ASTRONOMIA 4
FISICA/
MENTE
La storia dell'astronomia dai miti
dell'antichità all'Universo infinito
PARTE IV: La gravitazione universale di Newton e
l'esplosione dell'universo di Herschel
Roberto Renzetti
ALLA PARTE III
NEWTON: LA GESTAZIONE E PUBBLICAZIONE DEI PRINCIPIA
Il primo tentativo di comprendere la gravitazione Newton lo fece negli anni mirabili del
1665-1666, quelli della leggenda della mela. L'intuizione fondamentale di Newton fu quella
di mettere insieme la caduta di un oggetto, la Luna legata alla Terra e le leggi di Kepler. La
Luna è evidentemente legata alla Terra da una qualche forza. Estrapolando ci si può chiedere
se si tratta della stessa forza che lega la Terra al Sole e il Sole agli altri pianeti e così via.
Insomma si tratta di capire se vi è una qualche unificazione tra forze, come si direbbe oggi.
Kepler aveva stabilito che le orbite dei pianeti intorno al Sole sono ellittiche. Ma un
moto su un'orbita quasi circolare (non rettilinea) deve prevedere delle forze centrifughe
come Huygens aveva chiaramente stabilito. Queste forze si potevano calcolare (per una
circonferenza) e quindi si aveva la possibilità di capire quanto dovevano essere intense le
forze centripete, quelle che tiravano verso il centro. Infatti, per mantenere un'orbita, vi deve
essere equilibrio tra le due forze. E Newton fece questi calcoli nell'approssimazione di orbite
circolari (non troppo lontane da come in realtà sono). Per fare i conti in modo più attinente
alla realtà realizzò un'esperienza in cui si poteva valutare la pressione esercitata da una
piccola sfera ruotante all'interno di una sfera cava sulla superficie interna della sfera stessa.
Con la terza legge di Kepler si calcolò la forza centripeta che avrebbe dovuto trattenere un
pianeta nella sua orbita. Iniziò a capire che tale forza va come l'inverso del quadrato della
distanza del pianeta dal Sole. Calcolò quindi la forza necessaria a mantenere la Luna in
orbita intorno alla Terra e la confrontò con quella di gravità. Insomma, una linea di pensiero
era stabilita anche se mancavano precisi raccordi, misure e calcoli. Visto il tutto a posteriori
sembra che le cose stiano a posto ma incomplete. Ma Newton non portò avanti il suo lavoro
che comunque era carente di un qualche dato sperimentale come la corretta lunghezza
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dell'arco di meridiano che sarebbe servita per una determinazione precisa della distanza
della Terra dalla Luna. Se avesse disposto di una biblioteca, che non c'era nel luogo dove si
era ritirato, avrebbe potuto avere dei dati che gli mancavano e si sarebbe accorto che la sola
gravità non sarebbe bastata a controbilanciare la forza centrifuga della Luna intorno alla
Terra. Inoltre vi era il problema di capire se la gravità, da sola, era in grado di originare la
forza centrale che teneva la Luna intorno alla Terra o se fosse necessario ricorrere a qualche
altra forza non nota (qui vi era il rischio che Newton avesse la tentazione di assegnare questa
forza eventualmente non nota a qualche vortice di tipo cartesiano se non, peggio, a delle
emanazioni di tipo kepleriano).
Un fatto nuovo si verificò nel 1672. Nel 1667 Luigi XIV aveva fondato l'Osservatorio
di Parigi e, nell'ambito delle attività di tale osservatorio, era stata affidata all'abateastronomo Jean Picard (1620-1682) l'impresa di misurare un arco di meridiano per arrivare a
determinare la grandezza della Terra. Picard, servendosi del metodo indicato nella
Cosmographia di Francesco Maurolico (triangolazioni ed orientazione mediante la Stella
Polare e la Stella Delta di Cassiopea) e di alcune misure già fatte da Snell, misurò la
lunghezza di un arco del meridiano passante per Parigi (stabilì che un grado di meridiano
corrispondeva ad una lunghezza di 111,196 chilometri con una precisione, come si vede,
molto grande). Il lavoro era iniziato nel 1669 ed i risultati furono pubblicati proprio nel 1671
in una memoria dal titolo Mesure de la Terre. Questi risultati di Picard furono comunicati
alla Royal Society da Oldenburg l'11 gennaio 1672 e Newton ebbe l'opportunità di rifare i
suoi calcoli con molta maggiore precisione. Poiché si rese conto che tutto tornava il suo
parossismo divenne tale che non riuscì materialmente a finirli dandone incarico ad un
conoscente. Newton era arrivato a stabilire con esattezza la forza che lega la Luna alla Terra.
E qui nasce subito un fatto del tutto incomprensibile: perché Newton tacque per quasi venti
anni, fino alla pubblicazione dei Principia, senza far conoscere questo suo stupefacente
risultato ? Vi doveva essere qualcosa che gli sfuggiva e che lo rendeva timoroso di
squalificarsi per sempre. Intuiva che doveva esservi una attrazione universale ma egli
lavorava solo con la forza di gravità. Come accordare le varie cose ? Inoltre vi era il
problema di come tener conto della distanza Terra-Luna. In alcuni calcoli Terra e Luna
erano considerate puntiformi ma quando si passava alla gravità, occorreva considerare la
distanza tra i centri di Terra e Luna o quella tra le rispettive superfici ? Ed in ambedue i casi,
qual era il raggio corretto della Terra ? Troppe incertezze. Newton preferì aspettare. Nel
1673 un'altro pezzo utile alla comprensione del problema si aggiunse: Huygens aveva
pubblicato un suo lavoro sulle forze centrifughe, l'Horologium oscillatorium (l'altro, il De vi
centrifuga, sarà pubblicato postumo nel 1703 ma forse alcuni risultati erano stati comunicati
direttamente da Huygens a Newton). E la relazione trovata da Huygens è indispensabile per
determinare la dipendenza dall'inverso del quadrato, occorre metterla a sistema con la terza
legge di Kepler per ricavare tale dipendenza.
Per 6 anni questa ricerca sembrò cadere nel dimenticatoio da parte di Newton. Leggo
da Hayli:
la seconda legge di Kepler o legge delle aree, enunciata nel caso delle ellissi
planetarie, è vera per ogni movimento, purché la forza che si esercita su un
punto materiale sia una forza centrale, passi cioè da un punto fisso; se questa
forza e inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal centro
d'attrazione al punto materiale, il movimento di questo avverrà secondo una
sezione conica, cioè secondo un cerchio, una ellissi, una parabola o un'iperbole,
essendo il centro di attrazione nel centro del cerchio o in uno dei fuochi della
conica; inversamente un punto materiale che descrive una ellissi attorno ad uno
dei suoi fuochi, come nel caso dei pianeti, è sottoposto ad una forza centrale
diretta verso il fuoco, inversamente proporzionale al quadrato della distanza.
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Arriviamo ad una data molto importante, al 1684. Agli inizi di quell'anno vi era stato
un incontro tra tre eminenti astronomi, fisici e matematici: Halley(1), Hooke e Wren(2).
Avevano discusso della frontiera della conoscenza all'epoca, dell'argomento che tutti
studiavano ma che aspettava una soluzione definitiva. Tutti e tre questi personaggi avevano
studiato il problema ed erano arrivati, per vie diverse, a stabilire che la legge di attrazione
cercata doveva avere un andamento con l'inverso del quadrato della distanza. Il problema
comune era il conciliare tale legge con un'orbita ellittica. Si girava intorno alla forza di
gravità e quindi agli oggetti in caduta e alla ricerca di analogia con la caduta della Luna
sulla Terra per spiegarne la permanenza in orbita. Il tutto si originava da un passo del
Dialogo sui Massimi Sistemi di Galileo nel quale si attribuisce a Platone un'origine del
sistema planetario da un moto di caduta. Le conversazioni tra i tre portarono ad un nulla di
fatto. Ma Halley fu informato da Wren che Newton (che Halley aveva conosciuto nel 1682),
si era in precedenza occupato del problema che li assillava e ciò lo convinse a recarsi a
Cambridge per incontrarlo. La cronaca dell'incontro è raccontata da A. De Moivre(3). Halley
chiese a Newton quale traiettoria orbitale dovrebbe seguire un corpo che ruota intorno ad un
altro con lo attrae con una forza inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.
Newton rispose che tale traiettoria era un'ellisse. Halley gli chiese come faceva a saperlo e
Newton rispose che lo aveva calcolato. Si diresse allora verso il luogo dove conservava i
calcoli ma ... non li trovò. Si accordarono allora che Newton avrebbe rifatto i calcoli e li
avrebbe inviati ad Halley. L'impegno fu mantenuto ed a novembre Halley li ebbe inoltre
ricevette anche un trattato, scritto da Newton, De motu corporum in gyrum, in cui erano
risolti una quantità incredibile di problemi di movimento di differenti pianeti. Il lavoro era
chiaro e convincente ed Halley tornò a Cambridge per convincere Newton a presentare i
suoi lavori alla Royal Society. Al ritorno a Londra, Halley fece una relazione alla Società
delle scoperte di Newton e parlò anche del De motu che sarà la base su cui Newton costruirà
i Principia tra il 1685 ed il 1686.
Newton, in quest'opera che è un caposaldo della storia della scienza, era riuscito
finalmente a integrare tutti i singoli pezzi in una elaborazione unica molto solida ed in grado
di sfidare tutte le obiezioni. Integrando quanto ho già detto, Newton aveva fatto ulteriori
passi in avanti: aveva mostrato che la forza che si esercita tra due sfere omogenee è la stessa
che agisce tra due masse puntiformi sistemate al centro delle sfere suddette e che l'orbita che
si ottiene da una legge dell'inverso del quadrato è una sezione conica(4). Aver stabilito ciò
diventa facilmente una parte fondamentale della gravitazione universale: la forza di cui
sopra, risulta proporzionale al prodotto delle masse ed inversamente proporzionale alla
distanza tra i centri delle masse medesime, risolvendo uno di quei dubbi che probabilmente
lo aveva fermato anni prima. Con questo in mano, insieme ai dati sperimentali e le misure
che venivano effettuate (Picard) ed ai risultati teorico-sperimentali di Huygens sulla forza
centrifuga, Newton riuscì finalmente a confrontare la forza di gravità terrestre con quella che
tiene legata la Luna alla Terra ed a trovare la loro identità. Da questo momento era stabilita
un'attrazione universale, un qualcosa che valeva per quella mela come per la Luna, come
per il Sole e tutto lo spazio.
Credo convenga dire le cose in modo più particolare e semplice. Il fatto che i pianeti ed
il Sole nello spazio potessero essere assimilati a punti materiali, poteva essere accettato
senza troppa fatica date le enormi distanze. La cosa che turbava era una mela che cadeva a
due metri dal suolo. Come è possibile qui fare le approssimazioni planetarie ? L'idea geniale
di Newton è quella di affermare che la mela non si trova a due metri dalla superficie della
Terra ma a circa 7000 Km dal suo centro ! Insomma la Terra si assimila ad una massa
concentrata nel suo centro. Quando si va a fare il conto della forza centrifuga della mela la
distanza da considerare non è 2 metri ma circa 7.106 metri. Questo è il succo della stupenda
intuizione di Newton che egli tratta nel Primo Libro (dei tre) dei Principia.
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In relazione a questa scoperta di enorme importanza, Newton riesce ad immaginare
qualcosa di altrettanto evocativo da destare profonda emozione, perfino artistica. Egli ci
presenta un esempio clamoroso del dove si può arrivare immaginando anche senza
sperimentazione, un poco come Galileo che si diceva certo che anche senza esperienze le
cose sarebbero andate in quel modo. Newton sta discutendo dei satelliti. Ed immagina un
satellite artificiale per la Terra. Come metterlo in orbita? La figura che Newton ci offre
spiega benissimo cosa egli pensi.
