Istituto comprensivo SCUOLA- CITTÀ PESTALOZZI Scuola sperimentale statale D.M. 10.03.06 - ex art. 11 D.P.R. n. 275/1999 Scuola Laboratorio - Centro Risorse per la formazione docenti CONOSCENZA DI FORME TEATRALI E CENNI DI STORIA DEL TEATRO Riferimenti culturali PARTE SECONDA DAL TEATRO ELISABETTIANO AL '900 TEATRO ELISABETTIANO Quando nel Cinquecento sorsero i primi teatri fuori dalla City, essi conservarono molto di quella antica semplicità medievale. Senza l'aiuto di macchine o luci artificiali gli attori inglesi svilupparono al massimo creatività e fantasia personale prima ancora che fossero scritte le prime grandi opere elisabettiane (Shakespeare si fece le ossa esordendo come attore, e così fecero molti altri). Ricavato in origine dai circhi dell'epoca per le lotte tra orsi o tra cani oppure dagli "inn", locande economiche di provincia, l'edificio teatrale consisteva in una costruzione molto semplice in legno o in pietra, spesso circolare e dotata di un'ampia corte interna chiusa tutt’intorno ma senza tetto. Tale corte diventò la platea del teatro, mentre i loggioni derivano dalle balconate interne della locanda. Quando la locanda o il circo divennero teatro, poco o nulla mutò dell'antica costruzione: le rappresentazioni si svolgevano nella corte, alla luce del sole. L'attore elisabettiano recitava in mezzo, non davanti alla gente: infatti il palcoscenico si "addentrava" in una platea che lo circondava da tre lati (solo la parte posteriore era riservata agli attori restando a ridosso dell'edificio). Come nel Medioevo, il pubblico non era semplice spettatore, ma partecipe del dramma. L'assenza degli "effetti speciali" raffinava le capacità gestuali, mimiche e verbali dell'attore, che sapeva creare con maestria luoghi e mondi invisibili (le magie di Prospero ne La Tempesta alludono metaforicamente proprio a questa magia "evocativa"). UN TEATRO SENZA CLASSI Mentre il dramma rinascimentale italiano si evolveva verso una forma di arte elitaria, il teatro elisabettiano diventava un grande contenitore che affascinava tutte le classi, agendo così da "livellatore" sociale. Alle rappresentazioni potevano incontrarsi principi e contadini, uomini, donne e bambini, anche perché il biglietto era alla portata di tutti: i posti in piedi, al centro del teatro costavano un penny; gli spettatori più abbienti potevano sedersi nelle gallerie pagando due penny; la frequentazione del teatro era fortemente radicata nei costumi dell'epoca. Per questo ogni dramma doveva incontrare gusti diversi: quelli del soldato che voleva vedere guerre e duelli, quelli della donna che cercava amore e sentimento, quelli dell'avvocato che si interessava di filosofia morale e di diritto, e così via. Anche il linguaggio teatrale riflette questa esigenza, arricchendosi dei registri più vari e acquistando grande flessibilità espressiva. VITA DEGLI ATTORI Per costruire un personaggio vero, umanamente vicino alla gente, non era considerato necessario utilizzare costumi di scena né essere fedeli ai fatti storici. Impiegare delle attrici era inoltre proibito dalla legge, e lo fu per tutto il Seicento. I personaggi femminili erano dunque rappresentati da adolescenti maschi. Ma questo non diminuì il successo delle rappresentazioni, provato dai testimoni dell'epoca e dalle continue proteste contro le compagnie teatrali da parte degli amministratori puritani della City. Solo la protezione accordata alle troupe dai prìncipi e dai reali - se l'attore vestiva la loro livrea non poteva essere infatti arrestato - poté salvare Shakespeare e i suoi compagni dalle condanne di empietà lanciate dalle municipalità puritane. I nomi di molte compagnie teatrali derivano proprio da questa forma di patrocinio: The Admiral's Men e The King's Men erano appunto "gli uomini dell'ammiraglio" e "gli uomini del sovrano". Una compagnia che non avesse avuto un potente sponsor alle spalle poteva andare incontro a serie difficoltà e vedersi cancellati gli spettacoli da un giorno all'altro. A questi problemi si aggiungevano, per gli attori, i salari molto bassi. WILLIAM SHAKESPEARE (Stratford-upon-Avon, 1564 - Warwickshire, 1616) è considerato il più grande drammaturgo in lingua inglese di sempre e, in assoluto, fra i maggiori scrittori di ogni tempo e provenienza. È stato attore egli stesso. Scrisse non solo alcune delle più formidabili tragedie entrate nella storia della letteratura, ma anche molte delle più divertenti commedie mai apparse sulle scene inglesi. Shakespeare fu anche autore di 154 sonetti e di diversi poemi, alcuni dei quali sono considerati i più brillanti esempi di letteratura inglese mai scritti. La sua abilità consisteva nell'andare oltre la narrativa per descrivere gli aspetti interiori e profondi della natura umana. Si ritiene che abbia scritto la maggior parte dei suoi lavori tra il 1585 e il 1611, anche se le date esatte e la cronologia delle opere a lui attribuite non sono note con precisione, mancando sulla figura di questo autorevole letterato una biografia approfondita e completamente attendibile. OPERE Fatta eccezione per due poemetti giovanili, Shakespeare non si è mai curato di dare alle stampe le proprie opere; d’altra parte a quel tempo non vi era interesse a farlo: le opere teatrali erano di proprietà della compagnia e pubblicarle avrebbe significato mettere nelle mani di compagnie rivali i propri copioni. Le opere di Shakespeare oggi in nostro possesso si basano quindi su copie illegali (e spesso malandate) dell’epoca e soprattutto sulle edizioni in-folio pubblicate dopo la sua morte. La prima e la più importante di queste è quella stampata nel 1623 dai suoi amici John Heminge e Henry Condell (Mr. William Shakespeare’s Comedies, Histories & Tragedies). L’in-folio comprende 36 opere teatrali suddivise per categoria: commedie, drammi storici, tragedie. IL SOGNO Non si sa con certezza quando la commedia Sogno di una notte di mezza estate fu scritta o messa in scena per la prima volta, ma si presume tra il 1594 e il 1596. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che potrebbe essere stata scritta nel febbraio del 1596 per una rappresentazione in occasione del matrimonio tra Sir Thomas Berkeley ed Elizabeth Carey. Alcuni spunti sono rintracciabili nella letteratura classica; ad esempio, la storia di Piramo e Tisbe è raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, mentre la trasformazione di Bottom in un asino è tratta da L'asino d'oro di Apuleio - due opere letterarie che Shakespeare può aver studiato a scuola. Oltre a ciò, più o meno nello stesso periodo nel quale questa commedia fu composta, Shakespeare stava scrivendo Romeo e Giulietta, ed è possibile rilevare nella trama che ha per protagonisti Piramo e Tisbe una rielaborazione in chiave comica della tragedia. La commedia presenta tre storie intrecciate, collegate tra loro dalla celebrazione del matrimonio tra Teseo, duca di Atene e Ippolita, regina delle Amazzoni. Due giovani ateniesi, Lisandro e Demetrio, sono entrambi innamorati della stessa donna, Ermia; quest'ultima ama Lisandro, mentre la sua amica Elena è innamorata di Demetrio. Ma il padre di Ermia impone alla figlia di sposare Demetrio. Allora lei fugge con Lisandro nei boschi, seguiti da Elena e Demetrio, ma si perdono nel buio e nelle loro schermaglie amorose. Nel frattempo, Oberon, re delle fate, e la moglie Titania giungono nel medesimo bosco per partecipare alle nozze imminenti. Al rifiuto di quest’ultima di permettere ad Oberon di usare il suo paggio indiano per sorreggergli la veste, egli cerca di punirla per la sua disobbedienza facendole spremere sugli occhi il succo della viola del pensiero, che fa innamorare della prima persona che si incontra al risveglio. Nello stesso tempo, una combriccola di artigiani che, per festeggiare il matrimonio, vuole mettere in scena una rappresentazione popolare sul tema di Piramo e Tisbe, si riunisce nella foresta per le prove dello spettacolo. Fra di loro spicca Nick Bottom, il Tessitore, uno dei più apprezzati personaggi comici di Shakespeare. Oberon ingaggia il furbo Puck, chiamato anche Hobgoblin, o Robin Goodfellow, affinché lo aiuti a riconquistare l’amore di Titania. Inoltre, dopo aver visto Demetrio ed Elena sperduti nel bosco, ordina a Puck di spremere il succo magico sugli occhi di Demetrio per farlo innamorare di 2 Elena, ma per errore Puck spreme il succo sugli occhi di Lisandro che al risveglio vede Elena e se ne