Analisi annuale della crescita per il

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CAMERA DEI DEPUTATI
V Commissione
(Bilancio, Tesoro e Programmazione)
Indagine conoscitiva nell’ambito dell’esame della
Comunicazione della Commissione – Analisi annuale
della crescita per il 2012 e relativi allegati
(COM(2011)815 definitivo)
29 febbraio 2012
Audizione del Direttore Generale dell’ABI
Dr. Giovanni Sabatini
AUDIZIONI ABI
ANNO 2012
AUDIZIONI ABI - 2012
Introduzione
Signor Presidente ed onorevoli deputati,
è con vivo piacere che prendiamo parte a questa indagine conoscitiva che a
differenza delle molte a cui l’Associazione Bancaria Italiana viene sovente
invitata non ha come oggetto precipuo tematiche bancarie e finanziarie, ma
riveste un carattere eminentemente macroeconomico.
A questo riguardo ci sia consentito osservare subito che questo aspetto è
lungi dall’esercitare in noi sensazioni di ultroneità: il tema della crescita è
per le banche, ma vorremmo dire per le banche italiane, un tema cruciale.
Dalla crescita del prodotto dipendono le nostre perfomance e le nostre
prospettive. E alla crescita di tutte le componenti della domanda aggregata
(consumi, investimenti, esportazioni) molto contribuiamo attraverso la
canalizzazione del risparmio e l’erogazione del credito e degli altri servizi
finanziari.
La comunicazione della Commissione oggetto della presente Audizione ben
sottolinea come nel 2012 gli sforzi a livello nazionale ed europeo debbano
concentrarsi su cinque priorità: 1) risanamento di bilancio differenziato e
favorevole alla crescita; 2) ripristino della normale erogazione di prestiti
all’economia;
3)
promozione
della
crescita
e
della
competitività
nell’immediato e per il futuro; 4) lotta contro la disoccupazione e le
conseguenze
sociali
della
crisi;
5)
modernizzazione
della
pubblica
amministrazione.
Con questo documento intendiamo offrire spunti di analisi e valutazioni su
tre blocchi tematici che nella sostanza aggregano e riordinano le
summenzionate cinque linee di azione prioritaria:
a) primo blocco: risanamento dei conti pubblici;
b) secondo blocco: crescita e competitività;
c) terzo blocco: andamento dell’erogazione del credito.
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a) Risanamento dei conti pubblici
La crisi dei debiti sovrani e la virulenza con cui essa si è manifestata
durante lo scorso autunno ha mostrato in maniera inequivocabile quanto sia
caduca l’idea che la crescita economica possa essere perseguita attraverso i
deficit di bilancio. Il nostro paese, sottoposto ad un eccezionale attacco, ha
saputo dare la giusta risposta e le azioni che il governo sta continuando a
portare avanti in materia di conti pubblici – a partire dalla lotta quotidiana
all’evasione fiscale – mostrano che la determinazione con la quale si
persegue il processo di risanamento disegnato nel quadro delle procedure
europee è qualcosa di ormai acquisito dall’intero Paese. I miglioramenti sul
fronte degli indicatori di percezione della rischiosità, a partire dallo spread
Btp-Bund mostrano che il risanamento dà buoni frutti ed è l’unica arma per
mitigare gli effetti recessivi da esso stesso inevitabilmente prodotti.
Dal punto di vista quantitativo gli obiettivi posti, a partire da quello
fondamentale dell’azzeramento del disavanzo, sono fondamentali ai fini di
una graduale ma sostanziosa riduzione, nel tempo, del rapporto debito/pil.
Il rafforzamento delle procedure di monitoraggio è sorveglianza approvato
definitivamente in sede europea imporrà nel prossimo futuro un percorso
obbligato, misurato
Ma il risanamento non è solo mera riduzione del deficit e del debito, ma
anche gestione qualitativa delle poste di bilancio. Sotto questo aspetto il
contenimento della spesa già disposto con la manovra di dicembre 2012
(soprattutto in campo pensionistico) potrà avere un effetto benefico
sull’efficienza del sistema soprattutto se sarà efficace, come le banche si
augurano, uno screening attento e sistematico per singoli capitoli di
bilancio, cioè quella spending review
nella quale il Governo è oggi
impegnato e sulla quale riferirà nei prossimi mesi.
