambi, grazie alla positiva conclusione di accordi in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) che hanno portato alla riduzione di dazi e altre barriere non tariffarie (standard, regolamenti). Dice l’Economist che tra il 1985 e il 2007 il tasso del commercio globale è cresciuto a velocità doppia rispetto al PIL, mentre da circa nove anni il trend si è invertito: ora l’import/export cresce ad un tasso inferiore rispetto all’economia nel suo complesso e, in particolare, il 2016 è stato l’anno con l’aumento più basso, come illustrato dall’OMC (1,7% a fronte di un 2,2% del PIL mondiale in termini reali). DOPO LA CRISI, AUMENTA LA PAURA – E’ evidente che lo spartiacque è rappresentato dalla crisi economico/finanziaria globale scoppiata tra 2007 e 2008. La recessione si è tradotta anche in un crollo immediato degli scambi, per effetto di una riduzione della domanda e di una depressione dei consumi. La ripresa seguente non è stata però vigorosa come ci si attendeva. Perché? Innanzitutto, in molti Paesi l’effetto combinato di caduta del PIL e di aumento della disoccupazione hanno provocato un’erosione della capacità produttiva. Non va inoltre sottovalutata la “distorsione” provocata sugli scambi globali dalla Cina, che si sta trasformando dall’essere un produttore a basso costo a un’economia sviluppata sempre più focalizzata sullo stimolo dei consumi interni. Infine, un ruolo decisivo è stato giocato dal protezionismo crescente, causato in gran parte da un sentimento generalizzato di diffidenza e paura, soprattutto nelle economie più avanzate, nei confronti delle merci straniere che invaderebbero i nostri mercati togliendo lavoro ai produttori nazionali. Risultato? I principali round per la liberalizzazione del commercio e degli investimenti sono praticamente a un punto morto. I negoziati per l’accordo transatlantico tra Unione Europea e Stati Uniti, il famoso (o famigerato) TTIP, sono bloccati così come il processo di ratifica della partnership trans-pacifica (TPP), dopo che il nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha notificato la volontà di recedere dall’accordo, che era stato 2 siglato da Obama soltanto pochi mesi prima (anche se va ricordato che persino la Clinton aveva espresso forte scetticismo nei confronti di questi due accordi).L’elezione di Trump potrebbe essere fatale anche per la sopravvivenza del North American Free Trade Agreement (NAFTA), l’accordo di libero scambio tra USA, Canada e Messico, a causa delle aggressive dichiarazioni del Presidente repubblicano nei confronti della presunta concorrenza sleale da parte dei produttori messicani. La retorica protezionista di Trump da un lato stride con l’elevato livello di integrazione produttiva e commerciale tra Stati Uniti e Messico, che ha portato ad un aumento esponenziale di scambi e investimenti; dall’altro vanno tuttavia tenuti in considerazione fattori quali l’aumento della disoccupazione in alcuni settori quali il settore automobilistico e l’aumento del deficit commerciale verso il Messico, come ben spiegato in questa analisi del Council on Foreign Relations. COSA SIGNIFICA TUTTO QUESTO PER L’ITALIA? - Il nostro Paese ha sofferto una pesante recessione tra il 2011 e il 2014, perdendo durante tutto l’arco della crisi circa il 10% del PIL. In questo periodo, l’unico fattore in grado di trainare l’economia sono state proprio le esportazioni: non a caso, le imprese che sono riuscite più facilmente a sopravvivere e a trovare una via d’uscita sono state proprio quelle aperte ai mercati esteri. L’Italia nel 2016 ha fatto registrare un record nel proprio surplus commerciale di quasi 52 miliardi di euro. È dunque nell’interesse dei produttori locali che, attraverso l’UE (che, lo ricordiamo, ha competenza esclusiva sugli Stati membri per negoziare i trattati commerciali), si proceda alla conclusione di accordi via via più ambiziosi. Il fallimento (non ancora sancito formalmente) del TTIP rappresenta un’occasione persa per le imprese esponenti del cosiddetto “made in Italy”, dal momento che gli USA sono il nostro terzo partner commerciale, dopo Germania e Francia. L’Italia può però avvantaggiarsi dagli altri accordi che vedono l’UE protagonista: il recente CETA, free-trade agreement concluso con il Canada alla fine di numerose peripezie, la partnership economica con il Giappone e, fattore potenzialmente molto interessante, la possibile ripresa dei negoziati con l’area del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay), che rappresenta un mercato di quasi trecento milioni di persone. È evidente dunque che la ripresa di lungo periodo dell’economia italiana non può prescindere dal mantenimento dell’apertura internazionale, al netto di possibili ricadute occupazionali che dovrebbero essere affrontate con politiche strutturali per favorire lo sviluppo di nuove professionalità: un chiaro esempio sono gli incentivi fiscali varati di recente dal Governo per favorire gli investimenti delle PMI nelle tecnologie innovative della cosiddetta Industria 4.0. 3 RISCHI •Prevalere di partiti populisti in Europa nel corso della tornata elettorale del 2017 (Francia, Germania, Italia) che potrebbe portare ad una maggiore chiusura a livello economico • Adozione di misure protezionistiche (barriere tariffarie e non) da parte della nuova amministrazione Trump che potrebbero danneggiare le importazioni dall’Europa • Incognita rappresentata dall’esito del negoziato tra Unione Europea e Regno Unito per la “Brexit”, che porteranno Londra ad abbandonare il mercato unico. VARIABILI • Esito delle elezioni nei Paesi europei: molto dipenderà dalle coalizioni vittoriose nell’influire sul proseguimento dei processi di apertura commerciale • Conferma della volontà del prossimo Governo italiano di continuare a sostenere le PMI nel processo di innovazione che può renderle più competitive a livello internazionale • Russia/USA: atteggiamento maggiormente accomodante di Trump potrebbe portare ad un ammorbidimento delle relazioni e progressiva riduzione delle sanzioni, con effetti positivi per gli esportatori italiani. • Cina: velocità della transizione a modello basato su consumi interni potrebbe costituire opportunità per aumentare esportazioni (insieme a politiche governative per promuovere settori del made in Italy in Cina). CONCLUSIONI L’apertura agli scambi internazionali è inevitabile per l’economia italiana. Il contesto internazionale è attualmente poco propizio per ulteriori aperture, ma un futuro governo italiano dovrebbe mantenere la liberalizzazione degli scambi tra i principali obiettivi di politica economica. Le PMI, dal canto loro, dovrebbero evitare di farsi trovare impreparate puntando con più decisione sull’internazionalizzazione e sull’innovazione, con interventi strutturali in grado di aumentare la competitività del settore produttivo. 4 5