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GIANLUCA FORGIONE
BARUCH SPINOZA
La vita e le opere
“Amstelodamensis”, “cittadino di Amsterdam”, così Spinoza si dichiara nell’unico saggio
autografo: “Principi della filosofia cartesiana”. E’ Colerus, biografo e amico del filosofo, ad
informarci sul luogo di nascita e sulla data: il 24 novembre del 1632. Proveniva da una famiglia di
tradizione ebraica che si era impiantata in Olanda per le continue persecuzioni a cui andavano
soggetti i “marrani”, “porci”, ricordando il modo in cui gli ebrei erano denominati.Il padre Michael
era un attivo commerciante di pietre preziose, si occupava di importazioni ed esportazioni,
inserendosi così pienamente nel contesto commerciale della florida Olanda del XVII secolo.Faceva
parte la sua famiglia della comunità ebraica di Talmud Tora, e più precisamente del comitato
formativo Mahamad, che si distingueva per intransigenza e ortodossia alla regola.Il giovane Baruch
non frequentò probabilmente le scuole superiori, alle quali accedevano solo coloro che erano
destinati a diventare rabbini, ma prese parte alla “Corona della legge”, sotto gli insegnamenti di
Saul Levi Morteira. Spinoza fin da giovane non aveva mostrato alcun entusiasmo per le conezioni
rigide e pedisseque della comunità di cui faceva parte. La sua mente stava elaborava proprio in
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quegli anni un concetto di divinità diametralmente opposto a quello predicato con veemenza e
ossessione il sabato nelle sinagoghe.Un concetto rivoluzionario: la divinità non astratta dal mondo,
ma presente in esso.Non un Dio-persona della tradizione giudaica, ma un ordine geometrico che
regolasse la realtà.Una realtà derivata per necessità dall’essenza stessa di Dio.Come dal trinangolo
non può non necessariamente derivare che la somma dei suoi angoli interni è centottanta gradi. In
quale modo la Mahamad venne a sapere di tali concezioni considerate eretiche, è questione assai
dibattuta.. Né essa aveva avuto modo di leggere alcuno scritto del filosofo, né quegli stesso aveva
avuto modo di interloquire con alcuno dei suoi membri. L’ipotesi più probabile è che la comunità
abbia ricevuto informazioni da due uomini che erano soliti conversare con lui di temi biblici.
Subitanea giunse la scomunica feroce ed implacabile: Spinoza viene espulso dalla comunità,
maledetto, appellato “cane”, “bastardo”. Su di lui si scagliano le peggiori infamie. E’ accusato
d’eresia e di blasfemia. Così il testo della scomunica, l’herem:
“…Espelliamo, escludiamo malediciamo ed esecriamo
Baruch Spinoza.[…].Sia maledetto di giorno e di notte
quando si leva e quando si posa[…]Che nessuno dimori
sotto il suo tetto o legga i suoi scritti…”
Gli anni successivi alla scomunica sono caratterizzati dalla frequentazione della casa di Franciscus
van den Enden. Era questi un libero pensatore, giurista, ex-gesuita che impartiva lezioni di latino ai
suoi studenti. Qui Spinoza giunse per apprendere il latino, grazie al quale poter leggere, oltre alla
sapienza classica, le opere della Scolastica e di Cartesio, considerato l’astro nascente della nuova
filosofia. Il più grande di tutti i filosofi: così lo si accoglieva allora. Van den Enden era intellettuale
eccentrico e stravagante. Si racconta che faceva recitare le commedie latine che insegnava. Ed è
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quindi probabile che ivi Spinoza imparò l’arte della recitazione. Era un clima, quello della casa di
Franciscus, intriso di libertà di pensiero e d’azione. Ed era proprio di questo che il Nostro aveva