Vediamo il ragionamento aiutandoci con una figura utilizzata dallo stesso Newton, con
quell'enorme enorme potenza evocativa di cui dicevo che, per chi sa leggere la scienza, è
una vera imponente opera d'arte:
Se ci mettiamo sulla cima di una montagna V e lanciamo un sasso o spariamo un
proiettile, esso cadrà in D, in E, in F o in G a seconda della spinta che gli forniamo. Se la
spinta è più grande ? Allora il proiettile continuerà a cadere ... senza mai incontrare la Terra
sotto di sé. Questa caduta continua è quella che sperimenta un satellite messo in orbita ed è
quella che sperimenta la Luna che cade continuamente intorno alla Terra. Newton fece
anche dei conti utilizzando tre dati: il periodo di rivoluzione della Luna intorno alla Terra, la
distanza Terra-Luna, il raggio della Terra. Trovò alla fine il valore dell'accelerazione di
gravità. Tutto questo a partire da un pregiudizio, da una ipotesi: il fenomeno di caduta è lo
stesso per una mela, per un proiettile, per un satellite. La gravità unifica i tre fenomeni. E
questa conclusione, che rappresenta uno dei primi tentativi di riportare la spiegazione dei
fenomeni naturali a concetti generali, è fondamentale nell'epoca di Newton ed è permessa
solo dalla matematica. Infatti, se Newton avesse sostenuto l'identità dei tre fenomeni con dei
meri ragionamenti, non si sarebbe sottratto all'accusa di ricercare cause occulte.
Con in mano la gravitazione universale, con tutta la meccanica costruita a lato, si apriva
letteralmente un mondo di indagini e di formalizzazioni. Newton si buttò a capofitto dentro
tali elaborazioni anche dimenticando i pasti ed il sonno (come ha raccontato il suo
compagno di stanza a Cambridge, il suo omonimo Humphrey Newton), dividendo tale
lavoro solo con le sue ricerche alchemiche.
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Dopo varie difficoltà di vario tipo (polemiche di priorità, perfezionismo di Newton,
scelta della formulazione matematica, finanziamenti, ...), alla fine, nell'estate del 1687
furono finalmente pubblicati i Philosophia naturalis Principia mathematica. L'opera era in
latino e scritta in modo rigoroso, per chi già aveva confidenza con la materia trattata.
Galileo ed Huygens avevano sviluppato una meccanica dei corpi sulla superficie della
Terra; 1'opera di Newton se ne differenzia per la generalizzazione del principio d'inerzia, per
l'introduzione del concetto di forza attraverso una definizione, alquanto discutibile, del
concetto di massa e per l'estensione della validità delle leggi meccaniche a tutto l'universo.
Per ciò di cui ci stiamo occupando Newton, nella prima parte dei Principia, affronta lo
studio del moto dei corpi soggetti a forze centrali ed in particolare dimostra che, se vale la
terza legge di Kepler (il quadrato del periodo di rotazione di un pianeta intorno al Sole è
proporzionale al cubo della distanza di tale pianeta dal Sole medesimo), le forze centrali
debbono risultare inversamente proporzionali ai quadrati delle distanze.
(
Questo risultato verrà ripreso nella terza parte dei Principia 5), come vedremo nel
prossimo paragrafo, nella quale Newton si occupò dell'applicazione ai pianeti delle leggi
della meccanica precedentemente trovate, costruendo il suo sistema del mondo e la famosa
legge di gravitazione universale.
Questa legge dice che: due corpi di massa m ed M si attraggono reciprocamente con
una forza F che è proporzionale, secondo una costante G, al prodotto delle masse dei due
corpi ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza r che, appunto, separa i due
corpi. La G rappresenta la costante gravitazionale [che sarà misurata con precisione da
Henry Cavendish nel 1798 con una bilancia di torsione da lui stesso realizzata. Oggi
disponiamo di misure accurate che per G forniscono: G = (6,67428 ± 0,0007).10-11m3.Kg-1.
s-2].
LA GRAVITAZIONE UNIVERSALE
Newton, che era altro personaggio da Galileo, legato in vari modi alla metafisica,
alla magia ed all'alchimia, non provava fastidio a leggere Kepler. Conosceva quindi le sue
leggi, anche perché, rispetto a Galileo, erano trascorsi moltissimi anni (78, per la
precisione). Le tre leggi di Kepler, che riguardano e descrivono il movimento nel suo
insieme (si possono definire integrali), giocarono un ruolo importante nel processo che portò
Newton a ricavare la legge di gravitazione universale che permette di dedurre dallo stato del
sistema in un momento dato, lo stato immediatamente successivo (si può definire
differenziale). Quella di Newton è la prima legge che viene formulata in grado di soddisfare
il principio di causalità e di avviare ad un compiuto meccanicismo.
Iniziamo con il ricordare le Leggi di Kepler:
1) i pianeti si muovono intorno al Sole in orbite ellittiche;
2) il raggio vettore che unisce il Sole e ciascun pianeta (o un pianeta ed i suoi
satelliti) descrive aree uguali in tempi uguali;
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3) i cubi delle distanze dal Sole di due o più pianeti stanno tra loro come i
quadrati dei rispettivi periodi di rivoluzione [che si può anche dire: i quadrati
dei tempi che i pianeti (o i satelliti) impiegano nella loro orbita variano col cubo
delle loro distanze medie dal Sole (o dal rispettivo pianeta)]:
(1)
e poiché l'ultima uguaglianza vale per tutti i pianeti, ciò vuol dire che tra cubi delle distanze
e quadrati dei periodi vi è un rapporto costante(6):
(2)
Tralascio la Prima legge di Kepler perché Newton partì, per i suoi calcoli, dal supporre
le orbite circolari (modificò in seguito tale assunto) e seguo la linea di pensiero di Newton,
servendomi del libro di Holton e Brush.
Intanto, se si ammette la Prima Legge di Newton (che abbiamo visto), occorre
ammettere che, in assenza di forze, un corpo seguirebbe indefinitamente muovendosi in
linea retta (o restando immobile: qui si aprirebbe un altro vespaio di problemi relativo al
sistema di riferimento ma della cosa ho trattato ampiamente altrove). Il fatto che un corpo
sia costretto in un'orbita circolare mostra che esso è soggetto ad una forza che chiameremo
centrale perché diretta, istante per istante, verso il centro della traiettoria del moto. Questa fu
la conclusione a cui arrivò Newton a partire dalla Seconda legge di Kepler (vedi Principia,
Libro I, Proposizioni I e II). Per seguire il suo ragionamento serviamoci della figura
seguente:
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Un corpo si muove in linea retta a velocità costante. Ad intervalli uguali di tempo ∆t,
percorrerà spazi uguali PQ = QR = RS = .... . Rispetto ad un punto fisso O (dovunque sia
messo O), la linea che unisce O con il corpo mobile, spazzerà aree uguali in tempi uguali
visto che i triangoli PQO, QRO, RSO, ... sono tutti uguali per avere uguali basi ed uguali
altezze. Supponiamo ora che tale corpo subisca un impulso (per un tempo ∆t) in Q a seguito
dell'applicazione di una forza diretta lungo QO. La direzione del moto cambia in una
direzione che si ottiene combinando vettorialmente la velocità iniziale che porterebbe
l'oggetto in R con quella che, istantaneamente e se agisse da sola, sposterebbe il corpo da Q
a Q' (figura b). In definitiva il mobile va a finire in R'. Ciò che interessa ora è che l'area
spazzata nel tempo suddetto ∆t, non viene modificata poiché all'area del triangolo QRR' che
viene sottratta a ciò che si sarebbe avuto senza l'impulso, si aggiunge ora l'area del triangolo
ORR' che è uguale a quella sottratta (hanno la stessa base e la stessa altezza, poiché QQ'
risulta parallelo a RR'). Per la proprietà transitiva l'area OQR' risulta poi uguale a OPQ. La
cosa prosegue: l'oggetto in R' riceve un altro impulso lungo R'O e tutto si ripete con il solo
cambiamento dei triangoli. Possiamo allora concludere che forze centrali applicate in
intervalli di tempo uguali non modificano le aree spazzate per unità di tempo. Ora non resta
che rendere gli intervalli di tempo ∆t piccoli a piacere (processo al limite per ∆t tendente a
zero) per ottenere una forza diretta verso il centro come una forza centripeta continua e per
trasformare la linea spezzata in una curva continua.
Siamo alla conclusione di Newton: dato che i pianeti, in accordo con la Seconda legge
di Kepler, spazzano aree uguali in tempi uguali, la forza che agisce su di essi deve essere
una forza centrale che agisce con continuità (riferendosi ad una ellisse e non ad una
circonferenza in luogo del centro si dovrà considerare uno dei fuochi).
Fin qui, dalla Seconda Legge di Kepler, Newton ha trovato che i pianeti sono soggetti a
forze dirette verso il centro del moto. Vediamo come, a partire dalla Terza legge di Kepler,
Newton ricava la nota legge dell'inverso del quadrato che regola tale forza (è una delle
possibili ricostruzioni poiché non si conoscono documenti che testimonino cosa in realtà egli
abbia fatto).
Abbiamo visto che un oggetto che si muove di moto circolare ha una accelerazione
centripeta data dalla relazione trovata da Huygens(7):
(3)
E la v che compare in questa relazione è la velocità lungo una circonferenza di raggio R e
cioè:
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(4)
(dove 2πR è la lunghezza dell'intera circonferenza e T - periodo - è il tempo necessario a
percorrerla tutta e ricordando che il periodo T è l'inverso della frequenza ν).
Sostituendo la (4) nella (3) otteniamo:
(5)
Possiamo ora scriverci l'espressione esplicita della forza centripeta che agisce sul
pianeta a partire dalla Seconda legge di Newton:
(6)
In questa espressione compare il termine T2 , al posto del quale possiamo porre il suo valore
R3/K dato dalla Terza legge di Kepler (2). Otteniamo così:
(7)
ed abbiamo trovato un risultato di grande importanza: la forza che il Sole esercita su ogni
pianeta è inversamente proporzionale al quadrato della distanza del pianeta dal Sole.
A questo punto Newton aveva trovato un risultato che valeva per tutti i pianeti rispetto
al Sole ed evidentemente ciò che distingueva una forza da un'altra doveva essere la costante
K, la massa m e la distanza R. Egli estese il risultato alla Terra con la Luna, ad ogni pianeta
con i suoi satelliti e, cosa di notevole coraggio e spessore a due qualsiasi masse. Dice
Newton:
Tutti i corpi dell'Universo si attraggono mutuamente con una forza
gravitazionale, come quella esistente tra una pietra che cade e la Terra; di
conseguenza, le forze centrali che agiscono sui pianeti non sono altra cosa che
un'attrazione gravitazionale da parte del Sole.
Restava da capire quale proprietà di un data massa determina la sua attrazione
gravitazionale da parte di altre masse; quale proprietà della Terra determina il valore di
4π2Κ per la Terra; quale proprietà del Sole determina il valore 4π2Κs per il Sole. E Newton
t
avanza l'idea che il prodotto 4π2Κ dipenda da qualche proprietà dei corpi e, se l'attrazione
gravitazionale è una proprietà comune a tutti i corpi, quel prodotto può dipendere dalla
quantità di materia del corpo, cioè dalla sua massa. La cosa più semplice è partire dalla
proporzionalità con la massa, cioè per la Terra dovrà valere (G costante di proporzionalità
tra 4π2Κ ed m):
(8)
per il Sole:
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(9)
e così via per ogni altro pianeta.
