Welfare: l’Europa e la sicurezza sociale Pierpaolo Baretta Il secolo scorso è stato caratterizzato dall’esplosione in Europa dello Stato sociale, come antidoto agli eccessi di uno sviluppo capitalistico che ha portato delle disuguaglianze. Lo stato e la società hanno allora pensato a come compensare le differenze tra la popolazione. Molti dei meccanismi per garantire delle sicurezze (pensionistica, della salute ecc.) sono proprio dei primi decenni del 900. Protagonisti di questa esplosione sono stati i paesi europei; apripista erano stati sia Inghilterra che Germania. Questa esplosione dello stato sociale ha raggiunto effetti molto positivi (qualità della vita in Europa), ma come tutti i processi trovano poi punti di crisi. Oggi stiamo vivendo la fase della grande trasformazione, nella quale tutto sta cambiando. E’ probabile che lo percepiamo già noi, e in futuro la percezione sarà ancora più forte. Per i giovani l’Europa è la terra del futuro, a differenza di altre generazioni che percepivano l’Italia della ricostruzione come prospettiva per il futuro. Teniamo presente questo cambio di prospettiva. La vera domanda nello scenario attuale è il chiedersi se il welfare ha bisogno di cambiare, è immaginabile un welfare europeo? Ci sono molte opinioni e ipocrisie a proposito. Nei primi mesi del 2003 i ministri finanziari dell’Europa si sono riuniti più volte. I giornali ne hanno parlato poco, ma il risultato fu che nel 2003 la maggior parte dei governi europei hanno fatto la riforma del sistema pensionistico. Anche Berlusconi a reti unificate aveva detto che era necessario fare la riforma perché ce lo chiedeva l’Europa. Questo vuol dire che c’è già un welfare europeo da un certo punto di vista. L’esigenza c’è quindi già. E’ stata una fase molto sottovalutata. L’Europa chiede quindi che su alcuni argomenti si decide insieme, su altri si faccia un coordinamento aperto (come è stato fatto per la riforma del welfare; si decidono insieme alcuni criteri, ma si lasciano poi ai singoli stati le modalità e i tempi). Probabilmente le prossime carte giocate saranno la sanità e l’istruzione. Tutti i parametri con cui si discute, per quanto riguarda tutte le questioni del welfare, sono proiezioni fino al 2050. E sicuramente da qui ad allora, la dimensione politica europea sarà molto più stringente. E visto tutto questo, dico allora che il coordinamento aperto non basta; conviene ai lavoratori non lasciare che resti in piedi un trucco (cioè che i parametri sono decisi in ambienti chiusi senza verifica). Abbiamo bisogno di un programma chiaro e su cui confrontarsi a livello europeo. Già adesso molte delle decisioni (di politica economica, monetaria, sociale ecc.) vengono prese a Bruxelles. L’allargamento dell’Europa poi ha già cambiato scenario; corriamo il rischio che la competizione intraeuropea sia proprio sullo stato sociale. Altrimenti la competizione sarà vivere noi come la Romania o vivere noi come i romeni? Servirà un punto di equilibrio, ma sarà da trovare a livello europeo e non certo a livello nazionale. Altro fattore da tenere presente è la globalizzazione (che è un fenomeno incredibile, che con una battuta, permette alla Svizzera di vincere l’American’s Cup). Globalizzazione è anche il fatto che 40 anni fa il 60% della popolazione mondiale era agricola. Oggi in USA il 65% lavora nei servizi. Sono cambiati completamente tutti i sistemi di comunicazione, di viaggio ecc. Dentro questo contesto si gioca la nuova dimensione del welfare. Ci sono tre temi che considero strategici: il cambiamento del mercato del lavoro (questione mondiale, perché questo mercato è il risultato del cambiamento dell’organizzazione del lavoro, dopo il fordismo che ha retto per 100 anni); l’impostazione della produzione ha generato un certo mercato del lavoro e una certa organizzazione sociale e urbanistica. Oggi il mercato del lavoro è enormemente flessibile (oggi in Italia ci sono 2500000 di Co.Co.Co. che alla fine avranno una pensione intorno al 35%; ci sono 2 milioni di interinali, per i quali lo stato sociale fa acqua da tutte le parti). Si pensi poi al problema della mobilità transnazionale. gli squilibri demografici. L’Europa invecchia e l’Italia di più ancora; è un fatto positivo per tutti. L’età media è sempre più alta (si prospetta che nel 2050 l’età media femminile sarà di 89 anni!). E’ uno scenario magnifico ma che costa enormemente. Bisogna allora chiedersi se mantenere lo stato sociale che già c’è o si cambia? Per adesso stiamo soltanto riducendolo. E mentre il dato dell’aspettativa di vita continua a crescere, il dato della fertilità rimane invece stabile. Questo significa che cambia di molto il rapporto tra anziani e giovani. Nel 2001, ogni 100 persone in età attiva da lavoro, c’erano 27 ultra65enni. Nel 2050 il rapporto è di 100:63! Si tenga poi conto delle migrazioni, che sono un fenomeno irreversibile e impossibile da arrestare. Quali sono le conseguenze di questo scenario? Ce ne sono anche culturali ed eticomorali. La prima è che sta cambiando il rapporto tempo-spazio. Noi abbiamo una cultura statica, ma la società che abbiamo davanti ne vuole una sempre più aperta (negozi sempre aperti per esempio). Cambia anche il rapporto tra dimensione individuale e collettiva. Sta per prevalere la dimensione individuale. Serve poi un nuovo punto di equilibrio tra pubblico e privato. Stiamo vivendo una forte ansia da futuro, ma questa ansia non è tipica di una particolare classe sociale, ma la percezione (ed è la prima volta che c’è questa percezione nella storia) è che il futuro sia peggio del passato. Si pone allora un’altra questione: chi sono i nuovi ultimi in questa nuova società? Dico addirittura che il sindacato non rappresenta gli ultimi (che vuol dire che si è lavorato bene…). Oggi gli ultimi sono coloro che non trovano il lavoro, non una classe sociale o lavorativa particolare. Vuol dire che non possiamo ai pezzi dello stato sociale a compartimenti stagni. Il Welfare è un sistema che accompagna il cittadino nel percorso di tutta la vita, e va pensato in maniera complessiva e integrata. Bisogna cambiare visione del tutto e avere come modello quello dello sviluppo positivo. Ed è possibile farlo in maniere economicamente sostenibile. Il fisco per esempio ha un valore importante (è rimasta una delle poche armi in mano agli stati, come riequilibratore sociale). La conclusione è quindi che siamo in ballo e dobbiamo farlo pensando in dimensione europea. Forse la terza parola della rivoluzione francese (fraternità), da intendersi anche come solidarietà, deve diventare un vero e proprio programma politico della nuova Europa.