Sul fronte della gestione della spesa pubblica le banche italiane ritengono
che
debba
anche
crescere
la
cultura
della
rendicontazione
e
del
benchmarking: sono ormai disponibili, per quanto riguarda comparti
essenziali della spesa (istruzione, giustizia, etc..), strumenti di misurazione
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delle performance. Questi dovranno essere utilizzati con crescente intensità
essendo indicatori di efficienza e di produttività dell’intervento pubblico ed
essendo anche strumenti per la necessaria messa in campo di meccanismi
volti a premiare e sanzionare.
Nell’opinione dell’industria bancaria italiana il risanamento ora impostato è
importante e lungimirante. Dovrà essere ulteriormente orientato alla spesa,
inclusa la sua ricomposizione qualitativa1, ma gli obiettivi posti anche su
questo fronte appaiono in grado di segnare rilevanti discontinuità.
Se analizziamo a partire dal 1990 l’andamento della spesa corrente primaria
ed il tasso di crescita del Pil, entrambi misurati in termini reali possiamo
osservare le tappe principali della nostra vicenda degli aggiustamenti fiscali:
un primo quinquennio molto importante (1991-95) in cui siamo riusciti a
contenere la crescita reale della spesa al di sotto di quella dell’economia
(0,4% contro 1,3% medio annuo rispettivamente).
Un secondo quinquennio (1996-2000) in cui, ad ammissione alla moneta
unica avvenuta, abbiamo perso l’occasione di beneficiare di un tasso di
sviluppo (+1,9%) tornato su livelli più in linea con il potenziale (sebbene
ancora inferiore a quello medio europeo) e non siamo riusciti ad evitare un
rimbalzo della spesa corrente (+2,5%). Quel rimbalzo si è poi consolidato
nel lustro successivo (2001-05;+2,6%) quando però il tasso di crescita del
prodotto è sceso intorno all’1%. Successivamente (2006-10), la grande crisi
finanziaria, e la recessione che ne è seguita, hanno fatto il resto ed il divario
tra dinamica della spesa e del prodotto è rimasto ampio(+1,4% contro 0,2%). Ora, stante ai nuovi obiettivi definiti, vi sono le condizioni perché il
quinquennio in corso possa configurarsi come il più positivo per quanto
riguarda il rapporto tra spesa pubblica e crescita con una situazione in cui
pur a fronte dell’aumento del Pil dell’1% la spesa pubblica corrente reale
scenderebbe per la prima volta (di circa l’1,5% medio annuo nel
quadriennio 2011-14 per il quale disponiamo di dati).
1
Agli inizi degli anni novanta per ogni 100 euro di spesa corrente primaria si spendevano 8,5 euro di
investimenti pubblici; questa quota è scesa a 4,8 nel 2010 e scenderà a 3,5 nel 2014.
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Quello che serve è dunque un risanamento fatto di contenimento e di
selezione della spesa pubblica, cioè un risanamento orientato alla crescita
economica: è questo che ci chiede l’Europa, consapevole come noi che
nessun risanamento finanziario può essere duraturo e risolutivo se
l’ambiente macroeconomico continuerà ad essere connotato da tasso di
sviluppo del prodotto come quelli che abbiamo registrato nell’ultimo
decennio.
b) Tornare a crescere: il nodo della competitività
L’esigenza di un ritorno a ritmi di crescita del Pil più sostenuti e capaci di
riassorbire le rilevanti sacche di disoccupazione soprattutto giovanile e
femminile è largamente riconosciuta. E’ un problema innanzitutto dell’Italia,
la quale negli ultimi dieci anni ha registrato uno scarto di crescita rispetto
alla media europea di 0,7 punti percentuali, ma è anche un più generale
problema europeo e della capacità futura della nostra area geografica di
competere con le altre grandi regioni mondiali (USA, Paesi emergenti, etc).
La situazione di difficoltà che sta attraversando il nostro Paese e, in misura
più limitata, l’Europa tutta
ben si sintetizza in una carenza di forza
competitiva riconducibile soprattutto alle dinamiche di un indicatore chiave:
il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP). Il clup essendo espresso
dal rapporto tra costo del lavoro unitario (w) e produttività (ρ)
esprime
l’inflazione obiettivo di ogni paese e confrontarne la dinamica relativa, aiuta
a capire se e quanto la nostra economia stia perdendo competitività rispetto
ai principali paesi partner.
