Relazione del Presidente Sergio Trevisanato

VERSO I PRINCIPI COMUNI DELLA FLEXICURITY
VENEZIA MESTRE 30 MAGGIO 2008
I rapidi cambiamenti “dettati” dalla globalizzazione esigono risposte
quanto più rapide ed efficaci. Lo scopo quindi del seminario organizzato
congiuntamente con la Commissione europea, che ringrazio per
l’impulso e la fattiva partecipazione nell’organizzare l’odierna giornata
di lavoro, è quello di trovare una comune modalità di risposta in
particolare per le ripercussioni che tali cambiamenti hanno sul mercato
del lavoro.
Storicamente si inizia a parlare in modo sistematico di flexicurity dal
2005 anno in cui la Commissione europea, unitamente al Consiglio
dell’Unione, sottolineano la necessità di favorire – al contempo –
flessibilità e sicurezza occupazionale e ridurre la segmentazione del
mercato del lavoro, tenendo nel debito conto il ruolo delle parti sociali.
Successivamente con il Libro Verde Modernizzare il diritto del lavoro per
rispondere alle sfide del XXI secolo (COM(2006)708) del 2006 la
Commissione europea designa la flexicurity come il nuovo paradigma di
riferimento per i mercati del lavoro europei e dunque incentrando la sua
azione in materia di politiche del lavoro sulla definizione di flexicurity
quale espressione che sintetizzi flexibility e security e quindi un mercato
del lavoro che, sul modello di alcuni Paesi nordeuropei, sia in grado di
esprimere una notevole flessibilità in materia di assunzioni e
licenziamenti,
garantendo al contempo sicurezza – attraverso gli
ammortizzatori sociali ed un efficace sistema di formazione permanente
– non solo a chi è occupato, ma anche a coloro che si trovano ad essere
disoccupati. Ecco quindi dove risiede la principale novità concettuale,
forse ancora troppo “rivoluzionaria” per il nostro paese, e cioè non la
sicurezza del posto di lavoro in quanto tale, bensì la sicurezza del
mercato del lavoro.
Tali aspetti sono stati nuovamente ripresi nella famosa comunicazione
della
Commissione
(COM(2007)359)
Verso
principi
comuni
di
flessicurezza. Posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità
e sicurezza
dove partendo dal Libro verde e dalla pubblicazione del
rapporto steso dal Gruppo di esperti di alto livello istituito dalla stessa
Commissione nel luglio del 2006, si sottolinea che se è vero che tutti i
Paesi membri dell’Unione devono affrontare le medesime problematiche
connesse alla globalizzazione è altresì vero che, data la diversità delle
singole realtà nazionali, non è agevole individuare una “ricetta” buona
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per tutte le stagioni e per tutti i 27 paesi membri. Ciò anche in relazione
alle diverse “attitudini” delle politiche nazionali che mirano ad
accrescere o la flessibilità per le imprese o la sicurezza per i lavoratori in
una logica di contrapposizione e antitetica a quella che viceversa
sostiene che flessibilità e sicurezza non sono in contrapposizione l’una
con l’altra ma rappresentano esigenze complementari per i lavoratori e
per le imprese. A tal fine è però necessario combattere gli stereotipi che
accomunano flessibilità con deregolamentazione dei mercati e quindi
precariato per i lavoratori; e sicurezza intesa come vincolo per i datori
di lavoro e quindi rigidità che si ripercuotono sul mercato
imbrigliandolo.
Prendendo quindi atto delle difficoltà connesse a trovare una comune
soluzione europea alle sfide legate alla globalizzazione, possono però –
partendo anche dalla Comunicazione della Commissione – essere
individuati dei principi comuni e condivisibili dai membri dell’Unione
per ciò che si intende per flexicurity.
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E quindi:
1. La ricerca di formule contrattuali al contempo flessibili e
affidabili;
2. Trovare un punto di sintesi tra i diritti dei lavoratori e
responsabilità delle imprese;
3. L’adattabilità della flessicurezza ai differenti mercati del lavoro
europei;
4. Promuovere un binario doppio per la flessicurezza: all’interno
dell’impresa e nel sistema delle imprese;
5. Flessibilità in grado di veicolare il dialogo sociale e promuovere
l’accesso ad un’occupazione di qualità.