innamora perdutamente, con grande disappunto di Ermia. Ma Puck ha anche il tempo di giocare uno scherzo a Bottom, che scopre che la sua testa è stata trasformata in quella di un asino. Sarà proprio Bottom la prima persona di cui si innamorerà Titania, al suo risveglio, a causa dell'effetto della viola del pensiero. A questo punto Titania incontra Oberon, che, realizzata la sua vendetta, accetta di scioglierla dall'incantesimo. Puck quindi risistema le cose, compresa la testa del povero Bottom. Oberon, inoltre, accortosi dell'errore di Puck, mette del succo sugli occhi di Demetrio. Così ora sia Lisandro sia Demetrio corrono dietro Elena accapigliandosi tra loro. Alla fine Oberon ordina a Puck di risistemare tutto tra gli innamorati. Puck, allora, fa scendere una nebbia fatata sul bosco tale che i quattro ragazzi si addormentano. Quindi fa sì che Lisandro ami di nuovo Ermia. Così ora tutto è a posto: Oberon e Titania sono riconciliati, e i quattro giovani sono due coppie. Questi vengono trovati addormentati al limitare del bosco il giorno dopo da Teseo, il quale si affretta a preparare le nozze. La notizia degli imminenti tre matrimoni manda in agitazione il villaggio, compresi i lavoratori ateniesi che stavano provando la commedia nel bosco, i quali però sono senza il personaggio principale della loro commedia: Piramo, che doveva essere interpretato da Bottom che loro avevano abbandonato nel bosco con la testa d'asino: il morale è a terra. Fortunatamente il protagonista entra in scena proprio in questo momento di sconforto di ritorno dal bosco, ed incita i compagni a prepararsi per lo spettacolo. Al palazzo, Teseo, nonostante gli avvertimenti del cerimoniere, sceglie proprio il loro spettacolo (Piramo e Tisbe). Parte lo spettacolo nello spettacolo: i maniscalchi mettono in scena una goffa versione della tragedia, rendendo la cosa comica ("sento il volto della mia Tisbe..." "mi sembra di vedere dei suoni.."), nella quale è compreso anche un personaggio nel ruolo del muro. L'opera si conclude con Puck che entra in scena e dice che se lo spettacolo non è piaciuto al pubblico, questo può aver fatto finta di dormire, e che questi può considerarlo come un prodotto dei sogni, e che se lo lasceranno fare, Puck farà ammenda dei danni. Dopo il Rinascimento, la commedia non fu mai rappresentata nella versione integrale fino alla metà del XIX secolo; nel 1692 ci fu però un adattamento musicale da parte di Henry Purcell con il titolo di The Fairy Queen, od una versione ridotta in cui Bottom era il personaggio principale. IL SOGNO nell'epoca Vittoriana. Nel 1840, Madame Vestris rappresentò la commedia integrale a Covent Garden inserendovi intermezzi musicali e balletti; lei stessa interpretò il ruolo di Oberon e, per settanta anni, i personaggi di Oberon e Puck furono interpretati da donne. Il teatro del XIX secolo continuò a considerare il Sogno di una notte di mezza estate un’occasione per uno spettacolo imponente recitato da un centinaio di attori. Le ambientazioni sceniche raffiguranti il palazzo e la foresta furono curate nei minimi particolari, e le fate presero le sembianze di danzatrici con le ali di finissima tela di garza. In tutto questo periodo l’apprezzata overture di Felix Mendelssohn divenne la colonna sonora, mentre parti del testo furono spesso tagliate per lasciar posto alla musica ed al balletto. All’inizio del XX secolo ci fu una reazione a questa fastosa rappresentazione. Harley GranvilleBarker, un direttore artistico d’avanguardia, nel 1914 introdusse una moderna messa in scena della commedia, eliminando il cast numeroso e la musica di Mendelssohn, sostituita dalla musica popolare dell’Età Elisabettiana; invece di sfarzosi apparati scenici collocò una semplice scenografia fatta di tele decorate a disegni; usò un’immagine delle fate del tutto originale, viste come creature dalla forma di insetti robot simili agli idoli cambogiani. Un’altra realizzazione che fece epoca fu quella di Peter Brook nel 1971. Brook abbandonò tutte le forme di rappresentazione tradizionali, ambientando la commedia in una scatola bianca vuota in cui fate maschili eseguivano degli esercizi circensi, come il trapezio; introdusse anche l’idea, diventata poi comune, di far sostenere un doppio ruolo: Teseo/Oberon e Ippolita/Titania, come a voler dire che il mondo delle fate rispecchia il mondo degli uomini. 3 MOLIÈRE Molière (Parigi, 14 gennaio 1622 - 17 febbraio 1673), pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin, fu un magistrale autore teatrale nonché mirabile attore francese. Suo padre, tappezziere del Re, gli permise scuole molto più prestigiose di quelle destinate ai figli degli altri commercianti. Sui suoi studi successivi non si seppe mai nulla di preciso ma probabilmente, intorno al 1640, iniziò a studiare diritto e divenne avvocato. Ad un certo punto della sua vita iniziò una relazione con Madeleine Béjart, un'attrice di quattro anni più anziana di lui.Con l’aiuto di tale donna colta e capace di condurre con intelligenza i propri affari, leale e devota, organizzò una loro compagnia che servì a Molière per capire la propria vocazione di attore. Dopo un periodo di prova in provincia, debuttò a Parigi. Ma il pubblico non rispose a dovere tanto che per i debiti della compagnia di cui era diventato primo attore e guida, finì in prigione. La compagnia si sciolse. Una volta liberato per l'interessamento del padre e di Madeleine, lui ed alcuni membri della compagnia abbandonarono la capitale francese. Dal 1645 al 1658 con i suoi compagni lavorò come attore ambulante. Durante questo girovagare conobbe bene l'ambiente della provincia, ma soprattutto imparò a fare l'attore ed a capire i gusti del pubblico e le sue reazioni. In questo periodo iniziò a scrivere alcune farse e due commedie. Nel 1658 tornò a Parigi. A fine ottobre recitò davanti al re il quale, si entusiasmò con la farsa Docteur amoureux (Il dottore amoroso), scritta da Molière (il testo fu ritrovato e pubblicato nel 1960). La compagnia venne autorizzata ad occupare, alternandosi con la troupe degli Italiani, il teatro del PetitBourbon, e quando nel 1659 gli Italiani se ne andarono, lo stesso teatro fu a sua completa disposizione. Iniziò così a mettere in scena delle tragedie ma con scarso successo. Molière allora capì che la commedia era la sua aspirazione ed in questo genere eccelse già con la prima opera Le preziose ridicole, nel 1659. Da allora fu un susseguirsi di capolavori. Nel 1660 vi fu il gran successo di Sganarelle ou le Cocu imaginaire (Sganarello), poi nel 1661 La scuola dei mariti, nel 1662 La scuola delle mogli, nel 1664 Il Tartufo, nel 1665 Don Giovanni, nel 1666 Il Misantropo, nel 1668 L’avaro e Anfitrione, nel 1670 Il borghese gentiluomo, nel 1672 Le donne sapienti e nel 1673 Il Malato immaginario, durante il quale, mentre stava recitando, ebbe una crisi della grave malattia che aveva da anni e poco dopo morì. IL ‘‘700: CARLO GOLDONI Carlo Goldoni nacque a Venezia il 25 febbraio 1707 da Margherita Salvioni e da Giulio, medico di professione; una famiglia benestante, in cui la passione per il teatro risaliva al nonno paterno, che era solito organizzare recite nella propria villa di campagna. E furono proprio alcuni "domestici" spettacoli di marionette ad accendere nel fanciullo il primo entusiasmo per le rappresentazioni sceniche. A dodici anni aveva già letto diversi autori comici e composto una commediola. Nel 1719 Carlo raggiunse il padre, che nel frattempo si era trasferito a Perugia, e cominciò a seguire corsi di grammatica e retorica presso il locale collegio dei gesuiti. Una volta, Giulio Goldoni, vedendo recitare il figlio dodicenne a Perugia, ebbe a dire sorridendo che il giovane Carlo non sarebbe mai diventato un grande attore. Successivamente la famiglia si trasferì a Chioggia, e il quattordicenne Carlo fu lasciato a studiare filosofia presso una scuola di domenicani a Rimini. Qui poté familiarizzare con una compagnia di commedianti professionisti, tanto che per seguirli fuggì dalla scuola su un barcone, per poi raggiungere i genitori a Chioggia. Nel 1731 Goldoni conseguì a Padova la sospirata laurea in legge. Nel 1734 era a Venezia, prima come consulente di alcuni teatri cittadini e tre anni dopo come direttore artistico del teatro di San Giovanni Grisostomo; dal 1741 al 1743 ricoprì l’incarico di ambasciatore della Repubblica genovese a Venezia; dal 1745 al 1748 fu avvocato a Pisa. Ma