bisogno. Successivamente si trasferisce a Rijnsburg, ha contatti con la setta dei Collegianti e
apprende teorie significative sul libero arbitrio, sul rapporto con le Sacre Scritture e sul libero
esame. Sono questi gli anni maggiormente intensi di lavoro. Incomincia la stesura
dell’Ethica.Vengono conclusi “il Breve Trattato su Dio”, ed il “Trattato sull’emendazione
dell’intelletto”.In seguito Spinoza si trasferisce a Vooburg, impartisce lezioni ad uno studente e
comincia a scrivere il “Trattato teologico-politico”.Gli sono amici politici diplomatici, scienziati
dello spessore di Jan de Witt, Gran Pensionario d’Olanda, Hudde, sindaco d’Amsterdam, Graevius,
Vossius, solo per citarne alcuni.Nel 1665 viene pubblicato il “Trattato”, forse l’opera più
direttamente polemica del filosofo, contro ciò che egli spesso chiama “l’odio teologico”. Un trattato
in difesa della libertà di pensiero e di parola. In difesa dell’autonomia intellettuale. Sono chiariti i
suoi rapporti con la comunità ebraica, le ragioni dell’espulsione e della scomunica. In questi anni
scrive ad Oldenburg una lettera che chiarisce le motivazioni che l’hanno indotto alla stesura
dell’opera: i pregiudizi dei teologi, la volontà di discolparsi dalle accuse d’ateismo e finanche
l’affermazione della libertà di filosofare e di dire le cose che pensiamo.Un’opera altamente
innovativa e rivoluzionaria. La rivendicazione delle libertà fondamentali a cui ogni individuo ha
diritto.Il Trattato viene edito chiaramente anonimo, per rifuggire dagli eventuali atti censori a cui
sicuramente il testo sarebbe andato incontro. Ciononostante, l’opera fu messa all’indice provocando
aspre reazioni negli ambienti calvinisti ed ebraici. Il soggiorno all’Aja si caratterizza per la
corrispondenza intrapresa con un’altra, seppur
giovane, personalità filosofica del Seicento:
Gottfried Wihelm von Leibniz. Spinoza non è entusiasta dell’”intrusione” di questo sconosciuto nei
suoi affari privati. Chi faceva dell’imperativo “caute” il suo motto non poteva non guardare con
dovuta diffidenza la figura di quest’uomo che chiedeva di incontrarlo.
Così il suo giudizio:
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“A quanto ho potuto conoscere dalle sue lettere, mi è sembrato un uomo d’indole
liberale e versato in tutte le scienze.Reputo tuttavia imprudente di confidargli così
presto i miei scritti. Vorrei prima sapere che cosa sia andato a fare in Francia e
sentito il parere del nostro Tschirnaus dopo che lo avrà più a lungo frequentato.”
Il riserbo e la morigeratezza sembrano la chiave di lettura di questo pensatore.Ed è tale caratteristica
che ha condotto molti suoi accusatori su posizioni imbarazzanti. Lo potevano accusare d’ateismo,
certo. Ma non potevano rivolgergli le altre accuse connesse a chi veniva additato come ateo. Non la
dissolutezza dei costumi, non l’amoralità. Spinoza in questo periodo prende parte attiva anche ad
alcuni processi o cambiamenti politici. Viene coinvolto emotivamente dall’uccisione dei de Witt, si
mette in cammino per incontrare il principe di Condè, che in precedenza aveva espresso la volontà
di incontrarlo. Credeva il filosofo che il principe potesse fungere da tramite con Luigi XIV.
Dichiarandogli le sue idee in fatto di politica e libertà, sperava che esse potessero arrivare al
sovrano e che questi avesse potuto applicarle. Progetto, questo, che consideriamo a dir poco
utopistico. La flessione degli assolutismi alle idee dei lumi della razionalità si avrà solamente un
secolo e mezzo dopo, dando vita a qual fenomeno che va sotto il nome di dispotismo illuminato.