Da qui si ricava che la forza gravitazionale di attrazione che un corpo di massa m1
esercita su un corpo di massa m2 ad una distanza R è:
(10)
e, per quanto detto, ogni massa attira un'altra massa e quindi si avrà anche una forza di
attrazione che la massa m2 eserciterà sulla massa m1, data da:
(11)
e queste due forze sono di verso opposto ma uguali in grandezza. Basta confrontare allora la
(24) e la (25) per affermare che le due masse si attraggono con una forza data da:
(12)
e questa è la famosissima legge di gravitazione universale. Si tratta solo di determinare G, la
costante gravitazionale, e la cosa sarà realizzata per la prima volta, come accennato, da
Henry Cavendish nel 1798 (cento anni dopo!) con la sua bilancia di torsione (la difficoltà
nasceva dal fatto che è estremamente difficile riportare la gravitazione in un laboratorio per
effettuare delle misure e Cavendish riuscì in questa impresa).
Tutto questo a me serviva solo per dire che il peso di una data massa è la forza con cui
tale massa è attratta dalla Terra (avrei potuto semplicemente dirlo ma la cosa sarebbe
risultata una specie di dogma di provenienza metafisica). Risulta evidente che mentre la
massa si conserva, il peso varia da pianeta a pianeta e da luogo in luogo (basta avere a mente
le immagini degli astronauti in condizioni di assenza di peso: il peso se ne va e la massa
resta!). Cerchiamo di capire brevemente le due cose.
Dalla (12) si vede che una data massa m1 sarà attratta da un dato pianeta che avrà una
sua massa m2 e questo originerà il peso di m1. E' evidente che, al cambiare pianeta, cambia
m2 e quindi cambia la forza di attrazione, cioè il peso.
Sempre dalla (12) si vede che la forza di attrazione che sente una data massa (il suo
peso) dipende molto dalla distanza a cui tale massa si trova rispetto, ad esempio, alla Terra.
Spostandoci sulla Terra, questa attrazione (il peso) sarebbe sempre la stessa solo se la
distanza di ogni punto della Terra dal suo centro fosse sempre la stessa. Ma la Terra non è
una sfera perfetta. Quindi il peso di un dato oggetto risulterà maggiore quanto più vicini ci
troviamo al centro della Terra (più R è piccola, di gran lunga più grande è la forza attrattiva
e quindi il peso). La cosa era stata empiricamente scoperta da Giovanni Richer nel 1671.
Recatosi alla Cayenna per una spedizione scientifica, si accorse che il suo orologio a
pendolo ritardava di due minuti e mezzo al giorno rispetto all'ora solare media. Di tale
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fenomeno, con la legge di gravitazione se ne comprendeva ora il motivo. Dall'esperienza di
Richer, Huygens aveva stabilito che la Terra doveva essere schiacciata ai poli e rigonfia
all'equatore (la cosa la verificò sperimentalmente mettendo a ruotare velocemente su se
stesso un blocco d'argilla molle infilato su un asse rigido. Tale esperienza ebbe una grande
influenza nello sviluppo delle teorie cosmologiche di Kant e Laplace). A questo proposito
c'è la famosa querelle sull'oro. Se si comprasse l'oro a peso converrebbe comprarlo al Polo
Nord e venderlo all'Equatore. Ma nessuno compra o vende l'oro a peso. Si comprano le
masse d'oro. Parlo d'oro perché anche piccoli variazioni nel suo peso comporterebbero
grandi variazioni di prezzo. Con le patate, per ora, non c'è alcun problema.
Da questo momento la distinzione tra peso e massa diventa indiscutibile. Essa era tutta
all'interno dei Principia ma per evidenziarla come meritava fu necessaria l'opera di Giovanni
Bernouilli che nella sua Meditatio de natura centri oscillationis (1714) dice esplicitamente
che il peso di un corpo si ottiene moltiplicando la sua massa per l'accelerazione di gravità (la
g che abbiamo incontrato nella relazione 15 e che, misurata come lì indicato, vale all'incirca
9,81 m/sec2).
E' appena il caso di accennare al fatto che tramite la (12) è possibile calcolarsi la massa
dei differenti pianeti, della stessa Terra e del Sole. E' possibile anche calcolare le masse dei
satelliti dei pianeti ma in tal caso i calcoli sono piuttosto complessi (come è complesso il
calcolo di pianeti senza satelliti). Tramite la (12), a partire dalla perturbazione di alcune
orbite planetarie, si sono potuti scoprire altri pianeti.
Per molti versi Newton rappresenta l'apice di un determinato periodo storico, ma, per
molti altri, egli va considerato come il capostipite di una nuova era, nella quale la scienza
classica arrivò a maturazione, cominciando ad esistere indipendentemente da ipoteche
teologico-metafisiche e ad esercitare un'enorme influenza nei più svariati campi dell'attività
umana. Ma non basta. Newton intraprese anche una grossa, battaglia, qualche volta
contraddittoria, contro tutti quei filoni di pensiero che avevano una precostituita concezione
del mondo, base di riferimento indipendente da ogni indagine scientifica. Egli si batté contro
ogni costrizione che volesse bloccare lo sviluppo razionale dell'indagine e del pensiero
scientifico, per la libera espressione di ogni attività umana (certamente in questo
avvantaggiato dal clima economico-politico-culturale dell'Inghilterra del XVII secolo).
GLI OSSERVATORI ASTRONOMICI
Fino alla metà del XVII secolo le osservazioni del cielo avvenivano con mezzi e
strumenti del singolo ricercatore che o era benestante e poteva comprarli o era anche un
artigiano in grado di costruirseli. Non tutti ebbero la grande fortuna di Tycho che ebbe un
osservatorio invidiabile ad Uraniborg nell'isola di Hveen realizzato tra il 1576 ed il 1580 al
quale si aggiunse qualche anno dopo quello di Stjerneborg, ambedue finanziati dal re
Federico II di Danimarca. Prima di questo si ha notizia dell'osservatorio realizzato a
Norimberga da Johannes Regiomontanus e da Bernard Walther nel 1471. Nella stessa epoca
di Thyco, Guglielmo IV di Hesse tentò di far realizzare un osservatorio ai due astronomi
Rothman e Byrge. Ed in quegli anni anche a Danzica si costruì un osservatorio ad opera di
Johannes Hevelius. Nel 1637 fu poi iniziata la costruzione dell'osservatorio di Copenaghen.
Insomma, si può dire che a partire dalla metà del XVII secolo vi fu una sorta di gara
emulativa e di prestigio nella costruzione degli osservatori. Ma la storia degli osservatori
moderni inizia con quello di Parigi, che fu messo in cantiere da Colbert nel 1666 (in
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contemporanea con l'Accademia delle Scienze), reso funzionante nel 1672 e presto affidato
all'astronomo italiano Gian Domenico Cassini(9). Qualche anno dopo, nel 1675, fu
inaugurato l'Osservatorio di Londra, il Greenwich(10), perché costruito su Greenwich Hill,
una collina di proprietà del Re Carlo II. Il primo direttore di esso fu Flamsteed.
L'osservatorio di Parigi
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Telescopio dell'osservatorio di Parigi
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ASTRONOMIA 4
Sala della meridiana nell'osservatorio di Parigi
L'osservatorio di Greenwich
Sala ottagonale dell'osservatorio di Greenwich al tempo di Flamsteed
(l'osservatorio fu bombardato dai tedeschi nella Seconda Guerra
Mondiale).
Il proliferare di osservatori mostra come l'astronomia fosse diventata una scienza di
prima grandezza sulla quale, per la sua utilità anche pratica si poteva investire ed anche
molto. L'osservatorio era infatti il luogo dove si mettevano insieme gli strumenti più
avanzati che la tecnica permetteva di produrre e dove ne venivano progettati continuamente,
anche di grandi dimensioni. In tali laboratori potevano operare anche scienziati che non
disponevano dei mezzi per procurarsi una qualche strumentazione. Si trattava di ampliare la
base di coloro che dedicavano il loro ingegno alla scienza. Più avanti nel tempo gli
osservatori furono aperti al pubblico. Tali iniziative tendevano a rendere i cittadini sempre
più partecipi di ciò che si studiava e si faceva e la scienza uno strumento per
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l'emancipazione dell'uomo dalla schiavitù di astrologia, magia e religione. Entravamo nel
secolo dell'Illuminismo.
LE COMETE
Nel 1680 comparve nel cielo una vistosa cometa che, naturalmente, attrasse l'attenzione
di tutti gli astronomi tra cui Newton. Nel lungo periodo di permanenza nel cielo (da
novembre 1680 al marzo 1681) essa fu studiata nelle posizioni, velocità e traiettoria (che
riportò nei Principia) anche dallo stesso Newton. All'inizio ad occhio nudo, poi con il suo
monocolo (era miope), quindi appassionatosi al fenomeno con un telescopio prima di tre
piedi poi di sette piedi dotato di micrometro (fu qui che Newton apportò perfezionamenti al
suo telescopio catottrico).
La cometa del 1680 nelle osservazioni della traiettoria fatte
da Flamsteed e corrette da Halley.
Flamsteed, direttore dell'Osservatorio di Greenwich, espresse la sua opinione sul moto
di questi corpi celesti che sarebbe stato originato dall'azione magnetica del Sole che le
costringeva a farle ruotare intorno a sé. Newton era invece contrario alla natura magnetica
dell'azione anche ammettendo la funzione attrattiva del Sole medesimo. Ed è di estremo
interesse leggere la motivazione con la quale Newton respingeva la natura magnetica del
Sole. Egli scrisse che il Sole è un corpo veementemente caldo ed i corpi magnetici, quando
vengono arroventati, perdono la loro virtù. Ma Flamsteed aveva colto un aspetto nuovo
riguardante le comete. Fino ad allora, a parte le fantastiche teorie degli aristotelici e le
becere superstizioni, le comete erano pensate come corpi estranei al sistema solare che non
seguivano le stesse leggi dei pianeti e satelliti perché non in grado di ripetersi all'infinito,
come le orbite quasi circolari, mantenendo la stabilità dei cieli. La loro traiettoria era creduta
rettilinea (anche se con velocità variabili) come Kepler aveva sostenuto. E Newton a
quell'epoca propendeva per questa teoria (ma con moto uniforme). Flamsteed realizzò, su
dati osservativi, una svolta radicale: le comete, in vicinanza del Sole, invertono la loro
direzione di marcia risultando un poco meno effimere di come si ritenevano. Ma come era
possibile che nessuno si fosse accorto che i versi del moto di una cometa si invertono in
prossimità del Sole ? La risposta ce la fornisce il fatto che Newton sospettasse che le comete
di novembre e dicembre, che il signor Flamsteed considera una e la stessa cometa, fossero
due comete diverse. Insomma si aveva il sospetto che non di un cambiamento di direzione si
trattasse ma di due oggetti diversi, in moto rettilineo in direzioni opposte circa parallele.