il suo principale obiettivo rimaneva quello di comporre commedie. La sua prima opera degna di nota è il Momolo cortesan (1738), ribattezzato poi L’uomo di mondo, di cui era interamente scritta solo la parte del personaggio principale. La donna di garbo, invece, è la prima partitura completa in tutti i ruoli. Ciò costituì una vera e propria rivoluzione, dato che gli autori al servizio delle compagnie teatrali erano semplici "soggettisti": si limitavano cioè a delineare una vicenda e a sceneggiarla sommariamente, lasciando gli attori liberi di improvvisare dialoghi, monologhi, battute comiche e movimenti scenici. Naturalmente anche Goldoni dovette sottostare a tale consuetudine e compose un’enorme quantità di trame (dette tecnicamente "scenari"). Una delle sue commedie più note e fortunate, Il servitore di due padroni solo in un secondo tempo fu sottratta all’arte dell’improvvisazione, quando Goldoni ne scrisse interamente il copione. Ma la prima grande svolta della carriera goldoniana fu l’incontro con uno dei più famosi capocomici del tempo, Girolamo Medebach, che gli offrì di lavorare per il teatro veneziano di 4 Sant’Angelo. Goldoni abbandonò la carriera di avvocato e nell’aprile del 1748 seguì la compagnia Medebach a Venezia, facendo prima tappa a Mantova e a Modena. Fu Medebach a dargli ampia libertà di condurre la sua battaglia per una riforma che mirava a restituire centralità al ruolo dell’autore nell’opera comica. Goldoni riuscì nel difficile intento di costringere l’attore ad abbandonare l’improvvisazione per adeguarsi a un copione scritto e imparato a memoria; ma questo è solo l’aspetto preliminare e più vistoso della riforma goldoniana. Del resto una tradizione di teatro scritto e attento alle esigenze della messa in scena esisteva già da secoli: il teatro greco e latino, le commedie del ‘500, e poi il teatro elisabettiano, quello spagnolo e quello francese. Persino alcuni "comici dell’arte" avevano avvertito l’esigenza di trasporre diverse commedie in una forma "premeditata". Che rivoluzione poteva mai essere, allora, quella di sostituire ai canovacci delle partiture scritte, se da secoli mille altri commediografi lo avevano già fatto? Si sarebbe trattato di una semplice restaurazione. Il vero nucleo della riforma goldoniana consiste invece in un ben più drastico passaggio dalla commedia "di intreccio" a quella "di carattere". Nella commedia "di intreccio", l’indole dei personaggi e il loro comportamento erano predeterminati e stereotipati, perfettamente chiari a tutti fin dall’inizio della rappresentazione; le maschere erano sempre - nel modo di agire, di muoversi, di pensare - uguali a se stesse. E sebbene anche il lieto fine fosse prevedibile, il pubblico era attratto dallo sviluppo della vicenda, ricca di storie fantasiose, intricate peripezie, equivoci, scambi di persona, sorprendenti colpi di scena. Si sapeva già a quale esito sarebbe approdata la storia, ma non in quale modo. Nella commedia "di carattere", l’interesse è tutto rivolto allo scavo psicologico dei singoli individui, la sorpresa viene dalla loro interiorità e non da strabilianti eventi esterni. Evidentemente dovevano sparire le maschere: dietro di esse è pressoché impossibile per l’attore dare spessore psicologico al personaggio. Parimenti, era necessario che le avventure della Commedia dell’Arte, proiettate tutte in un mondo inverosimile, cedessero il passo ai più comuni fatti della vita. Il pubblico avrebbe trovato sulla scena una sorta di specchio nel quale rivedere se stesso, con le normali passioni, speranze, sentimenti, pregi e difetti d’ogni essere umano. Si tratta, come è facile capire, di un primo passo verso una forma di teatro "naturalistico". Il ‘900 KONSTANTIN SERGEEVIČ STANISLAVSKIJ Konstantin Sergeevič Stanislavskij (Константин Сергеевич Станиславский / Алексéев) (Mosca 18 gennaio 1863 - 7 agosto 1938), pseudonimo di Konstantin Sergeevič Alekseev, fu un attore, regista e teorico teatrale russo, interprete eccellente di indimenticabili rappresentazioni oltre che scrittore. È anche noto per essere l'ideatore dell'omonimo celebre Metodo Stanislavskij, uno stile di insegnamento della recitazione messo a punto nei primi anni del '900. Il metodo si basa sull'approfondimento psicologico del personaggio e sulla ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell'attore. Si basa sulla esternazione delle emozioni interiori attraverso la loro interpretazione e rielaborazione a livello intimo. Per ottenere la credibilità scenica, il maestro Stanislavskij indicava esercizi che riproponessero le emozioni da provare sulla scena andando ad analizzare in modo profondo gli atteggiamenti non verbali e il sottotesto del messaggio da trasmettere. I risultati dei suoi studi furono raccolti in alcuni volumi. Nel 1938 pubblicò Il lavoro dell'attore su se stesso e nel 1957 uscì postumo Il lavoro dell'attore sul personaggio. JERZY GROTOWSKI (Rzeszów, Polonia, 11 agosto 1933 - Pontedera, PI, 14 gennaio 1999), regista teatrale polacco, è stato una delle figure di spicco dell'avanguardia teatrale del Novecento. È ricordato per la straordinaria e rivoluzionaria tecnica di "allenamento" per gli attori, innovazione, questa, tale da aver creato un precedente ancora oggi considerato "necessario", che ha modificato profondamente la figura dell'attore all'interno dell'arte teatrale. La nozione di un teatro 'povero':«Eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo, scopriamo che il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato (il palcoscenico), senza gli effetti di luce e suono, etc. Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta. Questa è un'antica verità teoretica, ovviamente. Mette alla prova la nozione di teatro come sintesi di disparate discipline creative; la letteratura, la scultura, la pittura, l'architettura, l'illuminazione, la recitazione...» (J. Grotowski, Per un Teatro Povero) Grotowski fu un rivoluzionario nel teatro perché provocò un ripensamento del concetto stesso di teatro e del suo scopo nella cultura contemporanea. Una delle sue idee chiave è la nozione del teatro povero. Con questa espressione egli intendeva un teatro in cui la preoccupazione 5 fondamentale fosse il lavoro dell'attore con il pubblico, non l'allestimento scenico, i costumi, le luci o gli effetti speciali. BERTOLD BRECHT Bertold Brecht nasce nel 1859 in Baviera. Dal 1917 al 1819 frequenta a Monaco la facoltà di medicina. Nel 1819 collabora come critico drammatico all’organo del partito socialdemocratico. Il successo gli arride con “L’opera di tre soldi”, composta nel 1928. Comincia la sua opera teatrale a scopo didattico. Venuto in sospetto ai nazisti deve recarsi in esilio. Nel 1941 si rifugia in America, poi in Svizzera. Nel 1950 viene nominato membro dell’Accademia delle Arti. Muore il 14 agosto del 1956. Assume una pregnante valenza la lezione marxista congiunta al preciso intento dell’autore di condannare la classe borghese. Brecht, proponeva un nuovo modello di teatro epico, le cui sequenze dovevano essere proprio quelle del teatro popolare, ispirato al vissuto e al quotidiano, con scene staccate l’una dall’altra e con la fusione di parola, musica, gesto. Infatti, mentre prima si tendeva all’empatia (commozione del pubblico), ora invece l’autore si distanzia dallo spettatore (straniamento). Il pubblico viene messo in grado non solo di partecipare, ma anche di giudicare. Il teatro di Brecht non mira alla commozione, ma a sviluppare il senso critico. Questo era il fine didattico del teatro sociologico. Lo scopo di Brecht era quello di produrre al contempo un teatro epico e politico. Brecht aspirava ad un dramma scientifico e marxista, che comprendesse le profonde ragioni sociali e storiche del popolo. Il pubblico non doveva essere costretto ad avere emozioni, ma doveva essere indotto a pensare. IL TEATRO DELL’ASSURDO Il teatro dell’assurdo mette in scena nel secodo dopoguerra l’alienazione dell’uomo contemporaneo, la crisi, l’angoscia, la solitudine, la totale impossibilità di ogni comunicazione attraverso situazioni e dialoghi surreali, costituiti da squarci di quotidianità scomposti e rimontati in modo da creare un effetto comico e tragico al tempo stesso. L’azione e, a volte, anche il dialogo, sono ridotti al minimo, le vicende sono apparentemente senza senso: in questo modo si scardina ogni convenzione e regola teatrale, si capovolge ogni criterio di verosimiglianza e di