Il carattere di Spinoza- lo abbiamo messo in evidenza- è altamente insofferente dei rapporti
pubblici, dei leziosimi e formalismi. Di una diffidenza quasi ossessiva, accoglieva non di buon
grado nuove amicizie o proposte di frequentazione. Viveva appartato, solo in compagnia di pochi e
fidati amici. E fu proprio in virtù di questo “lathe biòsas” che ebbe come sua unica occupazione lo
smussare lenti, che rifiutò la non poco alettante offerta della cattedra di filosofia all’università di
Heidelberg.
Spinoza muore il ventuno febbraio del 1677,
per tisi, il male che da anni lo affliggeva. In
compagnia, si pensa, del solo amico Schuller, del quale aveva richiesto aiuto in conseguenza
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dell’aggravarsi della patologia. I suoi unici averi, i manoscritti e la biblioteca, furono venduti per il
pagamento delle spese di stampa e della sepoltura.
Il sistema e la dottrina
Nell’elaborazione filosofica di Baruch Spinoza convergono diversi filoni di pensiero che avevano
caratterizzato i precedenti periodi storici. La critica evidenziato a volte una corrente in particolare,
ora di favorirne altre. Certamente il pensatore ebraico è stato fortemente influenzato dalla filosofia
cartesiana. Alla sua teoria dedica un’opera e di questa conserva il carattere geometrico e quello
analitico-deduttivo. Analoga influenza esercita il pensiero di Thomas Hobbes, il cui teorizzare
risulta egualmente scandito da un ritmo, quasi un flusso che si estrinseca in scoli, corollari e
definizioni. Come non considerare, tra l’altro, la grande fascinazione subita dal filosofo nei
confronti di posizioni cabalistiche-teosofiche. In parte riconducibili al suo pensiero risultano anche
alcuni filoni della Scolastica e del Rinascimento. Affascinato Spinoza è soprattutto dalle suggestioni
che gli provenivano dalla lettura di Giordano Bruno, alla cui filosofia appare molto vicino in
particolar modo nell’opera giovanile che va sotto il nome di Breve Trattato.
Ciò tuttavia che maggiormente allontana Spinoza dalle religioni tradizionali, come il Cristianesimo
o l’Ebraismo, è una difforme visione di Dio. Il suo Dio non è una divinità antropomorfica, non ha
caratteri simili ai nostri, non è dotato di un’anima. E’ semplicemente l’ordine geometrico che regola
il mondo. Lo regola senza tuttavia modificare il suo corso, senza interventi o arbitri.La realtà
dunque non è creazione divina, ma sua derivazione. Il mondo, l’universo ed ogni ente esistente non
è stato dunque creato, né esiste per emanazione. Spinoza in questo modo nega sia il creazionismo
religioso sia l’emanazionismo plotiniano e neo-platonico. Tutta la realtà discende, segue per
necessità dalla struttura stessa di Dio allo stesso modo di una dimostrazione geometrica: come dalla
somma di tre angoli interni non può non derivare l’equivalente di centottanta gradi, così la realtà
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circostante deriva dalla natura di Dio. Egli, pur conservando la terminologia tradizionale, conduce
una concezione innovativa e a tratti irriverente, in netto contrasto con la cultura di cui era
imperniata la società seicentesca.Dio dunque è anche enunciato con il sinonimo di Sostanza.
