AmVis Ime
Non fa rumore…
03/09/2009 - Da sterminare
Dall'inizio dell'anno 28 Awà sono stati ammazzati. Si suppone un piano per
estinguerli e occuparne le preziose terre
"Nell'omicidio dei miei compagni il 26 agosto è coinvolto anche l'esercito": La denuncia arriva da
Eder Burgos, il portavoce degli indigeni Awá, che non si stanca di ricordare, con la morte nel cuore,
il massacro di dodici persone tra cui sette minorenni. Tra questi un bambino di appena un anno. "Ci
sono oscuri interessi che cercano di insabbiare i veri autori della strage", spiega, un fatto che ha
commosso l'opinione pubblica non solo colombiana.
Tutto è accaduto nelle prime ore del mattino di mercoledì
scorso, in una casa del resguardo indigeno di Gran
Rosario, nel Tumaco, dipartimento al confine con il
Nariño, nel sud-est del paese. Uomini incappucciati e in
mimetica hanno sterminato questo gruppo di persone in
una casa di El Divisio. Non è ancora ufficiale a che gruppo
appartenesse lo squadrone che ha sterminato il gruppo di
Awà, ma è noto che si tratti di un'area a vasta presenta
paramilitare. E da sempre i paracos vanno a braccetto con
l'esercito.
Eppure, per questa strage c'è già un capro espiatorio che le autorità si sono affrettate a consegnare
alla giustizia. Si tratta di Jairo Miguel Paí, anch'egli indio, da tempo espulso dalla comunità per i
suoi legami con i paramilitari. Ma Burgos non ci sta. Paí, secondo gli Awà, merita di restare dietro
le sbarre, certo, ma perché ha tentato di estorcere denaro a molta gente, non certo perché mandante
o responsabile di un crimine tanto efferato. "Adesso, quello che vogliono (le autorità di polizia) è
che le indagini portino a dei colpevoli, siano quelli che siano", ha spiegato, precisando, appunto,
che la sua comunità non condivide la tesi che Paí sia l'autore della strage.
E i fatti sembrano dar loro ragione. Non solo la zona è ad alta presenza paramilitare, e quindi sotto
il loro diretto, quanto violento e illegale controllo, ma l'esecuzione dei dodici indigeni è avvenuta
proprio nella casa di Sixta Tulia García, la donna 35enne che aveva
osato denunciare la morte del marito, Gonzalo Rodríguez, puntando il
dito contro l'esercito. Coincidenza o chiaro segnale di avvertimento in
puro stilo mafioso?
I nativi non hanno dubbi. Siamo di fronte all'ennesimo crimine di Stato,
insabbiato e deviato grazie a un caprio espiatorio. E per questo difficile
da dimostrare.
A indagare è la Fiscalia e l'unica cosa certa è che l'esecuzione è stata
fatta usando pallottole calibro nove millimetri. Certo, c'è anche la
testimonianza di chi descrive uomini in mimetica, ma in Colombia la
mimetica la indossano tutti, indistintamente: esercito, paramilitari e
persino guerriglieri. L'unico elemento distintivo, dato che sicuramente
fasce e simboli sono scrupolosamente rimossi prima di ogni retata in cui
8/09/2009
AmVis Ime
l'anonimato è fondamentale, possono essere le calzature. È cosa nota che i guerriglieri di Forze
armate rivoluzionarie colombiane o Esercito di liberazione nazionale siano soliti indossare stivali in
plastica nera, in puro stile contadino. A differenza di militari e paracos che invece camminano con
anfibi rinforzati e pieni di stringhe. Un piccolo particolare che però la gente calata in simili realtà è
solita notare.
Intanto, a rincarare la dose sull'esistenza di un piano criminale teso a sterminare gli Awà è il
presidente dell'Unità indigena di tale popolo (Unica), Gabriel Bisbicus, che parla di "forze oscure,
con la complicità di organismi di sicurezza statale". E ricorda come da mesi gli Awà siano pedinati,
minacciati, perseguitati, sia nel loro territorio che a Pasto, la capitale dello stato di Nariño. Da
gennaio, sono 28 i morti ammazzati tra i 27mila cinquecento Awà, sparsi nei 21 resguardos tra
Nariño e Putumayo, in un territorio di 322mila ettari. Tanto che le associazioni in difesa delle
popolazioni indigene lo definiscono il popolo che corre il maggior rischio di estinzione in
Colombia.