Flamsteed pensò che per avere un sostegno alla sua idea doveva rivolgersi a Newton che
aveva conosciuto 6 anni prima. I contatti epistolari furono ripresi tramite un amico, James
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Crompton e furono di grande utilità per Newton che poté accedere a molti dati osservativi
non solo della cometa che era in cielo. L'argomento divenne per lui di grande interesse tanto
che vi dedicò molto tempo (informandosi di ogni osservazione anche nelle colonie
d'America e leggendo tutta la letteratura disponibile) e molti studi almeno fino al 1690
inserendolo nei Principia come argomento scientifico finale del terzo ed ultimo libro (dalla
Proposizione XXXVIII, Problema XIX, Lemma IV, alla fine del libro terzo) ed anche come
citazione all'interno dello Scolio Generale che conclude l'opera. La conversione di Newton
all'idea di comete con moti curvilinei intorno al Sole sembra sia avvenuta intorno all'agosto
1684, dopo aver ricevuto a Cambridge una visita da parte di un suo fervente ammiratore,
Edmond Halley (1656-1742). In ogni caso questa nuova visione, prima di essere
ampiamente trattata nei Principia, comparve nel suo De motu corporum in gyrum (Scolio al
Problema 4) dello stesso 1684 dove egli semplicemente accennava al fatto che alcune
comete potessero ritornare. Ciò fa intendere che Newton avesse in mente, oltre a traiettorie
ellittiche con grandissima eccentricità, delle traiettorie paraboliche ed iperboliche per le
comete che apparivano una volta sola. Questo poneva il problema del riconoscimento e, nel
De motu, Newton affermava di sapere se la stessa cometa ritornava ripetutamente. Nei
Principia Newton trattò ampiamente il problema fornendone una completa teoria, sia per
comete periodiche che per quelle non periodiche. Il risultato fu una ulteriore
generalizzazione della gravitazione universale che Newton mostrò valere anche per le
comete ormai trattate come quasi-pianeti. Quella gravitazione si estendeva quindi anche al di
fuori del sistema solare visibile, costringendo a tali enormi distanze il ritorno della cometa, e
non c'era ormai motivo di dubitare della sua validità dovunque nello spazio.
La cometa di Halley del 1682, passata nel 1986, ritornerà nel 2061
Halley aveva seguito tutte le osservazioni della cometa ed aveva approfittato di un
viaggio in Francia per arricchirle con altre fatte all'Osservatorio di Parigi. Seguace di
Newton egli era convinto della correttezza della legge dell'inverso del quadrato (che
conosceva dal De motu) e tentò l'applicazione di tale legge ai dati di cui disponeva. Riuscì a
calcolarsi l'asse maggiore dell'orbita ellittica che si supponeva la cometa dovesse avere,
l'angolo formato dal piano su cui giaceva tale orbita con il piano dell'eclittica e varie altre
grandezze.
Nel 1682 comparve in cielo una nuova cometa (quella oggi nota come cometa di
Halley) che fu subito studiata da Newton e da Halley. Quest'ultimo poi riprese vari dati
osservativi di comete apparse negli anni precedenti e si soffermò in particolare su una
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cometa le cui posizioni furono descritte da Kepler nel 1607. Halley si accorse che la cometa
del 1682 sembrava avesse un'orbita identica a quella del 1607. Si chiese se la cometa del
1682 era la stessa del 1687 che percorreva la sua orbita con un periodo di 75 anni. Se così
fosse stato si sarebbero dovute trovare tracce di un avvistamento di cometa nel 1532.
Cercando con cura egli scoprì delle osservazioni di una cometa che Petrus Apianus (15011552) aveva fatto ad Ingolstadt (Baviera) nel 1531 e sulla quale aveva pubblicato un libro,
Practica (Landshut, 1532), nel quale tra l'altro per la prima volta veniva evidenziato che la
coda di una cometa è diretta sempre in direzione opposta al Sole. Halley non ebbe più dubbi
tanto che azzardò la previsione del successivo passaggio della cometa nel 1758. Purtroppo
egli non riuscì a vederla ma effettivamente la cometa si ripresentò passando al perielio il 12
marzo 1759 (ci si accorse poi che la cometa era stata vista anche nel 1456 e, risalendo
indietro, vi erano molte notizie di suoi avvistamenti a partire dal 1066 quando la
testimonianza della sua presenza proviene da un arazzo di Matilde di Bayeux illustrante la
Conquista d'Inghilterra).
Particolare dell'arazzo in cui, in alto a destra,
è rappresentata la cometa di Halley (in basso
vi sono personaggi che la indicano ed in alto vi
è una scritta che dice questi stanno osservando
la stella).
La cometa pose dei problemi al suo studio perché, come oggi sappiamo, la sua massa è
piccola. Ciò vuol dire che proprio la legge di gravitazione universale impone che non solo il
Sole attragga i pianeti ma che anche i pianeti attraggano il Sole e si attraggano tra loro. Più
in dettaglio una cometa sente molto l'attrazione dei pianeti, soprattutto di quelli grandi come
Giove. L'effetto è che secondo a quale distanza la cometa passi da loro, la sua traiettoria
risulti più o meno perturbata comportando ciò variazioni anche sensibili nel suo periodo. Dal
punto di vista dei calcoli, essi possono solo essere ben approssimati dalla teoria delle
perturbazioni, perché ancora oggi non siamo in grado di trattare in modo completo il
problema dei tre corpi, non siamo cioè capaci di trattare con ogni dettaglio, ad esempio, le
interazioni reciproche tra Sole, Terra e Luna. Figurarsi quando i corpi diventano molti.
Riportando ciò ad una cometa, non siamo in grado di predire con estrema esattezza il
momento in cui essa passerà al perielio della sua orbita (ma ci avviciniamo sempre più).
Rispetto ai calcoli di Halley vi era stato un ritardo di 618 giorni. Un calcolo più preciso fu
fatto dal matematico francese Clairaut che, proprio con la teoria delle perturbazioni, calcolò
il passaggio per l'aprile del 1759 (con un errore di più o meno un mese).
Il ritorno della cometa nel 1759 era una conferma totale della teoria della gravitazione
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universale di Newton ed uno splendido esempio della potenza della meccanica celeste.
DALLA TERRA AL SOLE ED ALLE STELLE
Qua e là abbiamo visto il porsi del problema delle distanze di pianeti tra loro, con
satelliti e dal Sole. Siamo quasi sempre rimasti al sistema solare con, fino a Copernico,
quella sfera delle stelle fisse che chiudeva come in un guscio il sistema solare e di fatto
limitava un universo finito. Le stelle si sapevano appunto fisse e nessuno poteva immaginare
che fossero a distanze diverse dalla Terra. Quel guscio piano piano si è rotto verso un
universo sempre sempre più grande, infinito. E' solo nel XVIII secolo che le stelle diventano
partecipi degli sviluppi dell'astronomia.
Nella storia dell'astronomia la prima distanza che si tentò di calcolare fu quella della
Terra dal Sole. Il metodo per farlo fu ideato da Ipparco di Nicea (185-127 a.C.) e, con alcuni
aggiustamenti, fu utilizzato da Tolomeo, da Copernico, Tycho, quindi fino al XVII secolo. I
risultati erano tutti molto sottostimati.
Il metodo della parallasse di Ipparco, già utilizzato da Aristarco, era il seguente. La
Terra, illuminata dal Sole, proietta dietro di sé un cono d'ombra che, in alcune occasioni,
risulta attraversato dalla Luna (eclisse). Si trattava di misurare le dimensioni di tale cono,
attraverso il tempo impiegato dalla Luna nell'attraversarlo durante un'eclisse totale e la
distanza della Terra dalla Luna, calcolabile con il metodo trigonometrico che permette di
trovare la distanza esistente tra un dato punto ed un punto inaccessibile (occorre osservare il
punto inaccessibile da due differenti punti e misurare la distanza tra i due punti
d'osservazione e gli angoli sotto i quali il punto inaccessibile viene visto).
Da: www.racine.ra.it/planet/testi/Imm/figura_7.gif
Queste misure, soprattutto di angoli, sono estremamente delicate e praticamente
impossibili da realizzare con la strumentazione disponibile fino al XVII secolo. Tolomeo,
per la distanza Terra-Sole ricavò un valore pari a 1146 volte il raggio terrestre. Copernico
trovò 1179. Tycho trovò 1150. Ed anche altre misure con tale metodo davano valori lontani
dalla realtà. Era necessaria l'astronomia di precisione per riuscire nell'impresa e fu Gian
Domenico Cassini(12) che riuscì a fornire il primo dato attendibile nel 1672.
Egli disponendo già di un apparato fisico matematico adeguato (terza legge di Kepler)
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iniziò con il misurare la distanza della Terra da Marte servendosi del metodo riportato in
nota 11 (l'ultimo, riferito in nota alla distanza Terra-Luna e da Cassini applicato alla distanza
Terra-Marte). Conoscendo tale distanza, mediante la terza legge di Kepler si sarebbe potuti
risalire a quella della Terra dal Sole.
In figura compare l'unità di distanza astronomica AU che è la distanza
tra Terra e Sole e vale 150 milioni di km (circa).
Per fare le sue misure della distanza di Marte dalla Terra, inviò a Cayenne, una città in
Guyana francese, il suo collaboratore Jean Richer (1630?-1696) in modo da disporre di
misure simultanee della posizione di marte da due punti di osservazione molto distanti. Si
era in condizioni di Marte in opposizione e quindi di sua maggiore visibilità. La distanza
calcolata era di circa 140 milioni di chilometri, con un errore di circa il 7% a quello da noi
oggi accettato.
Fatta tale misura, Cassini passò a calcolarsi la parallasse del Sole calcolando l'angolo
sotto il quale è visto il Sole a sei mesi di distanza. Tale angolo, misurato con il metodo di
Tolomeo (quello di Ipparco ripreso da Tolomeo), portava ad un angolo di circa 2 minuti e 30
secondi. Cassini trovò invece un valore estremamente più piccolo, solo 9 secondi. Con ciò il
Sole si allontanava di un'enormità dalla Terra ed il sistema solare cresceva a dismisura.
Qualche anno più tardi, nel 1716, Halley suggerì di considerare la distanza della Terra
da Venere, per la sua maggiore vicinanza alla Terra, sfruttando il suo transito sul Sole (che
però avviene un paio di volte ogni cento anni) che sarebbe avvenuto nel 1761 ed anche nel
1769 (anche Cassini sapeva che Venere era un pianeta più adatto per la minore distanza
dalla Terra ma lo scartò perché quando esso si trovava più vicino alla Terra era nella
posizione tra Terra e Sole, eventualità che ne rendeva molto difficile l'osservazione)(13).
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I due punti d'osservazione di figura sono Parigi e l'Isola Rodrigues a circa
500 km dalle Mauritius (Oceano Indiano).
L'osservazione da due punti diversi avrebbe fornito la parallasse mediante le due traiettorie
di Venere osservate (14).
Se supponiamo un osservatore al punto P della seconda figura seguente, esso vedrà Venere
percorrere la traiettoria AB (prima figura seguente). Un osservatore al punto P' vedrà invece
la traiettoria A'B' (prima figura seguente). Le due traiettorie sono essenzialmente parallele e
l'osservazione è preferibile si faccia da due punti posti al di sopra ed al di sotto dell'equatore
terrestre. Se D è la distanza tra le due traiettorie, con semplici calcoli trigonometrici, siamo
in grado di misurare la distanza PV tra l'osservatore e Venere. Ma le cose non sono così
semplici perché le due traiettorie sono molto vicine tra loro e distinguibili con difficoltà.
Halley capì che un'informazione equivalente al calcolo di D (attenzione che per semplicità
parlo di lunghezze, in realtà si tratta di angoli sotto cui vediamo tali lunghezze) era quella
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della misura dei tempi dei transiti di Venere sia nella traiettoria AB che in quella A'B'. Dalla
differenza dei tempi di transito, più semplici da misurare, si può risalire a D (i tempi di
transito sono dell'ordine di grandezza di ore mentre la differenza dei tempi di transito è
dell'ordine di grandezza dei minuti)(15). La proposta di Halley ebbe un seguito sia nel 1761
che nel 1769 quando Venere ebbe i suoi transiti sul Sole. Tali transiti non erano però visibili
nell'Europa occidentale e per poterli misurare degli osservatori si recarono in Siberia, in
California, altri ancora a Tahiti, alle Isole Madras, ... La cosa risultò molto complessa i
risultati di varie spedizioni diversi per quantità troppo grandi e non se ne fece nulla
decidendo di rimandare tutto ai transiti del secolo seguente. Ma lo stesso avvenne nei transiti
del 1874 e 1882.