Puntuale arriva nell’Ethica la sua enunciazione:quod est in se et per se concipitur, ossia quell’entità
il cui concetto non ha bisogno per esplicarsi del concetto di un’altra cosa da cui debba essere
formato.”(Eth.I def. III) Ben evidenti sono già da quest’affermazione le caratteristiche di autonomia
e autosufficienza. La sostanza di Spinoza si configura dunque come una realtà autoreggente e
autosufficiente da cui necessariamente deriva l’esistenza.Essa è esplicitamente dichiarata come
increrata, non avendo per esistere bisogno di nulla ed essendo causa sui, ossia un ente la cui essenza
implica l’esistenza. Eterna, in quanto non riceve da altro la sua esistenza. Infinita, perché se fosse
finita avrebbe bisogno di altro per esistere contraddicendo il primo punto. Finanche unica, “perché
nella natura non si possono dare due o più sostanze della medesima natura ossia del medesimo
attributo”. E’ interessante rilevare come quest’ultima particolarità può apparire similare al principio
dell’identità degli indiscernibili di Leibniz, secondo cui in natura nulla è uguale ad un altro essere,
“non foss’altro che per la posizione differente che entrambi occupano”. Per cui Dio, non traendo da
nessun’altro se non da se stesso la capacità di essere, conserva nella sua stessa natura la propria
ragion d’essere e non può non esistere. E’ questa la prova ontologica già applicata da Cartesio nel
Discorso sul metodo come certificazione dell’ esistenza di Dio e che vede in S. Anselmo d’Aosta il
primo teorico. Gli uomini e il mondo allora non esistono per virtù propria e devono dunque
necessariamente derivare o dipendere da un altro ente superiore. Trova cosi applicazione la
cosiddetta prova a posteriori. Ecco come il filosofo in un passo dell’Ethica esplica tale concetto:
“noi esistiamo in noi o in un’altra cosa che esiste necessariamente.”(Eth. I prop. 11) In tal modo, la
speculazione filosofica di Spinoza perviene ad una forma di panteismo o di panenteismo. Dio è in
tutte le cose e tutte le cose sono in Dio. Ecco allora ciò che non compresero i membri della
comunità Mahamad quando accusarono quest’uomo di ateismo. Non è ateismo la filosofia di
Spinoza, ma panteismo. Non è priva di Dio, ma al contrario presuppone Dio in ogni ente.Deus sive
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natura, è talora l’affermazione erta a suo emblema:Dio è nella natura, nell’arte, siamo noi. Una
considerazione dell’uomo quindi non pessimistica, come qualcuno ha evidenziato,ma ottimistica. In
Spinoza c’è l’attribuzione alle capacità umane di qualcosa che forse è più grande delle sue stesse
potenzialità. Homo homini deus, l’uomo deve farsi dio dell’altro uomo, sostiene il filosofo con toni
probabilmente più speranzosi che oggettivi. Più che un’analisi realistica del vero, essa sembra
forse una sfida futura posta all’uomo.Dicevamo prima che tra le caratteristiche fondamentali della
Sostanza vi è quella dell’unicità. Essa è unica e per la stessa ragione non divisibile in più parti. Non
si scompone in “sub-sostanze”.Ricorrente è la similitudine con l’acqua che non perde la sua identità
molecolare sebbene sia versata in molteplici botti. Se la Sostanza stessa non ha bisogno di
null’altro, non possono esistere delle “sostanze minori” che dipenderebbero dalla sostanza madre.
Non c’è una gerarchia monadologica, ma è Dio che ingloba in sé l’intera creazione o, usando
termini maggiormente precisi, l’intera derivazione. Risolto è anche il dualismo di Cartesio. Nel
panteismo spinoziano non trovano luogo suddivisioni ousiologiche tra res cogitans e res extensa.
Queste in effetti sarebbero dipese comunque da Dio, che rappresentava per l’uomo la sua garanzia
metafisica, la continuazione dei “cogiti”, si diceva in risposta all’occasionalismo e a Gassendì. E se
esse avevano bisogno di qualcosa, Dio, e da esso dipendevano, tradivano in tal modo il principio di
unicità che li caratterizzava. La teorizzazione di “sostanze dipendenti”, questa era la contraddizione
in termini della filosofia di Cartesio. La Sostanza pur nella sua unicità ontologica si articola in
attributi e modi. Spinoza definisce l’attributo “ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come
caratterizzante la sua essenza”. Gli attributi, discendendo da Dio che è infinito, sono anch’essi
numericamente illimitati. Alla mente umana tuttavia è possibile percepirne soltanto due:l’estensione
ed il pensiero. Sembra quasi una reminiscenza cartesiana. Eppure le due res erano considerate
sostanze. Res appunto. Qui sono viste come attributi della sostanza. Questa la differenza intercorsa
tra Descartes e Spinoza. “La cosa estesa o la cosa pensante sono o attributi di Dio o affezioni degli
attributi di Dio.” (corollario II della prop. XIV) Controversa è stata la questione se gli attributi
partecipassero della sostanza o fossero ad essa estranei. Nel corso degli anni due filoni di pensiero
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si sono contrapposti riguardo tale qaestio. Da una parte l’orientamento “modalistico”, capeggiato
da Hegel, che sosteneva l’estraneità degli attributi. Dall’altra Fischer e Gueroult ne rivendicavano
l’omogeneità.