Gli Awà, che in Awapit significa 'gente', hanno già subito
molto dal conflitto armato che da 45 anni logora la
Colombia. Intanto, nati cacciatori, hanno dovuto diventare
agricoltori e allevatori di animali domestici, perché
impossibilitati a muoversi dietro animali e branchi. Coloni,
guerre civili, cercatori di oro e di legno, cocaleros, mine
antiuomo, conflitti a fuoco, retate e blitz orchestrati da
quelle forze che agognano le loro terre ricche e fertili, li
hanno costretti a cambiare drasticamente stile di vita,
limitandoli e castrando una cultura millenaria. E, come se
non bastasse, restano nell'occhio del mirino.
E le altre popolazioni native non se la passano certo meglio in Colombia. Il relatore speciale
dell'Ufficio Onu sui diritti umani dei popoli indigeni, James Anaya, in luglio ha dichiarato che la
situazione di queste etnie nel paese andino "è grave, critica e profondamente preoccupante".
Stella Spinelli – Peacereporter
Approfondimenti: - Colombia – Scheda conflitto, Peacereporter
- Colombia – Rapporto Amnesty 2009
Dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (10 Dicembre 1948)
Articolo 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
Articolo 8
Ogni individuo ha diritto ad un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro
atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.
Articolo 12
Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua
famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua
reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o
lesioni.
8/09/2009
AmVis Ime
Dal mondo…
03 September 2009 - Un grido da Ganfuda:
"Venite a vedere come ci fanno morire"
BENGASI – “La comunità
internazionale deve sapere. Siamo
pronti a morire. Da ieri abbiamo
iniziato uno sciopero della fame.
Abbiamo paura. Questi ci ammazzano.
Meglio tornare. Meglio tornare nel
nostro paese, fanculo la guerra, in
Somalia almeno eravamo liberi. Qua
dentro stiamo tutti impazzendo. Nessun
essere umano potrebbe tollerare quello
che sta accadendo qui. La comunità
internazionale deve sapere”. Dopo aver
pubblicato le foto delle torture inflitte
dalla polizia libica ai rifugiati somali
arrestati sulla rotta per l’Italia e
detenuti a Ganfuda, vicino Bengasi,
siamo riusciti a raggiungere
telefonicamente uno di loro. Questo è il
suo drammatico racconto. Alle sue
parole non rimane niente da
aggiungere.
“È cominciato tutto di sera, intorno alle
venti. Dopo cena. Sai Ganfuda è una
grande prigione. E al centro c’è un
grande cortile. Dove ci portavano la
sera per l’ora d’aria. All’epoca eravamo un migliaio, di cui la metà somali. Quella sera, a un certo
punto, somali e nigeriani hanno assaltato in massa il cancello per fuggire. I poliziotti erano
sbalorditi. Erano in minoranza, non sapevano cosa fare. All’inizio ci hanno attaccato con i
manganelli. Poi con i coltelli, e alla fine, quando la situazione era ormai completamente fuori
controllo, hanno iniziato a sparare, per spaventarci. Sparavano in aria. Ma alcuni sono stati feriti.
Hai visto le foto che abbiamo mandato a Shabelle? Lì si vedono! Sono quelli con le garze alla
schiena, loro li hanno portati in ospedale, e li hanno riportati in carcere dopo due o tre giorni. Da
quel giorno è un inferno. Ci tengono rinchiusi in cella 24 ore su 24, non possiamo nemmeno
affacciarci alla feritoia della porta.
Io di cadaveri personalmente ne ho visti cinque. È stata la polizia a dirci il giorno dopo che i morti
erano 20. Non conoscevo bene le vittime. Però due cari amici fanno parte del gruppo dei 130 che
sono scomparsi. Tutti i giorni mi telefonano i loro familiari, da Mogadiscio, e mi chiedono notizie.
Ma nessuno sa che fine abbiano fatto. Se siano riusciti a fuggire, o se siano in un altro carcere. Con
uno di loro avevamo fatto il viaggio insieme. Eravamo partiti dal Sudan sulla stessa macchina.
Quando ci hanno arrestato, sei mesi fa, avevamo appena attraversato il Sahara. Prima ci hanno
portato nel carcere di Kufrah. Siamo stati lì per un mese. Poi ci hanno trasferito qui a Ganfuda.