realtà. La definizione «teatro dell’assurdo» è stata formulata dal critico Martin Esslin e accomuna autori che, pur svolgendo ciascuno autonomamente e senza influssi reciproci la propria ricerca, danno vita a un corpus di opere omogeneo. I maggiori esponenti sono Eugène Ionesco (La cantatrice calva, 1950; Il rinoceronte, 1959) e Samuel Beckett (Aspettando Godot, 1952; Finale di partita, 1957; Giorni felici, 1961). Strette sono le relazioni con l’esistenzialismo di Sartre, con le avanguardie surrealista (per il teatro, Jarry e il suo Père Ubu) e dadaista. Eugène Ionesco: La cantatrice calva (1950) La cantatrice calva di Eugène Ionesco, rappresentata a Parigi nel 1950, è il primo esempio di questo modo nuovo di intendere il teatro. La novità assoluta del testo fece sì che all’inizio l’opera fosse accolta con diffidenza; riproposta nel 1955, riscosse un enorme successo, tanto da restare in cartellone per quindici anni consecutivi. In La cantatrice calva i discorsi assolutamente normali e quotidiani dei personaggi dimostrano tutta la loro insensatezza e denunciano l’assenza di una reale intenzione comunicativa, mettendo in evidenza l’alienazione della condizione umana. Da un manuale per l’apprendimento dell’inglese al testo teatrale L’idea della Cantatrice calva fu ispirata all’autore dalla necessità di imparare l’inglese, utilizzando un manuale di conversazione per principianti. Le espressioni di uso più comune, le frasi fatte che vi erano proposte attraverso i dialoghi tra personaggi fittizi e tipicamente inglesi, i coniugi Smith e i loro amici Martin, lo colpirono per la banalità dei contenuti (per esempio: «La settimana ha sette giorni») e il tono perentorio con cui venivano comunicati.« A questo punto» racconta Ionesco con autoironia «ebbi un’illuminazione. Non si trattava più per me di perfezionare la conoscenza della lingua inglese […]. La mia ambizione era divenuta più grande: comunicare ai miei contemporanei la verità essenziale di cui il manuale di 6 conversazione franco-inglese m’aveva reso cosciente. D’altronde i dialoghi degli Smith, dei Martin, degli Smith coi Martin erano di per sé teatro, in quanto il teatro è dialogo. Dovevo dunque scrivere un’opera teatrale».Fin dalle prime battute del testo emergono le caratteristiche esemplari dei dialoghi didattici da manuale: i temi (il cibo, la casa, la salute, l’ora ecc.), le regole grammaticali, le espressioni idiomatiche, gli stereotipi... Il testo teatrale marca e accentua questi aspetti, creando un effetto insieme comico e straniante. Anche il titolo resta insensato: nacque dall’errore di un attore. La dissoluzione della struttura teatrale Nel teatro di Ionesco non c’è approfondimento psicologico dei personaggi. Quello che dicono i protagonisti (i coniugi Smith e i coniugi Martin) resta del tutto in superficie, le battute si accumulano una dietro l’altra per associazioni del tutto esterne o casuali. I loro battibecchi restano freddi e controllati, in quanto i personaggi non si scambiano informazioni utili o opinioni sentite, non hanno niente da dirsi. Alla fine dal non-senso dei dialoghi emergono l’inconsistenza del linguaggio e il vuoto, l’inconsistenza della condizione umana. Ancora Ionesco racconta: « Scrivendo questa commedia (poiché tutto ciò si era trasformato in una specie di commedia o anti-commedia, cioè veramente la parodia di una commedia, una commedia nella commedia) ero sopraffatto da un vero malessere, da un senso di vertigine, di nausea. Ogni tanto ero costretto ad interrompermi e a domandarmi con insistenza quale spirito maligno mi costringesse a continuare a scrivere, andavo a distendermi sul canapè con il terrore di vederlo sprofondare nel nulla; ed io con lui».Il teatro non è più essenzialmente mimesi di un’azione che richiede l’immedesimazione degli spettatori, prevale invece la dimensione del meta-teatro: lo spettatore è spinto a riflettere non solo sulla condizione dell’uomo, ma sul modo stesso di fare teatro. Per Ionesco il teatro deve essere «antitematico, antideologico, antirealistico-socialista, antifilosofico, antipsicologico, antiborghese, […] un teatro libero, ossia liberato, ossia senza pregiudizi, strumento da esplorazione». Samuel Beckett: Aspettando Godot (1948) In Aspettando Godot (steso tra il ’48 e il ’49, rappresentato sulle scene di Parigi nel 1953) due vagabondi attendono un misterioso personaggio che non arriverà mai e che non si sa neppure chi sia (forse Dio, forse la sua negazione). Non c’è un vero e proprio intreccio, le situazioni si ripetono uguali, gli eventi minimi appaiono slegati e inconclusi; i dialoghi tra i personaggi sono costituiti da battute banali, ripetitive, monche. Per lo spettatore l’immedesimazione risulta impossibile e l’effetto è di costante straniamento. Il dialogo rimanda al vuoto, alla crisi di senso e di valore della realtà. La crisi di senso e di valore L’opera denuncia la fine di ogni senso socialmente condiviso e di ogni fiducia in un possibile ordine razionale. Resta solo l’attesa, la ricerca di un significato di cui si sente il bisogno, ma che resta irraggiungibile. Chi è Godot? La felicità? La morte? Dio, come hanno sostenuto alcuni che hanno colto un nesso tra il suo nome e il termine inglese God (Dio)? La risposta ironica di Beckett è che neppure lui sapeva chi fosse Godot, altrimenti lo avrebbe indicato all’interno del dramma. Parodia del teatro borghese Aspettando Godot è anche una parodia del teatro borghese “di parola”, cioè basato sulla conversazione tra i personaggi, ben strutturato ed equilibrato nella costruzione dei personaggi. Nel corso dell’opera, invece, il legame tra Estragone e Vladimiro si intuisce soltanto, attraverso la complementarità di ruoli e di caratteri appena delineati dietro la ricorrenza ossessiva di situazioni sempre uguali. Il primo atto si chiude con la convinzione che Godot arriverà l’indomani. Il secondo atto ripresenta la stessa situazione del primo e si conclude allo stesso modo. L’unico evento che movimenta l’attesa dei due amici, sia nel primo sia nel secondo atto, è la comparsa di Pozzo e del suo servo Lucky, presenze inquietanti, che alla seconda apparizione sono l’uno cieco e l’altro muto. La rottura della convenzione teatrale passa anche attraverso la commistione di parti tragiche (come il progetto di suicidio di Estragone e Vladimiro, o l’aggressione di cui quest’ultimo porta i segni nel secondo atto) e numeri da varietà o da circo (come le esibizioni di Lucky). La contaminazione mette in crisi la tradizionale distinzione tra generi. EDUARDO DE FILIPPO Figlio illegittimo dell'autore di teatro Eduardo Scarpetta e della sarta di scena Luisa De Filippo nasce il 24 maggio 1900. La sua carriera sulle scene inizia da giovanissimo: esordisce sul palcoscenico nel 1904 al Teatro Valle di Napoli nella commedia La Geisha, nell'allestimento della compagnia di Scarpetta. Eduardo interpreta un bambino cinese, piccolo ruolo cammeo che per tutta la sua vita lo accompagna come ricordo intenso della sua infanzia. Nel 1913 entra definitivamente a far parte della compagnia del fratello Vincenzo Scarpetta, pur continuando nel periodo estivo a recitare con altre compagnie, tra le quali quella di Vittorio Altieri, che pur essendo una compagnia drammatica, ogni venerdì mette in scena una farsa. Nel 1918, 7 durante il servizio militare, riesce a non abbandonare la recitazione, formando anche una piccola compagnia teatrale all'interno della caserma e scrivendo la commedia Farmacia di Turno, che fino al 1921 viene allestita nelle caserme. Nel 1922 firma la sua prima regia per il Teatro Partenope di Napoli, con lo spettacolo di Enzo Lucio Murolo, Surriento Gentile. Nel 1924 la compagnia di Vincenzo Scarpetta mette in scena una delle opere giovanili di Eduardo Uomo e Galantuomo, con il titolo originario di “Ho fatto un guaio? Riparerò”. Nel 1929 nasce uno dei personaggi più emblematici di Eduardo, “Sik Sik, l'artefice magico”. Nel 1930 fonda con i fratelli Titina e Peppino la compagnia “Il Teatro Umoristico di Eduardo De Filippo con Titina e Peppino”. I tre interpreti recitano con grande successo a Roma, a Milano e a Napoli, guadagnandosi nuovi ingaggi. Nel 1931 la compagnia cambia nome, diventando Il Teatro Umoristico I De Filippo. La nuova formazione debutta nel 1931 al Teatro Kursaal di Napoli con Natale in casa Cupiello. Durante il fascismo Eduardo si scontra più volte con la dura censura di regime. Nel 1932 Eduardo