Il modo invece è “quod in alio est”.Non ha esistenza autonoma, ma dipende dall’attributo a cui si
riferisce. Sono manifestazioni o concretizzazioni particolari degli attributi. Possono essere pensati
sono in virtù della Sostanza e dei suoi attributi. Sono dunque “ciò che in altro e per il cui mezzo è
pure concepito.” A differenza della sola infinità degli attributi, si possono distinguere modi infiniti e
modi finiti I modi infiniti rappresenterebbero il prodotto di ciò a cui ineriscono. Dato per attributo il
pensiero, il suo modo infinito è l’idea. Per l’estensione, il corpo. I modi finiti invece stabiliscono
questo o quel corpo in particolare. Questa o quell’idea. I modi infiniti particolarmente si
suddividono in modi immediati e mediati.Tra i primi si riconoscono sia il movimento (Breve
Trattato) o la quiete (lettera al medico Schuller).Dei modi infiniti mediati Spinoza dà solo un
esempio:la forma esteriore di tutto l’universo (Ep. LXIV).Utilmente esemplificativo risulta
l’esempio chiarificatore fornito da Spinoza per meglio comprendere la Sostanza, gli attributi, i modi
ed i rapporti che intercorrono tra loro. Considerando la Sostanza come un Oceano, l’acqua,
elemento caratterizzante, rappresenterebbe l’attributo, le onde i modi infiniti e il movimento delle
singole onde quelli finiti. Accennavamo prima alla presenza della necessità nella Weltanschauung
spinoziana. Nell’universo nulla avviene a caso, ma tutto ha una determinazione ben programmata.
E’ la casualità che cede posto alla causalità. Tutto ciò che accade ha quindi una causa che l’ha
mosso. E’ la necessità, e non affatto il caso, a regolare il mondo, il suo andamento, le scelte
dell’uomo. L’uomo, dunque. Anche la nostra stessa vita non siamo noi a deciderla, ma è stata già
determinata. Spinoza è la negazione del libero arbitrio, della possibilità da parte di ogni essere
umano di poter decidere il proprio avvenire. L’ “Homo faber fortunae suae”, pronunciata per prima
da Appio Claudio Cieco e poi ripresa da tutta la corrente rinascimentale, assiste indenne alla sua
frammentazione. E’ il determismo, non il finalismo, a regolare le azioni.Un meccanismo di causa ed
effetto che non presuppone nessun intervento né umano né divino negli automatismi delle leggi
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della natura. “Nihil divinum”, scriveva Bernardino Telesio distaccandosi dalle concezioni magicoalchemiche dell’ermetismo rinascimentale. L’uomo dunque è solo illuso di poter scegliere secondo
la propria volontà, ma in realtà è inglobato in un progetto divino a cui non può sottrarsi. Non ci si
può opporre al destino, ma al massimo accettarlo. E proprio nell’accettazione del destino, l’Amor
fati, risiede la libertà di ognuno. Fin troppo evidenti sono le analogie con lo stoicismo, che scorgeva
l’essere umano come ineluttabilmente incapace di sottrarsi all’ordine programmato. Un Dio però
che non agisce per volontà. E questa è la ragione per la quale non può creare. Se creasse, e
conseguentemente agisse per volontà, questo comportamento implicherebbe un capriccio, un
arbitrio, una scelta che Dio stesso in quanto tale non può emettere. Ecco anche perché Spinoza dà
vita ad una filosofia rigidamente determisnistica, e non finalistica. Non c’è nessun fine nelle cose,
benché l’esperienza confermi il contrario. Se Dio agisse per un fine, questo implicherebbe che Egli
fosse mancante di qualcosa alla cui mancanza sopperire.Non sarebbe allora perfetto, se bisognasse
della benché minima cosa. In questo modo il Nostro si distacca ancora di più dalla religione
convenzionale che perorava non solo il creazionismo, ma anche il finalismo.Con queste parole il