8/09/2009
AmVis Ime
Dicevano che questo era il centro dei somali.
Dopo il massacro ci hanno chiamato Amnesty e Human Rights Watch, dicendo che avrebbero
avvisato le Nazioni Unite. Ma non abbiamo visto nessuno. Intanto dicono che ci sia stata una specie
di amnistia. Un accordo tra la Libia e il governo somalo per cui una parte dei somali detenuti in
Libia saranno rilasciati. Ma quell’accordo non vale per noi? Perché il nostro primo ministro non ci
viene a visitare? L’unico modo per uscire è la corruzione. C’è uno strano giro sai. C’è un accordo
tra gli intermediari somali e certi poliziotti libici. Paghi 1.100 dollari e sei fuori.
Voi da fuori non potete immaginare. Siamo disperati, ci lasceremo morire con questo sciopero della
fame! Siamo persone, non possono trattarci come animali!Guarda, davanti a me c’è un ragazzo di
16 anni. Mi fa una pena. L’hanno accoltellato cinque volte, nella coscia. Siamo profughi, non
possono trattarci così. Prendi il mio caso. Io ho 25 anni. Ho lasciato Mogadiscio alla fine del 2008.
In Somalia non avevo un lavoro vero e proprio. Sai com’è la situazione. Il paese è allo sbando, è
difficile avere un impiego stabile. E sono dovuto fuggire. L’inglese lo parlo così bene perché ho un
fratello e una sorella a Londra. Il mio progetto era di raggiungerli. Ma non so se lo sia ancora. Vedi
in Libia abbiamo perso la speranza. Non ci resta che la morte. È molto triste. Non riesco a spiegarti.
Dovresti vedere con i tuoi occhi. Scrivi. Scrivi sul tuo giornale che chiediamo alla comunità
internazionale, alle Nazioni unite e al governo somalo di venire qui a Ganfuda a vedere di persona
quello che stiamo passando.
Scrivi sul tuo giornale, che qui in carcere è peggio che in guerra. Perché non siamo liberi, perché
abbiamo perso la nostra dignità. Perché siamo torturati. Prima non ti ho detto una cosa. Tu non sai
cosa è successo dopo la rivolta. Per sette giorni, ogni giorno, a ogni cambio di turno, i militari
entravano nella cella, senza dire niente, si guardavano intorno e poi iniziavano a picchiare. Ci
prendevano a bastonate. Seminavano il terrore. Poi uscivano. E dopo qualche ora arrivava un altro
gruppo. Che poi hanno una specie di manganello elettrico. Ma quello lo usavano soprattutto per
torturare gli eritrei. Credimi. Ti ho detto la verità e voglio essere sincero fino in fondo. Gli eritrei
sono stati torturati più dei somali. Molto di più. E sai perché? Perché sono cristiani. Per un
problema di religione, i poliziotti sono così ignoranti… Alcuni ragazzi stanno impazzendo. Li vedi
la notte, quando tutti dormono a terra. Loro restano in piedi e continuano a parlare al muro, come se
avessero le allucinazioni.
Adesso che mi dici che l’Italia sta respingendo in Libia i somali fermati in mare, non so, forse
sarebbe meglio rispedirci tutti direttamente in Somalia. Non so come se la passano i respinti nei
campi a Zuwarah e Tripoli, ma se è come da noi a Ganfuda, tanto vale che ci rimpatriate tutti.
Portateci via. Dove volete. Anche in Somalia. Ma fateci uscire da qua”.
Gabriele Del Grande - Fortresse Europe
Approfondimenti: - Italia, respinti in mare 75 immigrati somali che chiedevano
asilo politico - Peacereporter
- Convenzione sullo statuto di rifugiati, 1951
8/09/2009
AmVis Ime
Dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (10 Dicembre 1948)
Articolo 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
Articolo 14
1 ) Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
Dalla Convenzione sullo statuto di rifugiati (Ginevra, 28 Luglio 1951)
Art. 33 Divieto d’espulsione e di rinvio al confine
1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato
verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a
motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua
appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.
Dalla Costituzione della Repubblica italiana (1 Gennaio 1948)
Art. 10.
L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei
trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le
condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.