scopre la magia del cinema. L'esperienza cinematografica serve inizialmente al grande drammaturgo come ulteriore fonte di finanziamento per la compagnia teatrale, consentendogli di scritturare nuovi attori e di allestire nuove produzioni. Eduardo viene ricordato dal grande pubblico per la sua geniale forza comunicativa, per l'universalità dei suoi testi e per la costante ricerca introspettiva. Caratteristiche uniche, che lo hanno consegnato alla storia del teatro. Muore il 31 ottobre 1984 LEZIONI SEGRETE “La bottega del teatro” Eh beh sì. Io mi sono trovato molto presto sulle scene. Ho appreso l’arte, l’artigianato prima e l’arte dopo. Ho appreso dai grandi attori, dai grandi maestri dell’epoca che allora esistevano veramente perché venivano dalla gavetta, dalle tavole polverose dei palcoscenici di terz’ordine e, del resto, tutte le cose più antiche sono quelle che diventano scoperte dopo molti anni. Questa scuola di drammaturgia è una cosa molto antica, è la bottega del teatro perché una volta, e parlo del Cinquecento, del Seicento, non esisteva la società degli autori, esistevano attori che scrivevano i loro pezzi per recitarli, come all’epoca di Shakespeare, […] come all’epoca di Goldoni a Venezia. La commedia nasceva come pubblico dominio non con la “a cura del centro Teatro Ateneo La Sapienza Roma società degli autori” che ne tutela gli interessi; creato l’interesse, parlo di quello finanziario, gli autori sono diventati più rari perché è nata la speculazione. Vediamo la figura di Shakespeare, poteva pagare un tanto ad uno che scriveva un pezzo per la sua commedia o a un attore che diceva "questa scena d’amore la scrivo io perché…" Probabilmente, questo non mi risulta perché allora non c’ero. Però la bottega si faceva così a quell’epoca, ognuno scriveva un pezzo, qualche cosa, si faceva la commedia, andava su, per quel periodo che faceva cartello si teneva, poi si toglieva e se ne scriveva un'altra. Ed ecco spiegato perché un autore scriveva tanto e venivano fuori tanti scrittori e tanti autori che scrivevano per estro, per amore, per passione, non per l’interesse del diritto d’autore. Dunque, questa scuola che io ho voluto ricreare, perché è la scuola che ha messo in luce tanti scrittori di quell’epoca, è la scuola che sto facendo io adesso e quindi niente di eccezionale, era un lavoro chiaro, pulito, onesto, adesso si tratta di un lavoro oscuro. È molto più semplice di quanto ci vogliono far credere il fatto di scrivere una commedia, si tratta di tecnica. Il significato cambia, ma come cambia? Cambia perché cambia la vita, si evolve, diventa un’altra cosa da un giorno all’altro. Ecco perché io dicevo "i quaderni di regia non li dovete leggere, dovete imparare prima la tecnica e poi servirvi di quello che già è stato perché il cambiamento avviene da sé, è chiaro". Avviene da sé, osservando la vita come si svolge. Vi pare che l’altro giorno sia uguale a quello che stiamo vivendo noi adesso, ma non è vero, è cambiato tutto. A cura del centro Teatro Ateneo Università La Sapienza Roma SERGIO TOFANO Nasce a Roma il 20 agosto 1886. Comincia a disegnare a vent'anni, poi il celebre attore Ermete Novelli lo assumerà in compagnia a 6 lire il giorno. Nel 1908 pubblica su Il giornalino della domenica di Vamba, firmandosi con la sigla Sto che manterrà per tutta la vita. Per Il Corriere dei piccoli crea nel 1917 (n. 43 del 28 ottobre) il Signor Bonaventura, le cui avventure in rima si concludevano inevitabilmente con la fortunata conquista di un premio in denaro pari a un milione! Sempre sul "corrierino" pubblicherà nel 1921 una sua versione della Vispa Teresa. Ma il personaggio di maggiore successo resta il Signor Bonaventura, che continua a essere pubblicato anno dopo anno, con brevi pause, prima e dopo la guerra, e anche dopo la scomparsa del suo autore. La produzione 8 teatrale di Sto è varia e complessa, perché Sergio Tofano è anche attore, un grande attore, nonché regista e scenografo, commediografo e costumista. Dal 1953 l'artista insegna a Roma all'Accademia di arte drammatica Silvio d'Amico. Muore il 28 ottobre 1973. Le commedie con il signor Bonaventura: Qui comincia la sventura del Signor Bonaventura L'isola dei pappagalli La regina in berlina Bonaventura veterinario per forza Una losca congiura MICHAEL FRAYN. Rumori fuori scena Rumori fuori scena" o "Noises off", come recita il titolo in lingua originale, è una divertentissima commedia americana in tre atti, un irresistibile lavoro del teatro comtemporaneo. Si tratta di una esilarante storia di teatro nel teatro che offre uno spaccato della vita quotidiana di una scalcinata compagnia inglese impegnata, sotto la direzione di un incapace regista a provare e rappresentare lo spettacolo "Con niente addosso". La commedia è divisa in tre atti nei quali si assiste a tre versioni molto diverse dello stesso primo atto. Nel primo atto c’è la prova generale che, come ogni prova generale che si rispetti, è costellata di intoppi; nel secondo atto si viene catapultati dietro le quinte di una replica pomeridiana, dove si possono seguire amori e rivalità dei componenti della compagnia che finiscono, nel terzo atto, per portare ad una disastrosa replica circa sei mesi dopo. Tutto è vissuto dalla parte degli attori che devono recitare: amori, gelosie e incomprensioni provocheranno litigi, dispetti ed interruzioni che renderanno sempre più difficile la prosecuzione della rappresentazione. L'idea, originale e divertente, è sviluppata in modo imprevedibile ed incalzante dall'inizio alla fine. E tutto si risolve in un gioco di porte e sardine, come recita il regista: "fare entrare le sardine, fare uscire le sardine entrare e uscire. Il teatro è così, la farsa è così, la vita è così". TEATRO ORIENTALE TEATRO NŌ (GIAPPONE) Il primo autore di Nō fu Kan’ami Kiyotsugu (1334 -1384). Suo figlio Zeami è forse l’autore più importante di ogni epoca con all’attivo oltre duecento opere, che vengono tutt’ora messe in scena, e molti scritti sul teatro e sull’esecuzione delle opere. Il Nō è una forma teatrale antica tuttora in vita, e che anche in tempi moderni ci sono stati autori che hanno scritto per questo genere. Uno fra tutti Yukio Mishima (Kindai nogaku shu, Cinque Nō moderni, 1956). La scena è molto semplice e ridotta anch’essa all’essenziale. La rappresentazione Nō ha luogo su un palco fatto di Hinoki (cipresso giapponese). Il palcoscenico è completamente vuoto a parte il "kagami-ita", un dipinto di un pino, realizzato su un pannello di legno, posto sul fondo del palco. Ci sono molte spiegazioni possibili per la scelta di questo albero, ma una tra le più comuni è che simbolizza il mezzo con cui le divinità scendevano sulla terra. In contrasto con il palco completamente disadorno, i costumi sono estremamente ricchi: Molti attori, in particolari quelli Shite, sono vestiti con abiti di broccato di seta. Gli attori, per salire alla ribalta, percorrono una passerella posta a sinistra del palcoscenico detta Hashigakari. Questa soluzione fu poi trasposta nel Kabuki, dove viene denominata Hanamichi, cioè ponte dei fiori. Nel Nō i movimenti degli attori sono estremamente stilizzati e ridotti all’essenziale. Piccoli cenni del capo o movimenti del corpo hanno significati ben precisi. I ruoli sono fissi. Una tipica rappresentazione del Nō solitamente dura dai 30 ai 120 minuti. Il repertorio del Nō conta circa 250 rappresentazioni suddivisibili in cinque categorie (organizzate in base al tema principale): 1a Categoria: Rappresentazioni sulle divinità. 2a Categoria: Rappresentazioni sui guerrieri. 3a Categoria: Rappresentazioni sulle donne. 9 4a Categoria: Rappresentazioni varie. 