Che accade invece per misurare la distanza delle stelle dalla Terra ? Qui il problema si
fa molto più difficile. Con il Sole ed i pianeti il metodo geometrico, se sostenuto da misure
sufficientemente precise fornisce dei buoni risultati. Osservando una stella qualunque, i
raggi visivi diretti verso di essa, da qualunque parte della Terra si osservi, sono sempre
paralleli tra loro. Osservando invece a sei mesi di distanza, in due punti diametralmente
opposti dell'orbita terrestre, con strumentazione molto avanzata, i raggi visivi formeranno un
angolo piccolissimo ma misurabile per le stelle più vicine (si creerà un triangolo con vertici
nei due punti diametralmente opposti dell'orbita terrestre e nella stella e con base il diametro
dell'orbita. L'angolo piccolissimo sarà l'angolo che insiste sul vertice-stella e si chiama
angolo di parallasse).
Fu l'astronomo e matematico tedesco Friedrich Bessel (1784-1846) che, nel 1838,
riuscì a determinare per la prima volta la parallasse stellare con una piccola stella della
costellazione del Cigno (la numero 61). L'angolo di parallasse risultò di 0,314 secondi d'arco
(intorno ad un terzo di un secondo) il che significava che quella stella aveva una distanza
seicentomila volte superiore a quella della Terra dal Sole (alla velocità della luce un raggio
luminoso emesso da quella stella impiega circa 10 anni a giungere sulla Terra). La strada era
aperta e due anni dopo l'astronomo scozzese Thomas James Henderson (1798-1844)
pubblicò i suoi risultati ottenuti prima di Bessel e non pubblicati per timore che fossero
errati. Egli nel Capo di Buona Speranza (in Sud Africa, nell'altro emisfero) misurò la
parallasse della brillante stella Alpha Centauri. La parallasse risultò di 0,97 secondi d'arco e
ciò vuol dire che quella stella è più vicina alla Terra (la luce emessa da questa stella tarda
solo 3 anni e 3 mesi per arrivare sulla Terra. Per fare un minimo confronto si pensi che la
luce emessa dal Sole arriva sulla Terra dopo 8 minuti). Altra parallasse, quella di Vega
(0,125 secondi d'arco), fu misurata in Russia nel medesimo periodo da Friedrich Georg
Wilhelm von Struve (1763-1864). Tutto ciò vuol dire che le stelle sono fuori scala, sono
incomparabili con le grandezze del sistema solare.
FRIEDRICH WILHELM HERSCHEL, ASTRONOMO STELLARE
Una delle domande che nei primi anni del Settecento venne posta, sembra da Halley,
era la seguente: se il Sole fosse altrettanto lontano di una stella, avrebbe la stessa
luminosità ? Questa domanda implica l'ipotesi che il Sole non sia altro che una tra le tante
stelle togliendo ulteriore centralità al sistema solare.
Per cogliere meglio il significato della domanda di Halley, seguiamo qualche sviluppo
storico sullo studio delle stelle. Nell'antichità abbiamo notizia da Plinio che fu Ipparco il
primo a redigere un catalogo di stelle e costellazioni (circa 130 a.C.). Il catalogo ci è stato
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tramandato da Tolomeo e riporta 1022 stelle classificate per costellazioni e per ordine di
grandezza (l'apparente luminosità). Inoltre Ipparco dette dei nomi alle stelle e nell'uso degli
antichi le raggruppò in costellazioni con nomi di persone, animali o cose (tale uso è rimasto
fino ad oggi). I nomi delle stelle che erano nelle costellazioni venivano dati con complicate
perifrasi(16) mentre oggi è entrato l'uso della notazione di Johannes Bayer (1572-1625) che
propose di chiamare in ogni costellazione le singole stelle con lettere greche, poi con lettere
romane, quindi cifre. Il catalogo di Ipparco enumera 20 costellazioni boreali con 360 stelle
in totale, 13 costellazioni zodiacali con 346 stelle (vi era Ofiuco oltre a quelle note), 15
costellazioni australi con 316 stelle (in totale 48 costellazioni e, appunto, 1022 stelle).
Ipparco quindi si fermò a catalogare solo le stelle più brillanti perché, ad occhio nodo si
vedono oltre 7000 stelle (si osservi che nel fare questa catalogazione Ipparco confrontò i
suoi dati con quelli dell'astronomo alessandrino Timorachis di circa 150 anni precedente e
scoprì che ogni stella risultava spostata di circa 2 gradi sulla sfera celeste. A questo
fenomeno Ipparco dette il nome di precessione degli equinozi). Il catalogo di Ipparco fu
ripreso da Tolomeo (che aggiunse che esistevano altre stelle che egli chiamò informi, in
quanto non appartenenti a costellazioni e che non elencava le ignote costellazioni
dell'estremo sud) e quindi da Copernico, senza modifiche di rilievo. Thyco aggiunse la
costellazione di Antinoo (già nota ai greci) e la Chioma di Berenice. Ma la prima
introduzione metodica di nuove costellazioni è dovuta a Bayer che nel 1603 pubblicò
Uranometria, un atlante celeste di grande pregio. In esso erano elencate 1277 stelle, quattro
corpi indicati come nebulosi (due dei quali poi confermati come due nebulose) e figuravano
12 nuove costellazioni nell'emisfero australe (utilizzate da tempo dai naviganti) delle quali
una dell'estremo sud. Altre otto costellazioni furono aggiunte nel 1624 da Jakob Bartschius,
genero di Kepler, ma solo tre di esse sono state mantenute.
La giraffa, una delle costellazioni introdotte e
mantenute da Jakob Bartschius.
A questo punto è inutile seguire perché gli atlanti di stelle e nuove costellazioni si
susseguirono con ritmi sempre più stringenti, anche perché, dalla scoperta di Galileo che con
il telescopio il cielo si ingrandiva, le stelle si moltiplicarono. E proprio con il
perfezionamento dei telescopi il numero delle stelle visibili dalla Terra crebbe di molto
rispetto a quanto precedentemente noto. Nel 1712 Flamsteed pubblicò Historia Coelestis
Britannica (alla quale seguì postumo nel 1729 l'Atlas Coelestis, con tutte le ultime
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osservazioni) un catalogo pieno di stupende tavole che illustrano le costellazioni e che
permette di sapere quali costellazioni e stelle erano allora note. Leggo dal sito Atlas
Coelestis:
Questo del Flamsteed può essere considerato il primo atlante moderno; riporta
circa 3300 stelle, il doppio di quello dell' Hevelius, e per la prima volta le stelle
vi vengono collocate attraverso le loro coordinate equatoriali: ascensione retta e
declinazione, il cui reticolo viene sovrapposto nelle tavole a quello polare
eclittico. Questa innovazione fu possibile attraverso l'introduzione
nell'osservazione dell'orologio a pendolo, che permetteva di risalire alla
differenza di ascensione retta partendo dalla differenza fra i tempi del passaggio
delle stelle al meridiano. Un secolo prima il Bayer inseriva nel suo atlante le due
Nubi di Magellano; ora Flamsteed, nella tavola dedicata ad Andromeda, alla
destra di Andromeda, disegna una stellina, la galassia M31, il primo oggetto non
stellare ad apparire in una carta celeste di un importante atlante.
La precisione delle posizioni degli astri è corretta entro il margine di 10" e ciò
fu ottenuto dall'autore grazie all'utilizzo di un enorme cerchio murale, munito di
cannocchiale, di due metri di raggio, i cui gradi riportavano suddivisioni di
cinque minuti primi.
Agevole diventa l'uso delle tavole che, riportando delle scale graduate le cui
tacche misurano il quarto di grado, permettono di apprezzare subito ad occhio la
posizione della stella.
Come esempio riporto una delle tavole, quella in cui compare un particolare della
tavola dedicata alla costellazione del Toro:
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Al catalogo di Flamsteed si affiancò qualche anno dopo quello dell'astronomo francese
La Caille che produsse un catalogo, Coelum Australe Stelliferum (pubblicato postumo nel
1763), che riguardava il cielo australe ed elencava circa 10 mila stelle (includendo 42
nebulose) e 14 nuove costellazioni. Nell'Ottocento vi furono altri cataloghi molto più precisi,
con un numero di stelle molto maggiore, che vanno almeno citati: quello del tedesco F.
Argelander (Bonner Durchmusterung - 1859) e quello dello statunitense Benjamin Apthorp
Gould (Uranometria Argentina - 1886).
E le stelle non sono tutte uguali differendo solo per la magnitudo. Alcune di esse
subiscono variazioni periodiche in colore e luminosità (stelle variabili). Vi sono poi le
Novae stelle prima non visibili poi improvvisamente luminosissime per breve tempo (che di
fatto rappresentano l'esplosione di una stella). Ed a proposito delle Novae vi sono delle
considerazioni di Laplace che ci riallacciano alla domanda di Halle. Scriveva Laplace
(1796):
Quali prodigiosi cambiamenti dovettero verificarsi alla superficie di quei
grandi corpi per rendersi visibili alla distanza che ce ne separa ? Di quanto
devono essi sorpassare quelli che noi osserviamo alla superficie del Sole [...] ?
ed aggiungeva:
Pare che gli astri, lungi dall'essere disseminati nello spazio a distanze
pressoché eguali, siano raccolti in diversi gruppi formati ciascuno da più
miliardi di stelle. Il nostro sole con le stelle più luminose, fa probabilmente
parte di uno di codesti gruppi, che, visto dal punto dove noi ci troviamo, sembra
circondare il cielo assumendo la forma della Via Lattea. Il gran numero di
stelle che si scoprono tutte insieme nel campo di un forte telescopio diretto
verso quella formazione, ci prova che la sua profondità è immensa e che
sorpassa di mille volte la distanza di Sirio dalla terra. Sempre più
allontanandosi, tali gruppi finirebbero per offrire l'aspetto di una luce bianca e
continua, raccolta in un piccolo diametro, giacché l'irradiazione coprirebbe e
farebbe sparire, anche nei migliori telescopi, gl'intervalli tra le stelle. È dunque
verosimile che le nebulose siano, nella maggior parte dei casi, gruppi di stelle
visti da molto lontano; i quali presenterebbero, a distanze minori, lo stesso
aspetto della Via Lattea. Le distanze mutue delle stelle che formano ciascun
gruppo sono almeno centomila, volte maggiori che la distanza dal Sole alla
Terra; si può dunque giudicare della prodigiosa estensione di tali gruppi in
base all'innumerevole moltitudine di stelle che si osservano nella Via Lattea. Se
poi si riflette alla piccola ampiezza apparente ed al gran numero delle
nebulose, le quali distano le une dalle altre di intervalli incomparabilmente
maggiori della distanza mutua esistente tra le stelle che le compongono,
l'immaginazione è cosi sopraffatta dall'immensità dell'universo che trova
difficoltà ad assegnargli dei limiti.
Quanto letto è la formulazione dell'ipotesi della nebulosa di Kant e Laplace, che per
primo elaborò Kant nel 1755 e che qui trova una magistrale descrizione. Dentro tale ipotesi
vi è la degradazione del Sole a semplice stella tra i miliardi di esse. Il mondo è esploso ed
ormai non ha più confini. Sarà compito dell'astrofisica ampliarlo ulteriormente nel secolo
seguente ed ancora oggi.