Dall’introduzione dell’euro (1999) al 2011 il clup italiano è cresciuto ad un
ritmo medio annuo del 2,2%, solo di poco superiore al tasso di inflazione
obiettivo della BCE. Dunque, in astratto, esso non sembrerebbe essere
variato in senso eccessivo anche considerando le performance della Spagna
(dove è cresciuto esattamente come in Italia), della Francia (dove è
cresciuto dell’1,9%), e del Regno Unito (+2,6%). Ma se consideriamo la
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Germania, vediamo che il clup tedesco è cresciuto nei tredici anni
considerati ad un tasso di medio annuo dello 0,5%. Se ci si limita agli anni
ante crisi (fino al 2007), si noterà come nei primi nove anni dell’Euro il clup
tedesco sia rimasto stazionario, esprimendo un obiettivo di inflazione zero.
Se cumuliamo sull’arco temporale considerato questi tassi di crescita e
calcoliamo il livello del clup del 2011 di ogni paese relativamente alla
Germania, abbiamo una indicazione della perdita di competitività Nel 2011 il
clup italiano risultava più alto di quello tedesco del 25%. In presenza di
cambio fisso, ciò significa che i manufatti italiani oggi costano il 25% in più
di quelli tedeschi rispetto alla situazione vigente nel 1998.
Cosa significano questi numeri diviene immediatamente evidente guardando
ai saldi dei conti con l’estero: se all’inizio dell’Euro, la Germania aveva un
saldo delle partite correnti con l’estero negativo per 1,5 punti di Pil, al 2011
questo disavanzo si è tramutato in un avanzo per 6 punti percentuali.
L’insieme dei 5 paesi sotto attacco (Irlanda, Portogallo, Grecia, Spagna e
Italia) presentava solo un leggero disavanzo nel 1998, inferiore a quello
tedesco, oggi ha un disavanzo pari a 4 p.p. di Pil avendo toccato nel 2008
un disavanzo record del 6%. La Francia aveva nel 1998 un avanzo superiore
ai 2 punti di Pil, oggi è in disavanzo per un ammontare equivalente. Come
teoria e pratica insegnano, questa non è una situazione di equilibrio se
parliamo di commercio tra nazioni, soprattutto se vincolate ad un cambio
fisso; sarebbe gestibile se parlassimo di commercio tra provincie di un unico
stato, ma così non è, almeno per ora.
L’origine della crisi dell’Euro è tutta qui, e qui bisogna intervenire se si vuole
rendere stabile e coerente la moneta unica. E’ nostra opinione che ciò
richieda un giusto mix tra politiche di offerta e politiche di domanda: le
prime devono essere essenzialmente realizzate dai e nei paesi oggi in crisi,
le seconde nei paesi forti.
L’eccezionale
sforzo
dell’Italia
per
stabilizzare
i
conti
pubblici
sarà
definitivamente premiato se si raccorderà con risposte di lungo periodo
capaci recuperare almeno in parte quel 25% di competitività perduta.
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Essendo il clup dato dal rapporto tra costo del lavoro unitario e produttività,
per far meglio dei paesi forti occorre agire in senso migliorativo sui fattori
che lo determinano. La crescita del clup del 2,2% media annua di cui
abbiamo detto in precedenza si è determinata in un quadro di crescita
media annua del 2,2% del costo del lavoro e di sostanziale invarianza (o
marginale diminuzione) della produttività .
Secondo le banche italiane il nostro problema principale sta nella scarsa
crescita della produttività e quindi nel denominatore del rapporto che
connota il clup. Un paese che vuole mantenere la propria posizione nel
commercio internazionale e negli standard di vita non può avere una
produttività piatta. Se la produttività non cresce, i salari non possono
crescere, l’occupazione non può crescere, i profitti non possono crescere:
nella sostanza, non può crescere su solide basi la speranza di un domani
migliore e di una società più giusta e più mobile
Per questo noi sosteniamo con convinzione le azioni del Governo sia in
termini di liberalizzazioni, che liberano potenziale di crescita nel settore
dei servizi interni, sia per quanto concerne la riforma del mercato del
lavoro, per quanto attiene alla riduzione di quei vincoli nell’utilizzo della
forza lavoro che non consentono un pieno esplicarsi dei benefici delle
innovazioni e spesso non consentono proprio di dar luogo alle innovazioni,
ciò all’investimento in nuove tecnologie.