Posti quindi dei principi sui quali far convergere il consenso bisogna
ricorrere alla flessibilità, in senso lato, per tradurre i principi in percorsi
e modelli adattabili alle diverse realtà europee ricorrendo anche alle
buone pratiche raccolte in Europa.
Un’ultima riflessione per ciò che concerne le situazione italiana che,
peraltro, era stata già affrontata nel Rapporto Isfol 2007 ma penso sia
utile riprendere.
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Innegabilmente il ricorso a forme di lavoro flessibili ha avuto un
positivo impatto sulla crescita occupazionale: nel 2007 il tasso di
occupazione in Italia è stato pari al 58,7% della popolazione nella fascia
di età 15-64 anni, ed il tasso di disoccupazione nel decennio 1998-2007 è
calato di oltre 5 punti percentuali attestandosi al 6,1% (Fonte: ISTAT
Rapporto 2007 - maggio 2008).
Rimangono però forti le distanze dai traguardi fissati a Lisbona.
Quello che mi domando e che pongo a Voi quale elemento di riflessione
per i lavori odierni è se il ricorso a forme flessibili del lavoro abbia
generato, in Italia,
un aumento di competitività delle imprese –
accanto ad un incremento occupazionale – a scapito però di alcuni
segmenti particolari di lavoratori.
In sostanza il dubbio che, credo, sia lecito porsi è se gli innegabili
benefici dell’introduzione della flessibilità nel
mercato del lavoro
abbiano avuto eque e positive ricadute sia dal lato della domanda che
dal lato dell’offerta di lavoro e se ciò abbia introdotto margini di
efficienza nel sistema o
nuove rendite di posizione.
Abbiamo ben
presente infatti che, a livello macroeconomico, l’Italia continua a far
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registrare tassi di crescita annua del PIL molto modesti anche in
rapporto agli altri paesi membri dell’Unione europea e quindi ci si
interroga se di fronte al mutamento dello scenario economico
internazionale sia stato il sistema produttivo ad “aver tenuto” o
piuttosto se in presenza di inefficienze nel mercato del lavoro, si sia
rivelata una capacità dell’impresa di garantirsi rendite di posizione
incrementali.
In ogni caso il dibattito sulle flessicurezza in Italia si intensificherà,
nelle prossime settimane, intorno agli spunti di riflessione contenuti nel
Libro Verde La vita buona nella società attiva presentato pochi giorni fa
dal Ministro del Lavoro. In particolare è stimolante per il dibattito
l’idea di un welfare positivo fondato su valori il più possibile condivisi
quali pari
opportunità, solidarietà, crescita e inclusione sociale. In
quest’ottica quindi le politiche sociali non costituiscono un freno alla
competitività, ma possono esserne una parte significativa. Il
presupposto, però, è che la spesa sociale deve essere riorientata in
funzione degli individui e quindi della coesione sociale. Una società
attiva che sia, al contempo, più competitiva e più giusta grazie ad
un’alta dotazione di capitale umano ed inclusiva dei soggetti deboli.
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Il concetto è che ai diritti si accompagnino oneri e responsabilità dei
beneficiari delle prestazioni sociali, in un’ottica di una società coesa che
superi le contrapposizioni tra Stato e mercato e tra pubblico e privato.
I vecchi sistemi di protezione sociale sono ormai in crisi rispetto al
mutato assetto e composizione, anche demografica, della società. Penso
in particolare all’attenzione da porre nei confronti delle donne, dei
giovani, degli anziani, dei diversamente abili.
Si tratta quindi di una sfida più di tipo culturale che non soltanto di
tipo economico o normativo, che sia in grado di superare le vecchie
logiche assistenzialistiche, ma di creare le condizioni
- grazie a un
welfare positivo – per una società aperta in cui le persone abbiano
effettivamente la possibilità di migliorare la propria prospettiva di vita
in un ambiente in cui le disuguaglianze rappresentino un momento di
confronto e di stimolo anche per il progresso del nostro Paese.
Ringraziandovi per l’attenzione auguro a tutti una proficua giornata.
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