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Ma c'è di più. A tutto ciò si deve aggiungere la scoperta di Halley del 1718.
Confrontando le posizioni di alcune stelle in osservazioni recenti con la posizione trovata nei
secoli precedenti, egli scoprì che le stelle non sono fisse, che si muovono a volte anche in
modo sensibile, ma nei secoli. Vi è poi l'altra scoperta, iniziata da Fabricius nel 1506: le
stelle evolvono. Esse presentano variazioni di luminosità e di molte altre variabili.
Per concludere, a tutt'oggi sono riconosciute internazionalmente 88 costellazioni che,
occorre dirlo, sono raggruppamenti artificiali di stelle. I veri risultati riguardano la
classificazione delle singole stelle, fissando con esattezza la loro posizione nello spazio e la
loro distanza con riferimento alla sfera celeste.
Herschel
Uno dei massimi studiosi di stelle, e non solo, fu l'astronomo tedesco Friedrich
Wilhelm Herschel (1738-1822). La sua eccezionale carriera iniziò il 13 marzo 1781 quando,
osservando nel cielo la costellazione dei Gemelli con un telescopio che si era costruito
(diametro di 17 centimetri e distanza focale dello specchio pari a 2,3 metri) da più di 200
ingrandimenti, vide una stella con un aspetto che lo sorprese, sembrava un disco. Tornò ad
osservare l'oggetto celeste il giorno successivo e trovò che si era spostato un poco. Dal che
trasse la conclusione che si trattasse di una cometa e, come accade sempre per avvistamenti
di comete che richiedono ulteriori osservazioni per stabilirne la traiettoria e per confrontarla
con altre del passato, Herschel informò del fenomeno le Philosophical Transactions di
Londra (Account of a Comet, Volume 71, pp. 492-501). Fu il magistrato, matematico ed
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astronomo francese Jean Baptiste Gaspard Bochart de Saron (nato nel 1730 e ghigliottinato
nel 1794), esperto in calcoli sulle comete, che per primo escluse che l'oggetto individuato
fosse una cometa. Il problema fu risolto dall'astronomo russo Anders Johan Lexell (17401784): si trattava di un pianeta del sistema solare, già osservato per 19 volte
precedentemente anche da Flamsteed e Pierre-Charles Le Monnier (1715-1799) e sempre
scambiato come stella, quello che successivamente fu chiamato Urano dall'astronomo
tedesco Johann Elert Bode (1816-1874). Il calcolo dell'orbita di Urano fatto da Lexell, unita
alle osservazioni, mostrò che tale orbita risultava perturbata (presentava una deviazione di
15") e che quindi doveva esservi un altro pianeta ancora più distante. E tale pianeta,
Nettuno, fu scoperto il 31 agosto del 1846 dall'astronomo e matematico francese Urbain
Jean Joseph Le Verrier (1811-1877), sollecitato ad affrontare il problema da Arago (calcoli
simili faceva J.C. Adams in Gran Bretagna che arrivò però due giorni dopo !). E'
interessante dire che il lavoro di Le Verrier fu solo un lavoro matematico sulle perturbazioni
dell'orbita di Urano rispetto alla legge di gravitazione universale e la sua scoperta non fu
l'osservazione telescopica del pianeta(17). Su dati di Le Verrier, passati a Johan Galle
dell'Osservatorio di Berlino che disponeva al momento del miglior telescopio, Heinrich
d'Arrest ed il suo assistente Galle osservarono il pianeta (fra Capricorno ed Acquario) il 23
settembre del 1846 ad un grado di scarto rispetto alle predizioni matematiche. Scoperto il
pianeta iniziarono studi sull'orbita da confrontare con quelli dell'orbita di Urano. Vi erano
ancora delle anomalie che Nettuno non spiegava completamente. Vi doveva essere un altro
pianeta. A partuire dal 1906 fino alla sua scomparsa l'astronomo americano Percival Lowell
e collaboratori frugarono il cielo dovunque ma non trovarono nulla, fino alla scomparsa di
Lowell nel 1916. L'impresa di ricercare il pianeta passò, nel 1929, al giovane Clyde
Tombaugh. Questi utilizzò il confronto di foto notturne del cielo per cercare oggetti che
avessero cambiato posizione. Il 18 febbraio 1930 Tombaugh trovò il pianeta (sulla natura
del quale oggi si discute) e comunicò la notizia, dopo minuziosi controlli, il 13 marzo 1930.
Il pianeta fu chiamato Plutone, su suggestione di Venetia Burney, una bambina inglese di 11
anni appassionata di mitologia, ed in suo onore Disney chiamò Pluto il cane di Topolino e
Glenn T. Seaborg chiamò Plutonio uno degli elementi transuranici (già era accaduto con
l'uranio, così chiamato dopo la scoperta di Urano, e con il nettunio, così chiamato dopo la
scoperta di Nettuno).
Una porzione della costellazione
dei Gemelli osservata ad occhio
nudo.
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ASTRONOMIA 4
La stessa porzione dei Gemelli osservata con un telescopio. Osservo che
scoprire qui Urano è una impresa !
Tornando ad Urano, esso presentava un'orbita quasi circolare con un raggio circa 19
volte la distanza Terra-Sole, quasi il doppio della distanza di Saturno dal Sole. Il sistema
solare si ingrandiva enormemente e, detto di passaggio, i solidi regolari incastrati l'un l'altro
di Kepler crollavano miseramente perché, a fronte del numero dei solidi che resta costante, il
numero dei pianeti aumenta.
La fama che venne ad Herschel per questa scoperta gli fornì la disponibilità di costruire
telescopi a riflessione sempre più grandi, sempre più perfezionati e potenti, con cura
maniacale per gli specchi. Il più grande di tali strumenti fu costruito in 4 anni ed era lungo
12 metri, aveva un diametro di 1, 47 metri ed uno specchio che pesava 5000 kg. Con questo
strumento Herchel scoprì i satelliti di Urano, all'inizio creduti in numero di sei poi risultati
quattro (Ariel, Oberon, Titania, Umbriel) ed oggi diventati quindici. Scoprì anche due nuovi
satelliti di Saturno (Mimante ed Encelado) che si andavano ad aggiungere ai cinque già
scoperti da Huygens e Cassini (oggi si conoscono sessanta satelliti di Saturno).
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ASTRONOMIA 4
Telescopio di Herchel con ingrandimenti fino a 6000 volte.
Fin qui alcuni dei contributi di Herschel all'astronomia planetaria che sono comunque
trascurabili rispetto al fatto che egli fondò l'astronomia stellare.
I primi studi sulle stelle di Herschel riguardarono una scoperta di un secolo e mezzo
prima fatta dal gesuita Giovanni Battista Riccioli (1598-1671) che nel 1650 individuò la
prima stella doppia, la Mizar dell'Orsa Maggiore (Almagestum novum, astronomiam veterem
novamque complectens, Bologna 1651). Osservando la stella con un buon cannocchiale
Riccioli si rese conto che essa appariva formata da due stelle molto vicine. Qualche anno
dopo Huygens trovò che la stella θ di Orione è composta da 4 stelle e nel 1664 Hooke trovò
che anche la stella ψ dell'Ariete è doppia. E via via tali osservazioni sporadiche si
accumulavano. Il problema consisteva nel capire se la coppia di stelle fosse una coppia che
nasceva dalla particolare osservazione dalla prospettiva, e quindi se le due stelle fossero in
realtà lontane e non interagenti tra loro oppure se la coppia fosse una coppia fisica con le
due stelle che si attraevano tra loro come aveva suggerito l'astronomo ceco Christian Mayer
(1719-1783) che, oltre a fornire il primo catalogo di stelle doppie, aveva parlato di due soli
che ruotano uno intorno all'altro. La soluzione della questione venne da Herschel e dai suoi
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40 anni (dal 1782 al 1822) di osservazioni metodiche (con la importante collaborazione della
sorella Karoline Lucretia, 1750-1848). Il 9 giugno del 1803 fu pubblicato un suo articolo,
Account of the Changes that have happened during the last Twenty-Five Years in the
Relative Situation of Double Stars; with an Investigation of the Cause to which they are
owing (Resoconto dei cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi venticinque anni nella
situazione relativa di stelle doppie, con un’analisi delle cause a cui queste sono dovute,
Philosophical Transactions, p. 339), nel quale si diceva:
Molte stelle doppie sono doppie solo apparentemente ma devono essere
considerate come una combinazione reale i due stelle intimamente legate una
all'altra mediante la reciproca attrazione.
Secondo Herschel la più piccola delle due stelle, la compagna, doveva ruotare intorno
alla più grande in accordo con le leggi di Kepler e per cinque di tali stelle calcolò il periodo
di rotazione (variabile dai 342 anni per la compagna di Castore ai 1681 anni per la
compagna della ε della costellazione di Boote). Naturalmente, oltre a queste coppie fisiche,
esistono anche coppie ottiche ma le prime sono più numerose delle altre. Nel 1820 ebbe la
conferma di quanto sostenuto nel 1803, egli trovò lo spostamento di alcune compagne su
archi ellittici mostrando la validità della gravitazione universale in tutto lo spazio. Dalle
scoperte di Herschel iniziarono i cataloghi di stelle doppie tra i quali è notevole quello
pubblicato dalla Astronomical Society di Londra nel 1874 che contiene ben 10300 stelle
doppie. Va osservato che molte di esse sono costituite da due stelle aventi masse simili e ciò
distingue di molto il sistema da quello solare dove i pianeti hanno masse trascurabili rispetto
al Sole. In tali stelle si ha rotazione intorno al baricentro del sistema e letteralmente le stelle
si girano intorno.
Herschel si dedicò anche allo studio della Via Lattea che si presenta come un anello di
stelle. Già l'astronomo britannico Thomas Wright (1711-1786) nel 1750 aveva sostenuto che
tale apparenza ingannava e Herschel stabilì che la Via Lattea è la galassia, un disco
immenso ripieno di miliardi di stelle, nel quale si trova il sistema solare (l'idea fu ripresa da
Kant e poi fa Laplace). Fece tremila sondaggi per avere prove sperimentali di ciò ed in essi
si vede la popolazione di stelle crescere regolarmente verso la Via Lattea a partire dalle
stelle che sono più vicine a noi fino a quelle con minore luminosità
Ad Herschel si deve ancora il primo catalogo di nebulose. Egli lavorò a questo progetto
dal 1786 al 1802 e catalogò 2500 nebulose. Si tratta di ammassi di stelle osservabili con il
suo telescopio ed egli intuì che alcune stelle potevano non appartenere all'ammasso ed avere
dimensioni paragonabili a quelle delle galassie. Riuscì anche a distinguere tra gli ammassi di
stelle ed ammassi di gas catalogandone un centinaio.
Altra importante scoperta di Herschel riguarda il moto delle stelle ed anche del Sole
con il sistema solare che si sposta verso la stella τ della costellazione di Ercole a 20 km al
secondo. Egli mostrò anche il modo di fare questo calcolo avvertendo in simultanea che
alcuni spostamenti di stelle devono essere studiati sapendo che appaiono proprio perché è il
sistema solare con i suoi osservatori che si sposta(18).
Siamo così arrivati ad un universo che solo 200 anni prima era del tutto impensabile.