5a Categoria: Rappresentazioni sui demoni. La musica di accompagnamento è eseguita con strumenti a fiato (fue, flauto) e a percussione (ōtsuzumi, kotsuzumi, tamburi). L'uso delle maschere. Lo Shite l'attore principale, recita in maschera il che ovviamente toglie ogni possibilità di esprimersi con la mimica facciale. Però la grande abilità degli attori produce quasi espressività della maschera anche grazie al fatto che quest'ultima è scolpita in modo tale che a secondo dell'orientamento e della diversa incidenza della luce si producano mutamenti espressivi. Poiché i buchi posti all'altezza degli occhi sono di ridottissime dimensioni, per aumentare ulteriormente l'espressività, gli attori hanno a disposizione una visuale limitatissima e si servono quindi di punti fissi per orientarsi e di percorsi predeterminati. Tutte le maschere del teatro Nō hanno un nome. Di solito solo lo Shite, l'attore principale, porta la maschera. Può comunque accadere, che in alcuni casi, anche gli Tsure possano indossare una maschera, in particolare per i personaggi femminili. Le maschere Nō sono di solito ritratti di personaggi femminili o non umani (divinità, demoni o animali), ci sono comunque anche maschere rappresentanti ragazzi o vecchi. Gli attori senza maschera hanno sempre un ruolo di uomini adulti di venti, trenta o quarant'anni. Anche il coprimario waki non indossa maschere. Usata da un attore capace la maschera è in grado di mostrare differenti espressioni e sentimenti a seconda della posizione della testa dell'attore e dell'illuminazione. Una maschera inanimata può quindi avere la capacità di sembrare felice, triste o una grande varietà di altre espressioni. KABUKI (GIAPPONE) Le origini leggendarie di questa forma teatrale risalgono ai primi anni del '600 e fanno riferimento a danze eseguite, sulle rive del fiume Kamo a Kyoto, da un gruppo di danzatrici sotto la guida di Izumo no Okuni. La parola Kabuki è formata da tre ideogrammi: ka (canto), bu (danza), ki (tecnica). All'inizio recitato solo da donne, in seguito alla proibizione per motivi di morale, interpretato solo da uomini anche per le parti femminili. Gli attori specializzati nei ruoli femminili sono chiamati onnagata. Il Kabuki fin dai primi tempi del suo sviluppo, mantenne forti legami col teatro dei burattini, cioè il cosiddetto Jōruri (designato in seguito come Bunraku), infatti la struttura delle due forme espressive era analoga. Il Kabuki fu l'espressione teatrale favorita dei cosiddetti chōnin (lett. abitante della città), cioè della emergente classe borghese cittadina che comprendeva commercianti, professionisti, artigiani. Quindi di fatto si tratta di una forma popolare, intendendo rivolta ad uno strato ampio della popolazione. La novità di queste opere consisteva nella rappresentazione di fatti, solitamente drammatici, realmente accaduti. Anzi, spesso tra l'accaduto e la rappresentazione trascorreva pochissimo tempo. Quindi la rappresentazione teatrale costituiva un vero e proprio mezzo di comunicazione che portava a conoscenza di un gran numero di persone l'accaduto. BUNRAKU (GIAPPONE) Forma del teatro giapponese di pupazzi in grandezza umana mossi a vista da operatori vestiti di nero. Ogni pupazzo richiede l'intervento di tre operatori. L'origine di questo teatro risale alla fine del XVI secolo. La sua nascita è quindi contemporanea a quella del kabuki, con il quale ha mantenuto sempre stretti contatti, con reciproci scambi nel tempo. Nel corso degli anni il teatro bunraku ha subito trasformazioni anche profonde, pur rimanendo la rappresentazione con figure animate di una storia cantata. Inizialmente i pupazzi erano molto statici ed esprimevano lo svolgersi della storia cantata (accompagnata dallo shamisen) con piccoli movimenti molto stilizzati, ma nel corso del XIX secolo si è venuto sviluppando uno stile sempre più mosso e addirittura virtuosistico, con evidente tendenza al realismo. I pupazzi si son fatti più articolati, con la possibilità di muovere ciascun dito delle mani e anche gli occhi. 10 TOPENG (BALI) Antonin Artaud (Marsiglia, 4 settembre 1896 - Parigi, 4 marzo 1948) è stato un commediografo, attore, e direttore di teatro francese. Nel libro Il Teatro e il suo Doppio, Artaud espresse la sua ammirazione verso le forme orientali di teatro, in particolare quello balinese. L’isola di Bali, oltre che per le abbaglianti bellezze naturali, è rinomata per la sua straordinaria e ricchissima cultura. Il teatro - inteso nella sua più ampia accezione di rito e spettacolo - è parte integrante di questa antica tradizione, tenace nelle radici quanto viva e mutevole nelle forme.Nel variegato panorama del teatro balinese, il Topeng rappresenta la più popolare delle sue espressioni classiche. Letteralmente topeng significa “qualcosa di premuto contro (il viso)”, ma la parola non traduce “maschera” nel senso dell’oggetto di legno scolpito e dipinto, che in quanto tale si chiama tapel. È assai problematico, in una tradizione prevalentemente orale come quella balinese, risalire a notizie storiche certe sull’origine del Topeng. Un teatro tra storia e mito Per certo il Topeng era teatro di corte, nel quale i sovrani celebravano la propria discendenza da antenati ed eroi mitici. Erano gli stessi principi/artisti che danzavano e dirigevano le compagnie di musici ed attori. Pare che, fino a quando il sistema della divisione in caste d’importazione indiana (Bali resta tutt’oggi un’isola di fede induista nell’Indonesia musulmana) rimase pienamente operante, non fosse concesso ai sudra (i contadini, coloro che sono al di fuori delle tre caste nobili) di interpretare il ruolo del re. Inoltre era - ed è tuttora - un rituale officiato dall’attore/sacerdote, parte integrante della liturgia di quasi tutte le cerimonie: dagli anniversari dei templi a quelli di famiglia, dai riti per le cremazioni ai festival di Capodanno. Il repertorio del Topeng è principalmente basato sui Babad, le cronache genealogiche dei re di Bali. Con il Topeng Bali celebra quindi la propria storia, i propri eroi, dei quali le dinastie regnanti erano i diretti discendenti. Da tempo non esistono più le corti - il sistema feudale è scomparso, benché eserciti tuttora un certo ruolo a livello culturale - ma il loro modello ideale, rappresentato sulla scena, si manifesta in una fitta simbologia. Nondimeno, per discrezione verso i discendenti, si evita di rappresentare in un certo villaggio un episodio nel quale un loro antenato si sia macchiato di azioni poco ortodosse. Nelle cerimonie religiose, all’interno dei templi, ma anche in riva al mare o nell’area domestica, solitamente un solo attore (Topeng padjegan), dopo aver consacrato lo spazio scenico e le maschere con un’offerta di fiori, frutti ed incensi, interpreta tutti i ruoli. La scena è spoglia, sovente manca anche il sipario/fondale: su un ripiano di bambù, che funge anche da “camerino”, sono disposte le maschere, i copricapi ed i fiori ornamentali. Una connotazione profana (nel senso letterale di “davanti al tempio” e non interno ad esso) ha il Topeng panca (cinque), dove gli attori (di solito cinque), dopo aver concertato il canovaccio, si dividono i ruoli, sfoggiando il loro particolare talento nelle vesti di questo o di quel personaggio. Il finale mostra sovente il duello dei principi antagonisti, oppure viene suggellato da un ricongiungimento o da un evento miracoloso. Al momento della rappresentazione, il palco, allestito abitualmente sotto il padiglione situato di fronte al tempio centrale del villaggio, è riccamente addobbato: grandi ombrelli ai lati del sipario/fondale che l’attore scuote ed apre con stile diverso per ogni personaggio; lunghe foglie, finemente intrecciate e sagomate secondo i motivi tradizionali stilizzati, appese sopra l’area di scena; fiori ovunque...mentre il profumo degli incensi si mescola con il penetrante aroma dei cibi e delle sigarette kretek. La parola alle maschere - Prima che l’intreccio cominci a delinearsi, presentato dal ciambellano, aprono lo spettacolo una serie di danze (che possono durare più a lungo dlla successiva parte narrativa), nelle quali vengono introdotti i personaggi della corte (uno o più ministri, il vecchio consigliere, il re e talvolta la regina). Il loro rango e carattere si manifestano nel colore e nelle fattezze della maschera, nella corrispondente melodia, assai elaborata rispetto a quella che annuncia servi e buffoni. I personaggi nobili non usano mai la parola - la loro maschera copre l’intero volto - ma si esprimono con la danza dalle specifiche pose. Sono così i servitori a pronunciare le parole dei loro signori, prima in kawi, l’antico giavanese letterario, poi nella traduzione nelle lingue balinesi (diverse a seconda della casta di chi parla e di chi ascolta). Compaiono quindi i bonderes, popolani che hanno caratterizzazioni comiche e grottesche. Possono essere assai numerosi, non hanno movimenti di danza definiti e stilizzati come i nobili e talvolta con i loro lazzi hanno una funzione di puro intrattenimento. La loro presenza - vedi l’immancabile balbuziente dai dentoni sporgenti, oppure Nyoman Semariani, la scimmiesca coquette che si pretende affascinante danzatrice - non ha nulla a che