Oltre a questi punti, insistiamo perché si superi anche la debolezza
strutturale del nostro sistema economico legata alla ridotta dimensione
delle imprese: molte analisi, anche di Banca d’Italia, insistono sul fatto
che una ridotta dimensione delle imprese produce esternalità negative sul
processo innovativo. In particolare ciò sembra dovuto alla difficoltà di una
piccola impresa di sfruttare le economie di scala tipiche delle innovazioni
tecnologiche, di concentrare l’attenzione più sulle innovazioni di processo
che di prodotto, alla difficoltà di sopportare i costi fissi dell’attività
progettuale. Banca d’Italia stima che un aumento del 10% della dimensione
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media comporta un incremento della produttività dello 0,2% (quindi un
raddoppio delle dimensioni genera una crescita del 2% della produttività).
Accanto a questo si aggiunga la cronica incapacità italiana di far sistema in
modo da creare un ambiente favorevole all’investimento tecnologico: le
imprese, con le loro difficoltà strutturali, sono state lasciate sole nel giuoco
della concorrenza internazionale, mentre altri paesi (Stati Uniti e Germania
in primis) hanno fatto grandi investimenti di sistema nell’innovazione. La
capacità o per meglio dire l’incapacità del Paese nell’investire nella ricerca è
la principale ipoteca sullo sviluppo futuro della produttività italiana.
Infine, in pieno accordo con il documento della Commissione, riteniamo che
particolare enfasi debba essere data al compito di modernizzare la nostra
pubblica amministrazione, in particolar modo per quanto concerne
l’efficienza della giustizia civile; soprattutto in un momento in cui ai cittadini
sono stati richiesti notevoli sacrifici il tema della qualità e del costo dei
servizi pubblici non può più essere eluso o affrontato solo con un ottica di
breve periodo (i tagli lineari), ma deve essere impostato sulla base di un
programma di lunga lena in cui la riduzione dei costi e l’aumento della
qualità non divengano più obiettivi contrastanti. Da questo punto di vista
riteniamo che il settore pubblico possa trarre utili indicazioni dall’analisi
delle soluzioni adottate in ambito bancario nel processo di introduzione
coerente delle nuove tecnologie nei processi produttivi: in particolare per
quel che riguarda gli aspetti di riorganizzazione aziendale e del personale.
Ma le nostre azioni devono tenere sotto osservazione anche il numeratore
del clup, ovvero il costo unitario del lavoro sul quale agiscono certamente e
pesantemente anche componenti extra-salariali (contributive e fiscali, a
riflesso dei problemi della finanza pubblica) ma che deve avere una
evoluzione più legata a quella della produttività.
Con una perdita accumulata di 25 punti di competitività rispetto alla
Germania, è necessario che il costo del lavoro evolva lungo traiettorie aventi
ad obiettivo un tasso di inflazione inferiore a quello della Germania. Nostre
simulazioni, fino al 2020, mostrano che se l’Italia assumesse nei prossimi 9
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anni un obiettivo di inflazione annuo inferiore di 6 decimi di punto a quello
tedesco, al 2020 la perdita di competitività rispetto alla Germania si
ridurrebbe dal 25 al 18%; se perseguisse un obiettivo più ambizioso di una
minore inflazione annua per 1 punto percentuale, la minore competitività si
limiterebbe al 14%. In questo modo l’Italia tornerebbe ad approfittare del
potenziale del commercio estero, così come riportato nel documento della
Commissione.
Ma la fattibilità di questo processo di convergenza, o riduzione delle
divergenze, non dipende a questo punto soltanto da noi, ma è determinata
anche dall’impostazione della politica economica tedesca. Se la Germania
continuerà a perseguire un obiettivo di inflazione dello 0,5% (così come ha
fatto dal 1998 ad oggi) ogni enunciato processo di convergenza tra i paesi
dell’Area dell’Euro risulterà poco credibile, a meno che i paesi in difficoltà tra
cui l’Italia non perseguano una politica di deflazione, cioè di riduzione del
livello
dei
prezzi;
politica
che,
nel
nostro
paese,
confliggerebbe
o
ostacolerebbe in maniera evidente lo stesso processo di rientro della finanza
pubblica.