Buone nuove 
8/9/2009 - Malaria, passo decisivo. Nel 2012
pronto il vaccino
Ottimi risultati dai test sugli uomini effettuati dall'équipe di Joe Cohen.
Infezione evitata nel 64% dei casi. Investiti 300 milioni di dollari
ROMA - Un vaccino contro la malaria che evita l'infezione
nel 64% dei casi è un grande successo sociale, economico e
scientifico. Significa ogni anno circa 300 milioni di malati in
meno e un milione di morti in meno (perlopiù bambini) e un
bel freno all'espansione della malattia dalle zone tropicali ad
Europa e Stati Uniti. Un successo scientifico a cui si lavora da
30 anni. La sfida: riuscire a far produrre al sistema
immunitario anticorpi che colpiscano il microrganismo in un
punto vitale ed in tale quantità da distruggerlo in pochi
minuti. È il breve tempo in cui il Plasmodio della malaria
viaggia nel sangue, dal punto di inoculazione della zanzara
sino alle cellule del fegato dove si moltiplica, al riparo dagli anticorpi. E poi nelle successive
migrazioni, sempre di pochi minuti, dalle cellule del fegato ai globuli rossi, dove è di nuovo
intoccabile.
8/09/2009
AmVis Ime
Ci è riuscito Joe Cohen, 65 anni, ex ricercatore della New York University, ora capo della ricerca
sui vaccini che sfidano malattie infettive imprendibili come malaria, tubercolosi e Aids, della Glaxo
Smith Kline, azienda incaricata della "mission impossible" dalle forze armate statunitensi 30 anni
fa. Erano gli anni del grande impegno militare nelle zone tropicali e la malaria era a volte più
pericolosa della guerriglia.
"Abbiamo lavorato con il Walter Reed Army Institute of Research (WRAIR) americano sul vaccino
antimalarico sin dai primi anni '80, investendoci 300 milioni di dollari. - spiega Cohen - Poco dopo
l'inizio della collaborazione fu scoperto il gene del "nemico" strategico per la sua aggressione
all'uomo. Produce la proteina della superficie del parassita della malaria che gli permette di trovare
riparo nelle cellule del fegato. Poi riuscimmo a fondere questa proteina con quella del nostro
vaccino contro l'Epatite B. La risultante particella RTS, S stimolava la produzione di anticorpi.
Aggiungemmo dei "potenziatori" della reazione di difesa, o adiuvanti, sviluppati da noi, e la
reazione immunitaria crebbe ulteriormente". Eppure realizzare un vaccino contro la malaria è
compito molto difficile. Il parassita che la causa, svolge il suo ciclo vitale in parte fuori dell'uomo,
nell'insetto vettore, e poi dentro le cellule del malato, dove non è colpito dagli anticorpi.
Ma la particella RTS, S ha dimostrato di riuscire a stimolare una produzione di anticorpi più che
sufficiente a dare la protezione. Non è l'unico vaccino allo studio. "Vi sono circa altri 70 vaccini
antimalarici in preparazione, ma il nostro - precisa Cohen - è 15 anni avanti a tutti". Ottimi i risultati
della sperimentazione umana? "Iniziò su adulti sani negli Usa e Belgio. Dal 1998 in Africa su
soggetti a rischio malaria, prima adulti e poi bambini per avere un vaccino somministrabile
nell'infanzia dove la malaria fa 900.000 morti l'anno. Il vaccino ha dimostrato di ridurre del 64% il
rischio di contagio, abbattendo drasticamente la mortalità. Per questo è iniziata a maggio 2009 la
sperimentazione finale che porterà alla registrazione entro 3 anni, in accordo con l'Organizzazione
Mondiale della Sanità".
Arnaldo D'amico - Repubblica.it
Approfondimenti: - Malaria: più di 1 milione di morti l’anno – Medici senza
frontiere
Dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (10 Dicembre 1948)
Articolo 25
1) Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere
proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione al vestiario, all'abitazione, e
alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di
disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi
di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
No Excuse 2015 – campagna del millennio
Obiettivo 6
Combattere l’HIV/AIDS e le altre malattie
Il sesto obiettivo del Millennio stabilisce che entro il 2015:
- si arresti e cominci una inversione di tendenza della crescita dell’HIV /AIDS
- si arresti e cominci una inversione di tendenza dell’incidenza della malaria e delle altre grandi
malattie
8/09/2009