vedere con l’episodio narrato, ma compie estemporanee incursioni nei “fatti del giorno”. Il costume è unico per tutti i personaggi: il corpo dell’attore è avvolto da una specie di lenzuolo bianco, drappeggiato in modo da lambire il terreno; sotto pantaloni bianchi con stewel (un panno ricamato) stretti ai polpacci; dietro le spalle è legato il kriss, il pugnale sacro. Vi si appoggia l’ampio manto decorato in oro, mentre dalle spalle si allungano frange colorate ed una ricca gorgiera si allarga sul petto. Nella danza sono molto importanti i gesti con i quali l’attore tocca, mostra o sposta parti del costume. Ogni maschera ha un corrispettivo copricapo: ricche corone di cuoio intagliato e dorato, abbellite con fiori, per i personaggi nobili; semplici drappi o fazzoletti annodati per i popolani. Raramente qualche oggetto compare sulla scena: il bastone per il personaggio del vecchio Pedanda, un vassoio con scodella e brocca o la bottiglia di plastica del buffone che imita il turista perennemente assetato (un esempio di come i nuovi personaggi siano al passo dei tempi!). Le maschere appositamente scolpite per la danza, richiedono una lavorazione molto accurata. Basti considerare che il colore tradizionale, ricavato esclusivamente da sostanze naturali, viene steso fino a 32 volte, a distanza di alcune ore per poter raggiungere la particolare lucentezza e resistenza. Ma è già a partire dal momento in cui il pezzo di legno pregiato viene tagliato dall’albero, in un giorno propizio e consacrato da un’apposita cerimonia, che la maschera del Topeng inizia a vivere. KATHAKALI (INDIA) Il teatro-danza Kathakali viene danzato da soli uomini, che interpretano anche i ruoli femminili. In genere, uno spettacolo di Kathakali dura una notte intera: si interpretano brani tratti dal famoso poema epico Mahabharata. Il trucco dei danzatori-attori richiede molte ore. Il viso viene dipinto a seconda del personaggio: questa colorazione permette allo spettatore di distinguere immediatamente il personaggio, di capire se è positivo o negativo. Negli occhi degli attori vengono messi piccoli semi di una sostanza irritante, che li arrossa e li rende più visibili. Per sottolineare i movimenti delle mani, vengono applicate alla mano sinistra lunghe unghie d'argento. La mimica del viso di questi danzatori è proverbiale: si dice che possano piangere con un lato del viso e ridere con l'altro. Una particolarità del Kathakali è l'appoggio sull'esterno del piede, per marcare il ritmo. La rinascita del Kathakali si deve al poeta keralese Vallathol che fondò in questo secolo il "Kerala Kalamandalam", che fornisce i migliori talenti del teatro danza Kathakali. Dato l'approccio completo al dramma danzato, molte personalità del teatro provenienti da tutto il mondo hanno studiato Kathakali e tratto ispirazione dal suo vocabolario espressivo. Il kathakali è una forma espressiva di teatro-danza indiano originaria dello stato indiano del sud del Kerala, nata circa 500 anni fa. È una combinazione spettacolare di teatro, danza, musica e rituali. I personaggi con i volti dipinti di colori accesi e con costumi elaborati rimandano alle storia epiche indù, tratte dal Mahabharatha e dal Ramayana. Un attore di Kathakali, per prepararsi alla rappresentazione, adopera tecniche di concentrazione, abilità e attitudine fisica, tramite un addestramento basato sulla Kalaripayattu, antica arte marziale del Kerala. I percussionisti, i cantanti, gli artisti del trucco ed i costumisti completano l'insieme di esperti altamente addestrati che affiancano le esibizioni di Kathakali. Il kathakali è considerata una combinazione armoniosa di cinque forme d'arte: Letteratura (Sahithyam) ,Musica (Sangeetham) .Pittura (Chithram), Arte drammatica (Natyam) , Danza (Nritham). MARIONETTE SULL'ACQUA (VIETNAM) Il teatro delle marionette sull’acqua (múa rôi nuóc) è una tradizione esclusivamente vietnamita che non esiste in nessun’altra parte del mondo. Questa espressione millenaria dei contadini del nord del Vietnam che vivono tra le risaie e il mare è attestata fin dall’anno 1121 come rivelano alcuni accenni riportati nell’epitaffio scolpito sulla stele di Sùng Thiên Diêu nella pagoda Doi (provincia di Nam Ha). Alcuni testi, recitati in versi, alludevano alla storia antica cinese e vietnamita (teatro classico Tuông). Altri, più semplici poiché tratti da canzoni popolari, ricordavano scene della vita quotidiana agricola 12 (teatro popolare Chèo). Le marionette sull’acqua vietnamite furono inventate da contadini del delta del fiume Rosso che trascorrevano gran parte del loro tempo nelle risaie allagate: secondo una versione ebbero dal nulla l’idea di trasformare i campi coperti dal’acqua in palcoscenici dove far muovere dei personaggi per raccontare delle storie, mentre secondo un’altra adottarono le marionette tradizionali già esistenti durante una violenta inondazione del delta del Fiume Rosso. L’arte delle marionette subì una profonda trasformazione durante le dinastie dei Ly e dei Tran (1010 1400), passando da semplice passatempo di paesani a divertimento formale di corte. Questa forma artistica sparì poi quasi completamente, finché la creazione del Teatro Municipale delle Marionette sull’Acqua di Hanoi non riaccese l’interesse verso di essa. Negli spettacoli odierni si utilizza come ‘palcoscenico’ una vasca quadrata piena d’acqua con un tempio che nasconde i marionettisti immersi nell’acqua fino alla vita. L’acqua non è limpidissima, in modo da nascondere i meccanismi che muovono le marionette. Le marionette, scolpite nel legno impermeabile dell’albero di fico (sung) e dipinte con una pittura lucida di origine vegetale, misurano tra i 40-50 cm. e possono pesare 15 kg. Alcune marionette sono fissate a lunghe aste di bambù, mentre altre poggiano su una base galleggiante fissata a sua volta ad un’asta. Quasi tutte muovono sia la testa sia le articolazioni e alcune sono guidate anche da una sorta di timone. Le straordinarie tecniche necessarie per muovere le marionette sono state sempre tenute segrete e tramandate di padre in figlio. Non venivano svelate, infatti, neppure alle figlie, per paura che potessero sposare qualcuno fuori del villaggio e andarsene con il segreto. Il repertorio comprende circa 200 scene e pièces tradizionali con marionette che rappresentano vari personaggi, le divinità, i buffoni, i contadini e i pescatori, animali domestici, selvaggi e fantastici, associati ad effetti pirotecnici: petardi, fuochi d’artificio, dragoni che sputano fuoco, ecc. I testi sono recitati, declamati e cantati con l’accompagnamento di una piccola orchestra strumentale, posizionata al bordo della vasca, costituita da cinque musicisti che suonano flauti di legno (sao), gong (cong), tamburi cilindrici (trong com), xilofoni di bambù e l’affascinante dan bau ad una sola corda. Lo spettacolo è sorprendente e le marionette sono divertenti e aggraziate; l’acqua intensifica l’effetto scenico peremettendo alle marionette di apparire e svanire come per magia. L’OPERA DI PECHINO (CINA) La scena è quanto mai essenziale: una tenda come fondale e al centro un tavolino o due, un paio di sedie, magari qualche sgabello. E’ l’attore che riempie la scena. Certo, non l’attore come lo intendiamo noi occidentali, perché sarebbe decisamente riduttivo. L’interprete dell’Opera di Pechino è acrobata, cantante, ballerino, mimo, illusionista. Con la sua arte crea infatti l’illusione della realtà; il suo gioco fa comprendere al pubblico dove e quando si svolge l’azione e può evocare delle montagne, dei corsi d’acqua, dei battelli, dei giardini, insomma qualsiasi luogo necessario all’azione. Le convenzioni del gioco sono raffinatissime e di svariati tipi. Comprendono ogni tipo di movimento della mano, del piede e del corpo, la mimica e l’espressione emotiva, e variano a seconda del ruolo. Ad esempio: un attore tiene in mano un frustino con delle nappe? Vuol dire che è a cavallo. Sale su una sedia? Sta scalando una montagna. Una donna sta cucendo, in mano non ha né filo né ago, basta il muoversi delle sue mani e si contano uno ad uno i punti che sta dando. Un vecchio entra e si siede su di una sedia, vuol dire che è a casa sua. E se un momento dopo si alza dirigendosi verso una porta invisibile e solleva un piede come se stesse superando una soglia, quindi cammina in fondo sulla scena e si siede di nuovo, significa che ha fatto un viaggio che l’ha portato ad una certa distanza