VERSO I PRINCIPI COMUNI DELLA FLEXICURITY VENEZIA MESTRE 30 MAGGIO 2008 I rapidi cambiamenti “dettati” dalla globalizzazione esigono risposte quanto più rapide ed efficaci. Lo scopo quindi del seminario organizzato congiuntamente con la Commissione europea, che ringrazio per l’impulso e la fattiva partecipazione nell’organizzare l’odierna giornata di lavoro, è quello di trovare una comune modalità di risposta in particolare per le ripercussioni che tali cambiamenti hanno sul mercato del lavoro. Storicamente si inizia a parlare in modo sistematico di flexicurity dal 2005 anno in cui la Commissione europea, unitamente al Consiglio dell’Unione, sottolineano la necessità di favorire – al contempo – flessibilità e sicurezza occupazionale e ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, tenendo nel debito conto il ruolo delle parti sociali. Successivamente con il Libro Verde Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo (COM(2006)708) del 2006 la Commissione europea designa la flexicurity come il nuovo paradigma di riferimento per i mercati del lavoro europei e dunque incentrando la sua azione in materia di politiche del lavoro sulla definizione di flexicurity quale espressione che sintetizzi flexibility e security e quindi un mercato del lavoro che, sul modello di alcuni Paesi nordeuropei, sia in grado di esprimere una notevole flessibilità in materia di assunzioni e licenziamenti, garantendo al contempo sicurezza – attraverso gli ammortizzatori sociali ed un efficace sistema di formazione permanente – non solo a chi è occupato, ma anche a coloro che si trovano ad essere disoccupati. Ecco quindi dove risiede la principale novità concettuale, forse ancora troppo “rivoluzionaria” per il nostro paese, e cioè non la sicurezza del posto di lavoro in quanto tale, bensì la sicurezza del mercato del lavoro. Tali aspetti sono stati nuovamente ripresi nella famosa comunicazione della Commissione (COM(2007)359) Verso principi comuni di flessicurezza. Posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e sicurezza dove partendo dal Libro verde e dalla pubblicazione del rapporto steso dal Gruppo di esperti di alto livello istituito dalla stessa Commissione nel luglio del 2006, si sottolinea che se è vero che tutti i Paesi membri dell’Unione devono affrontare le medesime problematiche connesse alla globalizzazione è altresì vero che, data la diversità delle singole realtà nazionali, non è agevole individuare una “ricetta” buona 2 per tutte le stagioni e per tutti i 27 paesi membri. Ciò anche in relazione alle diverse “attitudini” delle politiche nazionali che mirano ad accrescere o la flessibilità per le imprese o la sicurezza per i lavoratori in una logica di contrapposizione e antitetica a quella che viceversa sostiene che flessibilità e sicurezza non sono in contrapposizione l’una con l’altra ma rappresentano esigenze complementari per i lavoratori e per le imprese. A tal fine è però necessario combattere gli stereotipi che accomunano flessibilità con deregolamentazione dei mercati e quindi precariato per i lavoratori; e sicurezza intesa come vincolo per i datori di lavoro e quindi rigidità che si ripercuotono sul mercato imbrigliandolo. Prendendo quindi atto delle difficoltà connesse a trovare una comune soluzione europea alle sfide legate alla globalizzazione, possono però – partendo anche dalla Comunicazione della Commissione – essere individuati dei principi comuni e condivisibili dai membri dell’Unione per ciò che si intende per flexicurity. 