Infinito dappertutto con perdite di luoghi privilegiati e conseguenze clamorose anche in
ambiti non scientifici. Sparisce il Dio delle religioni monoteiste, ad esempio, e le persone di
buona volontà possono ricercare liberamente senza costrizioni magiche, superstiziose o
teologiche. La libertà di pensiero che proviene dall'Illuminismo autorizza anche a credere a
chi e cosa si vuole senza costrizioni alcune ma l'Universo è molto più grande di qualunque
credenza e l'Uomo, con la sua intelligenza, pazienza e costanza, lo va scoprendo passo passo
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ASTRONOMIA 4
(19).
Non siamo che all'inizio. In un successivo articolo studierò il passaggio dall'astronomia
all'astrofisica.
Roberto Renzetti
NOTE
(1) Edmond Halley (1656-1742) matematico, fisico ed astronomo inglese noto per aver
stabilito che gli avvistamenti di una cometa nel 1456, 1531 1607 e 1682 erano relativi alla
stessa cometa, e ne predisse il ritorno nel 1758. Quando in quell'anno tale cometa riapparve
prese il nome di cometa di Halley.
(2) Christopher Wren (1632-1723) è principalmente un architetto noto per aver contribuito
alla ricostruzione di Londra dopo il grande incendio del 1666. Si occupò anche di
matematica ed astronomia.
(3) Abraham de Moivre (1667-1754) è un matematico francese i cui studi contribuirono
all'elaborazione del calcolo delle probabilità. Il suo nome è legato a una formula per il
calcolo della potenza di un numero complesso.
(4) E' molto interessante sottolineare ciò che discende dalla scoperta di Newton. Quando
sulla Terra lanciamo un sasso con una data velocità orizzontale, potrebbe apparire che la sua
traiettoria sia parabolica. di acustica. Riguardo a quest'ultimo argomento, va notato che egli
riuscì a ricondurre l'acustica ad un capitolo della meccanica.
(6) Ricaviamoci, a partire dalla seconda legge della dinamica newtoniana (F = ma), la terza
legge di Keplero sarà:
(1)
F1 = M1.a1
dove a1 sarà l'accelerazione centripeta del pianeta 1. Scriviamocela in modo che
nell'espressione che la fornisce compaia il periodo T (si tratta della relazione 5 del testo
scritta relativamente al pianeta 1).
(2)
Sostituendo questo valore nella (1) si trova:
(3)
Questa forza F1 è dovuta alla gravità e quindi dovrà essere uguale alla forza F data dalla
legge di gravitazione universale. Si ha cioè:
(4)
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ASTRONOMIA 4
dove MS è la massa del Sole.
Uguagliando i secondi membri delle (3) e (4) si trova successivamente:
(5)
=>
=>
L'ultima espressione, come si vede, risulta indipendente dalla massa del pianeta 1. Con
medesimi calcoli si troverà un medesimo risultato per il pianeta 2:
Uguagliando i primi membri delle ultime due espressioni otteniamo:
che è proprio la terza legge di Kepler.
Si noti a margine che dalla relazione:
conoscendo alcuni dati relativi alla Terra, intesa come il pianeta 1, è possibile ricavare la
massa del Sole.
Serve conoscere il raggio R1 (= 1,5.1011 m) della Terra, il tempo T1 che la Terra impiega a
fare un giro completo intorno al Sole (= 3,15.107 sec) e la costante gravitazionale G (=
6,67.10-11 N.m2/Kg2). Per MS si trova:
MS ~ 2.1030 Kg.
Si comprende così l'interesse per le misure dell'arco di meridiano terrestre che forniva anche
T1. Per la misura di G occorrerà attendere i lavori di Cavendish.
(7) Calcoliamoci l'espressione dell'accelerazione centripeta in un moto circolare, riferendoci
alla figura seguente (è un altro modo rispetto a quello che abbiamo visto nell'articolo
precedente quando ho trattato Huygens):
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ASTRONOMIA 4
Abbiamo a che fare con un oggetto che si muove uniformemente lungo una traiettoria
circolare; la figura (a) mostra due successive posizioni di tale oggetto lungo la sua
traiettoria; supponiamo che il tratto ∆s tra le due successive posizioni sia percorso nel tempo
∆t, tempo nel quale la velocità è passata dal valore v1 al valore v2. Per calcolare
l'accelerazione [questo è un moto a velocità costante ma quando si dice questo ci si riferisce
alla velocità angolare - l'angolo percorso nell'unità di tempo - vi è invece la velocità
periferica che cambia istante per istante - si tratta solo di cambiamenti di direzione e verso ]
che sarà diretta verso il centro (accelerazione centripeta) occorre calcolarsi la variazione
della velocità vettoriale ∆v, nel tempo ∆t, cioè: ∆v/∆t. La quantità ∆v è data da ∆v = v2 - v1.
Per ricavare questa quantità ci si deve riferire alla figura (b):
∆v = v2 + (- v1) = v2 - v1
Si osservi ora che il triangolo di figura (b) con lati ∆v, v1, v2 è simile al triangolo di figura
(a) con lati corrispondenti ∆s, R1, R2. I triangoli risultano simili perché sono ambedue
isosceli ed hanno i lati v1 e v2, rispettivamente perpendicolari a R1 ed R2; dunque gli angoli
θ compresi sono uguali. Ricordando che lati corrispondenti di triangoli simili sono tra di
loro in proporzione, risulta:
Dividendo ambo i membri per ∆t si ottiene:
avendo tenuto conto che ∆s/∆t = v. Non resta ora che trarre le conclusioni, osservando che
∆v/∆t = a:
che è l'espressione della accelerazione centripeta in un moto circolare. Occorre dire che
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questa accelerazione è responsabile, istante per istante, di cambiamenti di direzione e verso e
non del modulo della velocità.
Una osservazione sulla figura va fatta. Le due posizioni dell'oggetto in rotazione sono prese
distanti per rendere la cosa visibile nella figura stessa. Per vedere bene che la direzione
dell'accelerazione è verso il centro, sarebbe stato necessario prendere due posizioni
vicinissime tra loro. In tal caso si sarebbe visto che tale direzione, coincidente con quella di
∆v di figura (b), si sarebbe sovrapposta a quella del raggio R (si tenga conto che R1 ed R2
2
sono chiamati così per dar conto delle due posizioni di cui si parla; in realtà è la stessa
lunghezza e vale R).
(8) Newton si occupò anche di ottica lungo tutto l'arco della sua vita. I suoi primi scritti in
proposito sono nel primo volume delle trascrizioni delle lezioni che egli tenne a Cambridge
dal 1669 al 1672. Le lezioni in oggetto hanno carattere eminentemente tecnico. In esse si
studiano le lenti ed i loro difetti, soprattutto aberrazioni cromatica (sulla sferica non seppe o
non volle risolvere il problema in quanto non era di natura geometrica ma strettamente
tecnica, legato alla molatura dei cristalli). Studiò obiettivi e modi per perfezionare gli
strumenti ottici e fece il passaggio alla tecnica catottrica per la costruzione di telescopi
(telescopio a riflessione e non più a visione diretta) perché con esso era possibile appunto
eliminare l'aberrazione cromatica.
In questo telescopio, che migliora di gran lunga le prestazioni di un telescopio ordinario, la radiazione
proveniente, ad esempio, da un pianeta entra da S e, dopo essersi riflessa sullo specchio concavo M, si
focalizza sullo specchio R disposto a 45°, per poi essere definitivamente inviata all'occhio dell'osservatore O.
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ASTRONOMIA 4
Disegno del telescopio catottrico di Newton fatto da Oldenburg, segretario della
Royal Society con cui Newton era in corrispondenza (da Mamiani).
Risulta chiaro che per capire ed eliminare l'aberrazione cromatica occorreva conoscere
bene il ruolo svolto dai colori ed il loro comportamento nei punti di curvatura della lente nel
telescopio a visione diretta (soprattutto ai suoi bordi), dove tende ad assomigliare ad un
prisma. In particolare occorre aver capito il rapporto esistente tra la diversa rifrangibilità dei
raggi ed i colori. E Newton aveva studiato l'aberrazione cromatica in una memoria del 167172 (New Theory about Light and Colors) in cui descrive gli esperimenti fatti con luce,
prisma e dispersione dei colori (già nota da molto tempo) attraverso di esso.
Successivamente egli tornò su questo telescopio perfezionandolo collocando al suo
fondo in luogo degli specchi metallici, uno specchio di vetro argentato.
Non ne ho parlato ma è necessario ricordare che la fondazione dell'analisi matematica è
dovuta a Newton (e Leibniz). Con gli strumenti dell'analisi molti conti, estremamente
laboriosi e circonvoluti, diventeranno molto più comprensibili e rapidi aiutando di molto la
ricerca teorica sullo spazio.
C'entra poco ma occorre dire che un barbaro tedesco, l'idealista Hegel (con la degna
compagnia di Goethe), si accanì contro Newton. Mescolando sciovinismo, idealismo ed
ignoranza della matematica, caricarono a testa bassa, rivendicando la superiorità del
misticismo kepleriano a quella indegna operazione di Newton, iniziata con Galileo, che
pretendeva di descrivere il mondo attraverso la matematica. Le tesi del barbaro furono
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esposte dapprima in una operetta, Dissertatio de orbitis planetarum (1801), vera accozzaglia
di sciocchezze, e pi ripresa ed ampliata all'intero corpo della fisica newtoniana
nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche (vedi bibliografia). Cito questo perché l'odio della
matematica con la conseguente menomazione alla comprensione di molte questioni è stato
istillato dagli idealisti nel nostro Paese. E purtroppo ancora oggi resta.
(9) Con Cassini venne a lavorare in Francia il danese Olaf Roemer. Fu un astronomo di
grandissimo valore che è noto per la prima misura della velocità della luce (1676)
utilizzando le eclissi di Io, un satellite di Giove. Tale risultato si mostrerà di eccezionale
importanza per altre ricerche astronomiche e si accompagnò ad altri risultati che più o meno
nell'arco di una cinquantina d'anni si conseguirono (in gran parte presso l'Accademia delle
Scienze di Parigi): le dimensioni della Terra, il suo appiattimento ai poli, la diminuzione di
peso all'equatore, ...
(10) In questo osservatorio lavorò James Bradley (1693-1792) che scoprì (1728)
l'aberrazione della luce proveniente da una stella, la composizione cioè della velocità della
Terra nella sua orbita con quella della luce (misurata da Roemer) proveniente da una stella
osservata, e la nutazione dell'asse terrestre (1749). E' giusto ricordare il costruttore degli
strumenti che permisero a Bradley misure così precise delle stelle. Si tratta di George
Graham (1673—1751), famoso orologiaio inglese, che Laplace definì artista. A lui si deve il
grande settore con cui Bradley scoprì l'aberrazione delle stelle (vedi figura).
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ASTRONOMIA 4
(11) Il contenuto di questa nota è tratto da:
http://pls.dima.unige.it/ftrig/Funzioni%20trigonometriche/3187/index.html
Ipparco utilizzò il metodo della parallasse, già usato da Aristarco di Samo circa un secolo
prima, per determinare la distanza Terra-Luna, che gli consentì, successivamente, di stabilire
la distanza tra la Terra e il Sole.