Dunque, accanto a politiche di offerta da perseguire da parte dei paesi in
difficoltà, è necessario che i paesi forti adottino politiche di domanda, o,
detta in altri termini, riducano il contenuto recessivo, per l’Area nel suo
complesso, delle loro politiche economiche.
c) Andamento dell’erogazione del credito
E veniamo ora al terzo blocco tematico, quello dell’erogazione dei prestiti
all’economia, anzi a quella che il documento della commissione chiama la
“normale erogazione”. Pensiamo che l’incipit del secondo paragrafo (in
particolar modo “L'erogazione eccessiva di prestiti bancari che ha preceduto
la crisi ha provocato una fragilità generalizzata nel settore e rischia ora di
frenare la ripresa economica”) sia del tutto corretto, ma solo se riferito
all’esperienza americana ed anglosassone più in generale. Nel 2007-2009 il
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sistema bancario italiano, ma anche quello europeo nella sua complessità,
non hanno generato instabilità ma sono state vittima dell’instabilità
generata dal sistema finanziario americano; mentre ora il sistema bancario
europeo, e quello italiano in particolare, sono vittima di un nuovo contagio
che deriva questa volta dal debito sovrano, o forse per essere più precisi dai
timori del mercato sul debito sovrano. La “normale erogazione del credito” è
prima di tutto interesse delle banche, essendo per le banche italiane la
ragione stessa della loro esistenza. Il verificarsi di condizioni normali per
l’erogazione
di
prestiti
all’economia
dipende
anche
dalle
azioni
regolamentari. Su questo fronte, come abbiamo più volte sottolineato,
anche in questa sede, non abbiamo capito perché l’autorità di vigilanza
europea abbia ceduto alle “ansie dei mercati” ed abbia adottato una
raccomandazione
in
materia
di
ricapitalizzazione
che
ha
finito
per
alimentare il circuito perverso che dal rischio Paese passa al rischio bancario
e ritorna al rischio paese attraverso la minaccia del deleveraging. L’abbiamo
ripetuto più e più volte, l’intervento di fine 2011 dell’EBA non ha reso e non
renderà più facile un ritorno ad una normale erogazione di prestiti
all’economia.
Questo non solo per quanto da essa previsto in termini di requisiti di
capitale e di buffer più o meno temporanei, , ma anche perché la seconda
gamba del provvedimento (garanzie statali sulle emissioni obbligazionarie,
provvedimento
richiamato
anche
nelle
priorità
del
documento
della
Commissione) non è stata attuata con quel respiro e quel coraggio che
sarebbe servito a rasserenare i mercati: su questo punto in particolare
vorrei riportare le parole del presidente dell’EBA “Purtroppo, mentre le
misure per il rafforzamento patrimoniale sono state definite, minori
progressi si sono registrati sugli altri fronti. Le garanzie sulla raccolta delle
banche verranno fornite dai governi nazionali, senza alcun elemento di
mutualizzazione o aggregazione a livello europeo. Questo non attenua, ma
anzi accentua la connessione tra le banche e i loro paesi di origine”.
Purtroppo dobbiamo constatare nuovamente che l’Europa ha preferito
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rinchiudersi nei propri recinti nazionali, anziché affermare se stessa nel
confronto con i mercati.
Dunque sia con i provvedimenti presi (regole sulla patrimonializzazione di
fine 2011) sia con quelli non presi le banche dei paesi in difficoltà sono state
lasciate sole ad affrontare gli effetti del contagio dei titoli sovrani. Per
fortuna l’azione della banca centrale europea è stata tempestiva ed efficace,
ed ha supplito ad errori di altri attori della
politica economica europea.
Grazie all’importante operazione di rifinanziamento di fine dicembre (a cui
segue quella in corso) i rendimenti sulla parte a breve della curva dei
rendimenti sono tornati coerenti ai valori pre-luglio 2011 e il differenziale di
rendimento sulle scadenze più lunghe rispetto ai titoli tedeschi ha iniziato a
ridursi in maniera credibile. Il permanere di questo sentiero di riduzione
potrebbe consentire un ritorno alla normalità dell’attività di finanziamento
dell’attività bancaria, attività che negli ultimi mesi è stata gravemente
compromessa dalle tensioni finanziarie: come meglio diremo in seguito, nel
corso del 2011 il rifinanziamento della banca centrale ha garantito il 70%
delle risorse delle nostre banche.