3 E quindi: 1. La ricerca di formule contrattuali al contempo flessibili e affidabili; 2. Trovare un punto di sintesi tra i diritti dei lavoratori e responsabilità delle imprese; 3. L’adattabilità della flessicurezza ai differenti mercati del lavoro europei; 4. Promuovere un binario doppio per la flessicurezza: all’interno dell’impresa e nel sistema delle imprese; 5. Flessibilità in grado di veicolare il dialogo sociale e promuovere l’accesso ad un’occupazione di qualità. Posti quindi dei principi sui quali far convergere il consenso bisogna ricorrere alla flessibilità, in senso lato, per tradurre i principi in percorsi e modelli adattabili alle diverse realtà europee ricorrendo anche alle buone pratiche raccolte in Europa. Un’ultima riflessione per ciò che concerne le situazione italiana che, peraltro, era stata già affrontata nel Rapporto Isfol 2007 ma penso sia utile riprendere. 4 Innegabilmente il ricorso a forme di lavoro flessibili ha avuto un positivo impatto sulla crescita occupazionale: nel 2007 il tasso di occupazione in Italia è stato pari al 58,7% della popolazione nella fascia di età 15-64 anni, ed il tasso di disoccupazione nel decennio 1998-2007 è calato di oltre 5 punti percentuali attestandosi al 6,1% (Fonte: ISTAT Rapporto 2007 - maggio 2008). Rimangono però forti le distanze dai traguardi fissati a Lisbona. Quello che mi domando e che pongo a Voi quale elemento di riflessione per i lavori odierni è se il ricorso a forme flessibili del lavoro abbia generato, in Italia, un aumento di competitività delle imprese – accanto ad un incremento occupazionale – a scapito però di alcuni segmenti particolari di lavoratori. In sostanza il dubbio che, credo, sia lecito porsi è se gli innegabili benefici dell’introduzione della flessibilità nel mercato del lavoro abbiano avuto eque e positive ricadute sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta di lavoro e se ciò abbia introdotto margini di efficienza nel sistema o nuove rendite di posizione. Abbiamo ben presente infatti che, a livello macroeconomico, l’Italia continua a far 5 registrare tassi di crescita annua del PIL molto modesti anche in rapporto agli altri paesi membri dell’Unione europea e quindi ci si interroga se di fronte al mutamento dello scenario economico internazionale sia stato il sistema produttivo ad “aver tenuto” o piuttosto se in presenza di inefficienze nel mercato del lavoro, si sia rivelata una capacità dell’impresa di garantirsi rendite di posizione incrementali. In ogni caso il dibattito sulle flessicurezza in Italia si intensificherà, nelle prossime settimane, intorno agli spunti di riflessione contenuti nel Libro Verde La vita buona nella società attiva presentato pochi giorni fa dal Ministro del Lavoro. In particolare è stimolante per il dibattito l’idea di un welfare positivo fondato su valori il più possibile condivisi quali pari opportunità, solidarietà, crescita e inclusione sociale. In quest’ottica quindi le politiche sociali non costituiscono un freno alla competitività, ma possono esserne una parte significativa. Il presupposto, però, è che la spesa sociale deve essere riorientata in funzione degli individui e quindi della coesione sociale. Una società attiva che sia, al contempo, più competitiva e più giusta grazie ad un’alta dotazione di capitale umano ed inclusiva dei soggetti deboli. 6 Il concetto è che ai diritti si accompagnino oneri e responsabilità dei beneficiari delle prestazioni sociali, in un’ottica di una società coesa che superi le contrapposizioni tra Stato e mercato e tra pubblico e privato. I vecchi sistemi di protezione sociale sono ormai in crisi rispetto al mutato assetto e composizione, anche demografica, della società. Penso in particolare all’attenzione da porre nei confronti delle donne, dei giovani, degli anziani, dei diversamente abili. Si tratta quindi di una sfida più di tipo culturale che non soltanto di tipo economico o normativo, che sia in grado di superare le vecchie logiche assistenzialistiche, ma di creare le condizioni - grazie a un welfare positivo – per una società aperta in cui le persone abbiano effettivamente la possibilità di migliorare la propria prospettiva di vita in un ambiente in cui le disuguaglianze rappresentino un momento di confronto e di stimolo anche per il progresso del nostro Paese. Ringraziandovi per l’attenzione auguro a tutti una proficua giornata. 7