Tale metodo, sfruttato dall’astronomo durante un’eclissi lunare, prevede che si osservi la
posizione della Luna, rispetto alle stelle fisse, contemporaneamente da due punti di vista
differenti sulla Terra. Attraverso la triangolazione trigonometrica, tenendo in considerazione
l'orientazione terrestre, la posizione e l'inclinazione dei due punti, si determina che :
distanza Terra-Luna BE = distanza punti di osservazione AB/tgAÊB
Quindi, Ipparco determinò che la Luna distava dalla Terra circa 60 raggi terrestri, che
equivalgono a 38400 Km, grazie anche alla sua determinazione, piuttosto accurata, del
valore di parallasse p della Luna (circa 57’). Confrontando questo valore con quello trovato
in precedenza da Aristarco, passò, quindi, al calcolo della distanza Terra-Sole. Tenendo in
considerazione che, quando la Luna è al primo quarto, l'angolo Terra-Luna-Sole è di 90°, è
possibile misurare l'angolo Terra-Luna-Sole (Ω) con un goniometro, mentre la distanza
Terra-Luna BE è già nota:
distanza Terra-Sole AC = distanza Terra-Luna AE/cos AÊC
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ASTRONOMIA 4
Egli ottenne una distanza Terra-Sole di circa 1200 raggi terrestri, quindi 7680000 Km, che
fu adottata da Tolomeo e da Copernico e che rimase per 1400 anni, fino all’avvento di
Cassini nel XVII secolo, il quale scoprì che il valore era 20 volte inferiore a quello reale.
Tuttavia, Ipparco, pur non avendo determinato un valore valido, riuscì a dare un’idea delle
proporzioni delle distanze e applicò brillantemente la trigonometria in campo astronomico.
_________________________________
Riporto di seguito altri problemi di distanze risolti con conoscenze di trigonometria
elaborate più avanti nel tempo rispetto agli astronomi incontrati fin qui.
Distanza tra due punti separati da un ostacolo
Vogliamo determinare la distanza x tra due punti A e B separati da un ostacolo, ma ambedue
accessibili.
Fissiamo un punto C, distante dai punti A e B rispettivamente b ed a e dal quale i due punti
siano visibili; misuriamo l’angolo ABC = γ
Del triangolo ABC sono noti due lati e l’angolo compreso, perciò la distanza AB è
calcolabile con il teorema del coseno o di Carnot.
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ASTRONOMIA 4
Se i due punti A e B sono visibili l’uno dall’altro, ma solo B è accessibile, come nel caso
della figura sottostante,
si misura una base BC = a tale che da C sia visibile il punto A, poi si misurano gli angoli β e
A•B = γ e dal triangolo ABC, col teorema dei seni, si ottiene:
x : sen γ = a : sen [180º- ( β+ γ)]
x = a sen γ / sen ( β+ γ)
Calcolo della distanza della Terra dalla Luna
Vogliamo trovare la distanza di un punto A della Terra (punto accessibile) da un punto L
inaccessibile, ma visibile, quale può considerarsi la Luna. A tal fine, usiamo il metodo
seguito nella distanza tra due punti separati da un ostacolo; però, trattandosi di una distanza
piuttosto grande (qualche centinaia di migliaia di chilometri), conviene prendere sulla Terra
la base AB di parecchi chilometri, per avere angoli di visuale non troppo piccoli. Prendiamo
come base la corda AB che sottenda un arco di meridiano terrestre nel cui piano (piano
meridiano) vi sia anche il punto L che rappresenta la Luna, come possiamo osservare nella
figura sottostante.
Per trovare la lunghezza di AB si considera il triangolo ABC, dove C è il centro della terra.
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ASTRONOMIA 4
Con osservazioni astronomiche si misurano le latitudini di A (λ1 ) e di B (λ2) e se A, B sono
da bande opposte dell’equatore si ha A•B = λ + λ .
1
2
Si trovano poi le lunghezze dei raggi CA e CB dato che si conoscono le latitudini di A e B; a
questo punto, del triangolo ABC si conoscono quindi due lati e l'angolo compreso, per cui si
trovano: la misura c di AB e le misure di CAB = α e di CBA = β; poi si misurano
direttamente gli angoli α' e β' che le verticali CA e CB formano rispettivamente con le
visuali AL e BL.
Infine si ha LÂB = 180°- (α + α') e ABL = 180°- (β + β' ) ; così del triangolo ABL si
conoscono un lato e i due angoli adiacenti e risolvendo il triangolo si ottiene la distanza AL
di circa km 384100 cioè circa 60,27 volte il raggio equatoriale terrestre.
(12) Le scoperte astronomiche di Gian Domenico Cassini (1525-1712) sono numerose ed
estremamente importanti. Scoprì 4 satelliti di Saturno (Giapeto, Rea, Dione, Teti); scoprì la
divisione degli anelli di Saturno; scoprì la grande macchia rossa sul pianeta Giove; scoprì la
rotazione differenziale dell'atmosfera di Giove. Occorre ricordare che Cassini fu un
precursore della teoria delle comete come corpi che descrivevano orbite ellittiche molto
schiacciate intorno al Sole.
(13) Edmond Halley, A new Method of determining the Parallax of the Sun, or his Distance
from the Earth, Philosophical Transactions, Vol. XXIX, n° 348, p. 454, 1716. Vi è una nota
in fondo a questo articolo che riferisce del transito di Venere sul Sole nel 1761. Secondo le
osservazioni il metodo proposto da Halley era molto più complesso di quanto teorizzato:
* The transit of Venus in 1761 proved much less favourable to the proposed purpose than Dr. Halley expected. The
motion of Venus's node not being well known, she passed much nearer the sun's centre than he supposed she would;
which made the places he pointed out for observing the total duration not proper for the purpose; indeed the entrance
of Venus on the sun could not be seen at Hudson's Bay. He made a mistake too in the calculation, in taking the sum
instead of the difference, of the angle of the ecliptic with the parallel to the equator, and the angle of Venus's path..
(14) Venere si vede proiettata sul Sole come una macchia scura che va spostandosi (in realtà
si tratta della combinazione dei due moti, quello del Sole e quello di Venere):
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Venere è visibile sulla destra del disco del Sole, più o meno alla linea dell'equatore solare. Da http://
antwrp.gsfc.nasa.gov/apod/image/0406/venustransit_cortner_big.jpg
(15) Se fosse stato possibile misurare l'angolo PVP' il conto, riferendoci alla figura, si
sarebbe potuto fare nel modo seguente.
La distanza tra i due osservatori P e P' è d ~ 13000 km. La relazione che vale per
piccoli angoli è:
d/r = arcsec θ/206,265
e da essa si può ricavare r, cioè la distanza della Terra da Venere. Considerando ora la figura
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seguente:
e la terza legge di Kepler:
(RV/RT)3 = (TV/TR)2
si trova:
[(RT - r)/RT]3 = (TV)2
dove TV si misura in anni ed avendo eliminato TR perché vale 1 anno.
Risolvendo per RT si trova un valore prossimo ai 150 milioni di km.
(16) Cito alcune perifrasi per indicare alcune stelle della costellazione del Leone:
Quella che si trova all'estremità del muso
Quella che si trova nella gola
La più boreale di quelle che stanno nella testa
La più meridionale di tutte
La stella del ginocchio destro
Quella che sta nell'artiglio anteriore destro
Quella situata all'estremità della coda.
...........................
(17) Le Verrier provò a studiare anche le anomalie dell'orbita di Mercurio. Egli suppose,
sbagliando, che vi fosse anche qui uno sconosciuto pianeta che chiamò Vulcano ad originare
le perturbazioni. I problemi di Mercurio erano ben altri e solo con la relatività generale di
Einstein si compresero.
Ricordo che, come hanno mostrato Kowal e Drake (1980), dallo studio minuzioso dei
manoscritti galileiani, Galileo fu il primo ad osservare Nettuno in due occasioni (28
dicembre 1612 e 27 gennaio 1613). Recentissimamente (luglio 2009), il prof. David
Jamieson dell'Università di Melbourne ha mostrato con un appunto originale di Galileo che
lo scienziato pisano aveva anche capito che si trattava di un pianeta dal disegno di un tratto
di orbita dell'astro osservato.
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(18) In chiusura di questo articolo, non si può fare a meno di almeno accennare ad altri
importanti contributi che si ebbero sul finire del Settecento da parte dei fisici matematici
francesi, Euler, D'Alembert, Lagrange e Laplace.
Leonhard Euler (1707-1783) da grande matematico qual era dedicò molti suoi sforzi a
calcolare con precisione l'orbita della Luna che presenta notevolissime difficoltà. Siamo in
presenza qui del problema dei tre corpi (Terra, Luna, Sole) che già abbiamo visto risultare
un rompicapo per Newton. Sviluppò un calcolo approssimato che pubblico a Pietroburgo
nella sua opera Novae tabulae motuum solis et lunae del 1753. Il calcolo fu successivamente
perfezionato e pubblicato in De theoria lunae ad majorem perfectionis gradum evehenda
(1780). Euler si occupò anche delle orbite dei pianeti che, perturbate da altri pianeti, non
risultano più delle ellissi perfette. Tentò una teoria generale ma non vi riuscì (il problema
sarà risolto successivamente da Lagrange).
Jean le Rond d'Alembert (1717-1783) lavorò ancora al problema dei tre corpi nelle sue
Recherches sur différentes points importants du système du monde (1754) e su tale problema
lavorarono vari altri scienziati tra cui A.C. Clairaut (1713-1765) che sull'argomento scrisse
Théorie de la lune (1752) e che si occupò anche delle perturbazioni della Terra dovute alla
Luna ed a Venere ottenendo per la prima volta il valore della massa della Luna e di Venere.
A d'Alembert si deve anche uno studio analitico rigoroso della appena scoperta nutazione
dell'asse terrestre da parte di Bradley (Recherches sur la précession des équinoxes et sur la
nutation de l'axe de la terre - 1749). In questo lavoro d'Alembert dimostrava che sia il
fenomeno della nutazione che quello della precessione degli equinozi erano originati
dall'attrazione che la Luna esercita sul rigonfiamento equatoriale della Terra.
Giuseppe Luigi Lagrange (1736-1813) si occupò diffusamente di meccanica celeste
risolvendo il problema della librazione della Luna (le piccole oscillazioni lunari dovute alla
costanza della rotazione su se stessa ma alla variabilità della sua rotazione intorno alla Terra
dovuta alle differenti velocità che nascono dall'ellitticità dell'orbita. A seguito di ciò, dalla
Terra noi non vediamo sempre il 50% della superficie lunare ma solo il 42%; l'altro 42%
non lo vediamo mai mentre un 18% oscilla tra visibilità ed invisibilità), affrontando un
problema a sei corpi, studiando e risolvendo, naturalmente in modo approssimato, il moto di
quattro satelliti di Giove, sotto l'azione di Giove e del Sole, ed occupandosi diffusamente del
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problema a tre corpi, del moto della Luna e delle comete.
Pierre Simon Laplace (1749-1827) completò ed estese la meccanica newtoniana trattandola
con il calcolo differenziale. Egli ricavò le espressioni matematiche per il calcolo dei moti e
delle posizioni degli astri tenendo conto anche della teoria delle perturbazioni dimostrando
che le distanze medie dai pianeti dal Sole sono sempre le stesse (Traité de mécanique céleste
- 1799-1825). Altra opera fondamentale di Laplace fu l'Exposition du système du monde del
1796, nella quale vi è un'esposizione chiara ed esauriente ma senza formule di quanto sarà
trattato nel Traité de mécanique céleste. In quest'opera viene avanzata, con cautela perché
non discendente da osservazioni particolari o da calcoli, la teoria di Laplace della nebulosa,
teoria che era stata anche di Kant, alla quale ho accennato nel testo.
(19) In quanto ho scritto non deve sfuggire che sono in pratica spariti i ricercatori italiani.
Dove la Chiesa detiene il potere non esiste ricerca libera. E la cosa è confermata dall'assenza
di ricercatori di un altro Paese in cui la Chiesa era dominante, la Spagna. Se si estende
quanto ho detto ad altri Paesi cattolici si trova che la tragica verità è confermata.
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