filosofo esprime con netta chiarezza in quale modo i sensi e l’abitudine quotidiana ci facciano
credere che ogni “visa” ha una sua specifica finalità: (Ethica more geometrico demostrata)
“…Poiché in sé e fuori di sé gli uomini trovano parecchi mezzi
che contribuiscono al conseguimento del proprio utile, per esempio
gli occhi per vedere, il sole per illuminare, hanno tratto motivo per
considerare tutte le cose naturali come mezzi per il proprio utile.”
L’essere umano, già privato dell’arbitrio decisionale sul proprio destino, è inoltre considerato come
un elemento naturale non al di sopra degli altri esseri. Contro l’antropologia dell’epoca, Spinoza
sostiene la teoria della naturalità dell’uomo. Questi non è un eccezione, non è “un impero
nell’Impero della natura”, ma fa parte di una specie, quella umana, sottoposta come le altre alle
leggi dell’universo.
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Riguardo le passioni, si è parlato, per quanto concerne l’interpretazione spinoziana, di
“geometrismo morale”. Spinoza non aveva atteggiamenti di dura condanna nei confronti delle
passioni: le considerava come ostacoli per raggiungere la visione completa per conoscere la realtà.
Il comportamento da assumere è presto detto:
“Non ridere, nec lugere, nec detestari, sed intelligere…”
Ogni cosa tende allora a preservare il suo stato in virtù di uno sforzo autonomo, “conatus”,
mediante il quale riuscire ad autoconservarsi. Concetto, questo, di matrice fortemente stoica
(oikeiosis).Quando tale sforzo si riferisce alla mente, è detto Voluntas. Quando si riferisce anche al
corpo Appetitus, definito l’essenza stessa dell’uomo. Quando leibnizianamente l’Appetitus ha
appercezione, è cioè cosciente di sé, si chiama Cupiditas. A questi sentimenti seguono due diverse
sensazioni:la Tristizia, legata al passaggio da una perfezione maggiore ad una minore, e la Laetitia,
connessa al raggiungimento di una perfezione maggiore.(Leibniz nella sua “monadologia” lo
chiamerà Appetizione). Dalla stesura di questi concetti, si configurano anche le definizioni di Bene
e Male. Bene è tutto quello che favorisce lo sforzo di autoconservazione, Male tutto ciò che cerca di
impedirlo.
Anche in Baruch parliamo, dunque, di intellettualismo etico. L’intellettualismo etico ha avuto
diversi interpreti nel corso dell’evoluzione del pensiero filosofico. Il primo, si ricorderà, fu proprio
Socrate
in quanto concepì il progresso morale parimenti al progresso conoscitivo. Se già
consideriamo alcuni passi del “Trattato sull’emendazione dell’intelletto” possiamo già scorgere una
considerazione graduale della conoscenza. Infatti anche Spinoza, come Platone, parla di gradi della
conoscenza. Il primo stadio esprime la percezione sensibile o l’immaginazione. Ciò che la mente
percepisce a causa della conoscenza di primo genere, sono idee “confuse e frammentarie”.Tale
cognizione appare dunque pre-scientifica, in quanto isola e non connette le realtà secondo il loro
ordine.Trova rispondenza morale a questo comportamento intellettuale la schiavitù delle passioni a
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cui l’uomo è sottoposto. Sulle “idee comuni” invece si fonda la conoscenza di secondo genere. Una
conoscenza razionale, ordinata, che capta idee “chiare e distinte”. E’ il grado di conoscenza tipico
della scienza, capace questa di connettere le realtà secondo il loro ordine. E’ un punto di vista che
definiremmo platonicamente “dianoetico”, relativo pertanto ad una interpretazione scientifica del
mondo. Una vita virtuosa e fondata sulla razionalità è il corrispondente etico di questo stadio.Il
terzo ed ultimo stadio della conoscenza è quello noetico, basato sulla “scienza intuitiva” della realtà.