e che si trova in casa di un amico anche se la sedia è rimasta sempre la stessa. Nell’Opera di Pechino tutto è semplificato, quasi come nei giochi infantili, ma nello stesso tempo intensificato dalle rigide regole di una convenzione estremamente raffinata e logica che nasce dall’osservazione precisa della realtà. L’origine del teatro in Cina si può far risalire già all’epoca della dinastia Zhou (1050-221 a.C.) quando gli antichi sciamani eseguivano nelle loro danze esorcismi, atti divinatori, preghiere per la pioggia, ringraziamenti per i raccolti. Il repertorio, mostra oggi una preponderanza netta di episodi che finiscono positivamente, poiché molti attori famosi scrissero dei ruoli "su misura" ed è chiaramente comprensibile che preferissero mostrarsi vincitori. Nell’Opera Tradizionale Cinese sono gli attori stessi, al loro apparire sulla scena, che spiegano ciò che succede sul palcoscenico, dove ci si trova, chi sono i personaggi. Il canto, la recitazione, la musica d’accompagnamento, la pantomima e l’acrobazia sono gli aspetti caratteristici inseriti in modo tipico nell’azione degli episodi. Ci sono dei ruoli maschili recitati da attrici ed è quasi impossibile rendersi conto quale sesso si nasconde dietro a un costume ingombrante e a una maschera dipinta sul viso. In ogni caso, tutte le voci impressionano per la ricchezza delle possibilità della loro modulazione e per la maestria vocale 13 degli interpreti. L’Opera di Pechino è per diversi aspetti simile al nostro melodramma. In essa l’accompagnamento musicale assume infatti una funzione essenziale. I costumi lussuosi e ingombranti permettono tutt’al più delle danze in tondo, durante le quali i danzatori girano solennemente e lentamente. Questi movimenti ristretti si trovano in bizarro contrasto con le azioni acrobatiche effettuate dagli attori vestiti in modo leggero. Anche i colori dei costumi, come d’altra parte tutta la gestualità, sono legati a certi ruoli: giallo è il colore dei membri della famiglia imperiale, rosso quello delle persone di alto rango, viola e blu quello dei funzionari, il nero denota uno strato sociale inferiore mentre il bianco è riservato ai giovani. Questi costumi sono confezionati con sete preziose ricamate finemente e ogni disegno ha un suo preciso significato. I costumi rivestono una tale importanza all’interno dell’Opera che fra gli attori si dice che è meglio vestire un costume consunto che un costume sbagliato. Ma mentre i costumi possono variare, le maschere dipinte sul viso forniscono sin dall’inizio le informazioni necessarie per decifrare l’enigma della distribuzione dei ruoli. Secondo la leggenda, il trucco è un’evoluzione del Daimian, che era una maschera. Si narra che il principe Lanling, quarto figlio dell’imperatore Shizong era un bel ragazzo ed un valente guerriero. Ad ogni battaglia, per terrorizzare i suoi nemici portava sovente sul viso una maschera che gli dava dei tratti feroci. Credendolo un genio sceso dal cielo, i nemici, spaventati, si disperdevano, salvavandosi. Man mano che l’arte teatrale si sviluppava, i personaggi e le trame presentate diventavano sempre più complessi. Dunque, il daimian non bastava più ai bisogni della rappresentazione, quindi si inventò un modo per truccare direttamente il viso. La funzione del trucco è quella di accentuare la rappresentazione della fisionomia e del ritratto morale del personaggio. Per mezzo di colori vivi e di linee ben delineate, si accentuano i contorni delle sopracciglia, degli occhi, della bocca, del naso e della fronte al fine di rendere i tratti del viso più espressivi, di modo che si mostrino il carattere, le qualità, l’andatura e la posizione sociale, l’età e la vita dei personaggi come il loro dono e talento particolari. Oltre che dai colori, il carattere espressivo è rappresentato dai motivi del trucco. Il ruolo dan o femminile è stato intepretato solo da attori maschili dal 1777 in poi, da quando, cioè, l’imperatore Qianlong proibì alle donne, per ragioni di moralità, di calcare le scene. È solo dal 1911, con l’avvento della Repubblica, che le donne sono ritornate a recitare sulle scene dell’Opera di Pechino accanto agli uomini; e, come dicono i cinesi, le donne si trovano ora a dover imitare gli uomini che hanno imitato le donne! Recitazione e pantomima: Se un attore porta la mano alla bocca, beve. Se invece fa il movimento di remare, si trova su una barca. Quattro generali con quattro soldati che portano delle bandiere, rappresentano 1000 soldati. Se questi marciano lentamente in tondo attorno alla scena, fanno una marcia lunga e dura. Il buon attore si giudica però prima di tutto dal più semplice, apparentemente, dei movimenti: il passo. Alla scuola di Cheng Zhangbu, uno dei grandi attori dell’Opera di Pechino del secolo scorso, i giovani aspiranti attori erano sottoposti a un severissimo addestramento. Zheng insegnava prima loro uno ad uno l’arte di camminare sul palcoscenico a seconda dei ruoli. Poi li divideva in squadre e li faceva camminare per due o tre ore al giorno in un ampio spiazzo. Lui se ne stava seduto a guardare attentamente e non appena qualcuno sbagliava il passo, subito interveniva a correggerlo. Un attore non poteva essere considerato bravo nell’arte di camminare se non dopo tre anni almeno di questa quotidiana passeggiata. L’incedere varia a seconda dei ruoli: una donna anziana avanzerà a passetti lenti esitanti con la schiena curva, un uomo adulto a passi lenti e a piedi larghi, un ragazzo a passi più veloci; il guerriero invece avanza sollevando alto un piede dopo l’altro e curvando molto le ginocchia, movimento che va eseguito con studiata maestosa lentezza. PONGSAN (COREA) Il dramma coreano medioevale è un'arte composita che drammatizza tecnicamente le idee sociali, norme e coltura, abitudini coreane. È effettuato dagli attori che portano le varie mascherine, varie sia nella funzione sia nel valore simbolico. Le mascherine impiegate una volta nella società primitiva come camuffamento per caccia o come attrezzi magici per evocare l'alimentazione supernaturali, si sono sviluppate gradualmente nelle mascherine religiose usate per le cerimonie e le opere d'arte. 14 SUL TEATRO “Il mondo intero è un palcoscenico, e gli uomini e le donne, tutti, non sono che attori”. (Shakespeare) ...E io, devo dire la verità, mi riallaccio a quello che ha detto un mio collega francese, il teatro si fa, non si discute. E così ho fatto. (Eduardo) Il sogno è il teatro dove il sognatore è allo stesso tempo sia la scena, l'attore, il suggeritore, il direttore di scena, il manager, l'autore, il pubblico e il critico. (Carl Gustav Jung) Viva il teatro, dove tutto è finto e niente è falso. (Gigi Proietti) Meglio proporre nuove cose che accettarle; meglio essere un attore che un critico. (Churchill) "Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male" (Eduardo) Ho avuto la critica più breve che sia mai stata pubblicata. Diceva: Ieri sera al teatro è stato rappresentato "Domino". Perchè? (Marcel Achard) Lettera di Giorgio Strehler a Louis Jouvet […]Mi avete insegnato voi a non cercare di capire troppo nel teatro. Mi avete detto voi: “L’intelligenza per un attore è sentire molto alto.”. E mi avete detto voi: “L’albero che cresce non pensa di crescere. Cresce e basta.”. Pure anche in me, come in voi, c’è questo bisogno di capire, di pensare al teatro, al nostro mestiere. “Come si può fare teatro senza pensare al teatro?” dicevate. […] BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA Rivista sipario 2005 “Teatro e testo” Ed. Paradigma Oskar G. Brockett, "Storia del teatro", Marsilio 1988 Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. “Dizionario del teatro” Baldini e Castoldi Musica dei Popoli La babele del levante “Moduli di letteratura italiana ed europea” di A. Dendi, E. Severina, A. Aretini Carlo Signorelli Editore, Milano Estratto da “http://it.wikipedia.org/wiki/Kathakali” www.sto-signorbonaventura.it Teatrando Sul Mondo reby.splinder.com/ Enrico Masseroli INDICE -PARTE SECONDA- DAL TEATRO ELISABETTIANO AL '900 TEATRO ELISABETTIANO WILLIAM SHAKESPEARE MOLIÈRE CARLO GOLDONI KONSTANTIN SERGEEVIČ STANISLAVSKIJ GROTOWSKI BERTOLD BRECHT IL TEATRO DELL’ASSURDO IONESCO BECKETT EDOARDO SERGIO TOFANO MICHAEL FRAYN IL TEATRO ORIENTALE TEATRO NŌ (GIAPPONE) KABUKI (GIAPPONE BUNRAKU (GIAPPONE TOPENG (BALI) KATHAKALI (INDIA) MARIONETTE SULL'ACQUA (VIETNAM) L’OPERA DI PECHINO (CINA) PONGSAN (COREA