Da questo ritorno alla normalità dell’attività di reperimento delle risorse
dipenderà nel prossimo futuro la capacità delle banche di erogare un più
consistente flusso di finanziamenti all’economia. In ogni caso, nei mesi
passati,
di grande travaglio per il Paese, le banche italiane sono state
accanto allo Stato, alle imprese e alle famiglie.
Nella seconda metà del 2011, nel pieno della tempesta finanziaria sui nostri
titoli, le banche hanno aumentato il proprio portafoglio di titoli di Stato per
16 mld di Euro.
Nel corso del 2011, gli impieghi a imprese italiane sono aumentati del 2,5%,
nella media dell’Area dell’Euro sono cresciuti dell’1,1%, in Spagna sono
diminuiti del 4,7%. Nel corso del 2011, gli impieghi a famiglie italiane sono
cresciuti del 3,7%, nella media dell’Area dell’Euro sono aumentati dell’1,5%,
in Spagna sono diminuiti del 2,1%.
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Questi dati penso siano la migliore risposta ad analisi estemporanee di cui si
sono riempiti i giornali e i dibattiti in questi giorni.
Fattore cruciale per capire la congiuntura attuale è l’andamento del flusso di
risorse cioè dei movimenti del passivo, che per essere meglio compresi
devono essere corretti da elementi di duplicazione. Nel complesso del 2011 i
classici strumenti di raccolta presso residenti (depositi e obbligazioni) hanno
rappresentato con un totale di 24 mld di Euro appena l’11% del totale delle
risorse acquisite dalle banche italiane: per confronto si consideri che l’anno
precedente la raccolta presso residenti aveva determinato un afflusso di
risorse per quasi 130 mld di Euro.
Come
noto,
la
forte
caduta
di
incidenza
di
questo
canale
di
approvvigionamento dipende sia da fattori strutturali che congiunturali, ma
è evidente che, soprattutto nella parte finale dell’anno, hanno pesato le
rilevanti tensioni sul merito di credito dei nostri titoli sovrani che ha limitato
sia la disponibilità di risparmio delle famiglie italiane e sia la possibilità delle
banche di accedere allo stesso.
Di conseguenza rilevante è risultata la dipendenza delle banche italiane dal
rifinanziamento presso la BCE che con quasi 160 mld ha rappresentato oltre
il 70% del totale delle risorse, apporto che si è concretizzato interamente
nella seconda metà dell’anno in relazione all’ampliamento degli spread dei
titoli governativi italiani rispetto a quelli tedeschi.
Le difficoltà cui le banche italiane sono andate incontro per finanziare la
propria attività sono visibili anche nella rilevante riduzione della raccolta
dall’estero (una perdita di risorse per quasi 50 mld di Euro pari ad un
contributo negativo per 21 p.p.). Infine, in questo sentiero stretto le banche
hanno proceduto ad ampliare la propria base patrimoniale (31 mld di Euro
pari al 14% del totale della raccolta), in modo da risultare compliant con le
sempre più stringenti esigenze prudenziali.
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L’insieme di queste risorse è stato utilizzato in via prioritaria per supportare
l’attività di finanziamento all’economia che, al netto della voce residuale,
presenta il più alto volume di nuovi investimenti nel 2011: i 45 mld di nuovi
finanziamenti all’economia sono stati suddivisi equamente tra famiglie e
imprese. Questa crescita va sottolineata quanto più si consideri che nel
corso del 2011, in relazione al peggioramento del quadro economico, è
sensibilmente aumentato lo stock di sofferenze: tra la fine del 2010 e la fine
dello scorso anno, lo stock di sofferenze è aumentato per quasi 30 mld di
Euro, anche se quasi la metà di tale incremento è dovuto ad operazioni
realizzate da alcuni gruppi bancari negli assetti societari.
Infine concordiamo pienamente con il documento della Commissione
quando chiede di rivedere le norme prudenziali per evitare di penalizzare le
PMI e non a caso l’ABI ha presentato una proposta (PMI Supporting Factor)
per limitare l’impatto delle nuove norme di Basilea 3 sul credito alle PMI.
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