Questa visione, che potremmo definire imparziale e completa, consiste nella contemplazione della
Sostanza stessa, dell’idea direbbe Platone, della costituzione di triade ousiologica: modi e attributi
nella Sostanza e la Sostanza in essi. Dio nelle cose e tutte le cose in Dio. Panteismo e panenteismo.
E’ il grado massimo di beatitudine a cui l’uomo può aspirare, il raggiungimento completo di uno
stato atarassico non bisognoso di nulla perché libero dalle passioni e dalla servitus humana.E’
l’Amor dei intellectualis,l’amore intellettuale di Dio, che inebria lo spirito umano di ebbrezza e
piacere giubilare:
“Quanto più la mente gode di quest’amore divino ossia della
beatitudine, tanto più essa conosce, cioè tanto maggiore è la
potenza che ha sugli affetti, e tanto meno essa patisce dagli affetti
che sono cattivi…”
Solo chi si erge da questa altezza può godere della vera e completa visione del Tutto. Secondo la
percezione sensibile, e di conseguenza la conoscenza di primo genere, il mondo appare
profondamente difforme da quella reale contemplabile noeticamente. I sensi anche adesso ci
ingannano, conformemente a quanto sostenne Platone e il più vicino Cartesio. Ai nostri occhi il
mondo sembra multiforme, contingente e temporale. Realmente esso è invece unitario, in quanto la
Sostanza è unica, necessario e necessitato ed eterno.
L’intero sistema spinoziano, da come si è visto, elabora concetti di libertà, necessità, libero arbitrio,
di divinità e creazione stessa che sono in netta antitesi alle rispettive teorie che animavano il mondo
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prima di allora. Il Dio che emerge dagli scritti ingialliti e ammuffiti non è la
divinità
convenzionale, ma è il Dio dei filosofi, il Dio ragione, in una straordinaria anticipazione del deismo
illuministico. Una grande rivoluzione, quella di Spinoza, sia metafisica che teologica. Si…o forse
entrambe le questioni insieme, in quanto nella sua filosofia si assiste alla coincidenza perfetta di
teologia, metafisica e ousiologia. Dio, e dunque la teologia, è tuttavia la Sostanza, ousiologia,ed
entrambe fanno parte di un ambito metafisico, astratto dal mondo dei sensi e dell’immaginazione.
Altrettanto anticipatrici e rivoluzionarie sono le teorie riguardo la tolleranza , il rispetto reciproco, la
fratellanza. Nel Trattato teologico.politico viene elaborata, e consigliata, una form adi Stato non
oppressivo, non tirannico e dispotico, ma liberale e fraterno. Un uomo che parla di fratellanza e di
affetto sebbene sia stato ingiuriato e scacciato da coloro che appartenevano alla sua stessa
“famiglia”. Spinoza ai giorni nostri sta a simboleggiare l’emblema della coerenza e della disciplina,
di una virtù non per forza religiosa, ma capace di albergare anche in animi che non conoscono o
condividono la Rivelazione o il Dio ebraico, in un intuizione quattrocentesca che già per il bene
odierno dell’Occidente ebbero ingegni sommi come gli umanisti delle corti del nostro paese.
A cura di Gianluca Forgione – [email protected]
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